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Clima, dobbiamo ridurre le emissioni cinque volte più in fretta

Gli anni ’20 saranno cruciali per trasformare l'economia mondiale e dimezzare le emissioni, spiega PwC, annunciando la sostituzione del suo Low Carbon Economy Index con il Net Zero Economy Index










La decarbonizzazione globale è stata solo del 2,4% nel 2019, molto al di sotto del tasso necessario per raggiungere la neutralità climatica delle attività umane. Ciò vuol dire che raggiungere l’obiettivo dell’accordo di Parigi di limitare il riscaldamento a 1,5°C con uno zero netto di emissioni richiederà ora un’accelerazione di quasi cinque volte della decarbonizzazione globale, a partire da ora.

Sottolineando questo contesto, il gigante della consulenza PwC ha annunciato che da quest’anno sostituirà il suo vecchio Low Carbon Economy Index con il nuovo Net Zero Economy Index, concentrato sulle emissioni nocive del settore energia. Come dire: gli approcci troppo graduali non bastano più, bisogna guardare oltre.

Nonostante il previsto calo delle emissioni globali dovuto alla pandemia, infatti, il 2020 è ancora destinato a essere un altro anno da record per l’aumento della temperatura media globale.

Lo spostamento dell’accento, almeno a livello narrativo, dalla riduzione delle emissioni a un loro azzeramento netto, vuole essere da parte di PwC un riconoscimento più esplicito dell’obiettivo finale che le imprese e la società nel suo insieme devono raggiungere, e della crescente attenzione che imprese, governi e investitori stanno affermando di porre verso lo zero netto delle emissioni.

Gli anni ‘20 saranno fondamentali per determinare se riusciremo a piegare la curva delle emissioni abbastanza velocemente, indica PwC nel suo rapporto Net Zero Economy Index 2020: The Pivotal Decade.

“Abbiamo poco più di due cicli economici per trasformare ogni settore dell’economia mondiale e dimezzare le emissioni globali. In parole povere, siamo nel decennio cruciale”, ha detto Celine Herweijer, partner di PwC nel regno Unito e responsabile della società per i cambiamenti climatici globali, in una nota.



Sebbene la risposta globale alla pandemia abbia portato a un brusco calo delle emissioni globali nel 2020, i dati mostrano un rapido rimbalzo delle emissioni con l’apertura delle economie e delle società. Un ritorno alle emissioni “business as usual” dopo la pandemia, tuttavia, non è un’opzione possibile, dice PwC nel suo rapporto.

Il raggiungimento del necessario tasso di decarbonizzazione globale dell’11,7% all’anno in questo decennio richiederà la trasformazione di ogni settore dell’economia globale, un’innovazione senza precedenti e una leadership responsabile, secondo la società. Per mantenere il riscaldamento a 2°C sarebbe necessario, comunque, un tasso di decarbonizzazione del 7,7% l’anno – mai raggiunto finora.

Il Pil globale è cresciuto del 2,9% l’anno scorso, con i tassi di espansione più elevati in Cina, India e Indonesia. Queste economie emergenti, assieme alla crescita economica, hanno registrato però anche alcuni dei più alti tassi di crescita delle emissioni legate all’energia, dice PwC.

Se da un lato è necessario che le economie sviluppate, che hanno contribuito maggiormente alle emissioni storiche, intraprendano azioni più incisive, dall’altro è chiaro che le economie emergenti svolgono un ruolo critico nella transizione energetica, nota PwC. I progressi nel disaccoppiare la crescita delle emissioni dalla crescita economica sono rimasti troppo lenti, ha aggiunto.

Nonostante lo sviluppo delle energie rinnovabili, i combustibili fossili continuano a dominare a livello aggregato. Il 57% dell’aumento globale dei consumi energetici è stato soddisfatto solo dal gas naturale e dal petrolio, entrambi in costante crescita rispetto all’anno precedente, nota la società di consulenza.

L’analisi di PwC indica che il consumo di carbone è diminuito per la prima volta dal 2016, in gran parte a causa del passaggio dal carbone al gas nei paesi dell’OCSE. Tuttavia, ciò è stato parzialmente compensato da un’espansione del carbone in Cina e in India, che insieme hanno rappresentato il 64% del consumo globale di carbone. Nonostante i tassi di crescita record del fotovoltaico (23,8%) e dell’eolico (12,1%), le energie rinnovabili hanno rappresentato solo l’11% del consumo globale di energia l’anno scorso.

Spetterà ai paesi che hanno contribuito maggiormente alle emissioni storiche decarbonizzarsi più velocemente e incisivamente; e alle economie emergenti con emissioni in rapido aumento di cogliere le opportunità di transizione con la massima rapidità possibile dal punto di vista economico e tecnologico, secondo PwC.

L’Indice Net Zero Economy di PwC traccia il tasso di transizione dell’economia in ciascuna delle economie del G20 attraverso le emissioni di CO2 legate all’energia.



All’interno del G20, Germania, Corea, Stati Uniti e Regno Unito hanno raggiunto i più alti tassi di riduzione delle emissioni rispetto alla loro crescita economica. L’Italia si ritrova più o meno a metà classifica, con un tasso di decarbonizzazione del 3,5%, inferiore alla media del G7, che è pari al 4,3%.

Tuttavia, tutti questi tassi di decarbonizzazione sono molto inferiori a quelli necessari per limitare il riscaldamento a 1,5°C, fa notare PwC. Anche il tasso della Germania dovrebbe quasi raddoppiare per essere coerente con una traiettoria verso gli 1,5°C. All’altra estremità, il Sudafrica e l’Indonesia hanno registrato un aumento dell’intensità di carbonio per il secondo anno consecutivo.

