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Fare bene la raccolta dell’organico conviene, a noi e al pianeta
Un’analisi aggiornata e puntuale del settore del settore del riciclo dell’organico, che punta sempre di più sulla circolarità dei processi industriali per garantire una qualità elevata degli scarti organici e contribuire a contrastare gli effetti del riscaldamento globale. Dando, inoltre, un aiuto prezioso all’economia del nostro paese.
Persino al miglior riciclatore del mondo, anche al più motivato e meglio attrezzato, sarà successo almeno una volta di accorgersi che i sacchetti biodegradabili per l’umido sono finiti, e di pensare, con un pizzico di vergogna, “solo per stavolta, uso quello di plastica, dovrebbe essercene uno in fondo all’armadio…”. In realtà, questa scena dev’essere molto frequente (e di certo si accompagna a molti meno ripensamenti), almeno a giudicare dai risultati di un’indagine condotta da Cic e Corepla che ha calcolato quanta plastica finisce nel circuito del compostaggio (e quanta bioplastica finisce invece in quello del riciclo meccanico). Secondo lo studio, più del 36% dei sacchetti usati per la raccolta dell’umido non sono infatti compostabili: si tratta soprattutto dei tradizionali shopper in plastica (ce ne devono essere ancora moltissimi nascosti in fondo agli armadi, visto che sono ormai fuorilegge…) e dei sacchi per l’indifferenziato.
Quello della qualità della raccolta dell’umido – elemento centrale sia per l’ottimizzazione del processo di trattamento, con la riduzione degli scarti avviati a smaltimento e la riduzione dei costi, sia per ottenere un fertilizzante organico con un’elevata qualità agronomica – è uno dei temi centrali Biowaste – Risorsa per l’economia circolare, volume in formato digitale curato da Massimo Centemero ed Elisabetta Bottazzoli che sintetizza i risultati dell’attività del Consorzio Italiano Compostatori e ne delinea le prospettive future.
Il bilancio tracciato nel testo è complessivamente positivo: i numeri della raccolta della frazione organica sono in crescita, sia per il miglioramento dei sistemi di raccolta separata dei rifiuti sia per il ruolo, sempre più rilevante, delle regioni del Meridione e delle Isole. In particolare, nel 2018 in Italia la raccolta dell’umido e del verde ha superato i sette milioni di tonnellate, che corrispondono a quasi 120 chilogrammi pro capite/anno. Numeri importanti, che fanno ben sperare per il raggiungimento degli obiettivi (molto ambiziosi) fissati dal Pacchetto sull’economia circolare del Parlamento europeo per la gestione dei rifiuti: si punta infatti al 65% al 2035 di preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio degli urbani, mentre per quanto riguarda il divieto di collocamento in discarica degli urbani il target è massimo il 10% al 2035. Secondo i curatori del volume, una nota negativa è rappresentata dalla stagnazione della raccolta differenziata della frazione verde che, dopo avere raggiunto i due milioni di tonnellate, a partire dal 2016 ha interrotto il trend di crescita, arrivando addirittura a una flessione in alcuni anni.
In ogni caso, il quadro rimane incoraggiante, con prospettive di crescita molto interessanti anche in un’ottima di economia circolare. Il direttore del Consorzio, Massimo Centemero, dedica infatti diverse pagine al biometano ricavato attraverso dei processi di upgrading delle linee di produzione del biogas. Il biometano così ottenuto è di qualità pari o superiore di quello di origine fossile, e può essere usato nei trasporti e per le utenze domestiche e industriali. Al 2019 la produzione potenziale di biometano dei primi nove impianti operativi si aggirava intorno ai 100 milioni m3/anno, ma secondo le stime del Cic, qualora tutti gli impianti di taglia medio-grande si riconvertissero alla produzione di biometano da rifiuti organici, si potrebbe arrivare a circa 500 milioni m3/ anno, con ricadute estremamente positive per l’economia e l’occupazione.
Inoltre, a fronte della preoccupante accelerazione delle manifestazioni dei cambiamenti climatici, nel libro viene più volte rimarcato il contributo fondamentale che la produzione di compost può dare al sequestro del carbonio nei suoli. L’aumento delle temperature e le variazioni nei regimi delle precipitazioni (combinati con pratiche agricole invasive) rischiano infatti di trasformare i suoli, che oggi sono ancora assorbitori netti di carbonio, in sorgenti di CO2, con il rischio di innescare retroazioni positive molto pericolose. L’aggiunta di compost contribuisce invece a mantenere in salute i suoli e a preservarne la fertilità e la biodiversità. Anche se queste considerazioni possono sembrare remote, secondo i dati presentati in occasione dell’ultima giornata mondiale contro la desertificazione, le percentuali di territorio a rischio desertificazione nel nostro paese sono del 70% in Sicilia, del 58% in Molise, 57% in Puglia, 55% in Basilicata, mentre in Sardegna, Marche, Emilia Romagna, Umbria, Abruzzo e Campania sono comprese tra il 30 e il 50% (complessivamente il 20% del territorio italiano in pericolo di desertificazione.
Un motivo in più per pensarci, la prossima volta che ci viene la tentazione di recuperare quel vecchio sacchetto nascosto in fondo all’armadio.
fonte: https://www.puntosostenibile.it
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Le lavoratrici sorde che liberano Addis Abeba dalla plastica
Che dire al proprietario di un negozio che le ha già sentite tutte? Risposta: non parlare, usa la lingua dei segni.
O quanto meno questo è il nuovo approccio della Teki paper bags, un’azienda etiope sviluppata da donne sorde.
Dalla loro hanno sicuramente i numeri. L’organizzazione ha venduto un milione circa di sacchetti di carta fatti a mano e sta lentamente convincendo la brulicante capitale dell’Etiopia, Addis Abeba, a rinunciare ai sacchetti di plastica rafforzando al tempo stesso la comunità dei sordi.
Produzione e consumo in aumento
Mentre altri paesi dell’Africa orientale, come Ruanda e Kenya, fanno da apripista all’eliminazione dei sacchetti usa e getta, l’Etiopia ha assistito dal 2011 a un costante aumento tanto della produzione quanto del consumo di plastica.
È una situazione che ha colpito in modo particolare Addis Abeba, dove la plastica intasa i canali provocando inondazioni nella stagione delle piogge e inquinando il suolo.
Secondo Piguet, che non è sordo, la lingua dei segni è un potente strumento di comunicazione
“I sacchetti di plastica ad Addis Abeba costano poco”, spiega Mimi Legesse, la carismatica codirettrice alla Teki. “Perciò i negozianti danno un sacchetto per ogni prodotto acquistato”.
Clement Piguet, cofondatore della Teki, ammette che convincere i negozianti a scegliere un’alternativa più costosa è una sfida, ma dare alle persone solo lezioni sull’ambiente non sempre ha l’impatto desiderato. Alla Teki sono invece convinti che se si realizza anche un evidente beneficio sociale oltre al positivo impatto ambientale è più probabile che i negozianti investano in un’alternativa più verde.
Clement afferma: “Con i nostri sacchetti di carta vogliamo offrire la possibilità di cambiare le vite di persone non udenti, creando così un modo alternativo per combattere la plastica”.
Meskerem Beyana, interprete nella lingua dei segni in sede alla Teki, ritiene che l’emancipazione di persone sorde impiegate per trattare con i clienti abbia avuto un impatto positivo sull’azienda. “Quando a vendere i sacchetti sono persone non sorde, la gente tende a non ascoltare”, sostiene. “Quando però Mimi usa la lingua dei segni le persone prestano ascolto”.
