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Gli Usa hanno prodotto la maggior parte dei rifiuti di plastica e ne sono il terzo esportatore al mondo

Smentite le conclusioni di un precedente studio che dava la colpa dell’inquinamento marino da plastica ai grandi fiumi asiatici



Lo studio “The United States’ contribution of plastic waste to land and ocean SEA Research Professor of Oceanography Kara Lavender Law”, pubblicato su Science Advances da un team di ricercatori statunitensi, rivela che l’esportazione di rifiuti di plastica all’estero ha nascosto il vero contributo degli Usa alla crisi dell’inquinamento da plastica e che gli Stati Uniti sono in realtà una delle principali fonti di plastica. inquinamento negli ambienti costieri: il terzo Paese del mondo

Il nuovo studio smentisce la diffusa convinzione che gli Usa stiano “gestendo” adeguatamente – cioè raccogliendo, collocando in discarica, riciclando o contenendo – i loro rifiuti di plastica. Infatti, uno studio del 2015, “Plastic waste inputs from land into the ocean”, pubblicato nel 2015 su Science da ricercatori statunitensi e australiani, e che utilizzava dati del 2010 che non tenevano conto delle esportazioni di rifiuti di plastica, aveva classificato gli Usa al 20esimo posto al mondo per il loro contributo all’inquinamento da plastica degli oceani causato da rifiuti mal gestiti.

Greenpeace Usa denuncia che «Lo studio del 2015 è stato ingannevolmente utilizzato dall’industria e dai governi per affermare che una manciata di fiumi in Asia sono i principali responsabili della crisi dell’inquinamento da plastica, nonostante il fatto che molte compagnie statunitensi vendano prodotti di plastica all’estero e che il Nord del mondo invii molti dei suoi rifiuti di plastica a questi Paesi».

Utilizzando i dati sulla produzione di rifiuti di plastica del 2016 – gli ultimi numeri disponibili – scienziati di Sea Education Association, DSM Environmental Services, università della Georgia e Ocean Conservancy hanno calcolato che «Più della metà di tutta la plastica raccolta per il riciclaggio (1,99 milioni di tonnellate metriche delle 3,91 milioni tonnellate metriche raccolte) negli Stati Uniti sono state spedite all’estero. Di questo, l’88% delle esportazioni è andato in Paesi che faticano a gestire, riciclare o smaltire efficacemente la plastica e tra il 15 e il 25% era di scarso valore o contaminato, il che significa che, in realtà, era non riciclabile».

Tenendo conto di questi fattori, i ricercatori hanno stimato che fino a 1 milione di tonnellate di rifiuti di plastica prodotte negli Stati Uniti hanno finito per inquinare l’ambiente all’estero.

La principale autrice dello studio, Kara Lavender Law, che insegna ricerca oceanografica alla Sea Education Association, sottolinea che «Per anni, gran parte della plastica che abbiamo messo nel bidone blu è stata esportata per il riciclaggio in Paesi che lottano per gestire i propri rifiuti, per non parlare delle grandi quantità consegnate dagli Stati Uniti. E se si considera quanti dei nostri rifiuti di plastica non sono effettivamente riciclabili perché sono di scarso valore, contaminati o difficili da trattare, non sorprende che molti finiscano per inquinare l’ambiente».

Lo studio ha anche stimato che nel 2016 il 2 – 3% di tutti i rifiuti di plastica prodotti negli Usa – tra 0,91 e 1,25 milioni di tonnellate – è stato disseminato o scaricato illegalmente nell’ambiente statunitense e i ricercatori ec videnziano che «In combinazione con le esportazioni di rifiuti, ciò significa che gli Stati Uniti hanno contribuito fino a 2,25 milioni di tonnellate di plastica finite nell’ambiente. Di queste, fino a 1,5 milioni di tonnellate di plastica sono finite negli ambienti costieri (entro 50 km da una costa), dove la vicinanza alla costa aumenta la probabilità che la plastica entri nell’oceano portata dal vento o attraverso i corsi d’acqua. Questo classifica gli Stati Uniti al terzo posto a livello mondiale per il contributo all’inquinamento da plastica costiera».

Uno degli autori dello studio, Nick Mallos, direttore senior del programma Trash Free Seas® di Ocean Conservancy, ricorda che «Gli Stati Uniti producono la maggior parte dei rifiuti di plastica di qualsiasi altro Paese al mondo, ma invece di guardare il problema in faccia, li abbiamo esternalizzati ai Paesi in via di sviluppo e siamo diventati uno dei principali contributori alla crisi della plastica oceanica. La soluzione deve iniziare a casa. Dobbiamo crearne meno, eliminando le plastiche monouso non necessarie; dobbiamo produrre meglio, sviluppando nuovi modi innovativi per imballare e consegnare le merci e, dove la plastica è inevitabile, dobbiamo migliorare drasticamente i nostri tassi di riciclaggio».

Lo studio ha rilevato che sebbene gli Stati Uniti rappresentino solo il 4% della popolazione mondiale, nel 2016, hanno prodotto il 17% di tutti i rifiuti di plastica del mondo. In media, gli americani hanno prodotto pro capite quasi il doppio dei rifiuti di plastica di un cittadino dell’Unione europea.

Un’altra autrice dello studio, Jenna Jambeck, del College of Engineering dell’università della Georgia, evidenzia che «La ricerca precedente ha fornito valori globali per l’input della plastica nell’ambiente e nelle aree costiere, ma analisi dettagliate come questa sono importanti per i singoli Paesi, per valutare ulteriormente i loro contributi. Nel caso degli Stati Uniti, è di fondamentale importanza esaminare il nostro giardino di casa e assumerci la responsabilità della nostra impronta plastica globale».