In altre parole, anche i paesi con il più alto tasso di cambiamento nel 2019 devono raddoppiare i loro sforzi rispetto agli attuali tassi di decarbonizzazione, mentre quelli con il tasso di miglioramento più lento potrebbero dover accelerare di 10 volte.

Il 2020 doveva essere un anno ambizioso per il clima, con una cruciale riunione COP26 nel Regno Unito, in programma per accelerare la “corsa verso lo zero netto”. Ma la crisi da Covid-19 ha messo i bastoni fra le ruote anche a quella che poteva essere una nuova pietra miliare politica per le sorti del clima. La riunione è stata spostata al novembre 2021

Ma non tutto il male, forse, viene per nuocere. La crisi è servita da duro monito circa la fragilità dei sistemi su cui sono costruite le nostre economie e società, ed ha esposto le nostre vulnerabilità non solo alle pandemie globali, ma anche ad altri shock sistemici globali, tra cui, appunto, il cambiamento climatico, secondo PwC.

L’azione per il clima riuscirà ad emergere con maggiore forza dalla crisi?

Secondo la società, in risposta agli eventi del 2020, si è assistito a un’accelerazione dell’azione sul clima nel settore pubblico e privato. Molti paesi si sono fatti avanti con obiettivi più coraggiosi e si sono impegnati a fare del clima e dell’ambiente i pilastri dei loro pacchetti di stimolo contro il COVID-19.

Con il nuovo presidente Usa Joe Biden in carica, Stati Uniti, Cina, Ue, Giappone e Corea del Sud – che rappresentano due terzi dell’economia mondiale e oltre il 50% delle emissioni globali di gas serra – si sono impegnati allo zero emissioni entro la metà del secolo, o entro il 2060 nel caso della Cina. Centinaia di aziende globali si sono prefissate obiettivi analoghi.

Se questo decennio deve essere cruciale per il cambiamento climatico, dagli obiettivi bisogna passare all’azione, e rapidamente, indica PwC. I governi devono trasformare le proprie aspirazioni in chiare tabelle di marcia, con strumenti abilitanti che consentano di realizzare un cambiamento strutturale in tutti i settori dell’economia. Le pressioni per agire cresceranno. Le imprese dovranno reagire rapidamente, trasformando le loro strategie, le operazioni e le catene di fornitura il più presto possibile, e gli investitori dovranno incorporare lo zero netto nella loro gestione del rischio e nell’allocazione del portafoglio.

Il livello di azione collettiva che emergerà all’inizio di questo decennio determinerà se gli anni ’20 segneranno il punto di svolta sulla strada verso lo zero netto, ha concluso PwC.

fonte: www.qualenergia.it


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L’idrogeno attirerà investimenti per 400 miliardi di dollari fino al 2035

La stima è di Rystad Energy. Ma vediamo cosa si nasconde dietro i numeri, tra opportunità e incognite, anche secondo altri analisti.




Nelle ultime settimane si è aperta la gara a chi investirà di più nell’idrogeno, soprattutto quello “verde”, vale a dire quel vettore prodotto con elettricità 100% rinnovabile.

C’è la strategia Ue che prevede 40 GW di elettrolizzatori al 2030; ci sono i piani annunciati da vari Paesi, tra cui Germania, Francia, Spagna e anche l’Italia punta a essere della partita; ci sono progetti e iniziative avviati da utility e grandi consorzi industriali, ad esempio in Olanda per creare una “Hydrogen Valley” con elettrolizzatori alimentati da parchi eolici offshore.

Anche le lobby europee delle rinnovabili si sono mosse: Wind Europe e Solar Power Europe hanno appena lanciato una nuova coalizione che ambisce a far decollare la produzione europea dell’idrogeno pulito.

Così stanno girando numeri da capogiro sui potenziali dell’idrogeno a zero emissioni e sull’entità dei futuri investimenti, tenendo conto che l’idrogeno sta assurgendo a pilastro del Green Deal europeo volto ad azzerare le emissioni di anidride carbonica entro metà secolo.

Secondo Rystad Energy, la nuova filiera dell’idrogeno comporterà investimenti per 400 miliardi di dollari da qui al 2035 su scala globale.

La fetta più ampia della torta – si veda il grafico sotto – arriverà dai progetti per sviluppare tutte le infrastrutture e i sistemi di trasporto dell’idrogeno: si parla di 130 miliardi di dollari.



A seguire, scrive Rystad in una nota, ci saranno gli investimenti per la costruzione degli impianti (facility construction), con 120 miliardi di $, mentre il mercato delle attrezzature assorbirà, secondo Rystad, una settantina di miliardi di dollari in quindici anni.

Da precisare che la torta complessiva dei 400 miliardi include non solo i progetti per produrre idrogeno verde, ma anche quelli per produrre il cosiddetto “idrogeno blu” ricavato da fonti fossili con successiva cattura della CO2.

Peraltro, Rystad fa notare che le tecnologie CCS (Carbon capture and storage) per catturare le emissioni di carbonio, richiederanno investimenti aggiuntivi per quasi 35 miliardi di dollari nella sola Europa.

Per quanto riguarda l’idrogeno verde, Rystad si aspetta almeno 30 GW di capacità pienamente operativa entro il 2035 in tutto il mondo, su un totale di 60 GW di capacità proposta.

Il punto è che in questo momento è molto difficile valutare quali e quanti progetti saranno effettivamente realizzati, date le numerose incertezze che circondano un’industria, quella dell’idrogeno 100% da rinnovabili, ancora immatura, priva di economie di scala e bisognosa di sussidi pubblici.

Una recente analisi di S&P Global Ratings ammorbidisce un po’ lo slancio verso l’idrogeno.

