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Plastica biodegradabile o riciclata? Ecco quali sono i pro e i contro
Plastica biodegradabile o plastica riciclata? Quale delle due opzioni è migliore per l’ambiente? Il gruppo di ricerca IDTechEx ha cercato di rispondere a questa domanda, nel tentativo di far fronte alla sempre maggiore produzione di plastica che, con l’attuale tasso di crescita, potrebbe raggiungere le 600 milioni di tonnellate entro il 2030.
Le nuove materie plastiche biodegradabili, insieme alle più avanzate tecniche di riciclaggio, sono due approcci promettenti per aiutare il mondo a ridurre i rifiuti di plastica. Attualmente, la maggior parte della plastica prodotta non è biodegradabile, con il 30-50% impiegata per applicazioni monouso.
Generalmente, si è pensato che un maggiore investimento sulla produzione di plastica biodegradabile avrebbe potuto rappresentare una potenziale soluzione al problema dei rifiuti. Non a caso, negli ultimi dieci anni c’è stata una sempre maggiore attenzione nei confronti delle cosiddette bioplastiche, polimeri prodotti da materie prime biologiche come l’acido polilattico (PLA) e i poliidrossialcanoati (PHA).
La plastica biodegradabile ha fatto dunque sperare che il mondo potesse continuare a produrre grandi quantità di materie plastiche, senza doversi preoccupare del loro fine vita. Tuttavia, la realtà è molto diversa da quello che appare. Infatti, la provenienza biologica non garantisce che la plastica si possa realmente degradare in tempi accettabili, e molte bioplastiche pubblicizzate come tali in realtà non lo sono.
La questione, infatti, riguarda cosa si intende per “plastica biodegradabile”. Il PLA, ad esempio, è comunemente etichettato come biodegradabile, ma si degrada solo in impianti di compostaggio industriali, a temperature sufficientemente elevate affinché i microbi possano abbatterlo ad una certa velocità. Di conseguenza, se una bottiglia di PLA venisse buttata nell’oceano, ci vorrebbero centinaia di anni prima di degradarsi.
In un report dal titolo Bioplastics 2020-2025, IDTechEx sottolinea che molte regioni del mondo non hanno accesso a queste strutture di compostaggio industriale, il che significa che una diffusione di materie plastiche in PLA probabilmente non comporterebbe alcun beneficio ambientale. Questo, però, non è il caso di tutte le bioplastiche. I PHA, ad esempio, si decompongono nell’ambiente naturale nel corso di alcuni mesi, così come le miscele di amido e le nanocellulose.
Anche il riciclaggio della plastica è un’altra potenziale strada per superare il problema mondiale dei rifiuti di plastica. Le tecnologie di riciclaggio esistenti si sono affidate allo smistamento meccanico e alla fusione dei rifiuti di plastica, strategie che spesso comportano elevati livelli di contaminazione. Tuttavia, esiste una gamma di tecnologie di riciclaggio alternative che potrebbero portare a ulteriori opportunità nella catena del valore dei polimeri.
Ad esempio, l’estrazione con solvente è un metodo di riciclaggio che può produrre un polimero puro con proprietà meccaniche simili o potenzialmente identiche al materiale vergine. Tecniche come la pirolisi possono essere utilizzate per creare carburanti e materie prime chimiche da rifiuti di plastica, contribuendo a un’economia più circolare.
Dunque, sia una maggiore attenzione alla plastica biodegradabile, sia un miglioramento delle strategie di riciclaggio dei polimeri potrebbero rappresentare, congiuntamente, un buono modo per superare il problema dei rifiuti in plastica. Tuttavia, secondo IDTechEx, i due sistemi rischiano di essere in concorrenza tra loro: ad esempio, una maggiore attenzione al riciclaggio potrebbe portare ad un depotenziamento del mercato delle bioplastiche, aggravando le sfide economiche che il campo deve affrontare.
fonte: www.rinnovabili.it
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Alternative alla plastica, nei bicchieri monouso qualche criticità inaspettata. Lo rivela il test di Altroconsumo
Nonostante una lettera inviata dell’associazione europea dei convertitori plastici EuPC indirizzata alla Commissione Europea che invitava a posporne l’entrata in vigore, l’ormai nota direttiva Sup (Single use plastics) metterà al bando dal prossimo anno diverse categorie di prodotti in plastica usa e getta, per i quali già oggi esistono valide alternative.