Una co-autrice, Natalie Starr, a capo del DSM Environmental Services, fa notare che «Per un po’ di tempo, per gli Stati Uniti è stato più economico spedire i propri materiali riciclabili all’estero piuttosto che lavorarli qui a casa, ma ciò ha comportato un grande costo per il nostro ambiente. Per affrontare la sfida attuale, dobbiamo fare conti diversi, investendo nelle tecnologie di riciclaggio e nei programmi di raccolta, oltre ad accelerare la ricerca e lo sviluppo per migliorare le prestazioni e ridurre i costi delle materie plastiche più sostenibili e delle alternative di imballaggio».

Graham Forbes, leader del progetto Global Plastics di Greenpeace USA, ha commentato: «Per anni, corporation e governi del Nord del mondo hanno fatto fare da capro espiatorio ai Paesi asiatici per la crisi dell’inquinamento da plastica. Ora, questo studio completo ora rivela che gli Stati Uniti hanno prodotto più rifiuti di plastica di qualsiasi altro Paese e un’enorme quantità di questi sta finendo nel nostro ambiente. Questo dimostra che l’argomento delle infrastrutture di riciclaggio, così come lo vediamo portato avanti dall’industria, è uno stratagemma. I produttori di plastica e le grandi compagnie di beni di consumo hanno affermato che se costruiamo semplicemente infrastrutture di riciclaggio in Africa e in Asia, possiamo continuare a sfornare plastica monouso. Gli Stati Uniti hanno un’infrastruttura per i rifiuti relativamente robusta, ma si stima che nel 2016 negli oceani l’inquinamento da plastica sia 5 volte superiore rispetto al 2010. Gli Stati Uniti devono smetterla di incolpare gli altri Paesi per un loro problema e rinunciare alla loro dipendenza dalla plastica monouso. Gli Stati Uniti sono il secondo esportatore mondiale (lo studio in realtà dice il terzi, ndr) di rifiuti di plastica. Questa analisi punta i riflettori sulla quantità di rifiuti probabilmente scartati che spediamo in Paesi che non possono gestirli. Anche se molti americani hanno accesso alla raccolta della plastica, gran parte di essa non viene rielaborata in nuovi materiali. Gran parte di questa plastica alla fine finisce per inquinare il nostro ambiente, ma almeno negli Usa è fuori dalla vista e lontano dalla mente degli amministratori pubblici e delle corporation che vogliono disperatamente che l’industria della plastica distrugga le nostre comunità, oceani e corsi d’acqua. L’idea che possiamo semplicemente continuare a sostenere il riciclaggio per affrontare la crisi dell’inquinamento è una fantasia portata avanti dalle aziende sin dagli anni ’70. Questa analisi dimostra che, solo dal 2010 al 2016, la produzione di plastica è cresciuta del 26% e la crisi dell’inquinamento sta solo peggiorando a causa della pandemia. I ricercatori sono chiari nella loro valutazione che il modo migliore per ridurre la plastica nell’ambiente è produrne meno. Per affrontare l’aggravarsi della crisi dell’inquinamento, i governi e le corporation negli Stati Uniti e nel mondo devono smetterla di ingannare le persone che amministrano e servono e impegnarsi seriamente a porre fine alla nostra dipendenza dalla plastica usa e getta».

fonte: www.greenreport.it


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Rifiuti di plastica: gli USA li metteranno al bando?

I democratici presentano al Congresso una proposta di legge rivoluzionaria per gli Stati Uniti, che inchioda i produttori di plastica alle loro responsabilità, vietando la produzione della plastica monouso entro il 2022.


















Fa discutere negli Stati Uniti un nuovo disegno di legge presentato al Congresso che cerca di riportare la responsabilità della produzione di rifiuti di plastica verso l’industria. La proposta, che prende il nome di Break Free From Plastic Pollution Act, è stata introdotta dai legislatori democratici e sarebbe la regolamentazione più ambiziosa che l’industria della plastica americana abbia mai visto.

Nello specifico, richiederebbe ai produttori di raccogliere e riciclare i propri rifiuti, creare un sistema nazionale di rimborso dei contenitori di bevande (vuoto a rendere) ed eliminare gradualmente alcuni articoli di plastica monouso. Inoltre, nella proposta, l’autorizzazione di nuova produzione di plastica verrebbe messa in pausa per un massimo di tre anni. Tuttavia, pare che il disegno di legge abbia pochissime possibilità di passare al Senato, dove la maggioranza repubblicana si oppone a questo pesante freno imposto ad un’industria che genera circa 400 miliardi di dollari di vendite e 1 milione di posti di lavoro.
Nonostante questo, però, gli osservatori affermano che la proposta dei democratici segnala comunque la crescente influenza dei gruppi ambientalisti sulla politica USA. Per decenni, l’industria della plastica ha sponsorizzato iniziative per incoraggiare le persone a riciclare la plastica, di fatto comportandosi come se tutta la responsabilità dei rifiuti ricadesse sui consumatori. Ma gli Stati Uniti riciclano ogni anno solo l’8% dei loro rifiuti di plastica, con il resto (circa 32 milioni di tonnellate) collocato in discarica, incenerito o spedito all’estero in altri paesi scarsamente attrezzati per gestirlo.
Il disegno di legge richiederebbe ai produttori di progettare, gestire e finanziare programmi che raccolgono e trattano i rifiuti, normalmente di competenza dei governi statali e locali. Alan Lowenthal, membro del Congresso della California e co-firmatario del disegno di legge, ha dichiarato a AFP di essere particolarmente orgoglioso del modo in cui la proposta inchioda l’industria alle sue responsabilità. Questo anche in luce del fatto che il settore petrolifero e del gas vede la produzione di plastica come la sua prossima area di crescita, mentre la domanda di combustibili fossili per l’energia si riduce. La produzione globale di plastica, infatti, dovrebbe triplicare entro il 2050, rappresentando il 20% del consumo mondiale di petrolio, secondo una stima del World Economic Forum.  
Mark Spalding, CEO della Ocean Foundation, ha inoltre dichiarato che il disegno di legge è il risultato di una crescente pressione pubblica, con boicottaggi guidati dai consumatori o divieti a livello locale di oggetti come cannucce, sacchetti di plastica e tazze di polistirolo che contribuiscono ad aumentare i livelli di consapevolezza sul problema. Secondo Spalding, il disegno di legge mira ad implementare un approccio politico noto come responsabilità estesa del produttore, in base a cui l’Unione Europea ha preso l’iniziativa di vietare la plastica monouso entro il 2021.