L’idrogeno “pulito”, afferma S&P, è ancora un “atto di fede” (leap of faith) per le utility europee, perché molti ostacoli e incertezze si frappongono alla realizzazione di un’economia basata sull’uso di idrogeno su vasta scala.

Secondo gli analisti, molte aziende stanno “testando l’acqua” con una certa cautela, sviluppando impianti-pilota tra 10-100 MW di capacità.

E nei prossimi 3-5 anni, secondo S&P Global Ratings, con ogni probabilità i progetti rimarranno di piccola taglia e la loro realizzazione dipenderà in larga parte dalla disponibilità di fondi e incentivi pubblici.

S&P stima che nei prossimi tre anni le 15 maggiori utility europee investiranno non più di 1 miliardo di euro l’anno, in totale, in progetti di idrogeno verde. Per fare un paragone, i loro investimenti tradizionali ammontano complessivamente a circa 65 miliardi di euro l’anno.

Ma questi progetti iniziali, senza economie di scala innescate da impianti di grandi dimensioni, non riusciranno ancora ad abbattere i costi per produrre un H2 verde competitivo con H2 da fonti fossili, sempre secondo le stime di S&P.

Un altro possibile ostacolo, si legge nell’analisi, è dato dalla necessità di dedicare parecchi GW di rinnovabili alla produzione di idrogeno: si parla di 10-12 GW per alimentare 6 GW di elettrolizzatori nel 2024 come previsto dalla strategia Ue.

È una ricetta difficile da attuare nel breve termine, considerando che la crescita di potenza installata nelle fonti rinnovabili servirà ai paesi Ue anche per uscire da carbone e nucleare nel settore termoelettrico.

Poi ci sono da considerare gli enormi investimenti richiesti per realizzare nuove infrastrutture e potenziare quelle esistenti: reti di trasporto e distribuzione, impianti di stoccaggio.

Anche la futura domanda di idrogeno verde resta un’incognita, da valutare in base alla diffusione delle altre tecnologie, tra cui soprattutto le batterie per l’accumulo energetico stazionario.

fonte: www.qualenergia.it


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Pniec, WWF e Greenpeace deluse dal testo finale

Si punta troppo sul gas. Si parla di rinnovabili ma non di strumenti per sostenerne lo sviluppo. Per le associazioni ambientaliste il documento rimane un'altra occasione persa.



Il testo definitivo del PNIEC, pubblicato dal Ministero dello Sviluppo Economico, continua a deludere le associazioni ambientaliste.

In due note stampa distinte, infatti, WWF e Greenpeace hanno sottolineato rispettivamente che nel testo “alcuni aspetti fondamentali non sono sostanzialmente progrediti e permane assenza di coraggio e di visione strategica a lungo termine”, e che per questo il documento “è insufficiente a contrastare l’emergenza climatica in cui viviamo”.

“Il phase out del carbone, ad esempio – argomenta il WWF (neretti nostri) – risulta confermato al 2025 ma, da quanto si legge, sarebbe subordinato alla realizzazione di una serie di impianti e infrastrutture come se queste fossero indipendenti dalle policy. Per esempio, il conseguimento di target ambiziosi sulle fonti energetiche rinnovabili (FER) dipendono dalle politiche che si decidono di mettere in campo. La sensazione, quindi, è quella che si stiano mettendo le mani avanti rispetto all’unico obiettivo politico realmente innovativo affermato sin dalla Strategia Energetica Nazionale, ma non siano stati predisposti adeguati strumenti per far si che le FER diventino l’asse strategico del nuovo sistema energetico”.

“Sulla Sardegna – insiste il Panda – si afferma che è in corso di valutazione una nuova interconnessione elettrica per facilitare il phase out, ma non si ha il coraggio di porre un netto argine alle mire espansive del gas (es. la dorsale). In realtà il documento, così come il PNIEC e prima ancora la SEN, sembra proprio puntare a metanizzare la Sardegna, anche per mantenere in piedi una serie di industrie che nei fatti risultano già fallite da anni”.

In generale, secondo entrambe le associazioni, il testo continua a puntare sul gas e su nuove infrastrutture che non solo riguardano il TAP, già in fase di completamento, ma – aggiunge il WWF – anche il cosiddetto EastMed, il tutto con la scusa di aumentare il livello di sicurezza, peccato che le infrastrutture menzionate non vengano nemmeno da zone sicure dal punto di vista geopolitico.

Come dichiarato dal ministro Costa, ricorda poi Greenpeace, il PNIEC potrebbe dover essere modificato a breve, poiché l’Ue rivedrà presto i propri obiettivi climatici ed i piani presentati dagli Stati Membri dovranno essere adeguati alle nuove indicazioni.

“Non ha senso proporre un piano sostanzialmente già vecchio e dirsi disponibili ad aggiornarlo. Questa è l’ennesima volta in cui l’Italia perde l’occasione per esprimere una leadership nella lotta al cambiamento climatico. Anche perché non basta fissare obiettivi, servono strumenti per raggiungerli. Il governo dunque smetta di fare gli interessi della lobby del gas e del petrolio e inizi a schierarsi davvero dalla parte dei cittadini che ogni giorno subiscono inquinamento e crisi climatica”, dichiara Luca Iacoboni, responsabile della campagna energia e clima di Greenpeace Italia.

fonte: https://www.qualenergia.it

Per Greenpeace il Piano nazionale energia e clima proposto da M5S e Lega è «deludente»

Secondo l’organizzazione ambientalista si tratta di «una versione peggiorata della strategia energetica del precedente Governo»



















La proposta di Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec) che il Governo italiano ha inviato alla Commissione europea l’8 gennaio continua a riscuotere magri consensi tra gli ambientalisti e gli imprenditori della green economy italiana: ai commenti di Elettricità futura, del Coordinamento Free e della Fondazione per lo sviluppo sostenibile si è aggiunto quello di Greenpeace, che non fa veli sulla stroncatura.
Per l’organizzazione ambientalista il Piano energia e clima appena presentato dall’esecutivo è «deludente: una versione peggiorata della strategia energetica del precedente Governo», ovvero quella delineata all’interno della Sen approvata nell’autunno 2017. Per questo «Greenpeace chiede dunque che si apra un confronto sulle prospettive energetiche del Paese», partendo da un punto fermo: «Se l’Italia vuole davvero rispettare l’Accordo di Parigi sul clima non deve certo puntare sulle scarse riserve di idrocarburi ma su efficienza e fonti rinnovabili».

