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Trivelle, “PiTESAI a rischio farsa”

 









Le osservazioni di Greenpeace Italia, Legambiente e WWF Italia sul Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee.

“I tempi per il perfezionamento della procedura di Valutazione Ambientale Strategica e i contenuti del

Transizione Ecologica, Greenpeace: paghino le aziende responsabili

Transizione Ecologica, economia circolare e riforma del PNRR, le richieste di Greenpeace Italia al governo formato da Mario Draghi.









La transizione ecologica offre un’occasione da non sprecare. Secondo Greenpeace il Governo Draghi potrebbe essere sulla strada giusta, ma non dovrà cedere di fronte ai grandi inquinatori ovvero combustibili fossili e finanza.

Greenpeace sostiene che per confermare il proprio impegno per l’ambiente il Governo Draghi dovrà porre in essere alcuni provvedimenti senza precedenti. A cominciare da una moratoria permanente per quanto riguarda ogni nuova attività di “prospezione, ricerca e coltivazione” relativa a gas e petrolio. Dovrà essere valida su tutto il territorio nazionale, a terra come in mare.

Scaduto lo stop temporaneo approvato dal Governo Conte, prosegue l’associazione, ogni ulteriore provvedimento a termine “non sarebbe una scelta sufficientemente ambiziosa”. Servono, secondo Greenpeace, scelte coraggiose e non altre trivelle.

Altra scelta coraggiosa a cui è chiamato Mario Draghi è quella, afferma l’associazione, di far pesare tali riforme sulle spalle di chi ha inquinato e non dei più deboli. Ha sottolineato Alessandro Giannì, direttore delle campagne di Greenpeace Italia:

La transizione ecologica è un processo necessario che non potrà prescindere da giustizia economica e sociale e inclusione. Il costo di questa trasformazione, sempre più urgente, non può ricadere sulle spalle dei più deboli, ma dovrà essere a carico di chi, anteponendo i propri profitti prima della salute delle persone e del Pianeta, ci ha condotto alla crisi climatica e ambientale in corso.
Transizione Ecologica e PNRR, le richieste di Greenpeace

Altro tema caldo la riforma del PNRR, auspicata anche dal WWF Italia. Secondo quelle che sono le valutazioni di Greenpeace il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza può essere migliorato in maniera netta su fronti quali le fonti rinnovabili, la mobilità sostenibile, l’economia circolare e l’agricoltura.

In merito all’agricoltura l’associazione batte soprattutto su temi quali la riduzione dell’utilizzo di pesticidi, del numero di animali allevati e delle emissioni di gas climalteranti. Per quanto riguarda invece l’economia circolare:


Servono misure urgenti che seguano i principi base indicati dall’Europa come la prevenzione e la riduzione dei rifiuti prodotti, soprattutto quelli derivanti dalla frazione monouso. Senza il ricorso a false soluzioni, come l’incenerimento e la generazione di combustibili dalla plastica. Vanno invece messi subito in atto tutti quei provvedimenti che responsabilizzano i produttori, a partire dalla Plastic tax.

fonte: www.greenstyle.it

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Stop alle trivellazioni in Italia respinto? Critiche le associazioni

Stop alle trivellazioni in Italia, bloccato il testo presentato dal Ministero dello Sviluppo Economico: critiche dalle associazioni.




Forti critiche da parte delle associazioni ambientaliste dopo le indiscrezioni sul parere negativo ricevuto dallo stop alle trivellazioni in Italia. Oggetto della discussione la norma proposta dal Ministero dello Sviluppo Economico, come ricordato in un comunicato congiunto da Greenpeace, Legambiente e WWF.

Se confermato, il no allo stop alle trivellazioni in Italia risulterebbe non soltanto negativo per il Bel Paese, ma anche contrario alle indicazioni provenienti dall’Unione Europea:

Respingere la norma sull’abbandono delle trivellazioni (possibilità di cui parlano alcune indiscrezioni di stampa) sarebbe una scelta non coerente con gli impegni assunti con l’Europa.

La norma sul progressivo abbandono delle trivellazioni di gas e petrolio in Italia, a cominciare da quelle nei nostri mari, proposta dal Ministero dello Sviluppo Economico va nella giusta direzione della decarbonizzazione della nostra economia richiesta dall’Europa con l’European Green Deal e soprattutto con lo strumento Next Generation EU che assegna all’Italia nel suo complesso 209 miliardi di euro (il 37% da destinare ad azioni per il clima) e respingerla in Consiglio de Ministri vorrebbe dire contraddire le scelte green del Governo concordate con l’Europa.

La necessità di vietare le trivelle nei mari italiani è stata ribadita più volte dalle tre associazioni. Già dal 2019 è stato chiesto di varare una moratoria al riguardo, analogamente a quanto previsto in Francia dal 2017. Piattaforme che minacciano l’ambiente e coloro che vivono delle risorse naturali presenti. Hanno concluso Greenpeace, Legambiente e WWF:

Greenpeace, Legambiente e WWF ricordano che il settore dell’estrazione di gas e petrolio sul territorio nazionale (tutte le riserve petrolifere nei nostri mari coprirebbero il fabbisogno nazionale solo per 7 settimane – dati MiSE) sopravvive artificiosamente per i numerosi incentivi, sovvenzioni e esenzioni che lo tengono forzosamente in vita: una per tutte l’esenzione dal pagamento dell’aliquota, al netto delle produzioni, per le estrazioni che arrivino sino 20 milioni di Smc di gas e 20.000 tonnellate di olio prodotti annualmente in terraferma, e i primi 50 milioni di Smc di gas e 50.000 tonnellate di olio prodotti annualmente in mare.

Un vero e proprio sussidio ambientalmente dannoso che sottrae alle casse dello Stato e alla comunità nazionale almeno 40 milioni di euro ogni anno (Catalogo dei Sussidi Ambientalmente Dannosi e Favorevoli – 2018).

fonte: www.greenstyle.it


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Per Greenpeace il Piano nazionale energia e clima proposto da M5S e Lega è «deludente»

Secondo l’organizzazione ambientalista si tratta di «una versione peggiorata della strategia energetica del precedente Governo»



















La proposta di Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec) che il Governo italiano ha inviato alla Commissione europea l’8 gennaio continua a riscuotere magri consensi tra gli ambientalisti e gli imprenditori della green economy italiana: ai commenti di Elettricità futura, del Coordinamento Free e della Fondazione per lo sviluppo sostenibile si è aggiunto quello di Greenpeace, che non fa veli sulla stroncatura.
Per l’organizzazione ambientalista il Piano energia e clima appena presentato dall’esecutivo è «deludente: una versione peggiorata della strategia energetica del precedente Governo», ovvero quella delineata all’interno della Sen approvata nell’autunno 2017. Per questo «Greenpeace chiede dunque che si apra un confronto sulle prospettive energetiche del Paese», partendo da un punto fermo: «Se l’Italia vuole davvero rispettare l’Accordo di Parigi sul clima non deve certo puntare sulle scarse riserve di idrocarburi ma su efficienza e fonti rinnovabili».

Il richiamo è alla querelle sulle trivellazioni volte a ricercare ed estrarre dai mari italiani nuovi idrocarburi, con un’aspra polemica che ha tenuto banco dentro e fuori le fila del Governo nazionale nelle ultime settimane. «È ora che questa follia si concluda – dichiara Giorgia Monti, responsabile della campagna Mare di Greenpeace Italia – non ha alcun senso continuare a bombardare il nostro mare per estrarre riserve limitate che non ci garantiscono nessuna indipendenza energetica, ma solo rischi ambientali ed economici. Se Di Maio e Costa sono davvero contrari alle trivelle e, come dichiarato a più riprese, non vorrebbero riportare l’Italia al Medio Evo economico e ambientale, facciano subito approvare una legge che vieti per sempre l’utilizzo degli airgun. È questo il modo più immediato ed efficace per allontanare per sempre la minaccia di nuove trivelle dai nostri mari».