Secondo Piguet, che non è sordo, la lingua dei segni è un potente strumento di comunicazione: “La lingua dei segni ha un potere speciale se usata bene: ha un aspetto universale perché tutti noi abbiamo due mani. Il modo in cui le muoviamo affascina la gente”.
È stata questa fascinazione a spingere Piguet a visitare la scuola Alpha per sordi, nel quartiere dove viveva. Lì ha incontrato Legesse, all’epoca studente, che era cresciuta in un orfanotrofio e aveva sviluppato un talento tutto suo per il design.
Una visita emozionante
Legesse, come molte altre persone sorde in Etiopia, faticava a trovare un lavoro regolare. “La maggior parte dei negozianti non è disposta ad assumere persone sorde perché non vogliono assumere anche gli interpreti, perciò di solito le persone sorde restano a casa”, dice.
Il loro incontro fortuito ha avuto un effetto immediato su Piguet. “Dal modo in cui usava le mani ho capito che in Mimi c’era qualcosa di potente e quando mi ha raccontato delle sue borse all’uncinetto tutto ha cominciato ad avere senso”.
Oggi alla Teki lavorano diciotto dipendenti a tempo pieno e due interpreti, e l’azienda serve più di 50 clienti. Di recente si è trasferita in una sede più centrale, così clienti e dipendenti possono raggiungerla più facilmente.
Anis Ahmed, un negoziante locale interessato a cercare alternative alla plastica, è venuto a ritirare dei campioni e, dopo un giro della sede, se n’è andato visibilmente colpito. “Non avevo idea”, dice. “È straordinario vedere queste donne al lavoro, vedere come usano le loro competenze”.
Ad Anis, come a tutti i visitatori, è stato chiesto di sillabare il nome con le mani, con l’aiuto di un poster appeso alla parete su cui è riportata la lingua dei segni. Poi è stato coinvolto in un vivace scambio di domande e risposte con le dipendenti di Teki.
Per alcuni visitatori può essere un’esperienza emozionante. “Abbiamo circa tre visite al giorno”, racconta Clement. “Quando vedono queste donne sorde che fanno un lavoro così straordinario si commuovono: a volte si mettono a piangere”.
Le prime impressioni sono importanti alla Teki, perciò è utile apparire sempre al meglio. “Nella nostra cultura diamo a ogni persona un nome a seconda del suo aspetto o della sua esperienza”, spiega Mimi con un sorriso. “Con Donald Trump, per esempio, copiamo il suo taglio di capelli facendo scorrere la mano sulla testa”.
Pochi edifici ad Addis Abeba hanno un indirizzo, perciò gli autisti degli autobus di solito urlano i nomi dei punti di riferimento per indicare la loro destinazione e questo rende i trasporti pubblici particolarmente complicati per le persone sorde. Alcune delle donne che lavorano alla Teki vivono a due ore da qui. Perciò l’azienda ha deciso di coprire i costi per il trasporto. “Vogliamo creare un salario equo, soprattutto per chi viene da lontano. Ai miei occhi sono guerriere”, dice Clement. Madre di due figli, Mimi si è anche assicurata che le donne possano usufruire del congedo per maternità.
Nonostante il successo, Clement e Mimi pensano di essere solo all’inizio del loro viaggio. “A Teki sogniamo di coinvolgere tutti i non udenti, non solo in Africa ma in tutto il mondo, nella lotta contro la plastica”.
fonte: https://www.internazionale.it/
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Nel coronavirus l'industria vede l'occasione per cancellare i divieti sui sacchetti di plastica
Questo articolo è stato pubblicato sul New York Times in data 26 marzo 2020 scritto da Hiroko Tabuchi. L'industria dei sacchetti di plastica avverte che le borse per la spesa riutilizzabili che molti di noi usano al posto appunto dei sacchetti di plastica sono cariche di virus, vogliono bloccare le leggi che vietano l'uso dei sacchetti monouso di plastica; scrivono che non vogliono che milioni di americani portino borse per la spesa riutilizzabili piene di germi negli esercizi di commercio al dettaglio mettendo a rischio il pubblico ed i lavoratori. Sostengono che le borse per la spesa riutilizzabili sono una minaccia per la salute pubblica. All'interno dell'articolo c'è il link per accedere ad uno studio scientifico finanziato dal Consiglio per la chimica statunitense che ha trovato che dette borse riutilizzabili non vengono lavate molto di frequente, alla fine consigliano semplicemente di lavare le borse per la spesa riutilizzabili, non di tornare ai sacchetti di plastica monouso. Più avanti nell'articolo c'è un secondo link per accedere ad un secondo studio scientifico degli Istituti Nazionali per la Salute statunitensi che hanno trovato che il nuovo coronavirus può rimanare sulle superfici sia di plastica, sia di acciaio inossidabile fino a tre giorni, sul cartone fino ad un giorno; secondo i sostenitori dei sacchetti monouso di plastica, l'usa e getta sarebbe più sicuro in quel caso. Ci sono i nomi di alcune fondazioni che sono contro regolamenti per vietare l'uso di plastiche usa e getta e che finanziano l'opposizione contando sul fatto che con la pandemia in corso la gente è più preoccupata per l'igiene che per gli impatti delle plastiche sull'ambiente.
Nadia Simonini
Rete Nazionale Rifiuti Zero
Plastica monouso: si allunga la lista degli oggetti banditi
Il Comitato per l’ambiente e la salute pubblica europeo ha approvato una proposta in cui agli oggetti di plastica monouso banditi dall’UE a partire dal 2021 si aggiungono sacchetti di plastica molto leggeri, prodotti in plastica oxo-degradabili e contenitori di polistirolo per fast food

L’elenco degli oggetti di plastica monouso che saranno banditi dal mercato UE a partire dal 2021 continua a crescere. Stando al piano approvato dal Comitato per l’ambiente e la salute pubblica con 51 voti favorevoli, 10 contrari e 3 astensioni, i deputati europei hanno aggiunto all’elenco già noto (posate, cotton fioc, piatti, cannucce, agitatori per bevande e bastoncini per palloncini) anche sacchetti di plastica molto leggeri, prodotti in plastica oxo-degradabili e contenitori per fast food fatti di polistirolo. Nella relazione, redatta da Frédérique Ries, si legge che il consumo di molti altri articoli per i quali non esiste un’alternativa dovrà essere ridotto dagli Stati membri in modo “ambizioso e duraturo” entro il 2025; tra questi articoli sono inclusi contenitori monouso per hamburger, sandwich, frutta, verdura, dessert o gelati. Gli stati membri dovranno elaborare piani nazionali per incoraggiare l’uso di prodotti adatti a molteplici usi, il riutilizzo e il riciclo. Altre materie plastiche, come le bottiglie per bevande, dovranno essere raccolte separatamente e riciclate al 90% entro il 2025.
I deputati hanno incluso nelle misure di riduzione anche i rifiuti dei prodotti del tabacco, in particolare i filtri per sigarette contenenti plastica, che dovranno essere ridotti del 50% entro il 2025 e dell’80% entro il 2030, e gli attrezzi da pesca contenenti plastica persi o abbandonati, stabilendo per questi ultimi un target di raccolta di almeno il 50% ogni anno, con un obiettivo di riciclo di almeno il 15% entro il 2025 (gli attrezzi da pesca rappresentano il 27% dei rifiuti trovati sulle spiagge europee). Per entrambe le categorie di rifiuto, gli Stati membri dovranno garantire che le società produttrici, di tabacco e di attrezzi da pesca contenenti plastica, coprano i costi della raccolta dei rifiuti per tali prodotti, compresi il trasporto e il trattamento, e diano il loro contributo al raggiungimento dell’obiettivo di riciclo.