Il richiamo è alla querelle sulle trivellazioni volte a ricercare ed estrarre dai mari italiani nuovi idrocarburi, con un’aspra polemica che ha tenuto banco dentro e fuori le fila del Governo nazionale nelle ultime settimane. «È ora che questa follia si concluda – dichiara Giorgia Monti, responsabile della campagna Mare di Greenpeace Italia – non ha alcun senso continuare a bombardare il nostro mare per estrarre riserve limitate che non ci garantiscono nessuna indipendenza energetica, ma solo rischi ambientali ed economici. Se Di Maio e Costa sono davvero contrari alle trivelle e, come dichiarato a più riprese, non vorrebbero riportare l’Italia al Medio Evo economico e ambientale, facciano subito approvare una legge che vieti per sempre l’utilizzo degli airgun. È questo il modo più immediato ed efficace per allontanare per sempre la minaccia di nuove trivelle dai nostri mari».

fonte: www.greenreport.it

Clima, l’obiettivo dell’accordo di Parigi è un miraggio: le emissioni aumentano invece che diminuire

Politiche inadeguate e mancanza di leadership forte dopo che Trump ha sfilato gli Usa dall'intesa del 2015: mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei due gradi da obiettivo raggiungibile rischia di diventare sempre più una chimera. E la crescita economica mondiale di fatto favorisce l'inquinamento












I governi di tutto il mondo si sono impegnati ufficialmente nel 2015, ma mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei due gradi da obiettivo raggiungibile rischia di diventare sempre più una chimera. Mentre infatti si avvicina la conferenza internazionale delle parti in programma a dicembre a Katowice (Polonia), fondamentale per rendere operativo l’accordo di Parigi sul clima siglato tre anni fa, pesa l’inadeguatezza delle politiche messe in campo finora. Dalle Nazioni Unite, che sovrintendono alle negoziazioni climatiche, è arrivato chiaro l’allarme: le azioni fino ad ora messe in campo dagli stati consentiranno di raggiungere solo un terzo della riduzione di emissioni che sarebbe necessaria. Emissioni che nel frattempo, dopo tre anni in controtendenza, nel 2017 hanno ripreso ad aumentare in connessione con la crescita economica mondiale. Così, il mondo arriva all’appuntamento in ordine sparso, privo di una leadership forte su questo fronte e senza impegni efficaci per far fronte agli effetti del riscaldamentoglobale. Il luogo dove si terrà la conferenza (Cop24) non fa altro che aggiungere altre note di pessimismo a un quadro già critico: che cosa potersi aspettare da un Paese come la Polonia, che ancora oggi produce l’80% della sua energia dal carbone, la cui combustione ha contribuito in maniera significativa al riscaldamento globale?
L’Europa arranca, la Cina corre – In un rapporto pubblicato a giugno scorso, la rete di ong Climate Action Network ha evidenziato come a livello europeo tutti gli stati siano off target: “Nessun Paese europeo fa abbastanza sul fronte sia delle ambizioni che dei progressi per ridurre le emissioni di carbonio”. L’Ue ha approvato pochi mesi un nuovo pacchetto di misure per l’energia con l’obiettivo di raggiungere il 32% di energia da fonti rinnovabili al 2030. Target che però, ha denunciato Greenpeace, “è troppo basso e permette alle grandi compagnie energetiche di restare ancorate ai combustibili fossili o a tecnologie rivelatesi false soluzioni rispetto al cambiamentoclimatico. Peggio ancora hanno fatto gli Stati Uniti, con Trump che, pur a fronte di singoli stati virtuosi come la Californiaimpegnati nella lotta ai cambiamenti climatici, sta cercando di smantellare le politiche messe in campo dal suo predecessore Barack Obama. Washington è uscito dall’accordo di Parigi e continuerà sulla strada delle energie fossili: “La guerra al carbone è finita”, ha dichiarato l’anno scorso l’allora amministratore dell’Epa (l’agenzia per l’ambiente Usa) Scott Pruitt. Nel frattempo la Cina cerca di qualificarsi come il campionedell’azione climatica: il governo vuole investire in rinnovabili 360 miliardi di dollari entro il 2020 e il Paese è leader nella produzione di veicoli elettrici.
Vuoto di leadership – “A mancare sono la leadership, un senso di urgenza e un vero impegno per una decisiva risposta multilaterale”, ha detto poche settimane fa il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, annunciando un summit sul clima nel 2019. Il timore è che la spinta di Parigi si stia già esaurendo senza produrre risultati significativi concreti, ma anzi pericolosi passi indietro. Il punto però, spiega a ilfattoquotidano.it il direttore scientifico del Centro studi di politica internazionale (Cespi) Marco Zupi, è che “all’indebolimento dovuto alle posizioni dell’attuale amministrazione statunitense non ha fatto seguito un deciso riposizionamento e rilancio da leader da parte dell’Ue, i cui stati membri non sono certo delle eccellenze in termini di raggiungimento degli obiettivi della Cop21 di Parigi di riduzione delle emissioni. Negli ultimi anni ci sono stati piuttosto Paesi come Belgio, Danimarca, Germania e Regno Unito che hanno perso una posizione di traino in materia e rischiano ora di essere ora fanalini di coda”. Neanche la Cina è riuscita finora a conquistare davvero la leadership a cui aspira: “Opera e investe molto, ma al di fuori di schemi Onu e Cop”.
Italia tra luci ed ombre – A novembre 2017 il governo Gentiloni ha licenziato la Strategia energetica nazionale, in cui si prevede che il Paese dirà addio al carbone nel 2025: un obiettivo accolto dagli ambientalisti con favore, ma anche preoccupazione che il target rimanga solo un bel numero sulla carta. Su ciò che invece sta facendo il nuovo governo, per Zupi “è troppo presto per esprimere un’opinione” e prevedere quale posizione terrà alla Cop di dicembre. “L’Italia non fa parte né del gruppo di membri dell’Ue più virtuosi e comunque leader nel dibattito politico in materia come Svezia, Portogallo, Francia, Paesi Bassi e Lussemburgo, ma nemmeno dei fanalini di coda. Al Consiglio europeo sull’Ambiente di giugno scorso, l’Italia era tra i 14 Paesi del ‘Gruppo per la crescita verde‘ che almeno sollecitano la Commissione europea ad aggiornare e accrescere l’impegno dell’Unione in preparazione della Cop24, anzitutto in termini di impegni di riduzione delle emissioni di Co2”. Parole importanti, ma che da sole non basteranno a distinguere il nostro Paese sul fronte dell’azione politica per il clima.
La Cop24 nel Paese del carbone – Nonostante si prepari a presiedere i negoziati che dovranno rendere operativo l’accordo di Parigi, la Polonia a giugno non si è unita al gruppo dei 14. Il Paese, spiega Zupi, “non si prefigura come sponsor della decarbonizzazione: il governo polacco prevede che il carbone rappresenterà almeno il 50-55% del mix energetico totale anche nel 2030 e non è chiaro se anche nel 2050”. Sul tavolo dei negoziati, accanto alla stesura delle regole pratiche per far funzionare l’accordo sul clima, ci sarà anche il tema dei contributi per l’adattamento ai Paesi emergenti da parte delle economieindustrializzate, principali responsabili del riscaldamentoglobale. Anche su questo fronte, accanto alle resistenze di Paesi più ricchi, nemmeno la Polonia offre garanzie: “È un paese molto poco solidale sul fronte della finanza verde per i Paesi poveri, oltre che in materia di cooperazione internazionale allo sviluppo. D’altronde con Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia fa parte del noto gruppo di Visegrad, noto per l’opposizione alla ripartizione dei richiedenti asilo sbarcati nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo”.
Veronica Ulivieri
fonte: www.ilfattoquotidiano.it