fonte: www.greenreport.it

In Emilia-Romagna riparte la stagione dei fossili. 31 permessi e 9 nuove istanze


















La denuncia arriva da Legambiente Emilia Romagna: «Riprendono in tutta la  Regione le attività di ricerca idrocarburi dopo la “pausa forzata” degli ultimi anni: 31 permessi di ricerca vigenti su terra ferma e 9 nuove istanze di permesso di ricerca. L’associazione presenta i dati sull’estrazione di combustibili fossili nella regione: «Dal sito del ministero dello sviluppo economico risultano 31 i permessi di ricerca su terra ferma  vigenti in Emilia-Romagna. Su 6 di essi è stata già presentata istanza di perforazione del pozzo esplorativo, su 3 è stata presentata istanza di coltivazione mentre su 9  è stata presentata istanza di rinuncia. Alle 31 attività già in corso vanno aggiunte 9 nuove istanze di permesso di ricerca (Brola, Castiglione di Cervia, Fiorenzuola D’Arda, Fontevivo, La Risorta, La Stefanina, Reno Centese, San Patrizio, Zanza), 7 delle quali in fase di Valutazione di Impatto Ambientale». »
Secondo gli ambientalisti è «Preoccupante il rilancio delle fonti fossili, che smentirebbe l’obiettivo “100% rinnovabili” al 2050 contenuto nel  Piano energetico regionale. Accogliendo tutte le nuove istanze, si darebbe il  segnale opposto alla necessità di ridurre in modo drastico le emissioni climalteranti.  Il cambiamento climatico è un problema attuale anche nella nostra regione, con un aumento medio delle temperature di 1,1  gradi centigradi rispetto al periodo 1960-1990».
Il Cigno verde emiliano-romagnolo spiega che «Riparte la stagione degli idrocarburi in Emilia-Romagna. Dopo una pausa forzata, innescata dal DGR 547 del 23 aprile 2014 nel quale la regione ha sospeso l’espressione di pareri e valutazioni “tesi a consentire lo svolgimento sul territorio di nuove attività di ricerca, prospezione, coltivazione e stoccaggio di idrocarburi” a seguito del sisma del 2012, è ricominciata la corsa alla ricerca di gas e petrolio in regione. La revoca della sospensione risale al 13 luglio 2015 (DGR 903/2015), a far seguito della quale sono ripartite le autorizzazioni di prospezione e ricerca, attività propedeutiche a nuove estrazioni».
Legambiente sottolinea che «Rigettando da subito le nuove istanze di permesso di ricerca, l’Emilia-Romagna darebbe le gambe a quanto indicato nel Piano energetico Regionale, che punta all’obiettivo “100% rinnovabili” al 2050, ed ai contenuti del Piano aria che fissa l’obiettivo al 2020 di ridurre all’1% la popolazione esposta all’inquinamento atmosferico. Diversamente, se venissero approvate le nuove istanze di permesso di ricerca, si seguirebbe nella pratica una direzione completamente opposta a quanto indicato nei piani. Le amministrazioni, dal livello regionale a quello locale, dimostrerebbero per l’ennesima volta di utilizzare il concetto di sostenibilità solo nei piani, superati però nel quotidiano da logiche economiche ferme al ventesimo secolo».
Per l’associazione ambientalista, «Rigettare le istanze di ricerca idrocarburi da subito significherebbe porsi in prima linea nel raggiungimento degli obiettivi fissati dagli accordi internazionali, per il contenimento dell’innalzamento della temperatura globale entro gli 1,5 gradi» e ricorda che «Dai dati contenuti nell’edizione 2017 dell’Atlante Climatico dell’Emilia-Romagna di Arpae, emerge chiaramente che il problema del riscaldamento globale tocca direttamente anche la nostra regione: le temperature medie regionali nel periodo 1991-2015 sono aumentate di 1,1 °C (+1,4 °C le massime, +0,8 °C le minime) rispetto al periodo 1961-1990. Allo stesso tempo le precipitazioni annuali sono diminuite di 22 mm (-2%) ma con notevoli cambiamenti stagionali (estati più aride e autunni più piovosi).Tra i capoluoghi dell’Emilia-Romagna, le due città in cui si è osservato un aumento maggiore delle temperature medie annuali sono Reggio Emilia (+1,6 °C) e Modena (+1,4 °C)».
Legambiente conclude: «Serve spingere con forza sull’acceleratore della sostenibilità investendo su rinnovabili, efficienza energetica, mobilità sostenibile e riqualificazione urbana, ed abbandonare l’era della fonti fossili nel più breve tempo possibile. Un strategia che metterebbe al centro la valorizzazione delle bellezze artistiche e naturali del territorio oltre che della produzione agricola, vera fonte di reddito e ricchezza per la Food Valley d’Italia».

fonte: www.greenreport.it

Trivelle: la società civile prova a rovesciare il decreto del MiSE

Presentate alla Camera due mozioni parlamentari per fermare le trivelle entro le 12 miglia. Le sottoscrivono anche deputati del Pd













Come fermare un governo deciso a sguinzagliare le trivelle entro le 12 miglia? Facile: impegnando il governo a rispettare le sue stesse leggi. È quanto si evince dalla mozione proposta oggi dal Coordinamento nazionale No Triv, l’associazione A Sud e Green Italia. Diverse le firme sul documento: hanno risposto all’appello deputati provenienti da Sinistra italiana, Movimento democratici e progressisti, Alternativa libera, Articolo 1, Possibile e pezzi del PD. Il Movimento 5 stelle, pur condividendo l’obiettivo della mozione, ha voluto presentarne una propria. Le richieste, però sono le stesse:

  • che l’intesa delle Regioni sui titoli minerari sia data al termine del procedimento unico ma prima dell’adozione del decreto del Ministro dello Sviluppo Economico;
  • che nel caso di progetti sperimentali nel Golfo di Venezia sia prevista l’intesa con la Regione e non soltanto un suo parere;
  • che la modifica al programma dei lavori relativa a concessioni entro le 12 miglia non contempli piattaforme o pozzi non previsti dal programma originario.
Si punta in sostanza a riportare nell’ambito della legittimità il decreto disciplinare del Ministero dello Sviluppo Economico entrato in vigore lo scorso 3 aprile. In quel documento vi sono disposizioni che fanno tremar le vene e i polsi agli ambientalisti, poiché è prevista la possibilità per le imprese di variare il programma dei lavori a piacimento, anche installando nuove piattaforme e aprendo nuovi pozzi. In barba alla legge che il governo stesso aveva scritto per sterilizzare il referendum del 17 aprile 2016.

Il Ministro Calenda ha dichiarato che non vi saranno nuove concessioni entro le 12 miglia, ma sebbene non sia previsto il rilascio di nuovi titoli alle compagnie, sarà comunque loro permesso di trivellare nuovi pozzi con nuove piattaforme all’interno di concessioni già possedute. Non solo: Calenda apre anche a progetti sperimentali nel mare territoriale senza il parere vincolante della Regione, andando oltre lo stesso Sblocca Italia e ad una legge che disciplinava questi progetti nel Golfo di Venezia. Il bersaglio grosso del decreto, e dunque della mozione presentata stamattina, è proprio il ruolo delle Regioni. Fino ad oggi era previsto che, per tutti i titoli abilitativi, l’intesa tra governo e Regione venisse raggiunta in Conferenza dei servizi e poi che il decreto di conferimento del titolo fosse rilasciato previa intesa con la Regione interessata. Questi due paletti sono stati divelti dal decreto del MiSE, che vorrebbe acquisire il parere della Regione interessata solo in Conferenza dei servizi, dove però l’amministrazione siede al pari di tutte le altre e non gioca un ruolo politico.


Possono sembrare tecnicismi, ma dietro di essi si cela il bilanciamento tra poteri dello stato che regge una democrazia. Il tentativo di rendere l’energia di competenza esclusiva del governo è fallito con la bocciatura del referendum costituzionale, e ora  il decreto Calenda torna all’attacco, con l’effetto di raschiare ulteriori margini di manovra al livello locale.
In questa battaglia in punta di diritto, la mozione parlamentare è la contro-stoccata dei territori, che non ci stanno a vedersi sottrarre lo spazio di dialogo paritario con Roma. Il cammino della mozione si annuncia non facile, con la maggioranza schierata sull’altro fronte. Ma se la calendarizzazione cadesse nei dintorni della tornata di elezioni amministrative (11 giugno), potrebbe anche incidere sul voto finale.

fonte: www.rinnovabili.it

Trivelle: serve un Piano delle Aree contro la corsa alle fossili

Oltre 130 realtà sociali e più di 120 personalità promuovono un appello nazionale per dare più voce alle regioni in materia di politica energetica su infrastrutture e oil&gas
 
 













Mettere un freno alla corsa alle fonti fossili nella penisola e restituire voce alle regioni in materia di trivelle. Lo chiedono oltre 130 realtà sociali (tra associazioni ambientaliste, organizzazioni nazionali e comitati locali) e più di 120 personalità con un appello nazionale. Lo strumento è quel Piano Regionale delle Aree da sottrarre alle attività dell’oil&gas, che fu stralciato dalla legge di stabilità 2016. Una richiesta che arriva dopo l’annuncio di una prossima revisione della Strategia Energetica Nazionale da parte del ministro Calenda.

“Le cronache delle ultime settimanesi legge nell’appello – danno ulteriore conferma del fatto che nessuna delle aree del Paese tra quelle indicate nella Strategia Energetica Nazionale 2013 è risparmiata da questa irrefrenabile corsa alle fonti fossili: dal Canale di Sicilia fino alla Val Padana, transitando per la dorsale appenninica – zone terremotate incluse . Non vi è palmo del territorio della Repubblica che si possa ritenere al riparo dall’insediamento di nuove trivelle o di nuove grandi opere inutili, dispendiose ed impattanti”

Per i promotori la bocciatura del referendum costituzionale va letta anche come una presa di posizione di milioni di cittadini contro l’estromissione delle comunità locali e delle regioni dalle decisioni che riguardano i progetti “petroliferi” e le infrastrutture energetiche. Tra le modifiche costituzionali bocciate figura infatti la ripartizione delle competenze tra Stato e regioni. “La reintroduzione del Piano delle Aree e, quindi, la necessità di far partecipare attivamente le Regioni alla redazione dello strumento – continuano i firmatari dell’appello – non è solo atto politicamente ma anche costituzionalmente dovuto in quanto la materia “governo del territorio” è rimasta di competenza concorrente, unitamente a quella energetica”
 
 












Un appello rivolto alle regioni, affinché riportino il Piano delle Aree al centro del dibattito politico – anche a livello nazionale – e spingano per ripristinarlo. Il Piano dovrebbe diventare, nelle intenzioni dei promotori, lo strumento di pianificazione in grado di identificare quali aree del territorio e del mare debbano essere definitivamente e stabilmente sottratte alla disponibilità delle compagnie petrolifere. Tra gli obiettivi figurano infatti la revisione della normativa riguardante l’acquisizione dei titoli minerari, la ricerca, l’estrazione a fini produttivi, lo stoccaggio ed il trasporto di gas e di petrolio. Ma anche evitare che ogni esecutivo possa stravolgere con troppa facilità decisioni di governo del territorio prese in precedenza.
“Non bisogna dimenticare, infatti, che in una delle prime bozze dello Sblocca Italia, seguendo una logica avulsa da qualsiasi disegno programmatico, il Governo aveva previsto che potessero essere aperte alle attività estrattive persino il Golfo di Napoli, il Golfo di Salerno e l’area marina delle Isole Egadi. Nelle intenzioni dei proponenti il varo di un Piano delle Aree avrebbe dovuto costituire un argine, seppur debole, a quegli imprevedibili cambi di rotta da parte del Governo di turno”


fonte: www.rinnovabili.it

Decisione storica di Usa e Canada: divieto perpetuo di trivellazioni negli oceani

I governi di Usa e Canada hanno disposto un’interdizione sine die alle trivellazioni per l'estrazione di idrocarburi negli oceani Artico e Atlantico.