fonte: www.rinnovabili.it

Solare con storage, prezzi record alle Hawaii: ben sotto alle fossili

Energia da fotovoltaico con batterie fino a 8 c$/kWh, contro i 15 della generazione termoelettrica locale.




















Che il kWh ora da fotovoltaico sia molto spesso più economico rispetto alle fonti convenzionali meno costose ormai non fa più notizia: la market parity è raggiunta a pieno in molti mercati, tra cui quello italiano. Lascia invece stupiti se a battere le fossili è l’energia solare immagazzinata neisistemi di accumulo elettrochimici, relativamente ancora costosi.
È quello che è successo alle Hawaii, dove contratti per elettricità da FV+ batterie hanno visto prezzi del kWh scesi fino a 8 centesimi di dollaro, inferiori di oltre un terzo a quelli della generazione convenzionale in quel sistema elettrico.
Lo Stato delle Hawaii negli Usa da anni è territorio di frontiera per le rinnovabili abbinate alle batterie, complice la particolarità del sistema elettrico, che conta molto sull’olio combustibile, che come in molte realtà insulari rende più conveniente questa soluzione.
Nei giorni scorsi l’utility locale Hawaiian Electric Company ha inviato per l’approvazione del regolatore statale sette nuovi contratti per l’approvvigionamento di elettricità da impianti di FV+storage. Di questi, 6 prevedono valori record a meno di 10 centesimi di dollaro a kWh e due arrivano addirittura a 8.
I progetti (vedi tabella) aggiungerebbero 262 MW di potenza da solare e 1.048 MWh di storagedistribuiti su tre isole. La nota di HEC sottolinea che forniranno energia “al posto dei prezzi volatili dei combustibili fossili”, che cita a circa 15 centesimi per Kwh.
Se la commissione di pubblica utilità dello stato approverà i PPA, per il mercato dello storage Usa si tratterebbe di una grossa spinta, quasi un raddoppio: dai dati WoodMackenzie ci sono al momento solo 1,4 GWh di stoccaggio di energia installati nella nazione, con appena 75 MWh alle Hawaii.
I valori del kWh da fotovoltaico con batteria erano arrivati a 13,9 c$/kWh nel 2016 e a 11 c$/kWh nel 2017: considerando i contratti siglati ora a 8 c$/KWh si può dunque dire che, dal 2016 al 2019, i prezzi sono diminuiti del 42%.
Con economics del genere, le isole, che si affidino ancora prevalentemente al costoso olio combustibile per l’elettricità, possono raggiungere il 100% di rinnovabili anche prima della deadline che si sono date, al 2045.
fonte: www.qualenergia.it

LE BASI MILITARI ABBANDONATE NEL PROFONDO NORD DEL PIANETA, BOMBE AD OROLOGERIA SOTTO LA PRESSIONE DEI CAMBIAMENTI CLIMATICI

CI SONO BARILI COLMI DI SOSTANZE TOSSICHE ESPOSTI AGLI ELEMENTI E MATERIALI RADIOATTIVI SEPOLTI TRA I GHIACCI IN SCIOGLIMENTO