Firmata la Strategia energetica nazionale: 175mld di investimenti

Abbandono del carbone entro 2025, 28% di rinnovabili nei consumi 2030, tanto gas e 175 mld di investimenti: questi i punti salienti della SEN 2030, il cui decreto è stato firmato  da Calenda e Galletti

















Allineare i prezzi del gas a quelli europei, contenere la spesa energetica di famiglie e imprese, azzerare l’uso carbone, aumentare l’efficienza energetica nel settore residenziale e dei trasporti. Questi i principali obiettivi della Strategia nazionale energetica SEN 2030 (qui il testo integrale), presentata ufficialmente a Roma dal ministro dello Sviluppo Carlo Calenda e da quello dell’Ambiente Gian Luca Galletti. L’atteso documento di programmazione ha, da oggi la sua forma finale: quella di un decreto interministeriale – firmato in diretta streaming dai due ministri – in cui si dettano i passi italiani da compiere da qui al 2030, con uno sguardo anche all’impegno energetico 2050.

Competitività, sicurezza e ambiente sono i tre driver su cui si muove il provvedimento che – sottolineano Calenda e Galletti – contiene unicamente indirizzi d’azione, delegando i vari strumenti attuativi a successive leggi e norme. “Questo lavoro è punto di partenza, da qui ad allora bisognerà avere altri strumenti”. Uno di questi, forse il più importante, è la strategia clima energia che dovrà essere redatta dal Governo entro il 2018.

Il ruolo del gas naturale

Il grande protagonista, inutile nasconderlo, è il gas naturale: per il Governo si tratta dell’energia di transizione con cui assicurare la decarbonizzazione del sistema mantenendo flessibilità e sicurezza.
Per questo uno degli elementi su cui si lavorerà è il corridoio di liquidità, ritenuto l’elemento chiave per  abbattere il gap di prezzo esistente tra nord Europa e Italia. L’Italia dovrà lavorare sulla diversificazione delle fonti e delle rotte di approvvigionamento del gas.
Spazio ovviamente anche al nuovo capacity market italiano su cui si aspetta l’ultimo passaggio su Bruxelles “Siamo pronti a lanciare il mercato della capacità – spiega Calenda – […] negli anni scorsi  la dismissione di capacità produttiva nell’elettrico è stata una dismissione potente e ciò ci mette in una situazione di cautela, non di rischio ma di cautela”.