Manca un mese al giorno in cui Barack Obama varcherà per l’ultima volta la soglia della Casa Bianca, lasciando la poltrona nella stanza ovale a Donald Trump. Per questo, la decisione assunta il 20 dicembre dal presidente uscente degli Stati Uniti in materia di trivellazioni offshore alla ricerca di idrocarburi assomiglia a una sorta di testamento ambientale. La decisione è infatti storica, dal momento che introduce un divieto totale per le attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi in vaste zone degli oceani Artico e Atlantico.

Stop alle trivellazioni grazie a una legge del 1953

Obama aveva d’altra parte già annunciato, qualche mese fa, la volontà di adottare una nuova regolamentazione capace di proteggere tali aree, che in molti casi ospitano specie animali e vegetali in via di estinzione. All’epoca, però, l’attuale presidente americano aveva ipotizzato un divieto di cinque anni. La grande novità è dunque legata alla durata del provvedimento: grazie ad una legge del 1953 – l’Outer Continental Shelf Lands Act, che concede al capo di stato li potere di proteggere le acque federali dalle ricerche di gas e petrolio – è stato possibile bloccare per sempre ogni attività legata alle fonti fossili.















Ad essere interessata dalla nuova normativa è l’intera costa atlantica, da Norfolk, in Virginia, fino al Maine, alla frontiera con il Canada. Il che significa una superficie di 1,5 milioni di ettari. Allo stesso modo, la misura decisa da Obama interessa la quasi totalità delle acque dell’oceano Artico appartenenti agli Stati Uniti, ovvero oltre 46 milioni di ettari.
“Questi provvedimenti proteggeranno un ecosistema sensibile e unico, che non esiste in alcuni altro luogo del mondo”, ha spiegato Obama in un comunicato nel quale ricorda anche come tali regole preservino anche dal rischio di incidenti e fughe di idrocarburi. Una decisione analoga è stata assunta anche dal primo ministro del Canada, Justin Trudeau. “Insieme abbiamo compiuto un passo storico”, ha commentato il presidente Usa.

Rischio di ricorsi da parte dell’amministrazione Trump

Grande soddisfazione è stata manifestata anche dalle associazioni ambientaliste. Michael Brune, direttore del Sierra Club, ha spiegato che le nuove disposizioni decise dagli Usa “impediranno alle future amministrazioni di distruggere le acque e le coste”. “Vedremo se il presidente Trump, da sempre dalla parte dei petrolieri, si schiererà ora anche contro quei milioni di cittadini in tutto il mondo, e le comunità indigene dell’artico statunitense e canadese, che per la loro terra, e la nostra Terra, hanno in mente qualcosa di meglio che il catrame e la distruzione promessa dalle trivelle”, ha dichiarato Alessandro Gianni, direttore delle campagne di Greenpeace Italia.













Un rischio, in ogni caso, c’è. A ricordarlo è un precedente: negli anni Novanta l’allora presidente Bill Clinton aveva adottato una disposizione analoga, sulla base, anche in quel caso, della legge del ’53. Il suo successore, George W. Bush, aveva avviago una battaglia legale riuscendo, alla fine, a far annullare il divieto di estrazione petrolifera su una parte delle aree interessate. Non è escluso, perciò, che anche Trump decida di portare la questione di fronte alla giustizia federale.

fonte: www.lifegate.it

Petrolio, ricerche con l’airgun: ennesimo regalo alla lobby fossili?

airgun

Il petrolio non basta mai e, dopo il mancato raggiungimento del quorum al referendum trivelle, il Ministero dell’Ambiente approva nuove ricerche, stavolta con l’air gun, tecnica che prevede l’utilizzo dei cannoni ad aria compressa per prospezioni marine, e che consente di ricavare informazioni sulla stratigrafia del sottosuolo, portando a riconoscere la presenza di gas o liquidi.
Le indagini interesseranno il Mar Ionio, il Canale di Sicilia, il Golfo di Taranto, e il Sud dell’Adriatico e, stando a quanto affermato dal Governo che ha giudicato positivamente le Valutazioni di Impatto Ambientale (Via) dei procedimenti, comporteranno rischi per l’ambiente contenuti e non pericolosi. Essendo poi a 13 miglia dalla costa, tali indagini risultano appena in linea con il divieto a 12 miglia sancito dal Ministero dello Sviluppo Economico.
Quindi tutto eco-friendly? Oppure è l’ennesimo regalo alle lobby fossili? L’abbiamo chiesto alle associazioni di categoria.
Alfonso Fimiani, Presidente Circoli dell’Ambiente:
Probabilmente è troppo semplice rispondere immediatamente “Sì” ed è questo il motivo per il quale noi dei Circoli dell’Ambiente intendiamo approfondire ulteriormente il tema.Ci siamo spesi durante l’intera campagna referendaria per tentare di spiegare che il nostro Paese necessita di una completa riconversione energetica: abbiamo elaborato un Piano Energetico Nazionale che andremo a presentare di qui a breve alla Camera dei Deputati e, con l’avvento del nuovo anno, tenteremo di avviare un gruppo di lavoro per scrivere, ad integrazione, una proposta di Piano per la Mobilità Sostenibile.
Con le energie fossili alimentiamo le nostre auto, il riscaldamento dei nostri edifici e le nostre centrali che producono energia elettrica, ma l’obiettivo deve essere chiaro: ridurne il più possibile l’utilizzo.
Ad essere concreti e realisti, in un sistema di differenziazione delle fonti vi è una quota ineliminabile di fossili pari al 20-35%, ma per arrivare a quelle percentuali servono almeno quindici anni. Gli attuali provvedimenti, primo fra tutti l’ultimo Decreto Rinnovabili, di certo non agevolano tale percorso ed anzi il forte taglio agli incentivi all’idroelettrico va in direzione esattamente opposta.
La soluzione definitiva e reale rimane la riapertura della strada del nucleare: oggi paghiamo le conseguenze delle scelte scellerate del passato e fino alla costruzione delle centrali non potremo rinunciare alle nostre materie prime presenti nell’Adriatico così come nelle altre zone di terra e di mare.
Se vogliamo andare ad analizzare le tecnologie utilizzate per la ricerca, certamente l’Air Gun è meno invasiva rispetto alle tecniche che utilizzano esplosivi, ma tale aspetto appare davvero marginale rispetto al discorso complessivo.
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Maria Rapini, segretario generale di Marevivo:
Sono la negazione delle politiche che il Governo a parole dice di voler promuovere: si contraddice nei fatti la ratifica dell’accordo di Parigi, e non si capisce come verranno mantenuti gli impegni presi. Sarebbe più utile per il Paese rivedere la strategia energetica.
Si continua ad ostacolare e a penalizzare iniziative e progetti di sviluppo sostenibile. Faccio un esempio per tutti: Jonian Dolphin Conservation, start up di giovani ricercatori che studiano i cetacei del Golfo di Taranto nel Mar Ionio Settentrionale, con cui Marevivo collabora da tempo,  svolge anche attività di dolphin watching, facendo diventare ricercatori per un giorno turisti e cittadini, proprio in quella zona che sarà ora interessata dall’utilizzo dell’airgun, con tutte le conseguenze negative che possiamo immaginare.
È stato dimostrato l’impatto ambientale della tecnica dell’airgun utilizzata per la ricerca del petrolio, non solo sui mammiferi marini, ma su tutta la vita del mare. Cambiamenti nel comportamento, elevato livello di stress, indebolimento del sistema immunitario, allontanamento dall’habitat sono gli effetti legati ad esposizioni prolungate nel tempo a suoni generati dalle emissioni acustiche.
Un ulteriore dato che dovrebbe spingere ad un’inversione di rotta è quello fornito in questi giorni dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO) secondo la quale nel 2015 l’anidride carbonica in atmosfera a ha raggiunto le 400 parti per milione ed è allarme del mondo scientifico. Insomma, l’era del petrolio e dei combustibili fossili “deve essere sostituita senza indugio dalle energie rinnovabili” per citare persino Papa Francesco e l’Enciclica ‘Laudato sì’.
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Fabrizia Arduini, Presidente WWF Zona Frentana e Costa Teatina:
, ma soprattutto è un regalo che non riusciamo a comprendere, visti anche gli ultimi appelli allarmanti sui cambiamenti climatici e sullo sviluppo delle energie alternative, che promettono, tra l’altro, anche molti posti di lavoro, e che hanno un impatto sull’ambiente e sui cambiamenti climatici non preoccupanti come i combustibili fossili.
Purtroppo il mare non è un contenitore vuoto dove vi si può gettare di tutto, inclusi i veleni, come vogliamo, o un contenitore di cose da prelevare. Il mare è un organismo vivente, complesso, che garantisce la vita a questo pianeta.
L’Italia è una penisola, circondata dal mare. Le valutazioni positive sugli ultimi 6 progetti di prospezione geosismica, che tutti conosciamo con il nome di airgun e che uccide i grandi mammiferi marini come le balene, porteranno a ricerche in aree importanti per la biodiversità: due nel Mar Ionio, uno nel Canale di Sicilia, uno nel Golfo di Taranto, e altre due nel Sud dell’Adriatico.
La pratica, come dice benissimo dal fisico Maria Rita D’Orsogna, implica fortissimi spari che possono essere paragonati a un miliardo di volte il suono di un concerto rock (‘Perforazioni nel Mare Adriatico - Conferenza dibattito sugli effetti dell’industria degli idrocarburi' , N.dR.). E questo potrebbe bastare a capire i danni potenziali di questa tecnica.  

fonte: http://www.greenbiz.it

Ad Arborea, in Sardegna, dove i cittadini hanno fermato il pozzo dei Moratti

Nel 2011, la Saras Spa aveva richiesto l’autorizzazione per la costruzione di un pozzo esplorativo (Progetto Eleonora), che prevedeva la trivellazione a 2.850 metri di profondità alla ricerca di giacimenti di gas naturale. Cinque anni dopo, la battaglia legale ha riconosciuto le ragioni degli ecologisti
Un impianto della Saras Spa con sede a Sarroch in Sardegna. Dal 1962
Un impianto della Saras Spa con sede a Sarroch in Sardegna. Dal 1962