In particolare, dal 2021 saranno vietati: bastoncini cotonati per la pulizia delle orecchie; posate (forchette, coltelli, cucchiai, bacchette): piatti (sia in plastica che in carta con film plastico); cannucce; mescolatori per bevande; aste per palloncini (esclusi per uso industriale o professionale): contenitori con o senza coperchio (tazze, vaschette con relative chiusure) in polistirene espanso (Eps) per consumo immediato (fast-food) o asporto (take-away) di alimenti senza ulteriori preparazioni; contenitori per bevande e tazze in Eps; tutti gli articoli monouso in plastica oxo-degradabile.
I bicchieri di plastica usa e getta non sono compresi nel regolamento SUP, ma sono già in commercio alternative
Stranamente i bicchieri in plastica sono esclusi dal divieto di commercializzazione e non vengono elencati tra i prodotti per i quali la direttiva chiede misure ambiziose di riduzione nel consumo o attraverso sistemi di Epr, che allargano ai produttori il sostegno economico di trattamento e recupero dei rifiuti. Tuttavia il futuro di questi contenitori potrebbe seguire la medesima strada e sugli scaffali dei supermercati si trovano già oggi bicchieri monouso realizzati in materiali “alternativi” come la carta e la bioplastica. Materiali che il consumatore, in molti casi, fa fatica a distinguere e soprattutto a smaltire in modo corretto una volta usati.
Altroconsumo ha deciso di indagare sulla qualità di questi prodotti, spesso ritenuti implicitamente sicuri solo perché si trovano in commercio ma che in realtà possono nascondere insidie, anche di carattere rilevante, come dimostra lo studio. Le indagini di Altroconsumo hanno riguardato diversi parametri tra cui l’assenza di trasferimento di odori e sapori alle bevande, la robustezza, la capacità di contenere liquidi caldi ma soprattutto, di importanza fondamentale, la presenza di contaminanti e la loro capacità di migrare.
I risultati, relativi a bicchieri in carta e bioplastica, sono stati a volte eclatanti, visto che alcuni campioni prelevati dalle corsie dei supermercati, sono risultati non idonei al contatto con alimenti. Stiamo parlando in questo caso di requisiti cogenti, stabiliti dalla legge, e non di parametri “nice to have” o di carattere marginale.
Tradotto: si tratta di prodotti che, stando ai risultati delle analisi, non dovrebbero trovarsi in commercio.
Stranamente i bicchieri in plastica sono esclusi dal divieto di commercializzazione e non vengono elencati tra i prodotti per i quali la direttiva chiede misure ambiziose di riduzione nel consumo o attraverso sistemi di Epr, che allargano ai produttori il sostegno economico di trattamento e recupero dei rifiuti. Tuttavia il futuro di questi contenitori potrebbe seguire la medesima strada e sugli scaffali dei supermercati si trovano già oggi bicchieri monouso realizzati in materiali “alternativi” come la carta e la bioplastica. Materiali che il consumatore, in molti casi, fa fatica a distinguere e soprattutto a smaltire in modo corretto una volta usati.
Altroconsumo ha deciso di indagare sulla qualità di questi prodotti, spesso ritenuti implicitamente sicuri solo perché si trovano in commercio ma che in realtà possono nascondere insidie, anche di carattere rilevante, come dimostra lo studio. Le indagini di Altroconsumo hanno riguardato diversi parametri tra cui l’assenza di trasferimento di odori e sapori alle bevande, la robustezza, la capacità di contenere liquidi caldi ma soprattutto, di importanza fondamentale, la presenza di contaminanti e la loro capacità di migrare.
I risultati, relativi a bicchieri in carta e bioplastica, sono stati a volte eclatanti, visto che alcuni campioni prelevati dalle corsie dei supermercati, sono risultati non idonei al contatto con alimenti. Stiamo parlando in questo caso di requisiti cogenti, stabiliti dalla legge, e non di parametri “nice to have” o di carattere marginale.
Tradotto: si tratta di prodotti che, stando ai risultati delle analisi, non dovrebbero trovarsi in commercio.
Altroconsumo ha evidenziato criticità fra alcuni bicchieri in materiali alternativi alla plastica usati per bevande calde
Se in generale, dal punto di vista dell’assenza di odori, della robustezza e della stabilità i modelli realizzati in carta si sono rilevati migliori rispetto a quelli in bioplastica, sotto il profilo chimico la situazione si ribalta. Tre prodotti in carta su cinque hanno mostrato criticità di rilievo inerenti il mancato rispetto di requisiti di legge: sbiancanti ottici in quantità superiori ai limiti previsti, presenza di piombo e dell’interferente endocrino bisfenolo A.