Le rinnovabili e l’efficienza energetica

Il documento fissa al 2025 il phase out del carbone, ossia la dismissione graduale, e traccia sommariamente la strada verso una decarbonizzazione totale del paese: l’Italia dovrà tagliare le sue emissioni del 39% al 2030, e del 63% al 2050, rispetto ai livelli dl 1990. “Per la prima volta – commenta Galletti – la parte ambientale entra in uno strumento di programmazione della competitività economica, l’ambiente è diventato un driver di questo processo”.
Le rinnovabili avranno il loro spazio, soprattutto eolico e fotovoltaico perché sono le due fonti che “hanno già raggiunto la grid parity”. Quanto crescerà l’energia pulita? “Noi abbiamo già raggiunto gli obiettivi UE al 2020 – aggiunge il ministro dell’ambiente – il tendenziale, in assenza politiche virtuose, ci permetterebbe di arrivare ad 22% al 2030”, con le nuove policy arriveremo invece al 28% di energie rinnovabili 30 (FER elettriche pari al 55% del consumo interno lordo di elettricità). Gli strumenti chiave per raggiungere il target saranno le aste tecnologicamente neutre e gli interventi di repowering.
Aumenterà anche l’efficienza energetica puntando ad una riduzione dei consumi finali di energia nel periodo 2021-30 pari all’1,5% annuo dell’energia media consumata nel triennio 2016-2018. L’efficienza, assieme alle FER, sara un elemento fondamentale per ridurre la dipendenza dall’estero. L’obiettivo, riportato nella strategia energetica nazionale, è riuscire a portare la quota di fabbisogno energetico coperta dalle importazioni dal 75% attuale al 64%.

Strategia nazionale energetica SEN 2030


Gli investimenti della SEN 2030

Per realizzare tutto ciò la SEN 2030 prevede un investimento complessivo di 175 miliardi di euro: di questi 30 miliardi saranno destinati a reti ed infrastrutture, 35 andranno alle fonti rinnovabili e il resto servirà a sostenere l’efficienza energetica, in particolar modo nel settore residenziale e in quello dei trasporti.
Rimane ancora tutto incerto, invece, sulla mobilità elettrica. Calenda ha annunciato la possibilità di incentivi  per svecchiare il parco circolante, possibilità su cui si sta ancora  discutendo assieme al Parlamento. “È un tema delicato perché la fonte finanziaria individuata, che poteva essere una componente bolletta, è forte, quindi abbiamo chiesto al Parlamento un’ampia condivisione delle forze politiche”.




fonte: www.rinnovabili.it

Rinnovabili: un’avanzata irreversibile


















Esaurimento delle scorte fossili e panorama internazionale instabile tra i motivi del crollo delle fonti tradizionali. Un’analisi di Bloomberg New Energy Finance anticipa l’evoluzione dello scenario energetico.
Che le rinnovabili rappresentino l’unica via percorribile verso un futuro energetico sostenibile è cosa nota da tempo. In primo luogo perché a un esaurimento fisiologico in atto delle risorse fossili disponibili non sta corrispondendo un pari ricorso a “nuove” soluzioni per sfruttare i giacimenti ancora sfruttabili. Uno su tutti, il caso del gas estratto da giacimenti argillosi, più noto con il nome di shale gas, che, se negli Stati Uniti sta occupando una fetta di mercato in crescita costante (tra il 2000 e il 2010 il quantitativo estratto è passato da 10 a 140 miliardi di metri cubi, arrivando a coprire circa il 23% del fabbisogno di gas naturale annuale statunitense), in Europa, dopo un timido inizio, ha subito una decisa botta d’arresto con la messa al bando da parte di parecchi Stati per i ben noti rischi eccessivi di esplosione sia per l’ambiente che per la popolazione legati alla tecnica del fracking.
In secondo luogo, l’attuale scenario politico internazionale sta dimostrando tutta la precarietà degli equilibri basati su rapporti di dipendenza di uno Stato da un altro per quanto riguarda le forniture, ma anche la fragilità dei sistemi di approvvigionamento.
Non da ultimo, le rinnovabili rappresentano anche un’allettante opportunità di business, come dimostra la scalata al mercato di un colosso come la Cina (11,8 miliardi di dollari nel solo primo trimestre del 2016) o di paesi aderenti all’Opec (116 miliardi di euro stanziati dai Paesi del Golfo Persico).
Non devono stupire, quindi, i risultati di un’analisi condotta da Bloomberg New Energy Finance in base alla quale le risorse fossili sembrano avere ancora poca vita. In generale, lo scenario tracciato oscilla tra fattori incentivanti, come la riduzione dei costi delle tecnologie e la più facile accessibilità a determinate strutture (si pensi, ad esempio, alle stazioni di ricarica dei veicoli elettrici) e altri che, invece, devono essere ancora rimossi, come alcuni pregiudizi sulla capacità delle rinnovabili di soddisfare le richieste energetiche effettive piuttosto che una scarsa percezione sulle ricadute anche a livello economico.
Ma è entrando nello specifico dell’analisi che i dati sembrano tracciare un percorso irreversibile verso il sorpasso delle rinnovabili sulle fonti fossili. Così, ad esempio, in Gran Bretagna nel 2016 il carbone è stato surclassato non solo dall’eolico, ma anche dal fotovolatico (dato decisamente notevole considerata la latitudine) in riferimento alla produzione di energia elettrica. Meno eclatante, ma altrettanto significativo, il fatto che la Danimarca sia riuscita a coprire gli interi consumi di energia elettrica del 2016 ricorrendo al solo eolico.
Molto interessanti sono anche le letture in chiave economica e occupazionale. Sul primo versante risulta vincente l’utilizzo combinato di fonti rinnovabili e sistemi di efficientamento (che presentano ormai costi accessibili) che pongono in netto svantaggio il ricorso a fonti tradizionali. Sotto il profilo occupazionale emerge netto il contrasto tra il settore carbonifero, in piena fase di tagli del personale sia per la chiusura di molte miniere sia per l’utilizzo di macchinari in sostituzione della forza lavoro umana, e il mercato delle rinnovabili i cui dati, direttamente e come indotto, parlano di 8,1 milioni di persone nel 2015 (5% in più rispetto all’anno precedente) ai quali si aggiungono altri 1,3 milioni nel settore del grande idroelettrico.
Non da ultimo, all’interno di questo quadro previsionale non può essere ignorato il mercato automobilistico che, grazie alla sempre maggiore efficienza dei motori tradizionali e alla diffusione di veicoli elettrici, sta impartendo una brusca frenata al mercato dei combustibili fossili.