Spesso le basi militari abbandonate, lasciate in fretta e furia durante le ritirate, sono una vera fonte di informazioni storiche e belliche. Ricercati dagli appassionati un po’ in tutto il mondo, i reperti bellici diventano materia da collezionisti.
Purtroppo però gli orrori della guerra non si lasciano dietro solo qualche elmetto o qualche bossolo, a volte si lasciano dietro anche intere forniture di carburante e rifiuti radioattivi che rischiano di diffondersi nell’ambiente e nell’oceano.
Le basi militari abbandonate in Groenlandia
La Bluie East, anche chiamata American Flowers
I rifiuti radioattivi di Camp Century
La storia, nella sua particolarità, è degna di essere raccontata. La costruzione risale alla guerra fredda quando gli americani nel 1959 costruirono una base missilistica per ospitare 600 missili nucleari puntati contro la Russia… a 65 metri di profondità sotto il ghiaccio. Furono scavati tunnel che collegavano alloggi, centri logistici, laboratori, e addirittura anche un ospedale, una chiesa ed un cinema.
Come veniva prodotta l’energia per la vita di oltre 200 soldati sotto il ghiaccio? Con un piccolo reattore nucleare.
Proprio questi movimenti iniziarono a danneggiare le strutture e nel 1967 i militari dovettero abbandonare Camp Century.
Il reattore fu l’unico ad essere portato via dalla base ma non le sue scorie che rimangono ancora sepolte e che potrebbero riemergere a causa dello scioglimento dei ghiacci.
Basi militari perdute
Parliamo in questo caso della Groenlandia, terra di ghiacci e di ex sedi militari per il controllo dei traffici nelle acque del nord. Nel 1941 la Danimarca, che all’epoca controllava il Paese, diede il permesso agli americani di costruire lì le loro basi per prevenire una possibile invasione nazista del paese.
Oggi il territorio selvaggio della Groenlandia è ammorbato da una serie di rifiuti pericolosi lasciati mezzo secolo fa dai miliari USA: baracche, galloni di combustibile, tralicci, camionette e spazzatura di ogni genere.
La Groenlandia ha quindi chiesto alla Danimarca di ripulire. Ne è sorta una diatriba su “chi deve pulire cosa” tra americani e danesi. Ovviamente il problema riguarda il denaro.
La Danimarca ha infine deciso di predersi le proprie responsabilità attraverso un programma statale di pulizia dei rifiuti tossici. Un investimento di 30 milioni di dollari che coinvolgerà nel progetto studiosi e ed esperti per valutare i danni e il livello di pericolo delle zone da bonificare. Con il team scientifico collaboreranno anche gli abitanti che meglio di tutti sanno identificare le zone in cui giacciono i rifiuti.
Purtroppo i fondi danesi non coprono la pulizia di tutta la “spazzatura americana e alcuni siti, tra i quali la pericolosa Camp Century, di cui parleremo tra poco, non saranno bonificati.
Il disastro ambientale della Bluie, base aerea americana in funzione nel 1941, è stato portato all’attenzione dei medi dal reportage di Ken Bower, fotografo di New York.  Nei suoi scatti si vedono oggetti metallici, tetti di amianto delle baracche crollate e decine e decine di barili arrugginiti, accatastati ed abbandonati in mezzo alla natura selvaggia e bellissima della Groenlandia.
La base, collocata sulla costa orientale della più grande isola del mondo, è stata soprannominata American Flowers dagli abitanti: lo scintillio dei rottami metallici sotto il sole ricorda da lontano un giardino di fiori. Da vicino purtroppo la realtà è ben diversa. Lo sfavillio proviene da 100 mila taniche di petrolio degradate.
basi militari abbandonate
“Poco dopo aver scattato una di queste foto, il cielo si è schiarito e la temperatura è salita rapidamente. È stato uno dei giorni più caldi del mio viaggio; si superavano i 15 gradi. Circa tre quarti d’ora dopo, ho iniziato a sentire dei colpi sordiEra il carburante contenuto nelle botti che si espandeva e faceva rumore premendo contro con i coperchi. Questo mi ha fatto capire che c’erano molti più barili pieni rispetto a quanto pensavo inizialmente. Un altro aspetto che mi ha scioccato è la quantità di tegole e di materiale isolante per le tubature realizzati in amianto. L’amianto era diffusissimo all’epoca. E ora, resta lì a deteriorarsi in mezzo ai detriti dagli edifici in rovina” Ken Bower
Come si evince dal racconto del fotografo, rimasto per qualche giorno nel luogo estremamente isolato in cui sorgeva la Bluie, il petrolio fuoriesce dai barili deformati dall’escursione termica e l’amianto si disintegra sotto le intemperie dell’estremo nord.
C’è di peggio. E si chiama Camp Century. Tra le basi militari abbandonate in Groenlandia c’è anche lei.
Basi militari abbandonate
Il ghiaccio però come si sa è una creatura viva, si deforma e “si sposta” scivolando sul terreno.
La contaminazione da rifiuti radioattivi potrebbe essere catastrofica per l’ambiente circostante.
Il climatologo William Colgan ha deciso di effettuare dei carotaggi: già a 35-40 metri si trova ghiaccio contaminato dagli idrocarburi.
Non solo basi militari abbandonate USA. Le terre a nord sono state oggetto negli anni di costruzioni strategiche da parte di vari eserciti. È recente infatti il ritrovamento nell’Artico, da parte di un gruppo di scienziati del Russian Arctic National Park, anche di una base meteorologica nazista costellata di reperti bellici di ogni genere.
Vista la tipologia di rifiuti abbandonati sarebbe bene che le nazioni si prendessero la responsabilità di ripulire, con le dovute precauzioni e tecnologie, i rifiuti dei loro eserciti evitando in questo modo possibili catastrofi ambientali.
fonte: www.green.it


Monsanto ci distrugge il microbioma
















Il microbioma che Monsanto distrugge da decenni
Quasi certamente anche i nostri lettori più distratti sanno che Monsanto è accusata da tempo di provocare il cancro attraverso il glifosato. Quel che forse non sanno è che di recente negli Stati Uniti, grazie a un’azione legale avviata in giugno nel Missouri, a quell’accusa se n’è aggiunta un’altra di notevole rilevanza: quella di distruggere i batteri dell’intestino umano che formano il microbioma. Quei batteri sono essenziali non solo alla salute dell’apparato digerente ma anche al sistema immunitario, al funzionamento del cervello e all’organismo nel suo complesso. A distruggerli per decenni è stato ancora il glifosato, inventato e commercializzato nel 1974 da Monsanto (in Italia ne è stato limitato l’uso solo un anno fa), e poi dilagato con la diffusione degli Ogm. La tesi difensiva della multinazionale acquisita da Bayer è sempre stata che l’erbicida inibisce la formazione di un enzima presente nelle piante ma non negli animali e negli esseri umani. Adesso però sappiamo che quell’enzima, l’EPSP sintasi, indispensabile per la sintesi di diversi importanti aminoacidi, che a loro volta costruiscono le proteine, è presente nei batteri che Monsanto distrugge da decenni. Intanto, a luglio lo Stato dell’Arkansas ha vietato l’uso di un altro potente agrotossico, un cuginetto del glifosato che può uccidere le semine di ortaggi, frutta, piante ornamentali e perfino alberi. Si chiama dicamba, e oltre alla sua tossicità è noto per l’alta volatilità. Eppure, secondo Monsanto, nella formulazione prodotta per la soia Xtend la volatilità è bassa. Dite che possiamo credergli?
Negli Stati Uniti Monsanto si trova sotto un’ondata di processi, è accusata dai ricorrenti di aver provocato il cancro con il glifosato, essendo a conoscenza del fatto che fosse nocivo, perfino potenzialmente cancerogeno.
A questo si aggiungono ora nuove accuse contro la transnazionale e il glifosato: la distruzione di batteri presenti nell’intestino umano, essenziali per la buona salute dell’apparato digerente, del sistema immunitario e anche per il funzionamento del cervello. Sembra insignificante, perché non siamo soliti riconoscere l’importanza vitale dei miliardi di batteri che formano il nostro microbioma, ma la verità è che sono cruciali per la salute e il buon funzionamento di molti organi, e perfino del nostro organismo nel suo complesso. Mentre la scienza va avanti nel riconoscere l’importanza del microbioma, Monsanto per decenni l’ha distrutto in maniera rilevante.
Questo è il nucleo dell’azione legale che sei consumatori del Missouri hanno iniziato nel giugno 2017 contro Monsanto, [accusata] di diffondere falsa informazione sui danni del glifosato. Il glifosato agisce come erbicida inibendo l’azione dell’enzima EPSP sintasi, indispensabile per la sintesi di diversi importanti aminoacidi, che a loro volta costruiscono le proteine.