Il piombo è un metallo pesante neurotossico, la cui esposizione va limitata soprattutto considerando i bambini, e potrebbe essere un contaminante della cellulosa usata per produrre i bicchieri o derivante dal contatto con i macchinari. Il bisfenolo A è invece un additivo usato per conferire durezza e resistenza, noto interferente endocrino al centro del dibattito scientifico. Si tratta di una sostanza che può agire in fasi particolari del ciclo vitale alterando l’equilibrio ormonale, e che sdarebbe meglio evitare.
Ma sono stati trovati anche ftalati (in tre bicchieri su cinque realizzati in carta e in uno su quattro in bioplastica). Si tratta di additivi che vengono aggiunti al polimero per renderlo flessibile e impermeabile e hanno effetti sul sistema endocrino e riproduttivo.
Altroconsumo suggerisce inoltre di usarli solo con bibite fredde: le criticità maggiori sono state individuate con i bicchierini che si propongono come adatti anche per bere bevande calde. Infine, spesso sulle etichette mancano indicazioni sul corretto smaltimento, punto piuttosto critico quando si parla di materiali nuovi, come le bioplastiche che i consumatori non sono abituati a gestire. La destinazione finale va definita in base alla compostabilità dei materiali (individuabile attraverso i marchi ufficiali), sia che si tratti di carta che di bioplastica.
fonte: www.ilfattoalimentare.it
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Se in generale, dal punto di vista dell’assenza di odori, della robustezza e della stabilità i modelli realizzati in carta si sono rilevati migliori rispetto a quelli in bioplastica, sotto il profilo chimico la situazione si ribalta. Tre prodotti in carta su cinque hanno mostrato criticità di rilievo inerenti il mancato rispetto di requisiti di legge: sbiancanti ottici in quantità superiori ai limiti previsti, presenza di piombo e dell’interferente endocrino bisfenolo A.
Il piombo è un metallo pesante neurotossico, la cui esposizione va limitata soprattutto considerando i bambini, e potrebbe essere un contaminante della cellulosa usata per produrre i bicchieri o derivante dal contatto con i macchinari. Il bisfenolo A è invece un additivo usato per conferire durezza e resistenza, noto interferente endocrino al centro del dibattito scientifico. Si tratta di una sostanza che può agire in fasi particolari del ciclo vitale alterando l’equilibrio ormonale, e che sdarebbe meglio evitare.
Ma sono stati trovati anche ftalati (in tre bicchieri su cinque realizzati in carta e in uno su quattro in bioplastica). Si tratta di additivi che vengono aggiunti al polimero per renderlo flessibile e impermeabile e hanno effetti sul sistema endocrino e riproduttivo.
Altroconsumo suggerisce inoltre di usarli solo con bibite fredde: le criticità maggiori sono state individuate con i bicchierini che si propongono come adatti anche per bere bevande calde. Infine, spesso sulle etichette mancano indicazioni sul corretto smaltimento, punto piuttosto critico quando si parla di materiali nuovi, come le bioplastiche che i consumatori non sono abituati a gestire. La destinazione finale va definita in base alla compostabilità dei materiali (individuabile attraverso i marchi ufficiali), sia che si tratti di carta che di bioplastica.
fonte: www.ilfattoalimentare.it
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È nato Biorepack, il consorzio italiano per il recupero delle bioplastiche
Costa: nell’ambito della direttiva Ue contro la plastica monouso l’Italia sta «negoziando con l'Unione europea la possibilità di dare spazio ad una filiera importante e che ci vede tra i primi al mondo»
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«Ho dato l’ok per lo statuto del primo consorzio per le bioplastiche italiano, Biorepack, ed è uno dei primi a livello europeo». La notizia arriva direttamente dal ministro dell’Ambiente Sergio Costa, rispondendo a un’interrogazione parlamentare della deputata LeU Rossella Muroni, e rappresenta una notizia importante per l’economia circolare italiana: si tratta del settimo consorzio di filiera all’interno del sistema Conai per il riciclo organico degli imballaggi in plastica biodegradabile e compostabile.
Le bioplastiche, ovvero plastiche non derivate da petrolio ma da risorse rinnovabili come quelle agricole o da scarti organici, rappresentano infatti una filiera industriale di grande valore per la green economy dove l’Italia eccelle a livello internazionale. Il loro crescente utilizzo di bioplastiche sotto forma di piatti, bicchieri, posate, altre stoviglie e contenitori sta però creando difficoltà per il loro recupero una volta giunte a fine vita.