fonte: http://nonsoloambiente.it

Calenda presenta la SEN: “Fuori dal carbone entro il 2030”

I Ministri dello Sviluppo e dell’ambiente annunciano la bozza di Strategia energetica nazionale. Addio al carbone, ma niente aiuti per le rinnovabili
















L’uscita dal carbone è possibile già nel 2025-2030. Lo ha detto il Ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, davanti alle Commissioni Ambiente e Attività produttive, riunite oggi a Montecitorio per seguire la presentazione della bozza di Strategia energetica nazionale (SEN). Al documento, di cui sono state proiettate alcune slides insieme al Ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, dovranno ispirarsi le politiche energetiche e climatiche dell’Italia dal 2020 al 2030.
La notizia da prima pagina è dunque la scelta dei tempi per uscire dal carbone: nei prossimi anni gli impianti del nord Italia moriranno di morte naturale, ma restano pur sempre delle macchie nere al centro-sud. Rispetto allo scenario business as usual, il MiSE ha immaginato due possibilità di intervento: una che prevede anche il phase out della centrale di Brindisi, l’altro l’addio a questo combustibile inquinante, compresa la Sardegna, che pure ha due centrali – in particolare il Sulcis – collegate a investimenti produttivi sul territorio.
«Prima di prendere questa decisione, dobbiamo sapere che l’uscita totale dal carbone tra il 2025 e il 2030 è possibile – ha detto Calenda – Costerà circa 3 miliardi di euro in più rispetto allo scenario base, e dovrà essere affrontato il tema delle tempistiche autorizzative per nuove centrali e nuove infrastrutture».
Una affermazione contestata da Stella Bianchi, Pd, che al termine dell’esposizione ha chiesto: «Siamo davvero sicuri che abbiamo bisogno di nuove centrali a gas? Ci sono molti impianti sottoutilizzati che potrebbero compensare il phase out del carbone».
I grandi inquinatori, comunque sarà, cascheranno sul morbido: la SEN prevede il lancio del capacity market, che sarà pronto nel 2018. «Lo riteniamo un meccanismo fondamentale in entrambi gli scenari», ha detto l’inquilino del MiSE. Così sarà possibile finanziare impianti obsoleti e sporchi per non produrre elettricità, chiamandoli ad intervenire solo nei momenti di picco negativo delle rinnovabili.

Per quanto riguarda le energie pulite, la proposta dei ministri è appena tiepida: non si scosta dai target europei nonostante le soglie previste per il 2020 siano state già raggiunte.
Su questo aspetto è critico Edoardo Zanchini, vice presidente di Legambiente: «Gli obiettivi di penetrazione delle rinnovabili al 2030 si limitano a recepire gli obiettivi europei, quando l’Italia potrebbe, per le risorse che ha, e dovrebbe fare molto di più. Se non innalziamo almeno al 35% gli obiettivi, non riusciremo mai a dare il contributo a livello europeo previsto per stare dentro gli obiettivi dell’Accordo di Parigi».
Nessun incentivo inoltre sembra profilarsi per le energie pulite, in particolare il fotovoltaico, se non tramite la partecipazione a gare, che dovrebbero assicurare contratti di lungo termine e avvantaggiare gli impianti più grandi. Gli annunci sull’efficienza energetica, invece vanno dalla revisione del meccanismo delle detrazioni fiscali all’introduzione del Fondo di garanzia per l’eco-prestito, oltre che di «misure specifiche per la riqualificazione edilizia ed efficienza energetica anche nel social housing, per prevenire la povertà energetica».


Il capitolo fonti pulite ed efficienza non è stato accolto positivamente dagli ambientalisti. Come spiega Zanchini, infatti, «per le rinnovabili e l’efficienza quanto previsto non consentirebbe di raggiungere in alcun modo gli obiettivi. Oggi gli investimenti sono ridotti all’osso le proposte non riusciranno a smuovere gli investimenti, in particolare nel settore edilizio, nei trasporti e nelle fonti rinnovabili, anche per la vaghezza dei contenuti e il ruolo limitato previsto per l’autoproduzione e la generazione distribuita».
Per il resto, vi è l’intenzione di tentare un approccio più sistemico al rinnovo del parco automobilistico tramite le infrastrutture per i veicoli elettrici. I progressi tecnologici nel comparto delle batterie, uniti ad investimenti nelle infrastrutture, secondo il MiSE permetteranno una penetrazione delle auto elettriche e ibride superiore al 10% entro il 2030. Nessun cenno alle trivellazioni, sul cui futuro nella produzione energetica nazionale Calenda e Galletti hanno glissato, e neppure ai sussidi per le fonti fossili, sui quali gli ambientalisti promettono battaglia ai tavoli di discussione.
Infine, il Ministro dello Sviluppo ha lanciato un assist all’ANEV, associazione dei produttori di energia dal vento, che in mattinata aveva chiesto al governo una SEN che prevedesse semplificazione burocratica e amministrativa, oltre che risorse economiche per il rinnovamento del parco eolico italiano: «Occorre puntare sulla promozione dei nuovi impianti e il repowering, semplificando l’iter autorizzativo con procedure ad-hoc».


fonte: www.rinnovabili.it

Rinnovabili: l’Italia è ferma da tre anni

I numeri dell’ultimo Rapporto del Gestore dei Servizi Energetici evidenziano come il settore sia bloccato. La produzione da fonti alternative e l’installazione stentano. E invece di rimuovere gli ostacoli alle nuove forme di generazione, il Governo ha delegato con criteri discutibili la stesura della “Strategia energetica nazionale” a una società di consulenza
