 


In parole povere, quando questo enzima non agisce, l’erba non può svilupparsi e muore. Monsanto ha ripetutamente affermato che, poiché questo enzima esiste solo nelle piante e non negli animali e negli umani, il glifosato è sicuro per noi e per i nostri animali domestici.
Ma l’enzima esiste nei batteri che si trovano nei nostri organi digestivi e, pertanto, l’ingestione continua di glifosato, li uccide, inibendo non solo la loro funzione benefica, ma producendo anche uno squilibrio che permette la diffusione di altri microrganismi dannosi.
Monsanto ha inventato il glifosato nel 1974 e lo vende da allora: è una delle sue principali fonti di profitto. Ma quello che ha realmente provocato l’aumento esponenziale del suo uso, sono stati i transgenici tolleranti al glifosato, come la soia, il mais e il cotone transgenici. Prima dei transgenici, il glifosato danneggiava comunque le colture, per quanto l’uso fosse minore e limitato a determinati periodi della semina. Con i transgenici, l’uso si è moltiplicato fino al 2000 per cento negli Stati Uniti, uccidendo tutto quello che si trova attorno alla coltura, ma generando rapidamente anche resistenza in quelle erbe, che vengono chiamate “super erbacce”, perché resistono al glifosato e ad altri erbicidi.
Più della metà dei campi coltivati negli Stati Uniti hanno le “super erbacce” e negli Stati del sud, come ad esempio la Georgia, più del 90 per cento delle tenute agricole hanno una o più erbe infestanti resistenti. Situazioni simili si ripetono in Argentina e in Brasile che, con gli Stati Uniti, sono i tre paesi con la maggiore estensione di coltivazioni transgeniche.
Di fronte a questa situazione, gli agricoltori hanno iniziato a usare dosi sempre maggiori e frequenti di glifosato e, a loro volta, Monsanto e le altre transnazionali dei transgenici, hanno aumentato la concentrazione e i surfattanti presenti negli agrotossici, aumentando la loro tossicità.
Attualmente, soffriamo di un’epidemia silenziosa da glifosato – per inalazione diretta nei campi, per essere vicini a zone di fumigazione o per i molto diffusi e sempre più alti residui negli alimenti, soprattutto prodotti industriali che contengono soia e mais transgenici.
All’ombra di questa minaccia, se n’è scatenata un’altra, direttamente correlata. Di fronte alle erbe resistenti, le transnazionali degli agrotossici e dei transgenici hanno iniziato a creare colture transgeniche tolleranti a diversi erbicidi contemporaneamente, ancora più tossici e pericolosi. Una di queste è la soia RR2 XTend di Monsanto, che tollera il glifosato e il dicamba, un altro agrotossico ad alto rischio.




Coltivazioni Monsanto
Questa soia e il cocktail tossico che la accompagna, ha cominciato a essere usata negli Stati Uniti nel 2016 ed è già motivo di forti conflitti, perché il dicamba uccide o danneggia molto di più delle erbe del campo dove si utilizza: per dispersione, ha danneggiato anche le coltivazioni di altri campi, comprese quelli degli agricoltori che coltivano soia transgenica di versioni anteriori, non tollerante al dicamba. Il dicamba è un potente agrotossico, che può uccidere le semine di ortaggi, frutta, piante ornamentali e perfino alberi. Oltre alla sua tossicità, ha un’alta volatilità, ma secondo Monsanto la formulazione per la soia Xtend è a bassa volatilità.
Tuttavia, i danni alle coltivazioni per l’uso di questa soia con il dicamba, si sono scatenate nell’Arkansas, nel Missouri, nel Tennessee, nello Iowa e ogni giorno escono nuovi rapporti in diversi Stati, generando gravi conflitti tra agricoltori – c’è stato anche un morto – fino ad azioni legali e contro le assicurazioni, che a loro volta non vogliono farsi carico dei danni.
A luglio, l’Arkansas ha proibito l’uso del dicamba e diversi altri Stati sono passati a una regolamentazione più severa, secondo gli agricoltori quasi impossibile da soddisfare. A fine luglio 2017, sei allevamenti industriali dell’Arkansas hanno iniziato azioni legali contro Monsanto, Basf e DuPont Pioneer, che sono quelle che vendono gli agrotossici di cui ha bisogno la soia Xtend.