Per le loro caratteristiche di biodegradabilità e compostabilità vanno conferite all’interno dei contenitori deputati alla raccolta della frazione organica, ma di fatto per essere correttamente trattate richiedono impianti con caratteristiche molto diverse (in termini di condizioni di temperatura, umidità, tempo di trattamento, etc) rispetto a quelle necessarie per gli altri rifiuti organici. Il risultato è un sistema di gestione rifiuti che rischia di andare in tilt, oltre a creare confusione nei cittadini chiamati fare la raccolta differenziata.
L’auspicio è che l’arrivo di Biorepack possa migliorare il recupero a fine vita delle bioplastiche. «Noi sappiamo – argomenta Costa – che racchiude in sé 252 aziende, 2.600 addetti, 700 milioni di fatturato, lavora 90 mila tonnellate di bioplastica, è nell’ambito del Conai, del consorzio degli imballaggi, ed è parallelo al Cic, cioè il Consorzio italiano per il compostaggio. Che vuol dire? In buona sostanza, vuol dire che si lavora insieme agli impianti di compost nel compostaggio su filiere simili. Che cosa vuol dire ancora? Che in buona sostanza queste bioplastiche, quando finiscono là, riescono ad entrare nel principio dell’economia circolare e sottraggono – abbiamo fatto dei conti “spannometrici”, poi vediamo nel corso del tempo – non meno di 120 mila tonnellate di plastiche non recuperabili».
Nel corso dell’interrogazione il ministro Costa ha inoltre precisato che nell’ambito della direttiva europea Sup, la Single Use Plastics che punta a ridurre l’impiego delle plastiche monouso, l’Italia sta «negoziando con l’Unione europea proprio la possibilità di dare spazio ad una filiera (quella delle bioplastiche, ndr) che per l’Italia è importante e che ci vede tra i primi al mondo. Chiaramente è uno spazio di negoziazione che noi concluderemo entro luglio 2021, come la direttiva ci propone».
La direttiva Ue approvata lo scorso anno introduce infatti restrizioni sui prodotti in plastica monouso: si va da riduzioni al consumo – come nel caso di tazze per bevande e contenitori per alimenti – al divieto di immissione sul mercato per prodotti come bastoncini cotonate, posate, piatti, cannucce, agitatori per bevande e bastoncini per palloncini. Il testo prevede restrizioni esplicite per prodotti monouso in plastica tradizionale e oxo-degradabile, mentre per quanto riguarda le plastiche biodegradabili il Consiglio Ue si limita a suggerire che la definizione di “plastica” «dovrebbe riguardare» anche quelle biodegradabili.
Tutto dipenderà dunque da come la direttiva sarà recepita nell’ordinamento italiano, con la Commissione Ue che sarà poi chiamata a valutare la corretta implementazione. «Davvero ottime notizie – commenta Muroni – Ben venga finalmente il consorzio sulle bioplastiche, l’allargamento del sistema Conai».
fonte: www.greenreport.it
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Bioplastica dalle scaglie e dalla pelle del pesce: premiata l’invenzione di una giovane designer inglese che valorizza gli scarti
Una giovane designer inglese di nome Lucy Hughes, laureata dell’Università del Sussex, si è aggiudicata il James Dyson Award, sbaragliando oltre mille concorrenti di 28 paesi e vincendo le 30 mila sterline in palio. Il merito è della sua bioplastica, ottenuta dalle scaglie di pesce, materiale finora non utilizzato nelle plastiche ecocompatibili, ma che sta mostrando caratteristiche potenzialmente assai utili.
Come racconta lo Smithsonian Magazine, da tempo interessata ai materiali di scarto, e sconcertata dalle statistiche che rivelano come il 40% degli imballaggi di plastica sia utilizzato una sola volta, e che nel 2050 nel mare ci saranno più plastiche che pesci, Hughes è andata a visitare un impianto di lavorazione del pesce nella costa meridionale, e da lì era tornata con l’idea di utilizzare le scaglie e la pelle per ricavarne una nuova bioplastica. Hughes ha così iniziato a testare molte risorse marine locali, dalle alghe al chitosano (un derivato della principale proteina del guscio dei crostacei, la chitina) da usare come agente legante per tenere insieme pelle e scaglie, e, dopo oltre 100 esperimenti, ha messo a punto la sua MarinaTex.
Hughes ha ottenuto una plastica traslucida, forte e flessibile, che può essere utilizzata per il packaging alimentare (questa la destinazione principale immaginata nella prima fase) ma anche per molti altri scopi, che si degrada in sei settimane e che, a differenza di altri prodotti simili, non richiede alte temperature per la sintesi né catalizzatori o adiuvanti chimici per la disgregazione. Da un merluzzo si ottengono fino a 1.400 buste di MarinaTex, e ora Hughes spera che arrivino fondi pubblici e privati per ottimizzare la produzione e iniziare a dare vita a una vera e propria filiera, che dagli impianti di lavorazione del pesce porti la sua plastica fino al supermercato.
fonte: www.ilfattoalimentare.it
Dai piatti nascono fiori. Vassoi e posate dagli scarti dell'ananas da piantare invece di buttare
Piatti che una volta usati invece di essere gettati via possono essere piantati come i semi tradizionali. E’ l’idea di Life Pack, la società colombiana che ha creato Papelyco, un piatto 100% biodegradabile e compostabile.
La guerra alla plastica è iniziata da un pezzo perché sappiamo che il futuro del nostro Pianeta dipende anche dalle scelte che facciamo ogni giorno. I piatti usa e getta, anche se differenziabili, rappresentano un enorme spreco, basti pensare quanto poco li utilizziamo prima che diventino rifiuti. E quante volte vengono abbandonati per strada?
La guerra alla plastica è iniziata da un pezzo perché sappiamo che il futuro del nostro Pianeta dipende anche dalle scelte che facciamo ogni giorno. I piatti usa e getta, anche se differenziabili, rappresentano un enorme spreco, basti pensare quanto poco li utilizziamo prima che diventino rifiuti. E quante volte vengono abbandonati per strada?
Una bella idea salva ambiente viene da questa azienda colombiana che usa lo slogan:Trasforma il tuo piatto in una bella pianta. Papelyco offre appunto una soluzione alternativa e sostenibile ai piatti monouso che spesso finiscono nei nostri mari uccidendo gli animali marini.
Questi piatti, ma anche vassoi e posate sono realizzati con semi di mais e bucce di ananas,sottoprodotti di rifiuti agricoli. Il risultato è un prodotto che riduce l’inquinamento e le emissioni di gas serra. Gli ideatori sono Claudia Isabel Barona e Andres Benavides, le loro stoviglie sono riciclabili perché al loro interno sono inseriti anche dei semi che permettono di piantarli dopo l’uso.
Esistono già in commercio tantissimi oggetti che si possono piantare quando non ci servono più, ad esempio troviamo matite, tazze, biglietti di auguri, partecipazioni, cartoline e addirittura libri per bambini pensati appositamente per fare nascere nuovi alberi piantando la loro copertina.
Questo significa che il piatto troverà una nuova vita magari sul terrazzo o sul balcone, mentre per chi non ha uno spiccato pollice verde, c’è sempre la possibilità di smaltirlo nell’organico con la sicurezza che in sole tre settimane si decompone del tutto.
Accanto all’aspetto ambientale c’è anche quello sociale perché dietro la realizzazione di questi piatti, c’è un folto gruppo di persone in difficoltà: padri e madri single, donne a rischio, ex tossicodipendenti e via dicendo. La società è stata riconosciuta dalle Nazioni Unite per uguaglianza di genere.
Come piantare un piatto
Oltre ai patti esistono anche tanti imballaggi che possono essere piantati come tazze e scatole. Dopo l’uso possono diventare pomodori, erbe aromatiche, fragole o fiori. Ci sono delle accortezze da seguire: i piatti non vanno inseriti nel microonde per evitare di uccidere i semi.
Per piantarlo:
Una volta finito con il piatto, ecco cosa fare:
Riempi un vaso con un primo strato di terra;
Rimuovere il primo strato dal piatto
Piantalo e aggiungi della terra (non più di 3 mm)
Annaffia frequentemente ma con poca acqua, ed esponi alla luce e all’aria
E voilà in una-tre settimana avrai una pianta!
Riempi un vaso con un primo strato di terra;
Rimuovere il primo strato dal piatto
Piantalo e aggiungi della terra (non più di 3 mm)
Annaffia frequentemente ma con poca acqua, ed esponi alla luce e all’aria
E voilà in una-tre settimana avrai una pianta!
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Sostituire la plastica con nuovi materiali etici e sostenibili. Arriva la bioplastica biodegradabile derivata dalla cassava amara
La corsa a materiali alternativi per sostituire la plastica tradizionale è partita da anni ma negli ultimi tempi ha subito una forte accelerazione. L’accordo raggiunto tra Parlamento europeo, Consiglio e Commissione sul testo della direttiva che limita l’utilizzo di alcuni prodotti monouso non lascia spazio ad interpretazioni sul futuro della plastica. Per questo motivo le aziende legate direttamente o indirettamente alla produzione di rifiuti plastici si vedono costrette a cambiare le proprie strategie.
La complessità che circonda l’individuazione di nuovi materiali è presto compresa se si considerano le caratteristiche pressoché uniche della plastica: leggera, versatile, con un’ottima resistenza chimica e fisica e ottime proprietà barriera ai gas.
Una delle migliori alternative, simile in termini di prestazioni, è stata individuata nelle bioplastiche biodegradabili ricavate da materie prime vegetali rinnovabili. Tra i vantaggi, il tempo di decomposizione di qualche mese in compostaggio rispetto ai mille anni richiesti dalle materie plastiche sintetiche derivate dal petrolio.
Ma le accuse da parte dei detrattori del materiale non sono tardate ad arrivare. Quanto può considerarsi sostenibile un materiale che toglie risorse ed entra in competizione con la filiera alimentare? Le materie prime impiegate, come la canna o la barbabietola da zucchero, il mais e altri cereali, potrebbero infatti impattare sulla disponibilità di derrate alimentari.

Sebbene la tesi sia debole – il terreno utilizzato per coltivare le materie prime rinnovabili per la produzione di bioplastiche nel 2017 ammontava a meno dello 0,02% della superficie agricola globale (il 97% della quale utilizzato per pascoli e per produrre mangimi ed alimenti) ed è stimato che per i prossimi 5 anni non ci saranno aumenti rispetto a questo valore –, le ricerche più interessanti si stanno concentrando sull’impiego di scarti vegetali per produrre bioplastica. Ed è così che sono arrivati prodotti come il Pla (acido polilattico) etico e sostenibile, come quello derivato dalla radice non commestibile della cassava amara, un tubero selvatico che cresce in Africa e Thailandia.
Attraverso procedimenti coperti da brevetto, si è riusciti ad ottenere un materiale che, oltre ad avere caratteristiche comparabili con la plastica tradizionale (bassa permeabilità a ossigeno e vapore acqueo), può essere impiegato in ambito alimentare per la realizzazione di bottiglie ed imballaggi. Questo biopolimero vanterebbe caratteristiche di resistenza alle alte temperature e alle pressioni tali da poter essere impiegato addirittura nella realizzazione di capsule per il caffè!
fonte: www.ilfattoalimentare.it
A Genova nasce la risposta al problema della plastica: dagli scarti vegetali si ricavano nuovi materiali ecologici
Gli scarti di frutta e verdura da oggi possono trasformarsi in plastica biodegradabile. Ogni anno in Europa si producono 25,8 milioni di tonnellate di spazzatura plastica, di cui solo il 31% finisce in discarica, mentre il resto si disperde in natura andando a impattare negativamente sull’ambiente e l’ecosistema. Il 95% del valore degli imballaggi di plastica (70-105 miliardi di euro all’anno) viene perso a causa dell’utilizzo usa e getta dei contenitori in plastica.
Alla ricerca di alternative ecosostenibili alle plastiche che conosciamo, il team di ricerca sugli smart materials dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova ha sperimentato e brevettato diverse tecnologie che permettono, già da ora, di ottenere bioplastiche ecologiche che azzerano l’impatto ambientale, provenendo dagli scarti del mercato ortofrutticolo e risultando quindi completamente biodegradabili.
Prestazioni analoghe alle plastiche convenzionali per contenitori e imballaggi che normalmente utilizzano polimeri inquinanti che impiegano fino a 5.000 anni prima di smaltirsi completamente, mentre in futuro potrebbero essere realizzate con gli scarti di carciofi o lattughe, carote o caffè. “Le procedure per la realizzazione di questi materiali sono estremamente semplici e riproducibili – spiega a ilfattoquotidiano.it Giovanni Perotto, post-doc in Smart Materials del laboratorio centrale di ricerca dell’Istituto Italiano di Tecnologia – per questo ci auguriamo che queste tecnologie raggiungano in breve tempo processi di produzione su larga scala”.
fonte: www.ilfattoquotidiano.it
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