“L’Europa è responsabile solo di una piccola parte della plastica che inquina i nostri oceani – ha commentato Frédérique Ries – ma può e dovrebbe essere un attore chiave nel trovare una soluzione a livello globale, come ha fatto in passato nella lotta contro il cambiamento climatico. Proibire, ridurre, tassare, ma anche sostituire, avvertire; gli Stati membri hanno molte opzioni tra cui scegliere. Spetta a loro scegliere saggiamente e a noi spingerli a fare di più”.
La relazione sarà sottoposta a votazione da parte del Parlamento durante la sessione plenaria del 22-25 ottobre a Strasburgo.
fonte: www.rinnovabili.it

L’elenco degli oggetti di plastica monouso che saranno banditi dal mercato UE a partire dal 2021 continua a crescere. Stando al piano approvato dal Comitato per l’ambiente e la salute pubblica con 51 voti favorevoli, 10 contrari e 3 astensioni, i deputati europei hanno aggiunto all’elenco già noto (posate, cotton fioc, piatti, cannucce, agitatori per bevande e bastoncini per palloncini) anche sacchetti di plastica molto leggeri, prodotti in plastica oxo-degradabili e contenitori per fast food fatti di polistirolo. Nella relazione, redatta da Frédérique Ries, si legge che il consumo di molti altri articoli per i quali non esiste un’alternativa dovrà essere ridotto dagli Stati membri in modo “ambizioso e duraturo” entro il 2025; tra questi articoli sono inclusi contenitori monouso per hamburger, sandwich, frutta, verdura, dessert o gelati. Gli stati membri dovranno elaborare piani nazionali per incoraggiare l’uso di prodotti adatti a molteplici usi, il riutilizzo e il riciclo. Altre materie plastiche, come le bottiglie per bevande, dovranno essere raccolte separatamente e riciclate al 90% entro il 2025.
I deputati hanno incluso nelle misure di riduzione anche i rifiuti dei prodotti del tabacco, in particolare i filtri per sigarette contenenti plastica, che dovranno essere ridotti del 50% entro il 2025 e dell’80% entro il 2030, e gli attrezzi da pesca contenenti plastica persi o abbandonati, stabilendo per questi ultimi un target di raccolta di almeno il 50% ogni anno, con un obiettivo di riciclo di almeno il 15% entro il 2025 (gli attrezzi da pesca rappresentano il 27% dei rifiuti trovati sulle spiagge europee). Per entrambe le categorie di rifiuto, gli Stati membri dovranno garantire che le società produttrici, di tabacco e di attrezzi da pesca contenenti plastica, coprano i costi della raccolta dei rifiuti per tali prodotti, compresi il trasporto e il trattamento, e diano il loro contributo al raggiungimento dell’obiettivo di riciclo.
“L’Europa è responsabile solo di una piccola parte della plastica che inquina i nostri oceani – ha commentato Frédérique Ries – ma può e dovrebbe essere un attore chiave nel trovare una soluzione a livello globale, come ha fatto in passato nella lotta contro il cambiamento climatico. Proibire, ridurre, tassare, ma anche sostituire, avvertire; gli Stati membri hanno molte opzioni tra cui scegliere. Spetta a loro scegliere saggiamente e a noi spingerli a fare di più”.
La relazione sarà sottoposta a votazione da parte del Parlamento durante la sessione plenaria del 22-25 ottobre a Strasburgo.
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Vivere senza plastica: guida per principianti per una vita plastic-free (o quasi)
L’invasione della plastica ci costringe a rivedere le nostre abitudini. In tre passi si può riuscire a ridurre notevolmente il proprio impatto sull’ambiente, a beneficio anche del portafogli.

Vivere senza plastica (o quasi) è un principio plausibile a cui ispirare le proprie azioni quotidiane.
Chi è poco avvezzo al tema della riduzione dei rifiuti potrebbe incontrare qualche difficoltà a capire da dove cominciare.
Ecco allora una semplice guida plastic-free per principianti in tre semplici mosse.
Vivere senza plastica: spesa
Il momento della spesa rischia di trasformarsi in un incredibile accumulo di plastica quando si fa ritorno a casa.
Gli acquisti secondo i moderni canoni della grande distribuzione non vanno purtoppo in direzione zero rifiuti con i loro spesso inutili imballaggi.
Tuttavia, per ridurre drasticamente l’ammontare di rifiuti da portare a casa basta partire attrezzati.

Vivere senza plastica (o quasi) è un principio plausibile a cui ispirare le proprie azioni quotidiane.
Chi è poco avvezzo al tema della riduzione dei rifiuti potrebbe incontrare qualche difficoltà a capire da dove cominciare.
Ecco allora una semplice guida plastic-free per principianti in tre semplici mosse.
Vivere senza plastica: spesa
Il momento della spesa rischia di trasformarsi in un incredibile accumulo di plastica quando si fa ritorno a casa.
Gli acquisti secondo i moderni canoni della grande distribuzione non vanno purtoppo in direzione zero rifiuti con i loro spesso inutili imballaggi.
Tuttavia, per ridurre drasticamente l’ammontare di rifiuti da portare a casa basta partire attrezzati.
Vivere senza plastica: durante gli acquista porta sempre con te una busta riutilizzabile.
Acquistare frutta e verdura dal fruttivendolo, scegliendo le porzioni secondo le proprie esigenze, permette di contrastare il dilagante packaging dannoso per l’ambiente. Occorre pertanto munirsi di sacchetti da riutilizzare, di sporte o di appositi contenitori.
Anche per altri generi alimentari sono possibili strategie per minizzare il nostro impatto sull’ambiente.
Si può optare per l’acquisto di prodotti sfusi o alla spina in vendita in alcuni negozi presenti in molte città.
Anche il ritorno del vuoto a rendere, per le bevande ad esempio, rappresenta un’altra utile strategia per raggiungere l’obiettivo zero rifiuti.
L’acquisto alla spina, inoltre, può riguardare anche i detersivi di cui si possono così riutilizzare numerose volte i contenitori.
Vivere senza plastica: prodotti per il bagno
Acquistare frutta e verdura dal fruttivendolo, scegliendo le porzioni secondo le proprie esigenze, permette di contrastare il dilagante packaging dannoso per l’ambiente. Occorre pertanto munirsi di sacchetti da riutilizzare, di sporte o di appositi contenitori.
Anche per altri generi alimentari sono possibili strategie per minizzare il nostro impatto sull’ambiente.
Si può optare per l’acquisto di prodotti sfusi o alla spina in vendita in alcuni negozi presenti in molte città.
Anche il ritorno del vuoto a rendere, per le bevande ad esempio, rappresenta un’altra utile strategia per raggiungere l’obiettivo zero rifiuti.
L’acquisto alla spina, inoltre, può riguardare anche i detersivi di cui si possono così riutilizzare numerose volte i contenitori.
Vivere senza plastica: prodotti per il bagno
Vivere senza plastica: prova ad usare il sapone in alternativa ai detergenti liquidi.
Una notevole mole di plastica proviene anche dai prodotti che usiamo in bagno per la nostra igiene quotidiana.
Ritornare alla classica saponetta per la pulizia di viso e corpo è un gesto facile da realizzare, economico e in grado di abbattere la presenza di molteplici flaconi in plastica. Allo stesso modo loshampoo solido si rivela un’utile alternativa ai classici prodotti liquidi in commercio.