Al di là della vuota retorica delle promesse e dei viaggi di formazione nella Silicon Valley, a un certo punto arrivano i numeri, che possono essere spietati. E i numeri, pubblicati a inizio settimana nel Rapporto Attività 2016 del Gestore dei Servizi Energetici, descrivono la realtà di un Paese che nel campo delle rinnovabili è fermo ormai da tre anni.
Certo, i numeri si possono leggere in maniera diversa. Ed è per questo che in molti hanno esultato quando la scorsa settimana Eurostat ha pubblicato i dati di produzione di energia da fonti rinnovabili nei 28 Paesi membri dell’Unione europea. Perché da quei dati emergeva come l’Italia avesse raggiunto i propri obiettivi con cinque anni d’anticipo rispetto alla scadenza del 2020 (definita dalla Direttiva 28 del 2009). Ma questa semplicemente non era una notizia, perché questo obiettivo era stato raggiunto già nel 2014.
Oggi, avendo a disposizione i dati (provvisori) anche per il 2016, possiamo aggiornare il quadro. La produzione di elettricità da rinnovabili è passata da 112 TWh nel 2013 a 106 TWh nel 2016. Al netto della variazione stagionale nella produzione da centrali idroelettriche (che aumenta o diminuisce sensibilmente in base alla piovosità), se consideriamo che -sempre secondo il GSE- tra il 2013 e il 2015 si sono installati solo 1,5 GW di rinnovabili e che nei cinque anni precedenti la media era di 10 GW addizionali ogni anno, allora si capisce meglio come il settore sia bloccato. Ma questo blocco si estende all’intero comparto energetico che comprende oltre al sistema elettrico gli usi termici (per riscaldamento e processi industriali) e i trasporti. Complessivamente si è infatti passati da 20,7 MTep del 2013 a 21,1 MTep nel 2016.

Una nuova stagione

La stagione degli incentivi per i nuovi impianti rinnovabili è ormai definitivamente alle spalle e nessuno pensa di riproporli, se non per specifiche tecnologie. Del resto gli incentivi servono nella fase di introduzione di una tecnologia per farla arrivare a maturità e generare economie di scala. Il nostro Paese, insieme a Germania, Spagna e in parte al Giappone, è stato infatti protagonista della rivoluzione del fotovoltaico portando questa tecnologia a ridurre i propri costi dell’80% in pochi anni. Abbiamo creato le condizioni per cui si potesse realizzare la rivoluzione energetica a cui stiamo assistendo.
Ci è costato caro, certo. Nel 2016 abbiamo pagato più di 14 miliardi di incentivi, ma già nel 2017 questo onere inizierà a calare. Ciononostante le nostre bollette negli ultimi anni non sono sostanzialmente aumentate perché se da una parte crescevano gli oneri di sistema (che tra le altre cose ripagano le rinnovabili) dall’altra calava il prezzo dell’energia, proprio grazie al boom delle rinnovabili. Il prezzo del chilowattora nel 2008 era pari a 17,5 centesimi, nel 2016 a 18,5 centesimi.
Oggi, però, mentre il resto mondo sta approfittando del crollo dei prezzi del fotovoltaico, noi, paradossalmente, ci siamo fermati. Quello che servirebbe al nostro Paese non sono incentivi, ma un progressivo abbattimento delle barriere che impediscono di sfruttare il potenziale esistente. Nonostante la Direttiva 72 del 2009 sul mercato interno dell’elettricità dica che gli Stati membri devono “agevolare l’accesso alla rete di nuove capacità di generazione, in particolare eliminando gli ostacoli che potrebbero impedire l’accesso di nuovi operatori del mercato e dell’energia elettrica da fonti di energia rinnovabili”, negli ultimi anni non solo non sono stati eliminati gli ostacoli ma sono stati invece moltiplicati. Basti pensare al regolamento delle garanzie recentemente rinnovato da Terna (e approvato dall’Autorità). Oppure al divieto alla costituzione di reti di distribuzione, che ad esempio impedisce ai condomìni di realizzare impianti collettivi che possano produrre elettricità da utilizzare nei singoli appartamenti (in questi giorni è stata lanciata una petizione in materia da Fabio Roggiolani).
Una strategia condivisa che non c’è
Oltre a rimuovere gli ostacoli, una classe dirigente lungimirante dovrebbe anche provare a delineare una strategia condivisa. Se infatti vogliamo arrivare a metà secolo a produrre la grande maggioranza di tutta l’energia da fonti rinnovabili (uno scenario a portata di mano, come abbiamo provato a spiegare nel libro Civiltà solare) non basta operare solo sulla generazione e non ci si può affidare a una sola tecnologia. Serve operare una drastica riduzione dei consumi energetici totali, rivoluzionare il settore dei trasporti, abbandonando progressivamente le tecnologie basate sui motori a combustione interna, e infine sviluppare il settore degli accumuli, di qualsiasi natura.
In nessuno di questi campi siamo stati finora in grado di definire una strategia a medio-lungo termine. Persino le detrazioni fiscali per gli interventi di riqualificazione energetica sono rinnovate anno per anno, anziché essere definite per un orizzonte temporale più lungo, riducendo così la possibilità di programmare interventi più onerosi e complicati che necessitano di tempo.
Com’è possibile che da un processo di questo tipo si possa generare un progetto veramente condiviso (che sarebbe l’auspicio di Carlo Calenda)? Come pensiamo di tenere insieme le esigenze delle aziende, degli operatori di mercato, dei consumatori nel quadro degli obiettivi europei e dell’accordo di Parigi sul clima? