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È nato Biorepack, il consorzio italiano per il recupero delle bioplastiche

Costa: nell’ambito della direttiva Ue contro la plastica monouso l’Italia sta «negoziando con l'Unione europea la possibilità di dare spazio ad una filiera importante e che ci vede tra i primi al mondo»





















«Ho dato l’ok per lo statuto del primo consorzio per le bioplastiche italiano, Biorepack, ed è uno dei primi a livello europeo». La notizia arriva direttamente dal ministro dell’Ambiente Sergio Costa, rispondendo a un’interrogazione parlamentare della deputata LeU Rossella Muroni, e rappresenta una notizia importante per l’economia circolare italiana: si tratta del settimo consorzio di filiera all’interno del sistema Conai per il riciclo organico degli imballaggi in plastica biodegradabile e compostabile.
Le bioplastiche, ovvero plastiche non derivate da petrolio ma da risorse rinnovabili come quelle agricole o da scarti organici, rappresentano infatti una filiera industriale di grande valore per la green economy dove l’Italia eccelle a livello internazionale. Il loro crescente utilizzo di bioplastiche sotto forma di piatti, bicchieri, posate, altre stoviglie e contenitori sta però creando difficoltà per il loro recupero una volta giunte a fine vita.
Per le loro caratteristiche di biodegradabilità e compostabilità vanno conferite all’interno dei contenitori deputati alla raccolta della frazione organica, ma di fatto per essere correttamente trattate richiedono impianti con caratteristiche molto diverse (in termini di condizioni di temperatura, umidità, tempo di trattamento, etc) rispetto a quelle necessarie per gli altri rifiuti organici. Il risultato è un sistema di gestione rifiuti che rischia di andare in tilt, oltre a creare confusione nei cittadini chiamati fare la raccolta differenziata.
L’auspicio è che l’arrivo di Biorepack possa migliorare il recupero a fine vita delle bioplastiche. «Noi sappiamo – argomenta Costa – che racchiude in sé 252 aziende, 2.600 addetti, 700 milioni di fatturato, lavora 90 mila tonnellate di bioplastica, è nell’ambito del Conai, del consorzio degli imballaggi, ed è parallelo al Cic, cioè il Consorzio italiano per il compostaggio. Che vuol dire? In buona sostanza, vuol dire che si lavora insieme agli impianti di compost nel compostaggio su filiere simili. Che cosa vuol dire ancora? Che in buona sostanza queste bioplastiche, quando finiscono là, riescono ad entrare nel principio dell’economia circolare e sottraggono – abbiamo fatto dei conti “spannometrici”, poi vediamo nel corso del tempo – non meno di 120 mila tonnellate di plastiche non recuperabili».
Nel corso dell’interrogazione il ministro Costa ha inoltre precisato che nell’ambito della direttiva europea Sup, la Single Use Plastics che punta a ridurre l’impiego delle plastiche monouso, l’Italia sta «negoziando con l’Unione europea proprio la possibilità di dare spazio ad una filiera (quella delle bioplastiche, ndr) che per l’Italia è importante e che ci vede tra i primi al mondo. Chiaramente è uno spazio di negoziazione che noi concluderemo entro luglio 2021, come la direttiva ci propone».
La direttiva Ue approvata lo scorso anno introduce infatti restrizioni sui prodotti in plastica monouso: si va da riduzioni al consumo – come nel caso di tazze per bevande e contenitori per alimenti – al divieto di immissione sul mercato per prodotti come bastoncini cotonate, posate, piatti, cannucce, agitatori per bevande e bastoncini per palloncini. Il testo prevede restrizioni esplicite per prodotti monouso in plastica tradizionale e oxo-degradabile, mentre per quanto riguarda le plastiche biodegradabili il Consiglio Ue si limita a suggerire che la definizione di “plastica” «dovrebbe riguardare» anche quelle biodegradabili.
Tutto dipenderà dunque da come la direttiva sarà recepita nell’ordinamento italiano, con la Commissione Ue che sarà poi chiamata a valutare la corretta implementazione. «Davvero ottime notizie – commenta Muroni – Ben venga finalmente il consorzio sulle bioplastiche, l’allargamento del sistema Conai».
fonte: www.greenreport.it