Per quanto riguarda alcuni prodotti di bellezza come creme, scrub o maschere per il viso, ci si può cimentare con l’autoproduzione.
Vivere senza plastica: pasti fuori casa
Il pasto fuori casa può diventare un’occasione per mettersi alla prova con la capacità di fare scelte eco-friendly.
Innanzitutto alle bottiglie di plastica si possono facilmente sostituire delle pratiche
Una notevole mole di plastica proviene anche dai prodotti che usiamo in bagno per la nostra igiene quotidiana.
Ritornare alla classica saponetta per la pulizia di viso e corpo è un gesto facile da realizzare, economico e in grado di abbattere la presenza di molteplici flaconi in plastica. Allo stesso modo loshampoo solido si rivela un’utile alternativa ai classici prodotti liquidi in commercio.
Per quanto riguarda alcuni prodotti di bellezza come creme, scrub o maschere per il viso, ci si può cimentare con l’autoproduzione.
Vivere senza plastica: pasti fuori casa
Il pasto fuori casa può diventare un’occasione per mettersi alla prova con la capacità di fare scelte eco-friendly.
Innanzitutto alle bottiglie di plastica si possono facilmente sostituire delle pratiche
Vivere senza plastica: investi nell’acquisto di contenitori di alta qualità per il pranzo fuori casa.
Per i pasti fuori casa poi si può realizzare un kit con l’essenziale per avere a disposizione sempre contenitori e posate da utilizzare all’occorrenza. Per questo è importante fare un buon investimento in contenitori di alta qualità, di vetro o metallo, e borse in tessuto lavabile.
Oltre a risparmiare sui sacchetti mono-uso e sugli involucri di plastica, si eviterà il rilascio di eventuali sostanze tossiche nel cibo.
Infine, per il momento del caffè ci si può concedere un salto al bar per gustarlo nella tazza di ceramica. In alternativa si può acquistare la propria tazza personale da portare sempre con sè.
Insomma, principianti o no, per fermare l’invasione della plastica serve solo un po’ di buona volontà nel cambiare le proprie abitudini.
fonte: http://www.ehabitat.it
Per i pasti fuori casa poi si può realizzare un kit con l’essenziale per avere a disposizione sempre contenitori e posate da utilizzare all’occorrenza. Per questo è importante fare un buon investimento in contenitori di alta qualità, di vetro o metallo, e borse in tessuto lavabile.
Oltre a risparmiare sui sacchetti mono-uso e sugli involucri di plastica, si eviterà il rilascio di eventuali sostanze tossiche nel cibo.
Infine, per il momento del caffè ci si può concedere un salto al bar per gustarlo nella tazza di ceramica. In alternativa si può acquistare la propria tazza personale da portare sempre con sè.
Insomma, principianti o no, per fermare l’invasione della plastica serve solo un po’ di buona volontà nel cambiare le proprie abitudini.
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Nuova Zelanda verso addio ai sacchetti di plastica
Premier: 'Paese ne usa centiaia di milioni l'anno, inquinano'
La Nuova Zelanda ha in programma di vietare i sacchetti di plastica usa e getta entro il prossimo per preservare il proprio territorio. La primo ministra Jacinda Ardern, ha detto che i neozelandesi usano centinaia di milioni di buste ogni anno e che alcune finiscono per inquinare il prezioso ambiente costiero e marino. Le due principali catene di supermercati della Nuova Zelanda avevano già annunciato che avrebbero eliminato gradualmente le buste di plastica entro la fine di quest'anno. Aumenta così il numero di Paesi che hanno introdotto divieti o restrizioni sui sacchetti di plastica monouso, tra cui Francia, Belgio, Cina, Hawaii e California.
In controtendenza una grande catena di supermercati in Australia: dopo che i clienti si sono arrabbiati perché dovevano pagare le borse di plastica, ha fatto dietrofront.
In controtendenza una grande catena di supermercati in Australia: dopo che i clienti si sono arrabbiati perché dovevano pagare le borse di plastica, ha fatto dietrofront.
fonte: www.ansa.it
Plastica: sequestrati a Milano più di 1 milione di sacchetti illegali
Il fenomeno dell’inquinamento da plastica non può essere sottovalutato per le conseguenze che è in grado di determinare sull’ambiente. Ultimamente si è cercato di rimediare mettendo al bando anche i sacchetti di plastica e orientando i consumatori verso la scelta di sacchetti che non inquinano.
Eppure non sembra così facile contrastare il problema, visto che continua la diffusione dei sacchetti di plastica illegali. Di recente a Milano le indagini hanno portato al sequestro di un milione e mezzo di sacchetti di plastica non a norma.
La Polizia è riuscita a bloccare un autotrasportatore, che portava i sacchetti al mercato di via Crema. L’operazione di Polizia è scattata dopo che gli agenti hanno visto una vendita di alcuni scatoloni che contenevano proprio sacchetti di plastica illegali.
La Polizia ha trovato anche alcune buste di plastica che riportavano delle false diciture riguardanti la plastica riciclabile dei sacchetti. Con il progredire delle indagini si è riusciti a rintracciare anche un deposito della merce a Seregno. Qui gli agenti della Polizia hanno trovato delle buste che riportavano l’imitazione del marchio Louis Vuitton.
I sacchetti di plastica sequestrati non erano a norma anche perché non avevano quel particolare spessore consentito dalla legge che permetta di riutilizzare le buste e di evitare la formazione indiscriminata di rifiuti plastici.
fonte: www.greenstyle.it
In Gran Bretagna oltre 40 aziende firmano il Plastics Pact per mettere al bando la plastica
Entro il 2025 il 100% degli imballaggi in plastica dovranno essere riutilizzabili, riciclabili o compostabili; il 70% degli imballaggi dovrà essere effettivamente riciclato o compostato e tutti gli imballaggi in plastica dovranno avere il 30% di materiale riciclato
In Gran Bretagna arriva il Plastics Pact, il patto firmato da otre 40 aziende che si propone l’obiettivo di trasformare il packaging dei prodotti riducendo drasticamente l’uso della plastica. Tra i firmatari ci sono Coco Cola Europe, Nestle UK, Unilever UK oltre alle grandi catene di supermercati come Tesco, Sainsbury’s, Morrisons, Aldi, Lidl e Waitrose. Insieme, puntano tutti entro il 2025 a rispettare queste promesse: il 100% degli imballaggi in plastica devono essere riutilizzabili, riciclabili o compostabili; il 70% degli imballaggi deve essere effettivamente riciclato o compostato; tutti gli imballaggi in plastica devono avere il 30% di materiale riciclato. Il Plastics Pact ha tutte le premesse per essere replicato in altri paesi con lo scopo di arrivare a formare un potente movimento globale per il cambiamento, capace di mettere al bando la plastica.
I firmatari del Patto sono responsabili di oltre l’80% degli imballaggi di plastica dei prodotti venduti nei supermercati britannici. Proprio per questo il Plastics Pact è visto come “un’occasione unica per ripensare e rimodellare il futuro della plastica, in modo che possiamo mantenere il suo valore, limitando i danni derivati dal suo uso e dai rifiuti in plastica che devastano in nostro pianeta”, ha detto Michael Gove, CEO di Wrap, l’organizzazione che ha lanciato il Plastics Pact. “La nostra ambizione di eliminare rifiuti di plastica potrà essere realizzate solo se il governo, le imprese e la pubblica amministrazione lavoreranno insieme. L’azione dell’industria può prevenire l’eccesso nell’uso della plastica raggiungendo come prima costa i nostri scaffali del supermercato. Sono felice di vedere così tante aziende firmare questo patto e spero che altri ne seguano l’esempio”, ha aggiunto Michael Gove. Mike Coupé, CEO di Sainsbury’s ha affermato: “Tutti noi Abbiamo un ruolo nel ridurre la quantità di plastica utilizzata nella società. Noi accettiamo le nostre responsabilità e stiamo lavorando duramente per ridurre l’uso della plastica in tutta la nostra attività”.
fonte: www.rinnovabili.it
Sacchetti per frutta e verdura, Spar sperimenta le retine
L’insegna austriaca introduce a Vienna, ma a breve in tutto il paese, retine riutilizzabili al posto dei sacchetti di plastica nel reparto ortofrutta
Mentre in Italia la telenovela sull’introduzione degli ormai famosi sacchetti bio a pagamento nel reparto ortofrutta non è ancora terminata e attende, come prossima puntata, la disposizione ufficiale da parte del Ministero della Salute dopo l’ultimo parere del Consiglio di Stato, altrove si continuano a sperimentare soluzioni completamente alternative all’utilizzo dei sacchetti di plastica nel reparto ortofrutta.
Spar, nota insegna della grande distribuzione austriaca ha deciso introdurre la vendita e l’utilizzo di retine riutilizzabili per confezionare frutta e verdura: una novità per ora disponibile solo a Vienna nei supermercati Spar e Interspar, ma che a partire da maggio verrà estesa in tutti i punti vendita del paese.
Le retine sono trasparenti, in poliestere, lavabili a 30 gradi e riutilizzabili: vengono vendute in confezioni da 4 pezzi a 1,49 euro. Come capienza possono arrivare a contenere sino a 8 mele ed essere chiuse con un cordino: inoltre hanno anche una parte in panno cucita laterlamente sulla quale è possibile attaccare l’etichetta con il prezzo dei frutti e ortaggi pesati sulla bilancia.
Secondo la catena di supermercati austriaca questa è la soluzione migliore per rispettare realmente l’ambiente, anche rispetto ai sacchetti di carta o quelli in bioplastiche, sacchetti che si sarebbero rivelati secondo Spar poco pratici: a partire dal sesto utilizzo le retine consentirebbero, invece, di ridurre realmente l’emissione di CO2rispetto ai tradizionali sacchetti di plastica.
Spar non è la prima insegna a testare retine riutilizzabili nel reparto ortofrutta: questa soluzione, infatti, è già stata presa da Rewe in Germania e da Coop in Svizzera.
fonte: http://www.myfruit.it
Far pagare i sacchetti di plastica funziona: nei mari inglesi diminuiti del 30%
Lo sostiene uno studio pubblicato su Science che però valuta anche altre ipotesi: dal cambio delle correnti ai nuovi materiali biodegradabili. Gli autori: "E' incoraggiante perché dimostra che tutti insieme possiamo risolvere il problema".
In mare ci sono meno sacchetti di plastica, almeno lungo le coste del Regno Unito. Lo rivela uno studio che mette in relazione il pagamento dei sacchetti da parte dei cittadini e la loro dispensione nell'ambiente: il numero di sacchetti di plastica in mare è diminuito di quasi un terzo rispetto allo scorso decennio, mentre sono aumentati gli altri tipi di rifiuti di plastica trovati in acqua. Tra le possibili cause suggerite dagli autori della ricerca c'è infatti l'introduzione del pagamento dei sacchetti di plastica nella grande distribuzione in tutta Europa, ma anche i cambiamenti delle correnti marine nelle dinamiche oceaniche.
La ricerca ha anche riscontrato un aumento della percentuale di detriti di plastica durante la pesca, una parte dei detriti potrebbe però non essere proveniente dal Regno Unito ma portata nel mare della Gran Bretagna dalla correnti proveniente da altre coste marine. La riduzione dei sacchetti di plastica nei rifiuti marini è cominciata a partire dal 2010 in poi. C'è stato un calo di circa il 30% dal periodo pre-2010.
Se davvero i sacchetti alla deriva sono un numero minore perché costano e quindi in mare ne finiscono il 30 per cento in meno, questa tendenza al ribasso sarebbe la dimostrazione che le politiche possono influenzare la quantità e la distribuzione di alcuni tipi di rifiuti marini anche in tempi brevi, cioè nell'arco di pochi anni. Tuttavia nel loro documento scientifico, i ricercatori sottolineano che questo punto è controverso. E suggeriscono un'altra ipotesi: la minore presenza di sacchetti in mare potrebbe essere dovuta al cambiamento nella composizione dei sacchetti di plastica biodegradabile, che si decompongono più velocemente.
Il co-autore dello studio Thomas Maes, che è uno scienziato che si occupa di rifiuti marini presso il Centro per l'ambiente del governo inglese, ha dichiarato che "è incoraggiante vedere che gli sforzi di tutta la società, pubblico, industria, Ong e governo, per ridurre i sacchetti di plastica stanno avendo un effetto. Abbiamo osservato cali netti nella percentuale di sacchetti di plastica catturati dalle reti da pesca a strascico in tutto il Regno Unito rispetto al 2010 e questa ricerca suggerisce che lavorando insieme possiamo ridurre, riutilizzare e riciclare e affrontare così il problema dei rifiuti marini".
Nel Regno Unito il costo di 5 pence a sacchetto è stato introdotto nel 2015. Lo
studio, pubblicato sulla rivista Science, ha esaminato i detriti di plastica sui fondali marini al largo delle coste britannic che nel corso di un periodo di 25 anni. Ha poi confrontato i risultati di 39 indagini separate che hanno spulciato la plastica presa in mare tra il 1992 e il 2015
fonte: http://www.repubblica.it
In mare ci sono meno sacchetti di plastica, almeno lungo le coste del Regno Unito. Lo rivela uno studio che mette in relazione il pagamento dei sacchetti da parte dei cittadini e la loro dispensione nell'ambiente: il numero di sacchetti di plastica in mare è diminuito di quasi un terzo rispetto allo scorso decennio, mentre sono aumentati gli altri tipi di rifiuti di plastica trovati in acqua. Tra le possibili cause suggerite dagli autori della ricerca c'è infatti l'introduzione del pagamento dei sacchetti di plastica nella grande distribuzione in tutta Europa, ma anche i cambiamenti delle correnti marine nelle dinamiche oceaniche.
La ricerca ha anche riscontrato un aumento della percentuale di detriti di plastica durante la pesca, una parte dei detriti potrebbe però non essere proveniente dal Regno Unito ma portata nel mare della Gran Bretagna dalla correnti proveniente da altre coste marine. La riduzione dei sacchetti di plastica nei rifiuti marini è cominciata a partire dal 2010 in poi. C'è stato un calo di circa il 30% dal periodo pre-2010.
Se davvero i sacchetti alla deriva sono un numero minore perché costano e quindi in mare ne finiscono il 30 per cento in meno, questa tendenza al ribasso sarebbe la dimostrazione che le politiche possono influenzare la quantità e la distribuzione di alcuni tipi di rifiuti marini anche in tempi brevi, cioè nell'arco di pochi anni. Tuttavia nel loro documento scientifico, i ricercatori sottolineano che questo punto è controverso. E suggeriscono un'altra ipotesi: la minore presenza di sacchetti in mare potrebbe essere dovuta al cambiamento nella composizione dei sacchetti di plastica biodegradabile, che si decompongono più velocemente.
Il co-autore dello studio Thomas Maes, che è uno scienziato che si occupa di rifiuti marini presso il Centro per l'ambiente del governo inglese, ha dichiarato che "è incoraggiante vedere che gli sforzi di tutta la società, pubblico, industria, Ong e governo, per ridurre i sacchetti di plastica stanno avendo un effetto. Abbiamo osservato cali netti nella percentuale di sacchetti di plastica catturati dalle reti da pesca a strascico in tutto il Regno Unito rispetto al 2010 e questa ricerca suggerisce che lavorando insieme possiamo ridurre, riutilizzare e riciclare e affrontare così il problema dei rifiuti marini".
Nel Regno Unito il costo di 5 pence a sacchetto è stato introdotto nel 2015. Lo
fonte: http://www.repubblica.it
Da Oceanus e Exxpedition, l’impegno contro la plastica nei mari
Prosegue la campagna di Oceanus contro i sacchetti di plastica monouso che stanno compromettendo gli ecosistemi marini di tutto il mondo. E a giugno un nuovo equipaggio di ricercatrici di Exxpedition partirà per studiare le conseguenze del Pacific Trash Vortex e proporre nuovi rimedi a uno dei più gravi problemi che minaccia la salute del Pianeta.
Oltre un miliardo di sacchetti di plastica monouso continuano a essere utilizzati ogni giorno nel mondo, buona parte dei quali finisce per essere smaltito (si fa per dire) nei mari. Secondo i dati più recenti, negli oceani sono presenti attualmente 8 milioni di tonnellate di plastica, una quantità impressionante che ogni anno cresce sempre di più.
Tra le conseguenze macroscopiche più rilevanti di questo disastro ci sono sicuramente le immense isole di plastica che galleggiano sotto la superficie di tutti gli oceani. Fra queste, il Pacific Trash Vortex, nell’Oceano Pacifico, le cui dimensioni – difficilmente stimabili – sono valutate tra i 700mila e i 10 milioni di km² (ossia tra la grandezza della Penisola Iberica e quella degli USA). Secondo il rapporto The New Plastics Economy – Rethinking the future of plastics, pubblicato dalla Ellen MacArthur Foundation con il World Economic Forum, se non cambiamo abitudini nel 2050 ci sarà più plastica che pesce negli oceani.
Gli effetti di questa sciagurata attività umana, che paradossalmente è anche fra le più comuni e quotidiane, non sono certamente solo estetici. Oceani e mari, infatti, producono più del 50% dell’ossigeno del pianeta, soprattutto grazie a fitoplancton (piccoli organismi acquatici vegetali) e alghe, sono i regolatori dell’atmosfera terrestre e del clima globale e sono fondamentali per la vita dell’uomo: il 60% della popolazione mondiale vive entro 60 km dalle coste e 3 miliardi di persone basano il 15-20% della loro dieta sui prodotti ittici. In un pianeta dai mari malati è pertanto a rischio la presenza stessa dell’uomo sulla Terra, oltre che quella della maggior parte delle altre specie viventi.
In questi anni l’attività di sensibilizzazione delle ONG operanti a livello internazionale per la transizione verso l’economia circolare e per la protezione dell’ambiente si è fatta sempre più fitta, a testimonianza della priorità data dal variegato mondo ecologista al problema. Tra queste iniziative, segnaliamo il progetto Exxpedition, attraverso il quale un gruppo di 24 scienziate donne, in partenza a fine giugno dalle Isole Hawaii, studierà l’isola di plastica del Pacifico per scoprire i danni che ha provocato finora e quelli che potrà portare in futuro alla Terra e alla salute degli esseri umani.
Un’altra iniziativa da citare è quella di Oceanus, l’organizzazione ambientalista che promuove e divulga la ricerca scientifica e l’informazione a favore e salvaguardia degli ecosistemi marini e della salute del Pianeta. Fin dal 2009 Oceanus ha raccolto l’invito dell’Unione Europea ai suoi Stati membri di bandire le buste di plastica e ora, attraverso la campagna internazionale di sensibilizzazione ambientale “No More Plastic Bags”, lavora per sostituire gli inquinanti sacchetti di plastica con borse ecosostenibili. Laddove i soci della ONG sono maggiormente attivi, o dove, più semplicemente, le amministrazioni si mostrano accoglienti, Oceanus organizza una vera e propria distribuzione gratuita di shopper in cotone ai cittadini. Chiunque abbia un’attività commerciale può contattare support@oceanus.it per sostituire i classici shopper in plastica con quelli in tela!
fonte: https://www.pressenza.com
Sacchetti per l’ortofrutta: Unicoop Firenze destina l’incasso ai pescatori che raccolgono la plastica nel Mediterraneo
I pescatori porteranno a terra i rifiuti raccolti in mare
Tutti ricordano la polemica sui sacchetti per l’ortofrutta distribuiti nei supermercati, che in virtù di una legge nazionale dal 1 gennaio 2018 devono essere venduti ai consumatori? Alcune catene hanno scelto di farli pagare 1 centesimo altre il doppio. Unicoop Firenze ha deciso di destinare il valore ricavato dalla vendita dei sacchetti a un progetto della durata di sei mesi, che permetterà ai pescatori del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano (vasta area marina situata fra le province di Livorno e Grosseto) di recuperare le plastiche che finiscono nelle reti. L’attuale normativa considera il rifiuto marino come “speciale”, e questo vieta ai pescatori di raccoglierlo e portarlo in porto, pena multe salate. È facile pensare che nella maggior parte dei casi la plastica incastrata nelle reti sia ributtata in mare. Nella fase sperimentale nelle barche verrà installato un contenitore per ammassare i rifiuti da destinare alle aziende di smaltimento.
Il progetto nasce per affrontare un problema comune a tutti i mari. Ogni anno nel mondo si producono 280 milioni di tonnellate di plastica e una parte di questo materiale finisce in mare come rifiuto. Nel Mediterraneo si stima che ci siano almeno 250 miliardi i frammenti di plastica, e alcuni studi hanno rilevato che il 95% dei rifiuti galleggianti nel mar Tirreno sono di plastica (circa il 41% è costituito da buste e frammenti vari). In questa situazione il ruolo dei pescatori è un primo segnale di cambio di rotta.
fonte: www.ilfattoalimentare.it
Petrolio: La plastica è dappertutto dalle città alle campagne e anche in fondo al mare
Petrolio - Around Midnight - RaiUno
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Canada, Montreal vieta le shopper di plastica: da giugno scatteranno le sanzioni. Da luglio il bando scatterà anche a Victoria, capitale della British Columbia
Dal primo gennaio, a Montreal è entrato in vigore il divieto di distribuzione al dettaglio delle shopper monouso in plastica, compresi quelli in bioplastica o in materiali compostabili. Il divieto riguarda i sacchetti leggeri con uno spessore inferiore a 50 micron, mentre sono esclusi quelli ultraleggeri utilizzati a fine di igiene all’interno dei negozi, come i sacchetti per frutta e verdura.
L’obiettivo è incentivare l’utilizzo di borse per la spesa riutilizzabili al posto di quelle monouso. Secondo il sindaco di Montreal, Jean-Francois Parenteau, nello stato del Quebec vengono utilizzati ogni anno due miliardi di sacchetti per la spesa e solo il 14% viene recuperato.
La decisione della messa al bando delle shopper di plastica era stata assunta nell’agosto 2016 ma erano stati concessi due anni di tempo all’industria per smaltire le scorte.