Mezzo gallone di Dicamba e passa la paura degli insetti…
Il Brasile e il Paraguay hanno approvato la semina della soia tollerante al dicamba. In Messico è stata approvata la semina di cotone transgenico tollerante al glifosato, al dicamba, al glufosinate e all’insetticida su una stessa pianta, chiara dimostrazione della “evoluzione” dei transgenici: ogni volta necessitano di maggiori quantità di prodotti tossici.
Per la salute di tutte e tutti e di quella dell’ambiente dal quale dipendiamo, per le economie contadine che ci danno alimenti sani, si devono proibire queste coltivazioni ad alto rischio, che per di più avvantaggiano solamente le transnazionali.

Pubblicato su La Jornada (e qui con il consenso di Silvia Ribeiro) con il titolo Directo al estómago: golpes bajos de Monsanto y compañía
Silvia Ribeiro
fonte: comune-info.net/
 

Crolla tunnel sotterraneo in ex fabbrica di plutonio piena di materiale radioattivo.







































Questo blog parla di petrolio. Ogni tanto pero' capitano delle storie, a mio avviso importanti, che non vedo tanto riprese nella croncaca italiana. 

Ad Hanford si produceva plutonio per armi, dal 1943 fino alla meta' degli anni 80.  Il plutonio della bomba di Nagasaki e' stato fatto qui, presso il Plutonium Uranium Extraction Plant, anche noto come PUREX.  Il sito e' stato poi dismesso, ed oggi e' ancora contaminato: ci lavorano ancora centinaia di persone per completare la bonifica che si pensa sara' completa nel .... 2060!

Il giorno Martedi 9 Maggio, alcuni lavoratori hanno visto della terra semi-sprofondata. Ed e' arrivata l'emergenza. Circa otto metri di tunnel sotterraneo erano collassati.

Quello che c'e' a Hartford, per quanto monitorato, sorvegliato, studiato nei minimi dettagli e aggiornato e' pur sempre un relitto di un altra era. Non sappiamo bene come gestire questi impianti di altri tempi perche' non ci sono punti di riferimento. Cosa fare? Quanto terranno le infrastrutture? Dove mettere tutto quello che resta?

L'edificio in questione si estendeva per 10 metri sottoterra ed era chiuso da venti anni. E' pure fortemente inquinato. Nella zona ci sono ben 177 siti di stoccaggio di rifiuti nucleari degli anni 1940. 

Quello che quindi emerge che queste operazioni sono per il lungo, lunghissimo termine. Torniamo al petrolio. Siamo sicuri che tutti i buchi dell'era post guerra non perdano? Siamo sicuri che tutte le piattaforme sotto la superficie del mare non lo stanno contaminando con perdite piu o meno forti? E quello che costruiamo adesso? Siamo assolutamente sicuri che quello che facciamo al sottosuolo non stia stuzzicando le faglie sismiche? Quanta monnezza ha riversato l'ENI in giro per l'Italia?

Non e' meglio un enorme pannello solare sulle case di tutti?


Maria Rita D'Orsogna

fonte: http://dorsogna.blogspot.it

Trump tagli i fondi all’ambiente, -29,6% per l’EPA secondo Bloomberg













La scure di Trump si abbatte sull’EPA e nello specifico sui fondi destinati all’Environmental Protection Agency. L’Agenzia per l’ambiente statunitense vede il suo budget per il nuovo anno ridotto del 29,6% e i suoi programmi più connessi al cambiamento climatico (emissioni CO2 e inquinamento) che si potrebbero eufemisticamente definire come “messi in secondo piano” in funzione di settori quali “Sicurezza interna”, “Difesa”, “Veterani” e “Trasporti”.

Questa è l’analisi sulla pianificazione finanziaria dell’amministrazione Trump effettuata da Bloomberg, che ha tirato le somme di quello che sarà il “giro di vite” imposto dal neo presidente USA alle agenzie governative. Altri pesanti tagli sono quelli previsti per l’agricoltura, che vede i suoi fondi ridursi del -29%, e per l’istruzione (13,6%).

Tagli che non sorprendono più di tanto, soprattutto alla luce di quelle che sono state le nomine di Trump ai vertici delle agenzie. Tra le più eclatanti quella di Scott Pruitt all’Environmental Protection Agency: il nuovo capo dell’EPA è un avvocato da sempre impegnato nel sostenere il negazionismo climatico.
Appena una settimana fa lo stesso Pruitt (leader delle lotte anti aborto, unioni gay e contro la stessa EPA che ora rappresenta) ha rilasciato pesanti dichiarazioni, negando in sostanza qualsiasi responsabilità delle emissioni di CO2 sui cambiamenti climatici:
Credo che misurare con precisione l’impatto dell’attività degli uomini sul clima sia qualcosa di molto difficile. Sul livello di questo impatto mi sembra che esista un immenso disaccordo, io direi che le emissioni di CO2 non incidono, non sono d’accordo che si tratti di un fattore primario nel riscaldamento globale.

fonte: http://www.greenstyle.it

Se l’autobus elettrico fa 966 km con una ricarica

Da una società californiana il nuovo bus elettrico Catalyst E2. Sarà dotato di batterie da 660 kWh di capacità che si ricaricano in meno di 15 minuti
Se l’autobus elettrico fa 966 km con una ricarica

Sono numeri impressionati quelli che vengono fuori dalla struttura di test Laurens Proving Grounds della Michelin, nella Carolina del Sud. Qui la californiana Proterra ha registrato le potenzialità del suo nuovo autobus elettrico, il Catalyst E2. Il nome è stato scelto per richiamare alla mente la straordinaria efficienza del mezzo (Energy Efficient da cui E2) che è in grado di vantare una capacità di stoccaggio tra i 440 – 660 kWh. Sulla pista di test della Michelin, Catalyst E2, ha fatto scintille, percorrendo ben 966 km con una sola carica. Ovviamente le condizioni di test sono ben lontane da quelle della guida quotidiana, dove il campo nominale dell’autonomia si riduce bruscamente tra i 312 e 563 km. Il valore lo rende comunque in grado di mantenere un certo appeal per il mercato USA, potendo coprire la maggior parte delle vie di transito di massa quotidiane degli States senza stress da ricarica.