Ci sono voluti cinque anni tra mobilitazioni di cittadini, sit -in, manifestazioni e una battaglia giudiziaria, ma alla fine il Consiglio di Stato ha chiuso definitivamente le porte al Progetto Eleonora. La Saras S.p.a. infatti,  si è vista respingere prima dalla Regione Sardegna, poi dal Tar e infine dal Consiglio di Stato, il progetto esplorativo per la ricerca di gas metano nella zona di Arborea, comune di 4 mila abitanti in provincia di Oristano. A circa 350 metri dallo stagno S’Ena Arrubia, zona paesaggistica protetta da vincoli ambientali. Una storia a lieto fine grazie alla decisa mobilitazione dei cittadini. Non è bastato il richiamo all’amata giudicessa locale Eleonora d’Arborea, a convincere la popolazione dell’utilità e innocuità delle trivellazioni.
Tutto comincia a fine 2009 con un “permesso” relativo al progetto di ricerca di gas naturale nel sottosuolo -44.300 ettari nella provincia di Oristano- rilasciato alla Saras S.p.a. dalla Regione Sardegna. Studi geologici della società petrolifera -fondata dalla famiglia Moratti e presente in Sardegna dai primi anni Sessanta- avevano individuato ad Arborea 5 serbatoi sotterranei disposti a diverse profondità e contenenti tra 1 e 3 miliardi di metri cubi di gas. Nel giugno 2011 la Saras S.p.a. aveva  richiesto l’autorizzazione per la costruzione di un pozzo esplorativo chiamato Eleonora Dir 1 (poi chiamato semplicemente Eleonora), da realizzare con una trivellazione di 2.850 metri di profondità verticale, con l’obbiettivo di confermare la presenza dei giacimenti di gas naturale e la loro qualità. Secondo la società petrolifera il progetto esplorativo non avrebbe avuto nessun impatto negativo nella zona, dato che -come si legge ancora oggi nella nota dell’azienda- “la fase di esplorazione prevede solo opere temporanee della durata complessiva di circa 6 mesi, di cui circa 50 giorni di perforazione vera e propria”. Anzi, avrebbe garantito il fabbisogno energetico alla provincia di Oristano per 25 anni.
Le prime ad allarmarsi sono state alcune associazioni ecologiste che tra la fine del 2011 e i primi mesi del 2012 avevano inviato le loro perplessità alla Regione Sardegna. La preoccupazione aumenta anche da parte dei semplici cittadini, e nell’ottobre 2011 si costituisce  il Comitato No al progetto Eleonora, di cui fanno parte studenti, agricoltori, impiegati e ricercatori. Man mano che l’ipotesi delle trivellazioni si fa più concreta si aggiungono aziende, scuole, comitati e le amministrazioni comunali della zona, che iniziano a deliberare formalmente la loro contrarietà alle trivellazioni. Dopo svariati incontri, analisi di documenti, discussioni approfondite con esperti del settore, giungono a una conclusione: il progetto è incompatibile con il loro territorio.
Il sito prescelto si trova infatti a poche centinaia di metri di distanza dallo Stagno di S’Ena Arrubia, tutelato dalla Convenzione internazionale di Ramsar sulle zone umide d’importanza internazionale, e da vari vincoli paesaggistici, tra i quali quello di conservazione integrale, dal piano paesaggistico regionale, è incluso tra i siti di importanza comunitaria e zona di protezione speciale. Importante anche il contesto socioeconomico della zona. Arborea infatti è una zona a vocazione agricola dove è presente la Cooperativa Produttori Arborea, ma anche 200 aziende di allevatori, tutti soci della Cooperativa 3A Latte, che produce il 98% del latte vaccino sardo. Anche per questo la preoccupazione che le trivellazioni potessero avere gravi conseguenze sulle falde acquifere e compromettere un territorio già dichiarato “zona vulnerabile da nitrati di origine agricola” (e per questo oggetto di uno specifico programma di interventi di risanamento ambientale). Non ultimo, l’elevato rischio di incidenti ed esplosioni e la dispersione di sostanze altamente tossiche, pericolose per la salute. Tutte osservazioni che nel marzo 2013, in contemporanea con l’avvio del procedimento di valutazione di impatto ambientale,  le associazioni ecologiste e il Comitato No al progetto Eleonora inoltrano all’assessorato della Difesa dell’ambiente della Regione Sardegna, chiedendo la dichiarazione di improcedibilità.
Preoccupazioni legittime visto che a settembre 2014 il Servizio di Sostenibilità Ambientale e Valutazione Impatti Ambientali della Regione Sardegna boccia il Progetto Eleonora dichiarando improcedibile la V.I.A. ancor prima della sua conclusione a seguito del “contrasto con atti di pianificazione regionali e comunali – il piano paesaggistico regionale (Ppr) e il piano urbanistico comunale (Puc)”. La Saras però non si arrende, e pochi mesi dopo decide di ricorrere al Tar, chiedendo anche un risarcimento di 7,2 milioni di euro per le spese sostenute in studi, analisi e sondaggi. Il Tribunale Amministrativo dà ragione alla Regione Sardegna. Quando il peggio sembrava ormai scongiurato il colpo di coda della multinazionale del petrolio, che ricorre in ultima istanza al Consiglio di Stato contro la Regione Sardegna, il Comune di Arborea, il Gruppo d’intervento giuridico, la Giunta regionale, la Provincia di Oristano.
L’11 luglio scorso è stata depositata la sentenza che non ha potuto fare altro che confermare la decisione del Tar, respingendo così definitivamente il ricorso della Saras S.p.a. e mettendo la parola fine all’intera vicenda.  Secondo Stefano Deliperi del Gruppo di intervento giuridico, una delle associazioni ecologiste in prima linea contro il progetto Eleonora, la sentenza costituirà un importante precedente.
Tutti i comuni della zona individuata per le trivellazioni in questi anni sono stati molto attivi, hanno organizzato varie iniziative di informazione, soprattutto quello di Arborea, sicuramente il più direttamente coinvolto. Il piccolo comune, fondato dopo le bonifiche nel ventennio fascista, è diventato un simbolo della determinazione e della resistenza popolare. La difesa del territorio da progetti come Eleonora è stato alla base della campagna elettorale del 2015, tanto che una delle attiviste del comitato, è oggi sindaco della cittadina oristanese. Manuela Pintus, ricercatrice esperta di biotecnologie dopo aver messo a disposizione del Comitato No Eleonora le sue competenze, è diventa prima cittadina di Arborea col 45,5% dei voti. Per lei è stato fondamentale il sostegno dell’intera comunità: “Moltissime persone si sono impegnate e ognuna, nel suo piccolo, ha dato un contributo. È stata una vittoria premiata da una istruttoria portata avanti correttamente dagli uffici istituzionali competenti e da una protesta popolare ordinata e consapevole”. Lo scorso 18 agosto la sindaca di Arborea è stata premiata col Panda d’Oro del WWF per la sua attività in difesa dell’ambiente in particolare “per l’impegno contro le trivellazioni e il sostegno all’economia circolare nel territorio di Arborea”.

fonte: www.altraeconomia.it

La Zenith Energy di Scozia: richiusa e sigillata Ombrina Mare per 300mila euro




 


Ma chi e' stato a richiudere Ombrina Mare?
Cosa hanno fatto? Cosa faranno? Chi sono?
Eccoli. Si chiamano Zenith Energy e hanno la propria sede principale ad Aberdeen, in Scozia. In data 22 Agosto 2016 hanno annunciato di avere finito le operazioni di chiusura di Ombrina Mare per conto della Rockhopper Exploration.
Si chiama "plug and abandonement" - tappa e abbandona - ed alla Rockhopper Exploration e' costato 250,000 sterline, circa 300,000 euro. A causa dell'attuale crisi nel settore petrolifero il prezzo e' considerato estremamente favorevole.
L'infrastruttura che abbiamo visto parcheggiata attorno ad Ombrina per Luglio ed Agosto si chiamava
Atwood Beacon jackup drilling rig, una piattaforma mobile e temporanea che puo' essere usata a vari scopi, e che si puo' montare e smontare a piacimento. L'altra volta che vedemmo un jack up drilling rig attorno a San Vito Marina si chiamava George Galloway, ed era quella che nel 2008 venne per installare Ombrina Mare.
Il direttore delle operazioni della Zenith Energy si chiama Chris Collie ed ha annunciato che per loro si tratta di un importante passo in avanti. Era il loro primo progetto di rimozione di piattaforma ed e' stato tutto programmato ed eseguito in cinque mesi. Prima d'ora si erano solo occupati di realizzare impianti e piattaforme e non di dismetterli. Dicono di avere eseguito i lavori seguendo i piu' stretti protocolli di HSEQ - health, safety, environment, quality.
Chiudere un pozzo non e' un gioco facile. E' costoso, delicato, ci vuole personale competente. Ci sono stati pure dei morti in alcuni casi quando le cose non sono state fatte bene. In inglese le parole sono "well kill". Uccidere il pozzo.
La prima cosa che si deve fare e' di mettere quantita' sufficenti di fluidi pesanti nel pozzo in modo che gli
idrocarburi ed altri fluidi presenti nel pozzo non possano tornare in superficie, anche quando le valvole che ne
controllano l'erogazione dei fluidi dai pozzi saranno smantellate. Di solito quello che si fa e' di usare il metodo bullhead - a testa di toro. Si forzano dei fluidi (che sono piuttosto dei fanghi densi) nel pozzo fino a che gli idrocarburi e o altre formazioni (tipo acque di scarto o fluidi di perforazioni precedenti o gas) vengono respinti nel giacimento iniziale.
Questo puo' essere pericoloso perche' se uno pompa materiale troppo in fretta, o calcola male i volumi, ci
possono essere problemi con le pressioni dei tubi dei pozzo scoppi, e si puo' anche danneggiare il giacimento con l'introduzione di materiali indesiderati o innaturali.
Secondo la Zenith Energy pero' ad Omrbina e' andato tutto bene.
Sono stati poi rimossi dei cablaggi detti slickline e wireline e le valvole dette "ad albero di Natale" - cioe' i Christmas Trees. Hanno poi cementificato il pozzo in modo definitivo, tagliato e rimosso rivestimenti interne delle pareti del pozzo e smontato l'infrastruttura visibile dalla superficie del mare.
Secondo la Zenith, Ombrina era particolarmente delicata a causa delle alte concentrazoni di idrogeno solforato rimaste nel pozzo e perche' durante il bullheading potevano esserci sbalzi di pressione.
Anche qui, tutto e' andato come previsto, almeno secondo quello che dicono loro, e Ombrina e' ora
"permanentemente abbandonata". Ma la risposta vera a chi ha chiuso Ombrina Mare e' un
altra. Ombrina Mare e' stata chiusa grazie a tutti noi.
Siamo stati bravi, ma davvero. Ogni tanto ci devo fermarmi a ricredermi - 8 anni, e abbiamo vinto noi. In Italia, dove queste cose non succedono mai.
Un pozzo che siede li per otto anni, che non succhia nemmeno una goccia di petrolio, e che alla fine viene
smontato grazie a gente normale. E ci devono pure rifondere 300 mila euro!
Grazie a noi.
Ad majora.