Dal 5 giugno scatteranno le sanzioni e i trasgressori potranno incorrere in multe che per il privato cittadino vanno dai 200 a 1.000 dollari alla prima infrazione fino ad arrivare e da 300 a 2.000 per quelle successive. Per i negozianti, invece, si va dai 400 ai 2.000 dollari per la prima infrazione a una multa tra 500 e 4.000 dollari per quelle successive.
Montreal è la prima grande città canadese ad aver adottato questa misura, che dal 1° luglio scatterà anche a Victoria, capitale della British Columbia, mentre Vancouver sta ancora valutando il da farsi.
fonte: www.ilfattoalimentare.it
I sacchetti biodegradabili allontanano gli italiani dal fresco
Con l’introduzione dei sacchetti biodegradabili, il 12% degli italiani ha deciso di comprare frutta e verdura già confezionata. Il 21% è tornato dal fruttivendolo
Sembra un paradosso, ma stando al sondaggio effettuato da Monitor Ortofrutta di Agroter in collaborazione con Toluna, parte degli italiani avrebbe spostato i consumi dai prodotti ortofrutticoli freschi e sfusi a quelli confezionati dopo l’introduzione dei sacchetti biodegradabili obbligatori.
Una distorsione grottesca, poiché oltre al maggiore inquinamento, molto spesso i costi dei prodotti venduti con il packaging sono perfino più alti, anche considerando i due centesimi di media che bisogna aggiungere per imbustarli nello shopper biodegradabile.
L’analisi è comunque riferita ai primi 10 giorni del 2018, e non è detto che la “psicosi sacchetti” non possa esaurirsi nel volgere di qualche settimana. Tuttavia il sondaggio di Monitor Ortofrutta è indicativo di un clima di opinione letteralmente impazzito: svolta su tutto il territorio nazionale, la rilevazione ha scoperto che il 12% degli italiani ha preferito comprare frutta e verdura senza pagare il sacchetto. Un altro 21% del campione, invece, ha riscoperto le tradizioni, recandosi nei negozi al dettaglio o al mercato, dove tradizionalmente si utilizzano anche sacchetti di carta non soggetti a pagamento obbligatorio.
L’indagine, curata da Roberto Della Casa, docente di marketing dei prodotti agroalimentari all’Università di Bologna, mostra anche l’esistenza di un 7% di consumatori che avrebbe ridotto gli acquisti di frutta e verdura. Il 56% degli intervistati, invece, risponde di non aver cambiato le modalità di acquisto: ad aver mantenuto le vecchie abitudini sono più che altro i giovani (61%), in percentuale minore invece gli over 55 (53%). Il 6% afferma infine che preferirebbe riavere i vecchi sacchetti in plastica gratuiti.
Lo studio statistico dimostra come poche norme abbiano suscitato tanta ritrosia nell’opinione pubblica quanto l’introduzione obbligatoria dell’uso dei sacchetti biodegradabili nei reparti ortofrutta di tutti gli esercizi alimentari. La vera grande pecca della legge è non aver favorito il riutilizzo: vietare ai consumatori di portare da casa le proprie buste non lascia alcuno spazio di manovra nemmeno a chi sposa l’idea di una riduzione dei rifiuti.
fonte: www.rinnovabili.it
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Sacchetti bio a pagamento? Andranno in discarica: gli italiani li pagheranno 2 volte
Il governo ha reso obbligatorie e a pagamento le buste dopo aver cominciato a incentivare gli impianti per la produzione di biogas e biometano dai rifiuti organici, dove però i sacchettini creano più di un problema e spesso vengono eliminati in ingresso. Due strade sempre più divergenti: da una parte cresceranno rapidamente questi impianti, dall'altra ci saranno 25mila tonnellate di buste da smaltire (con i costi che ricadranno nelle tasche degli italiani)
I nuovi sacchettini per l’ortofrutta sono biodegradabili, compostabili e quasi ovunque si possono usare per la raccoltadell’organico, ma nella realtà prenderanno sempre più spesso la via della discarica. Possibile? Sì, perché il governo ha reso obbligatorie e a pagamento queste bustine per gli alimenti sfusi nei supermercati dopo aver cominciato a incentivare (in accordo con le politiche energetiche dell’Ue) gli impianti per la produzione di biogas e biometano dai rifiuti organici, dove però i sacchettini creano più di un problema e vengono quindi eliminati in ingresso. Così, ci troveremo di fronte a due strade sempre più divergenti: da una parte cresceranno rapidamente questi impianti, dall’altra avremo 25mila tonnellate di sacchettini da gestire in qualche modo. Aspetti non valutati dal ministero dell’Ambiente prima di infilare questa estate l’emendamento balneare della legge di conversione del decreto Mezzogiorno. Il testo, infatti, è stato scritto senza chiedere un parere di merito al braccio scientifico del dicastero, l’Ispra: il ministro ripete che la misura “fa bene all’ambiente”, ma una valutazione tecnica avrebbe potuto far emergere, oltre ai pro, anche i contro della scelta. A partire proprio dalle criticità per gli impianti e i tempi lunghi di biodegradabilità nel mare, fino all’esortazione dell’Onu ad abbandonare l’usa e getta piuttosto che promuovere le bioplastiche.
L’impianto di Bolzano: “Non buttate l’umido nei sacchettini” – Mentre i consumatori stavano ancora prendendo le misure con la novità, dalla società di igiene urbana di Bolzano Seab è partito l’allarme: “Da noi i cosiddetti sacchetti ecologici non sono adatti per la raccolta dell’organico. Utilizzate quelli in carta”. Il motivo? “Il tempo di degradazione di questi sacchi ecologici, significativamente più lungo rispetto agli altri materiali raccolti, influirebbe sull’intero processo. Inoltre, questi sacchi spesso si incastrano tra le lame del frantumatore causando dei guasti al sistema”. L’impianto in questione tratta i rifiuti umidi attraverso una fermentazione senza ossigeno: si chiama digestione anaerobica e rispetto ai vecchi impianti per il semplice compostaggio (fermentazione aerobica) dell’umido permette di ottenere, oltre a un ammendante per l’agricoltura, anche energia in forma di gas. Per questo, anche per effetto degli incentivi statali, è in corso una forte riconversione e nasceranno nel tempo anche nuovi digestori. Secondo l’Ispra, solo nel 2016 i rifiuti umidi trattati in maniera combinata sono cresciuti di oltre il 30% e il Consorzio italiano compostatori prevede che nel 2020 andranno a digestione anaerobica 5,7 milioni di tonnellate diorganico urbano, contro gli 1,8 milioni di adesso. Non solo: ad oggi, su quasi 30 grossi impianti di questo tipo attivi in Italia, i due terzi usano la tecnologia definita tecnicamente “wet”, quella in cui i sacchetti danno più problemi.