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La lezione dell’Università di Plymouth sulle buste biodegradabili: non esistono pasti gratis

Anche il sacchetto biodegradabile e compostabile è «progettato per essere gestito nel circuito della raccolta dell’umido in appositi impianti industriali», spiegano da Assobioplastiche. Non si tratta di una panacea contro i rifiuti in plastica tradizionale




















Un nuovo studio sugli imballaggi biodegradabili condotto dai ricercatori Imogen E. Napper e Richard C. Thompson dell’Università di Plymouth, i cui risultati sono stati divulgati ieri, aiuta a circoscrivere meglio il contributo che questi materiali possono dare nel gestire i nostri rifiuti, e in particolare a ridurre l’inquinamento da plastica, provando a rispondere a una semplice domanda: cosa accade in tre anni a un tipo di sacchetto in polietilene alta densità, due sacchetti oxo-degradabili, un sacchetto con sopra apposta la parola “biodegradabile” e, infine, un sacchetto biodegradabile e compostabile?
Queste buste sono state lasciate esposte all’aria aperta, nel suolo e in mare, ambienti che potrebbero potenzialmente incontrare se scartate – e non correttamente conferite nei rispettivi contenitori per l’immondizia – come rifiuti. Dopo 9 mesi tutte le buste esposte all’aria aperta si erano frammentate in pezzi più piccoli; se interrate o lasciate in mare, le buste biodegradabili, oxo-biodegradabili e convenzionali dopo 3 anni non solo erano integre, ma ancora in grado di essere usate per trasportare un carico; anche il sacchetto biodegradabile e compostabile, pur con qualche segno di deterioramento e incapace di trasportare un carico, è risultato presente nel sottosuolo dopo 27 mesi, mentre in ambiente marino si è disintegrato dopo 3 mesi.
«Questa ricerca – spiega Thompson – solleva una serie di domande su ciò che il pubblico potrebbe aspettarsi quando vede qualcosa etichettato come biodegradabile. Abbiamo dimostrato che i materiali testati non presentavano alcun vantaggio consistente, affidabile e rilevante contro i rifiuti marini. Mi interessa che questi nuovi materiali presentino anche sfide nel loro riciclaggio. Il nostro studio sottolinea la necessità di standard relativi ai materiali degradabili, delineando chiaramente il percorso di smaltimento appropriato e i tassi di degradazione che possono essere previsti».
È bene però precisare che non si tratta di una novità: come Assobioplastiche – l’Associazione italiana delle bioplastiche e dei materiali biodegradabili e compostabili – asserisce sin dalla sua nascita è «scorretto utilizzare il termine “biodegradabile” rispetto a prodotti a base di polimeri tradizionali o con l’aggiunta di additivi che ne accelerano la frammentazione (i cosiddetti oxo-degradabili). Gli unici prodotti a potersi fregiare correttamente di tale definizione sono quelli in bioplastica compostabile, come peraltro già chiarito nel 2015 in Italia dall’Agcm (direzione Tutela del consumatore) nel caso dei sacchetti oxo-degradabili, all’epoca utilizzati da alcune insegne della Gdo». Ed è vero che lo studio dell’Università di Plymouth ci dice che «solo il sacchetto biodegradabile e compostabile anche se erroneamente disperso nell’ambiente per effetto di cattive abitudini (littering), va incontro a totale decomposizione in ambiente marino in soli tre mesi e presenta un impatto ambientale ridotto».
Il fatto è che la biodegradabilità «non deve essere mai vista come una più comoda soluzione o una scusa per la disseminazione incontrollata nell’ambiente (che porterebbe al paradosso di legittimare ad esempio il littering degli scarti e residui organici in mare, in quanto biodegradabili)». Si tratta di un rischio cui il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) ha messo in guardia sin dal 2015; e che è stato affrontato con chiarezza nel 2017 da un gigante industriale del settore, l’italiana Novamont; la soluzione «non è la biodegradazione in quanto tale (che comunque i sacchetti in bioplastica compostabile possiedono a differenza degli altri), quanto la ricerca e l’applicazione di modelli di corretta gestione dei rifiuti organici», sottolinea oggi Assobioplastiche. Ricordando che anche gli imballaggi in materiali biodegradabili e compostabili «sono progettati per essere gestiti nel circuito della raccolta dell’umido in appositi impianti industriali». Cercare di affibbiare loro l’etichetta di panacea contro il problema dei rifiuti, marini in particolare, fa male alla credibilità del settore quanto alla salubrità dell’ambiente: è qui che si gioca il ruolo di una buona comunicazione in materia.
fonte: www.greenreport.it