fonte: http://dorsogna.blogspot.it

Goliat: l’elefante bianco di Eni chiuso per verifiche


L’avviamento del campo Goliat nel Mare di Barents , a 65 km di distanza dalle coste settentrionali della Norvegia, è stato salutato come un grande successo tecnologico. Tuttavia, la suggestiva pagina del sito Eni che ci racconta di questo mirabile bidone in mezzo ai ghiacci omette qualche recente novità che pare interessante.

Lo scorso 1 settembre il Ministro del Lavoro e dell’Inclusione Sociale Anniken Hauglie ha infatti convocato la potentissima e indipendente Autorità norvegese per la sicurezza delle attività petrolifere, la Petroleum Safety Autority (PSA) “dopo oltre una dozzina di incidenti che hanno coinvolto quest’anno il campo Goliat”.

Eni è da tempo ai ferri corti con i sindacati norvegesi () per questioni legate alla sicurezza a bordo di Goliat. Critiche che, tra l’altro, non risparmiano nemmeno SAIPEM, che opera nel campo Goliat con la piattaforma da trivellazione Scarabeo 8. L’incidente più grave di cui abbiamo notizia è accaduto lo scorso 25 giugno quando un operatore della Apply Sorco (una ditta subcontraente di Eni) è stato ferito alla testa durante la consegna di macchinari a bordo della piattaforma. Le condizioni dell’operatore sono state definite gravi, ma per fortuna non è mai stato in pericolo di vita.

Dai media norvegesi si apprende inoltre che a luglio alcuni Rappresentanti per la Sicurezza avrebbero scritto una lettera al management di Eni chiedendo di fermare l’impianto per le opportune verifiche: fino ad allora la PSA aveva già ricevuto in cinque mesi di attività dell’impianto “non meno di sei notifiche di perdite di gas o di rilevamenti di gas sulla piattaforma”. Oltre a questi: fumo in un generatore, dispersione di un fluido idraulico e altro ancora, compreso l’incidente al subcontractor di cui sopra. Le stesse fonti ci informano che sono ancora in corso indagini su emissioni di sostanze chimiche da Goliat e sulla caduta in mare di un lavoratore, lo scorso febbraio, dalla piattaforma di trivellazione Scarabeo 8.

Insomma, ai sindacati che chiedevano lo stop di una o due settimane di Goliat per le necessarie verifiche/migliorie, Eni avrebbe risposto che “Eni Norvegia ha preparato piani per aumentare l’efficienza operativa e la manutenzione senza alcun bisogno di fermare a lungo l’impianto”. Una risposta che non ha di certo soddisfatto i sindacati, che hanno lamentato la presenza di alcuni manager Eni “senza alcuna competenza della cultura e del regime lavorativo” norvegese.

Ma anche la PSA non deve aver dormito sonni tranquilli e così, dopo che lo scorso 27 agosto si è verificato un black out al sistema elettrico di Goliat, l’Autorità – il 29 agosto – ha chiesto a Eni di interrompere le operazioni fino al 5 settembre, ordinandogli nel frattempo “di identificare e applicare misure necessarie, dopo l’incidente del 27 agosto 2016, per giungere a conformità rispetto alla legislazione sulla salute, la sicurezza e l’ambiente”. Un piano che Eni è chiamata a presentare in queste ore, con le scadenze vincolanti per la sua applicazione.

Ma se il Ministro del Lavoro convoca la PSA, evidentemente ci dev’essere dell’altro. L’impressione è che ci sia una latente sfiducia (tra i sindacati e i politici) verso Eni o, per essere esatti, verso gli standard applicati nella costruzione di piattaforme petrolifere che, si sostiene per risparmiare, invece che in Norvegia sono costruite altrove. Ad esempio in Corea del Sud, dove (a Ulsan) è stata costruita Goliat.

fonte: http://www.lastampa.it

L’ultima compagnia petrolifera abbandona le trivellazioni offshore nell’Artico Usa

Dopo Shell, ConocoPhillips, Eni, e Iona Energy, anche Repsol se ne va al Mare dei Chukchi

Trivellazioni Repsol

La compagnia petrolifera spagnola Repsol ha deciso di rinunciare a 55  permessi di trivellazione nel Mare dei Chukchi, in Alaska e di abbandonarne anche i restanti 38 nel 2017. Il portavoce della multinazionale, Jan Sieving, ha confermato: «Repsol è in procinto di abbandonare le sue posizioni nel Mare di Chukchi, nell’offshore dell’Alaska»
La Big Oil spagnola è l’ultima ad abbandonare l’avventura offshore dl Chukchi Lease Sale nell’Artico Usa, dopo Shell, ConocoPhillips, Eni, e Iona Energy, che hanno lasciato l’Alaska dopo aver  scoperto – a caro prezzo – quello che dicono da sempre gli ambientalisti: le trivellazioni offshore non valgono la spesa e il rischio. Shell ha rinunciato dopo aver speso più di 4 miliardi di dollari in un pozzo esplorativo offshore ed aver visto naufragare la sua piattaforma petrolifera Kulluk. A parte un blocco di concessioni che Shell sta mantenendo per non perdere le informazioni acquisite dal suo fallimentare pozzo esplorativo nel 2015, le concessioni esplorative di Repsol erano le ultime rimaste nel Mare dei Chukchi.
«Il mese scorso abbiamo capito che la Shell e un sacco di altre companies avevano restituito i loro contratti di locazione – ha detto a ThinkProgress Mike Levine, consulente per il Pacifico di Oceana – Dopo otto anni, miliardi di dollari e significative controversie, il Mare dei Chukchi e tornato ad essere ripulito». Nel 2008 quelle concessioni erano costate a Repsol 15 milioni di dollari in cambio della possibilità di cercare petrolio e gas su oltre mezzo milione di acri di fondale oceanico.  Dopo il  boom degli anni ’80 e ’90, quando le multinazionali petrolifere facevano la fila per accaparrarsi gigantesche concessioni nel Mar Glaciale Artico, tutti i contratti nel mare di Chukchi, con scadenze iniziali di 10 anni, sono stati abbandonati entro il 2003. Ne sono rimasti alcuni nel vicino Mare di Beaufort, più vicino alla costa e più facilmente collegabili a infrastrutture e oleodotti. Un altro boom c’era stato nel  2003 – 2008, quando le Big Oil si divisero altri 3 milioni di acri per cercare petrolio e gas. Ma ancora una volta, secondo uno studio di Oceana, delle 487 concessioni nel Mare dei Chukchi non ne rimane attiva che una: quella di testimonianza della Shell,  mentre le concessioni attive nel Mare di Beaufort sono scese da 240 a 71 e molte delle superstiti sono vicine alla scadenza e senza progetti di trivellare. Anche Repsol ha detto che i sui contratti nel Mare di Beaufort sono oggetto di revisione e che potrebbe essere ceduti o abbandonati.
Levine sottolinea: «Sia Repsol che Shell hanno detto che stanno avviando un processo separato per perseguire l’esplorazione nel Beaufort. Resta un mistero il motivo per cui le companies si tengano ancora in mano questa roba». Infatti, per le Big Oil è sempre più chiaro che le trivellazioni offshore nell’Artico sono  una pessima idea: le piattaforme sono a rischio per gli iceberg e la banchisa e l’oscurità e le temperature estremamente basse impediscono di lavorare per gran parte dell’anno. Questo significa che costa, mentre il costo del greggio è calato rapidamente, l’estrazione di petrolio e gas dall’Artico costa miliardi di dollari  in più di quelli “convenzionali”.
Ma le trivellazioni offshore nell’Artico espongo le Big Oil  anche al rischio di una marea nera che sarebbe praticamente impossibile bonificare: nel 2011 la Guardia costiera Usa disse di non essre preparata in caso di sversamento nell’Artico e La Noaa sta ancora studiando e testando i metodi su come rispondere a un  disastro di questo tipo.
Anche l’’opposizione alle trivellazioni petrolifere nell’Artico espressa dai due maggiori candidati democratici alla presidenza Usa, Hillary Clinton e Bernie Sanders, ha sicuramente svolto un ruolo enorme nelle decisioni della Repsol e delle altre multinazionali di ritirarsi dall’Artico Usa, ma è anche grazie a questa discussione tutta politica che le Big Oil stanno cambiando rotta:  Shell ha consegnato a Nature Conservancy of Canada  30 concessioni esplorative nell’Artico orientale per consentire al governo canadese di istituire un’Area marina protetta a Lancaster Sound.
Ma se le Big Oil stanno ritirandosi dall’Artico americano, in Eurasia la musica non cambia: la Norvegia disinveste i sui ricchi fondi pensione dalle energie fossili degli altri, ma sta ancora cercando, senza successo, di trivellare petrolio offshore nell’Artico. La Russia sta procedendo nei suoi sforzi per aumentare i suoi depositi siberiani con il greggio  da trivellare dai fondali marini al largo delle sue lunghissime coste artiche, anche se partener come la Exxon hanno dovuto abbandonare dopo le sanzioni occidentali per il conflitto ucraino.
Gli ambientalisti sanno bene che potrebbe trattarsi solo di una ritirata strategica e che le Big Oil sono pronte a tornare nell’Artico se il prezzo del petrolio salirà di nuovo e per questo dicono  che è arrivato il momento  di approvare leggi e regolamenti nazionali e internazionali che impediscano la possibilità di una disastrosa area nera nell’Artico. Dan Ritzman, direttore per le operazioni artiche di Sierra Club dice che la decisione di Repsol di rinunciare a trivellare il Mare dei Chukchi, «Dimostra non solo che la trivellazione nell’Artico è troppo pericolosa per il nostro clima e il nostro ambiente, ma che le compagnie petrolifere non vogliono più nemmeno esplorare lì. Le comunità artiche e centinaia di migliaia di attivisti in tutto il Paese hanno accusato ad alta voce Shell quando ha tentato di trivellare l’anno scorso. Queste comunità e attivisti hanno continuato a chiedere di proteggere l’Oceano Artico, invitando il presidente Obama a toglierlo dal piano quinquennale per le trivellazioni offshore. E’ il momento che l’amministrazione Obama ascolti le comunità artiche, gli attivisti climatici e ambientali e le compagnie petrolifere e protegga l’Oceano Artico dalla minaccia delle trivellazioni offshore».

fonte: www.greenreport.it

Il governo condona l’IMU alle trivelle

La Corte di Cassazione aveva stabilito che le trivelle vanno assimilate a beni immobili, anche se non iscritte al catasto. Ma il governo vara la sanatoria

Il governo condona l'IMU alle trivelle 1

Sono attività produttive come le altre. Perciò, se non iscritte al catasto, le piattaforme con le trivelle andrebbero tassate in base al valore di bilancio. Così almeno aveva stabilito la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione lo scorso febbraio, condannando in via definitiva Eni al pagamento di un’ICI da circa 33 milioni di euro al Comune di Pineto, in provincia di Teramo.
La scorsa settimana, tuttavia, è arrivato l’assist del Ministero dell’Economia, che ha modificato la norma in base alle richieste di Assomineraria, in modo da condonare il debito milionario delle società petrolifere Eni ed Edison. L’associazione, infatti, tende a classificare le piattaforme come “imbullonati”, manufatti sui quali è stata tolta l’IMU dalla legge di stabilità. Tuttavia, solo le strutture mobili risponderebbero a questa definizione.
La questione «interessa attualmente nove Comuni della costa adriatica e della Sicilia che hanno emesso atti di accertamento con i quali è stato chiesto il pagamento prima dell’ICI e poi dell’IMU sulle piattaforme petrolifere», scrive il Ministero.

Il governo condona l'IMU alle trivelle 2 
Sebbene la Cassazione avesse risolto la questione dell’iscrizione al catasto con una tassazione in base al valore di bilancio, da via XX settembre hanno preferito ignorare la sentenza. Il dipartimento delle Finanze ha stabilito infatti che per applicare l’IMU c’è bisogno di uno specifico intervento normativo che disponga «il censimento delle costruzioni situate nel mare territoriale». Dunque, in barba alla Suprema Corte, arriva la sanatoria del governo, in attesa dello specifico intervento rinviato sine die.
«È chiaro che il caso di Pineto avrebbe rappresentato un pericoloso precedente per altre amministrazioni locali sul cui territorio  insistono collegamenti stabili (oleodotti e gasdotti) con le piattaforme off shoredenuncia il movimento No Triv in un comunicato – Di qui la scelta del Ministero delle Finanze che è intervenuto cambiando le regole a partita in corso. Solo per Vega A, Eni ed Edison avevano un conto di oltre 30 milioni di euro da regolare con il Comune di Scicli. Solo Edison ne aveva un secondo da 9 milioni con il Comune di Porto Sant’Elpidio e un terzo da 11 milioni con quello di Termoli. Con il condono voluto dal Governo, di tutto questo è stato fatto tabula rasa».
Le piattaforme che dovrebbero pagare l’IMU sono 119, più 8 di supporto e altrettante non operative. Complessivamente, farebbero confluire nelle casse dello Stato circa 100-200 milioni di euro l’anno.

fonte: www.rinnovabili.it

Impatti ambientali e sanitari delle trivellazioni per terra e per mare




VINCENZO MIGALEDDU, FERDINANDO LAGHI, AGOSTINO DI CIAULA,
CARLO ROMAGNOLI, PATRIZIA GENTILINI


Introduzione

Il petrolio è una miscela naturale di idrocarburi che può presentarsi,
in giacimenti sotterranei, alla stato solido, simil–solido, liquido o
gassoso.
La gravità specifica della miscela liquida –cioè la sua densità rispetto
a quella dell’acqua, alla temperatura di 15,5°C– ne caratterizza il
cosiddetto grado API (acronimo derivante da American Petroleum
Institute, il principale ente professionale USA nel campo chimico e
petrolchimico), che è l’unità di misura internazionale di pesantezza o
leggerezza del greggio. Tanto più il greggio è leggero, tanto maggiore
è la sua qualità.
La perforazione dei pozzi avviene attraverso uno scalpello rotante,
collegato ad una piastra rotante e spinto da aste cave all’interno delle
quali circolano i fluidi di perforazione. Mentre il pozzo progredisce in
profondità, viene rivestito da tubazioni telescopiche di diversi diametri
— da 75 cm, a scalare, fino a 1520 cm —, cementate fra loro e alle
pareti rocciose del foro. Al suo interno viene collocato il tubo di
produzione. La sempre maggiore profondità dei pozzi, ha richiesto
nuove tecnologie di perforazione, che sono risultate più costose, più
impattanti e non prive di criticità ambientali e sanitarie.
I fluidi di perforazione (drilling fluids), di cui spesso non si conosce
quali composti e sostanze chimiche contengano, sono immessi in
un circuito idraulico e spinti nuovamente verso il fondo del pozzo,

dopo esser risaliti in superficie e dopo essere stati filtrati, o vagliati,
dai detriti di perforazione. La perforazione di un pozzo può avvenire
sulla terra ferma (onshore) o in mare (offshore); gli impatti ambientali e
sanitari, conseguentemente, saranno di diversa natura e graveranno
in maniera differente in questi differenti contesti.
Da alcuni anni i pozzi tradizionali, verticali, sono stati sostituiti da
perforazioni non convenzionali, direzionali (oblique, orizzontali —
singole e multiple). La perforazione idraulica (hydraulic frackturing/
fracking) delle rocce viene utilizzata per massimizzare la produzione
di gas, petrolio e risorse geotermiche incarcerate in piccole riserve,
nei sedimenti geologici frantumati dalla forte pressione dei liquidi
iniettati nei pozzi.
In ogni caso, i possibili inquinamenti dell’aria, del suolo, delle falde
acquifere di superfice e di profondità, del mare e delle coste, possono
avvenire per:
a) emissioni in aria;
b) spandimenti di scarti di perforazione e/o produzione (fanghi,
detriti, acque di scarto);
c) esplosioni, blowout (emissioni incontrollate);
d) incendi;
e) perdite dai pozzi;
f ) perdite dai serbatoi;
g) perdite dalle condotte sottomarine o di superfice;
h) perdite dai mezzi di trasporto (navi, autocisterne, etc.) (1).


Trivellazioni in mare (offshore)

Prospezione

I danni all’ambiente marino e ai suoi ecosistemi possono avvenire
già nella fase esplorativa. Tra i metodi di prospezione geo–fisica dei
fondali marini, viene proposto prevalentemente la tecnica dell’air gun.
Tale sistema funziona con un compressore, solitamente posto su un
battello, che dopo aver compresso l’aria tramite un tubo, la immette
nell’air gun. Una volta iniettata in una camera stagna immersa nell’acqua,
raggiunta la pressione richiesta, l’aria viene espulsa velocemente,
generando una bolla al di sotto della superficie dell’acqua: l’espansione
improvvisa produce un’onda di compressione nel mezzo liquido. A
livello del fondo marino si produce una riflessione e una vibrazione,
utili per valutare la presenza di giacimenti di idrocarburi (2). L’esplosione
di un air gun produce rumore, con un pressione sonora fino 235
db, che aumenta allorché più air gun sono disposti in batteria. Questi
valori possono recare danni alla fauna marina ed in particolare ai cetacei
(35).