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Per alimentare il suo motore, il bus elettrico utilizza due enormi batterie – ciascuna delle dimensioni di un materasso – ricaricabili in meno di 15 minuti e in grado di memorizzare fino a 660 kWh; inoltre il mezzo è dotato della tecnologia di frenata rigenerativa, convertendo così parte dell’energia cinetica in energia elettrica. “La questione non più chi sarà il primo ad adottare questa tecnologia [bus elettrici sono già in funzione a Londra], ma piuttosto chi sarà l’ultimo a impegnarsi per ottenere un futuro di mobilità pulita, efficiente e sostenibile“, afferma il CEO di Proterra, Ryan Popple. “Con Catalyst E2 vogliamo offrire una sostituzione senza compromessi per tutti gli autobus alimentati oggi a combustibili fossili. I mezzi elettrici a batteria stanno affrontando l’ultimo ostacolo che li separa dalla diffusione sul mercato di massa”.
Per ora la società vuole investire sul territorio nazionale. Per questo il CEO ha annunciato che il lancio commerciale avverrà nel 2017 a partire da Los Angeles.

fonte: www.rinnovabili.it

Obama crea l’area marina protetta più grande al mondo

Alle Hawaii, paese natìo del presidente, quadruplicata l'area del Papahanaumokuakea. Casa per balenottere azzurre, coralli neri, albatros dalla coda corta.
È uno dei lasciti dell’amministrazione Obama, a due mesi dalle elezioni americane. Al largo delle coste delle Hawaii, nelle acque a nord ovest del paese, il presidente degli Stati Uniti ha infatti quadruplicato la riserva marina creata da George W. Bush nel 2006.
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Esemplari di pesce farfalla Chaetodon lunula, Cathedrals of Lanai, Maui, Hawaii, USA
Photo by Reinhard Dirscherl/ullstein bild via Getty Images

L’esistente monumento marino nazionale passerà dagli attuali 357 mila chilometri quadrati a più di 1,5 milioni di chilometri quadrati. Scelta che porterà alla conservazione e protezione di più di 7.000 specie marine, tra cui balenottere azzurre, tartarughe marine, e il rarissimo corallo nero (Antipathella subpinnata).

Un’area marina protetta contro i cambiamenti climatici

“Acidificazione degli oceani, riscaldamento delle acque e gli altri impatti causati dai cambiamenti climatici minacciano gli ecosistemi marini. L’espansione del monumento migliorerà la resilienza dell’oceano e aiutarà le risorse fisiche e biologiche della regione ad adattarsi, creando allo stesso tempo un laboratorio naturale che permetterà agli scienziati di monitorare ed esplorare gli impatti dei cambiamenti climatici su questi fragili ecosistemi”, scrive l’ufficio stampa della Casa Bianca in una nota diffusa lo scorso 26 agosto.
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Il reef visto dall’alto. Foto by: MyLoupe/UIG via Getty Images)

Niente pesca commerciale, né estrazioni minerarie

Quella di Obama è stata una scelta che ha dato voce ai nativi hawaini e alle loro richieste di conservazione e protezione della loro terra. 75 montagne sottomarine, un isolamento biologico e geografico che ha permesso il proliferare di veri e propri hot spot di biodiversità, unici al mondo, comunità oceaniche singolare e tra le più longeve: alcuni coralli raggiungono i migliaia di anni di età.
“Le Northwestern Hawaiian Islands sono la patria di uno degli ecosistemi più diversi e minacciati del pianeta e un luogo sacro per la comunità nativa hawaiana”, ha detto il segretario degli Interni Sally Jewell in una nota stampa. “L’espansione del presidente Obama del Papahanaumokuakea proteggerà permanentemente le barriere coralline incontaminate, gli habitat marini più profondi e le importanti risorse culturali e storiche, a beneficio delle generazioni presenti e future”.


fonte: www.lifegate.it

L’ultima compagnia petrolifera abbandona le trivellazioni offshore nell’Artico Usa

Dopo Shell, ConocoPhillips, Eni, e Iona Energy, anche Repsol se ne va al Mare dei Chukchi