Sacchetti. Studio Università di Plymouth: il punto di vista di Assobioplastiche

Assobioplastiche ritiene “inaccettabile che uno studio che conferma un’ulteriore distinzione netta tra materiali in termini di proprietà di biodegradazione e corretta utilizzabilità di tale caratteristica venga strumentalizzato per comunicare un messaggio scorretto”






















L’Associazione Italiana delle Bioplastiche e dei Materiali Biodegradabili e Compostabili interviene dopo la pubblicazione di alcuni articoli sullo studio ‘Environmental Deterioration of Biodegradable, Oxo-biodegradable, Compostable, and Conventional Plastic Carrier Bags in the Sea, Soil, and Open-Air Over a 3‑Year Period’ effettuato da di Imogen E. Napper e Richard C. Thompson dell’Università di Plymouth’. “Contrariamente a quanto riportato da alcune testate – fa sapere l’Associazione - lo studio, i cui risultati sono stati annunciati ieri, ci dice che solo il sacchetto biodegradabile e compostabile – progettato per essere gestito nel circuito della raccolta dell’umido in appositi impianti industriali – anche se erroneamente disperso nell’ambiente per effetto di cattive abitudini (littering), va incontro a totale decomposizione in ambiente marino in soli tre mesi e presenta un impatto ambientale ridotto”.
Lo studio ha esaminato un sacchetto in polietilene alta densità, due sacchetti oxo-degradabili, un sacchetto con sopra apposta la parola “biodegradable” e, infine, un sacchetto biodegradabile e compostabile. “Tale studio non ci dice nulla di nuovo, ma conferma – sottolinea Assobioplastiche - che è scorretto utilizzare il termine ‘biodegradabile’ rispetto a prodotti a base di polimeri tradizionali o con l’aggiunta di additivi che ne accelerano la frammentazione (c.d. oxo-degradabili). Gli unici prodotti a potersi fregiare correttamente di tale definizione sono quelli in bioplastica compostabile, come peraltro già chiarito nel 2015 in Italia dall’AGCM (Direzione Tutela del Consumatore) nel caso dei sacchetti oxo-degradabili, all’epoca utilizzati da alcune insegne della GDO”.
Assobioplastiche ritiene “inaccettabile che uno studio che conferma un’ulteriore distinzione netta tra materiali in termini di proprietà di biodegradazione e corretta utilizzabilità di tale caratteristica venga strumentalizzato per comunicare un messaggio scorretto. La soluzione non è la biodegradazione in quanto tale (che comunque i sacchetti in bioplastica compostabile possiedono a differenza degli altri), quanto la ricerca e l’applicazione di modelli di corretta gestione dei rifiuti organici, di cui l’Italia è esempio virtuoso”.
“La biodegradabilità insomma, come lo studio lascia presumere, non deve essere mai vista come una più comoda soluzione o una scusa per la disseminazione incontrollata nell’ambiente (che porterebbe al paradosso di legittimare ad esempio il littering degli scarti e residui organici in mare, in quanto biodegradabili)” rimarca l’Associazione. “Assobioplastiche – come molte altre organizzazioni in Italia e in Europa – è da sempre impegnata nella vera sfida di questo momento straordinario: la ricerca e lo sviluppo di materiali innovativi, di nuovi modelli di produzione e di consumo consapevole, di sensibilizzazione e di efficienti sistemi di gestione dei rifiuti, nello spirito di quella economia circolare che l’Unione europea sta perseguendo”.