Produzione

Impatti ambientali. In una prima fase, l’inquinamento dell’ambiente
marino interessa prevalentemente la colonna d’acqua di mare sottostate
la piattaforma di estrazione. Gli idrocarburi a catena pesante
tendono a depositarsi sul fondo, mentre quelli a catena leggera galleggiano  in superficie ed evaporano. Gli impatti possono essere differenti, in relazione all’entità e alla tipologia dello sversamento a mare (spandimenti di scarti di perforazione e produzione, esplosioni, blowout, incendi, perdite da pozzi e serbatoi, condotte sottomarine o di superficie
e mezzi di trasporto). In assenza di incidenti rilevanti, è interessante
quanto riportato in un recente rapporto di Greenpeace, relativo alle
attività estrattive in Adriatico (34 piattaforme, sulle 130 piattaforme
offshore attive in Italia), esaminate dal 2012 al 2014. Tra i composti che
superano con maggiore frequenza i valori definiti dagli Standard di
Qualità Ambientale (o SQA, definiti nel DM 56/2009 e 260/2010), rilevati
nei sedimenti prossimi alle piattaforme, troviamo metalli pesanti,
quali cromo, nichel, piombo (e talvolta anche mercurio, cadmio e arsenico).
Inoltre, sono risultati rilevabili anche idrocarburi policiclici aromatici
(IPA), come fluorantene, benzo[b]fluorantene, benzo[k]fluorantene,
benzo[a]pirene e altri, variamente associati. Alcune tra queste sostanze
sono cancerogene e in grado di risalire la catena alimentare attraverso
la bio–magnificazione, raggiungendo così l’uomo in concertazioni
elevate, tali da causare seri danni all’organismo.
La relazione tra l’impatto dell’attività delle piattaforme e la catena
alimentare emerge ancora più chiaramente dall’analisi dei tessuti dei
mitili prelevati presso le piattaforme stesse. Gli inquinanti monitorati,
in riferimento agli SQA identificati per questi organismi (appartenenti
alla specie Mytilus galloproncialis), sono tre: mercurio, esaclorobenzene
ed esaclorobutadiene. Di queste tre sostanze, solo il mercurio viene
abitualmente misurato nei mitili nel corso dei monitoraggi ambientali.
I risultati mostrano che circa l’86% del totale dei campioni analizzati
nel corso del triennio 20122014 superava il limite di concentrazione
di mercurio indicato dagli SQA (6).

Esposizione lavorativa: nella valutazione dei rischi sanitari, per i lavoratori
delle piattaforme vengono presi in considerazione diversi fattori,
in relazione all’epoca di svolgimento dell’attività estrattiva. Infatti, in
alcuni studi si mette in evidenza la maggiore complessità di estrazione
dei giacimenti più recenti di petrolio e gas, “difficili” a causa della loro
posizione remota (regioni artiche, distanze notevoli dalle coste), per
la loro eccessiva profondità –sia in mare che sotto la crosta terreste–,
per l’elevata quantità di idrogeno solforato (H2S). Questi fattori richiedono
un maggiore sforzo per raggiungere elevati livelli di sicurezza
impiantistica e gestionale. L’esempio delle sabbie bituminose canadesi
è esplicativo della maggiore complessità impiantistica necessaria per
ottenere un prodotto commerciale (7).
Tra le esposizioni studiate dal 1970 al 2005, vengono riportati 18
agenti cancerogeni, tra certi e sospetti, tra cui il benzene, le fibre d’asbesto
e di ceramica refrattaria, la formaldeide, il tetracloroetilene, oli minerali
misti, vapori e particolato respirabile (8). Tra le esposizioni più recenti
troviamo anche l’H2S e la conferma dei comuni agenti chimici descritti
in precedenza. Nè vengono trascurati, nell’ambito dei rischi per la
salute, l’esposizione ai rumori, ad agenti biologici ed a condizioni di
stress da lavoro per mancato rispetto dei principi ergonomici (7).
Recentemente è stato pubblicato uno studio riguardante l’incidenza
tumorale su un’ampia coorte—41.140 addetti– di lavoratori norvegesi,
divisi per sesso, impiegati sulle piattaforme petrolifere. È stato rilevato
un rapporto standardizzato di incidenza (SIR) di 1.17 (95% CI 1.021.34),
rispetto agli attesi, per tutti i tumori in entrambi i sessi. Tra le donne
è risultata elevata l’incidenza per la leucemia mieloide acuta (SIR 5.29,
95% CI 1.7212), per il melanoma maligno (SIR 2.13, 95% CI 1.413.08) e
per il tumore del polmone (SIR 1.69, 95% CI 1.032.61). Tra i maschi, il
numero totale di tutti i tumori è risultato solo lievemente superiore
agli attesi (SIR 1.03, 95% CI 0.991.08), ma non per i tumori della pleura
(SIR 2.56, 95% CI 1.583.91) e della vescica (SIR 1.25, 95% CI 1.051.49)
che, invece, hanno mostrato un notevole incremento (9).
Trivellazioni in Terra (onshore). In questo paragrafo vengono riassunti non soltanto gli impatti ambientali e sanitari delle trivellazioni
non convenzionali –per profondità e/o direzione, e non solo– per la
ricerca di idrocarburi liquidi o gassosi, ma anche quelli per la ricerca
di risorse geotermiche di profondità (oltre i 2.000 metri).


Trivellazioni e rischi sanitari da emissioni

In questo ambito, uno dei risultati inaspettati è il rilievo di un rischio
sanitario da emissioni in impianti di perforazione direzionale o di fratturazione idraulica. A tal proposito, infatti, sono stati stimati i rischi
sanitari per l’esposizione alle emissioni in atmosfera derivanti da un
progetto di trivellazione di un pozzo per ricerca di gas naturale in
una località del Colorado, con l’obiettivo di migliorare la prevenzione
primaria, con la valutazione dell’impatto sanitario di tale attività. Sono
stati valutati, secondo le linee guida dell’EPA (Agenzia americana per
l’ambiente), gli indici di pericolo per le patologie croniche e sub croniche
non tumorali e il rischio per tumore nelle popolazioni residenti
entro mezzo miglio e oltre mezzo miglio dal pozzo. Lo studio dimostra che
i residenti entro mezzo miglio dal pozzo hanno un rischio sanitario
superiore a chi vive a distanza maggiore. Le esposizioni sub croniche
all’inquinamento atmosferico, durante le attività di completamento
del pozzo, si sono dimostrate nello studio il fattore di rischio più
elevato.
L’indice di pericolo sub cronico non tumorale (HI), di 5, nei residenti
entro le cinque miglia dal pozzo, è stato attribuito principalmente all’esposizione al trimetilbenzene, allo xilene e agli idrocarburi alifatici.
L’indice di pericolo cronico è stato valutato di 1 e di 0,4, rispettivamente,
nei residenti entro e oltre il mezzo miglio dal pozzo. Il rischio cumulativo
per cancro è risultato di 10 e di 6 su un milione, rispettivamente
nei residenti entro e oltre il mezzo miglio dal pozzo; il benzene è stato
identificato come il maggiore determinante del rischio. Il lavoro indica
come una analisi del rischio, con l’impiego degli indici di pericolo, sia
necessaria alla prevenzione di rischi sanitari; è evidente che alla luce
di tali dati, il presupposto che un pozzo esplorativo non abbia impatto
sanitario, viene a cadere non solo per il lavoratori ma anche per la
popolazione che vive nei pressi del pozzo (10).

Emissione di H2S
Spesso, negli studi di impatto ambientale relativi a pozzi per la ricerca
di idrocarburi solidi o gassosi –ma anche per ricerca di risorse geotermiche–, il problema dell’H2S non viene affrontato o è sottovalutato sul piano dell’adozione di adeguate misure di protezione. Questo è ancor
più vero per i pozzi che riguardano la ricerca di risorse geotermiche
che vengono fatte passare come innocue e senza impatti sul piano
ambientale e sanitario. Eppure sul sito ENI Scuola possiamo leggere:
L’energia geotermica viene di solito considerata un’energia pulita. La sua
produzione in teoria non dovrebbe infatti produrre polveri o sostanze tossiche
che vengono poi immesse nell’atmosfera e non vi dovrebbero essere
rifiuti tossici da smaltire: l’unico sottoprodotto del processo energetico sono
i pennacchi bianchi delle nuvole di vapore acqueo che si liberano dalle torri
di raffreddamento. Tuttavia, purtroppo, le cose in natura non sono così
semplici e “pulite”. Le acque che circolano nel sottosuolo raramente sono
acque dolci: nella maggior parte dei casi si tratta di soluzioni saline altamente
concentrate, spesso contenenti sostanze fortemente inquinanti e tossiche. Il
vapore acqueo è in genere associato ad altri gas, come H2S e CO2, mentre
nelle acque sono spesso presenti metalli pesanti o arsenico. Questa caratteristica,
tra le altre cose, impedisce un uso diretto delle acque geotermiche:
a causa delle caratteristiche chimiche combinate con le elevate temperature,
queste acque sono fortemente aggressive e corrodono rapidamente
le tubature e le attrezzature con cui vengono a contatto, per cui si rende
necessario l’utilizzo di materiali speciali. Acque con queste caratteristiche,
ovviamente, non possono nemmeno venire a diretto contatto con suoli e
prodotti agricoli, animali o cibi e il loro uso deve necessariamente essere
interdetto (11).
È, dunque, la stessa ENI a smentire l’innocuità delle emissioni di
H2S e CO2 delle acque geotermiche. La perforazione del sottosuolo fino
ad una profondità di 2.0003.000 metri, per ricerche geotermiche o
di idrocarburi liquidi o gassosi, non può non porsi i problema dell’H2S.
A tal proposito, va ricordato come evidenze scientifiche riportino per
esposizione cronica, già per basse concentrazioni, comprese tra 0,0057
e 0,01 ppm, disturbi, quali bruciori agli occhi e al naso, tosse, mal
di testa, disturbi neuro–psicologici, ritardi verbali, deficit motori di
coordinazione ad occhi chiusi, riduzione della presa manuale e del
riconoscimento cromatico (1216 ). Alla luce di tali prove, il Governo
Federale USA ha stabilito un limite soglia di 0.001 ppm con valore minimo nello stato del Massachusetts di 0.00065 ppm (17, 18). In esposizione acuta, come può accadere in presenza di incidenti, con valori compresi tra i
300 e fino a 1.000 ppm, si può avere edema polmonare, intossicazione
acuta, danni al sistema nervoso, collasso, paralisi, morte immediata
(19).