Trivellazioni Repsol

La compagnia petrolifera spagnola Repsol ha deciso di rinunciare a 55  permessi di trivellazione nel Mare dei Chukchi, in Alaska e di abbandonarne anche i restanti 38 nel 2017. Il portavoce della multinazionale, Jan Sieving, ha confermato: «Repsol è in procinto di abbandonare le sue posizioni nel Mare di Chukchi, nell’offshore dell’Alaska»
La Big Oil spagnola è l’ultima ad abbandonare l’avventura offshore dl Chukchi Lease Sale nell’Artico Usa, dopo Shell, ConocoPhillips, Eni, e Iona Energy, che hanno lasciato l’Alaska dopo aver  scoperto – a caro prezzo – quello che dicono da sempre gli ambientalisti: le trivellazioni offshore non valgono la spesa e il rischio. Shell ha rinunciato dopo aver speso più di 4 miliardi di dollari in un pozzo esplorativo offshore ed aver visto naufragare la sua piattaforma petrolifera Kulluk. A parte un blocco di concessioni che Shell sta mantenendo per non perdere le informazioni acquisite dal suo fallimentare pozzo esplorativo nel 2015, le concessioni esplorative di Repsol erano le ultime rimaste nel Mare dei Chukchi.
«Il mese scorso abbiamo capito che la Shell e un sacco di altre companies avevano restituito i loro contratti di locazione – ha detto a ThinkProgress Mike Levine, consulente per il Pacifico di Oceana – Dopo otto anni, miliardi di dollari e significative controversie, il Mare dei Chukchi e tornato ad essere ripulito». Nel 2008 quelle concessioni erano costate a Repsol 15 milioni di dollari in cambio della possibilità di cercare petrolio e gas su oltre mezzo milione di acri di fondale oceanico.  Dopo il  boom degli anni ’80 e ’90, quando le multinazionali petrolifere facevano la fila per accaparrarsi gigantesche concessioni nel Mar Glaciale Artico, tutti i contratti nel mare di Chukchi, con scadenze iniziali di 10 anni, sono stati abbandonati entro il 2003. Ne sono rimasti alcuni nel vicino Mare di Beaufort, più vicino alla costa e più facilmente collegabili a infrastrutture e oleodotti. Un altro boom c’era stato nel  2003 – 2008, quando le Big Oil si divisero altri 3 milioni di acri per cercare petrolio e gas. Ma ancora una volta, secondo uno studio di Oceana, delle 487 concessioni nel Mare dei Chukchi non ne rimane attiva che una: quella di testimonianza della Shell,  mentre le concessioni attive nel Mare di Beaufort sono scese da 240 a 71 e molte delle superstiti sono vicine alla scadenza e senza progetti di trivellare. Anche Repsol ha detto che i sui contratti nel Mare di Beaufort sono oggetto di revisione e che potrebbe essere ceduti o abbandonati.
Levine sottolinea: «Sia Repsol che Shell hanno detto che stanno avviando un processo separato per perseguire l’esplorazione nel Beaufort. Resta un mistero il motivo per cui le companies si tengano ancora in mano questa roba». Infatti, per le Big Oil è sempre più chiaro che le trivellazioni offshore nell’Artico sono  una pessima idea: le piattaforme sono a rischio per gli iceberg e la banchisa e l’oscurità e le temperature estremamente basse impediscono di lavorare per gran parte dell’anno. Questo significa che costa, mentre il costo del greggio è calato rapidamente, l’estrazione di petrolio e gas dall’Artico costa miliardi di dollari  in più di quelli “convenzionali”.
Ma le trivellazioni offshore nell’Artico espongo le Big Oil  anche al rischio di una marea nera che sarebbe praticamente impossibile bonificare: nel 2011 la Guardia costiera Usa disse di non essre preparata in caso di sversamento nell’Artico e La Noaa sta ancora studiando e testando i metodi su come rispondere a un  disastro di questo tipo.
Anche l’’opposizione alle trivellazioni petrolifere nell’Artico espressa dai due maggiori candidati democratici alla presidenza Usa, Hillary Clinton e Bernie Sanders, ha sicuramente svolto un ruolo enorme nelle decisioni della Repsol e delle altre multinazionali di ritirarsi dall’Artico Usa, ma è anche grazie a questa discussione tutta politica che le Big Oil stanno cambiando rotta:  Shell ha consegnato a Nature Conservancy of Canada  30 concessioni esplorative nell’Artico orientale per consentire al governo canadese di istituire un’Area marina protetta a Lancaster Sound.
Ma se le Big Oil stanno ritirandosi dall’Artico americano, in Eurasia la musica non cambia: la Norvegia disinveste i sui ricchi fondi pensione dalle energie fossili degli altri, ma sta ancora cercando, senza successo, di trivellare petrolio offshore nell’Artico. La Russia sta procedendo nei suoi sforzi per aumentare i suoi depositi siberiani con il greggio  da trivellare dai fondali marini al largo delle sue lunghissime coste artiche, anche se partener come la Exxon hanno dovuto abbandonare dopo le sanzioni occidentali per il conflitto ucraino.
Gli ambientalisti sanno bene che potrebbe trattarsi solo di una ritirata strategica e che le Big Oil sono pronte a tornare nell’Artico se il prezzo del petrolio salirà di nuovo e per questo dicono  che è arrivato il momento  di approvare leggi e regolamenti nazionali e internazionali che impediscano la possibilità di una disastrosa area nera nell’Artico. Dan Ritzman, direttore per le operazioni artiche di Sierra Club dice che la decisione di Repsol di rinunciare a trivellare il Mare dei Chukchi, «Dimostra non solo che la trivellazione nell’Artico è troppo pericolosa per il nostro clima e il nostro ambiente, ma che le compagnie petrolifere non vogliono più nemmeno esplorare lì. Le comunità artiche e centinaia di migliaia di attivisti in tutto il Paese hanno accusato ad alta voce Shell quando ha tentato di trivellare l’anno scorso. Queste comunità e attivisti hanno continuato a chiedere di proteggere l’Oceano Artico, invitando il presidente Obama a toglierlo dal piano quinquennale per le trivellazioni offshore. E’ il momento che l’amministrazione Obama ascolti le comunità artiche, gli attivisti climatici e ambientali e le compagnie petrolifere e protegga l’Oceano Artico dalla minaccia delle trivellazioni offshore».

fonte: www.greenreport.it

BREAKING! TTIP leaks: Greenpeace Olanda rivela i testi segreti del TTIP



Avevamo ragione: confermati rischi per clima, ambiente e sicurezza dei consumatori
I cittadini hanno diritto di sapere: Greenpeace Olanda pubblica oggi su www.ttip-leaks.org parte dei testi negoziali del TTIP per garantire la necessaria trasparenza e promuovere un dibattito informato su un trattato che interessa quasi un miliardo di persone, nell’Unione Europea e negli USA. È la prima volta che i cittadini europei possono confrontare le posizioni negoziali dell’UE e degli USA.
Questi documenti svelano che noi e la società civile avevamo ragione a essere preoccupati: con questi negoziati segreti rischiamo di perdere i progressi acquisiti con grandi sacrifici nella tutela ambientale e nella salute pubblica!

fonte: http://www.greenpeace.org