Il viaggio dei sacchetti: dal compostaggio alla discarica – Il punto, spiega a ilfattoquotidiano.it Mario Grosso, docente al dipartimento di Ingegneria civile e ambientale del Politecnico di Milano, è che “i sacchetti compostabili certificati ricevono il marchio dopo il test in un impianto aerobico, cioè di compostaggio, dove si disgregano in 90 giorni. Purtroppo però questo non implica che succeda la stessa cosa in un impianto di digestione anaerobica, dove le condizioni sono totalmente diverse e il processo più breve”. Non solo: “Se anche i sacchetti si disgregassero del tutto, molti impianti di questo tipo continuerebbero comunque a toglierli come fanno adesso perché si tratta di un materiale plastico e filamentoso che dà fastidio al funzionamento: si impiglia nelle lame, intasa le tubazioni”. E anche nei processi di compostaggio le buste vengono tolte in molti casi all’inizio: “In questo caso si fa soprattutto perché più del 40% dei sacchetti con cui i cittadini conferiscono l’umido continua a essere non compostabile”. È il problema delle buste contraffatte, che secondo Assobioplastiche rappresentano il 60% di quelle in circolazione. Così, anche dove i sacchetti biodegradabili e compostabili potrebbero trasformarsi in ammendante agricolo, vengono deviati in discarica: “All’ingresso degli impianti non è possibile distinguere le buste in regola da quelle fuori legge, e quindi si tolgono tutte”.
Il cittadino paga due volte – In Italia crescono pian piano le aree in cui si usano sacchetti in carta o addirittura, in qualche raro caso, direttamente i bidoncini, poi svuotati dagli operatori dell’igiene urbana. Ma i sacchetti biodegradabili rimangono la modalità più diffusa e in questi casi, dice a ilfatto.it – chiedendo di rimanere anonimo – il tecnico di una società che gestisce molti impianti di trattamento dell’organico, “il cittadino paga due volte: la prima al supermercato per il sacchetto, e la seconda nella tariffa rifiuti, visto che i costi di smaltimento degli scarti vengono ovviamente ribaltati in bolletta”. Non solo: “In media ogni sacchetto in plastica o bioplastica, quando viene tolto, si porta dietro materia organica pari a quattro volte il suo peso. Rifiuti che invece di diventare biogas vengono smaltiti. Dove ci sono molti sacchetti, si arriva al 30%-40% di rifiuto organico sprecato”, continua il professor Grosso.
“Bioplastiche biodegradabili in 90 giorni solo negli impianti” – Insomma, se i biopolimeri rimangono un’invenzione eccezionale perché permettono di ottenere manufatti a contenuto di materia fossile più contenuto, o addirittura al 100% rinnovabili, sui singoli usi delle bioplastiche è necessaria una valutazione. La stessa Rete europea delle agenzie ambientali, di cui fa parte anche l’Ispra, ha chiesto a Bruxelles “un approccio consapevole sull’uso delle bioplastiche”, evidenziando che per promuoverne “la produzione e l’uso su larga scala, questi prodotti dovranno misurarsi con il bisogno di essere completamente degradabili”. Requisito oggi assente.
Se infatti associazioni come Legambiente ritengono che i sacchettini per l’ortofrutta siano un passo avanti nella lotta all’inquinamento del mare dalle plastiche, per gli esperti del network europeo “le plastiche bioegradabili non possono essere considerate veramente biodegradabili al momento. Dati affidabili sugli effetti ambientali, in particolare sul suolo e sulle acque marine, non sono disponibili”. Numerosi studi scientifici a livello mondiale confermano i tempi molto lunghi necessari ai sacchetti in plastica biodegradabile per smembrarsi in mare. Tra gli ultimi c’è quello di un gruppo di scienziati dell’università di Pisa, pubblicato sulla rivista Science of the Total Environment e condotto usando dei sacchetti biodegradabili e compostabili per la raccolta dell’umido, più spessi di quelli per l’ortofrutta ma più sottili delle buste distribuite alle casse dei supermercati. “Studi precedenti al nostro dimostravano che le buste, degradandosi, alterano la composizione e le caratteristiche del sedimento marino e la comunità microbica presente. Partendo da qui, ci siamo chiesti come questo fatto avrebbe potuto influenzare le piante che vivono in quegli ambienti in Mediterraneo”, spiega a ilfattoquotidiano.it la biologa pisana Elena Balestri. “Abbiamo allestito un esperimento in vasca considerando due specie di piante marine e ci siamo accorti che i frammenti di bioplastiche erano ancora presenti nei sedimenti dopo 6 mesi, e avevano modificato la concentrazione di ossigeno, pH e temperatura e alterato i rapporti tra le due specie. Queste alterazioni potrebbe influenzare la composizione delle praterie marine e anche dei popolamenti animali ad esse associati. Le nostre ricerche su questo tema vanno avanti per considerare sia la eventuale completa degradazione dei frammenti sia per osservare come tali processi possono influenzare le specie a lungo termine”.
Mancano standard per il mare – Sul comportamento in mare di questi nuovi materiali, dunque, molte domande devono ancora trovare una risposta. Dall’Istituto sui polimeri e biomateriali del Cnr, Mario Malinconico spiega a ilfattoquotidiano.it: “Premesso che bisogna scoraggiare l’abbandono delle plastiche nell’ambiente e che l’Italia è all’avanguardia nel settore delle bioplastiche, al momento i tempi di degradazione in un ambiente non controllato non sono prevedibili. In futuro saranno fissati degli standard anche per il mare: una plastica che sopravvive anche solo tre mesi potrebbe comunque creare problemi agli animali”. In questo quadro, dalle Nazioni Unite sono stati chiari, considerando anche il peso del fenomeno delle buste contraffatte: “Fino a che non c’è una definizione di biodegradabilità in mare accettata a livello internazionale, l’adozione di prodotti plastici etichettati come biodegradabili non porterà una diminuzione significativa né nella quantità di plastica che finisce negli oceani né rispetto al rischio di impatti fisici e chimici sull’ambiente marino”.
Il governo contro l’Onu: solo sacchetti usa e getta – Per l’Unep, il programma ambientale dell’Onu, “a salvare davvero il mare sarà il cambiamento dei nostri comportamenti. La cosa più importante è abbandonare la nostra mentalità usa e getta”. Un indirizzo che però il governo italiano ha totalmente ignorato.Dopo il no del ministero dell’Ambiente alla possibilità per i consumatori di portarsi da casa borsine riutilizzabili per l’ortofrutta al supermercato, è arrivato il sì del ministero dello Sviluppo economico e infine il passo indietro di quello della Salute: ammessi sono sacchettini usa e getta portati da casa, sulla cui conformità però il supermercato ha l’onere di vigilare. Un provvedimento inattuabile nella pratica, mentre sull’esclusione delle borsine riutilizzabili continua il dibattito. “È un provvedimento senza senso: si fa appello a ragioni igienico-sanitarie, ma parliamo di alimenti che non sono pronti per il consumo e devono essere prima lavati e sbucciati dal consumatore. Una mela o un pomodoro arrivano al supermercato già contaminati da una carica batterica, non sarebbe certo il fatto di metterli in una borsina riutilizzabile a creare problemi per la salute delle persone”, dice a ilfattoquotidiano.it Alessandro Del Nobile, docente di Scienze e tecnologie alimentari all’università di Foggia. E dall’associazione Comuni Virtuosi, che sette anni fa ha lanciato l’iniziativa “Mettila in rete” proprio a questo scopo, la responsabile campagne Silvia Ricci spiega: “Così non si ottiene alcuna riduzione dei rifiuti come invece chiesto dall’Europa e dall’Unep, e ci fa piacere che gli allarmi da noi lanciati da tempo ora vengano condivisi anche da altri soggetti. Questo bagno di sangue poteva essere evitato con un tavolo di ascolto preventivo di tutti i portatori di interessi e gli esperti in materia. Purtroppo il rischio da noi evidenziato di un approccio di disincentivazione economica che non va a colpire tutti i materiali monouso si sta concretizzando, perché la grande distribuzione sta in questi giorni massicciamente passando ai sacchetti di carta”.
fonte: www.ilfattoquotidiano.it
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