Radon
Nella fase di cantiere, nella fase di perforazione del pozzo e nella fase
di prova e di produzione, non vengono mai presi in esame emissioni
come il trimetilbenzene, lo xilene, gli idrocarburi alifatici e il benzene,
né, tanto meno, vengono presi in considerazione il particolato fine e
ultrafine (PM 2,5, PM 0,1), le nanoparticelle e il Radon. Le nanopolveri
possono essere responsabili di patologie respiratorie come bronchiti,
asma, enfisema polmonare e tumori. Le polveri più sottili sono in
grado di penetrare all’interno della struttura cellulare e modificarne
la composizione. Il Radon 222 è un gas radioattivo espressione del
decadimento della catena dell’Uranio 238/235 e Radio. La principale
fonte di questo gas risulta essere il terreno con elevate concentrazioni
in particolari reservoir sotterranei. È cancerogeno (gruppo 1 IARC)
se inalato, in quanto emettitore di particelle alfa (20). La normativa
statale fa riferimento al Decreto legislativo 26/05/00 n. 241 dove si è
fissato un livello di 500 Bq/metro cubo.
È perciò evidente come il Radon ponga un problema di emissioni
in atmosfera e diffusivo nell’acqua (quindi delle falde eventualmente
intercettate).
Una particolare attenzione va posta al trattamento dei fanghi che
risulterebbero dei TENORM (Technologically Enhanced Naturally
Occuring Radioactive Materials), cioè rifiuti che in seguito alla lavorazione vedono incrementare la concentrazione di uranio 238/235
da dove origina in Radon. (20). Spesso si ignora il regime normativo
USA, ma soprattutto Comunitario e quello statale italiano. Infatti,
come noto, le attività di perforazione possono produrre materiale
contenente elementi radioattivi che devono essere debitamente classificati, stoccati e messi in assoluta sicurezza per essere smaltiti. L’EPA definisce come NORM (Naturally Occuring Radioactive Materials) i
materiali che contengono radionuclidi naturali quali il 40K ed i membri
delle tre famiglie radioattive naturali, dell’238U, dell’235U e del 232Th in
concentrazioni superiori alla media della crosta terrestre; essi sono
responsabili dell’86% dell’esposizione a cui è soggetto l’uomo. L’acronimo TENORM (Technologically Enhanced NORM) si riferisce,
invece, ad un materiale che, a differenza del NORM, vede una concentrazione di radionuclidi naturali aumentata a causa della tecnologia del processo di lavorazione subita dalla materia prima.
Che si tratti di evidenze scientifiche ben consolidate, lo dimostra
la presenza di un riferimento legislativo anche nel sistema normativo
della Repubblica Italiana (vedi il D. Lgs n°241 del 26/05/2000 “Attuazione
della Direttiva 96/29/EURATOM in materia di protezione sanitaria della
popolazione e dei lavoratori contro i rischi derivanti dalle radiazioni ionizzanti”,
G.U. n. 203 del 31 agosto 2000–Supplemento Ordinario n.140) che
individua tra le attività che producono TENORM e che richiedono
un controllo: le attività industriali che utilizzano minerali fosfatici e i
depositi per il commercio all’ingrosso dei fertilizzanti; la lavorazione
di minerali nella estrazione di stagno, di ferro niobio da pirocloro e di
alluminio da bauxite; la lavorazione di sabbie zirconifere e la produzione
di materiali refrattari; la lavorazione di terre rare; la lavorazione e
l’impiego di composti del torio (elettrodi per saldatura, produzione di
lenti, reticelle per lampade a gas); l’estrazione e la raffinazione di petrolio
e l’estrazione di gas.
Tali norme sono state confermate e attualizzate dalla Direttiva
2013/59/EURATOM del 5 dicembre 2013. In tale direttiva, alla SEZIONE
2 “Controllo regolamentare”, l’articolo 23 riguarda l’individuazione
di pratiche che comportano l’impiego di materiali contenenti
radionuclidi presenti in natura:
Gli Stati membri garantiscono l’individuazione di classi o tipi di pratiche
che comportano l’impiego di materiali contenenti radionuclidi presenti in
natura e che determinano un livello di esposizione dei lavoratori o individui
della popolazione non trascurabile dal punto di vista della radioprotezione.
L’individuazione è effettuata con i mezzi appropriati, tenendo conto dei
settori industriali elencati nell’allegato VI.
La dispersione di radioisotopi nell’ambiente, in seguito a eventi
naturali, a situazioni incidentali o a carenze di controllo può esporre la
popolazione a dosi da irraggiamento esterno (contatto) e da irraggiamento interno (ingestione e inalazione) con esposizioni che possono protrarsi anche per lunghi periodi e che vanno ad aggiungersi a quelle medie naturali. I radioisotopi dispersi nell’ambiente possono subire il fenomeno della bio–magnificazione entrando nelle catene biologiche e
quindi subire processi che possono portarli ad accumularsi in alcune
sostanze destinate all’alimentazione animale e umana, dando luogo così a
condizioni di rischio particolari. Sugli effetti deterministici e stocastici
sugli esseri viventi e in particolare sugli esseri umani, si rimanda ad
una letteratura più che consolidata.

Fluidi di perforazione e rischi sanitari
L’impiego di fluidi di perforazione a base di acqua può apparire rassicurante.
A tali fluidi vengono, per altro, addizionati altri materiali,
per migliorare le capacità di trasporto e di appesantimento e vengono
inoltre aggiunti additivi chimici per controllare la loro capacità
di fluidificazione, variandone la viscosità. Tra le sostanze chimiche
additive vengono anche impiegate antischiumogeni, lubrificanti e anticorrosivi.
Durante le perforazioni possono essere impiegati fluidi
di perforazione con caratteristiche differenti, in relazione alle diverse
condizioni di perforazione che si possono verificare nell’avanzamento
del pozzo. I composti per formare i fluidi di perforazione miscelati
in diverse proporzioni, a seconda delle varie fasi della perforazione,
sono: la soda ash, il visco xc 84, avasil ft, il cloruro di potassio, la barite,
il visco 83 xlv, l’avapolymer 5050, mica c/f, granular m, granular f, avacid
50, intasol, avagreenlube, avatensio lt, de block s lt. Questi composti chimici
agiscono, come detto, con funzioni diverse (riduttori di filtrato,
viscosizzanti, biocida, intasanti, antipresa, lubrificanti, stabilizzatori di
argille, antischiuma).
Per la pericolosità di questi prodotti utilizzati nelle attività di estrazione
petrolifera, si fa spesso riferimento al Offshore Chemical Notification
Scheme (OCNS) dove essi vengono classificati tra i meno pericolosi
(E), ma dove non viene certificata l’assenza di pericolosità né, tanto
meno, la loro innocuità. In letteratura, invece, è stata recentemente
riportata la pericolosità relativa all’impiego di tali liquidi di perforazione,
legata all’impatto sulla qualità delle acque profonde e superficiali,
nonché la possibile tossicità dei liquidi e dei fanghi in risalita (2124). In
particolare, si fa riferimento, per quanto riguarda i liquidi di perforazione,
alla assenza del numero CAS (Chemical Abstracts Service) che
ne identifica i componenti — presenti nelle miscele di vari prodotti —
e i loro corrispondenti effetti sulla salute (22).
La soda ASH può avere un’azione acuta irritante su pelle, congiuntiva
e mucosa dell’apparato respiratorio e digerente; un’azione cronica
può determinare danni agli organi bersaglio. La barite nelle monografie
IARC (25) può essere cancerogena (gruppo 1) se inalata. Spesso,
negli studi di impatto ambientale, non viene fatto nessun riferimento
a questo possibile fattore critico durante le fasi di lavorazione e di
trasporto. Si fa semplicemente cenno al contenimento della barite in
un silos: . . . nelle vicinanze della vasca di stoccaggio delle acque industriali,
sarà predisposta una soletta in calcestruzzo per la dislocazione dei silos
contenenti la barite necessaria ad appesantire opportunamente il fluido di
perforazione.
In letteratura su 994 prodotti usati come liquidi di perforazione,
ben 353 sostanze, identificate con il corrispettivo numero CAS, hanno
effetti sulla salute. In particolare, più del 75% delle sostanze chimiche
hanno effetti sulla pelle, sulle congiuntive, sugli organi di senso e
sulle mucose dell’appartato respiratorio e gastro–intestinale; il 4050%
hanno effetti sul sistema nervoso centrale e periferico, il sistema immunitario,
cardiovascolare e urinario; il 37 % hanno effetti sul sistema
endocrino; il 25% può avere una azione geno–tossica e cancerogena
(24).
L’Unione Europea ha selezionato 564 sostanze sospettate di essere
interferenti endocrini: di queste, 147 possono essere persistenti nell’ambiente o prodotte in grandi volumi; 66 è provato che possano agire come interferenti endocrini (categoria 1), mentre di 52 c’è solo qualche prova che siano potenziali interferenti endocrini (categoria 2).
Fonte Ministero dell’Ambiente: Gli interferenti endocrini, secondo il
Regolamento REACH, appartengono alla categoria delle sostanze individuate
come “estremamente preoccupanti”, per le quali è previsto l’obbligo di
autorizzazione.
Per sostanze estremamente preoccupanti si intendono, ai sensi dell’art.
57 del Regolamento, le sostanze classificate come cancerogene,
mutagene e tossiche per la riproduzione (CMR), le sostanze identificate
come persistenti, bioaccumulabili e tossiche (PBT), quelle identificate
come molto persistenti e molto bioaccumulabili (vPvB) ed infine le
sostanze aventi proprietà che perturbano il sistema endocrino, per le
quali è scientificamente comprovata la probabilità di effetti gravi per
Impatti ambientali e sanitari delle trivellazioni per terra e per mare 167
la salute umana o per l’ambiente e che danno adito ad un livello di
preoccupazione equivalente a quella delle altre sostanze”.
Anche se a tutt’oggi i criteri per classificare queste sostanze non
sono stati ancora stabiliti e mancano strategie condivise a livello internazionale, per quanto concerne i test di valutazione, alcune sostanze, riconosciute come interferenti endocrini, sono comunque già oggetto di restrizioni e/o limitazioni a livello europeo, in relazione alle
loro proprietà di persistenza e bioaccumulo, e quindi sottoposte agli
obblighi di autorizzazione previsti per le sostanze PBT e vPvB.


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fonte: www.isde.it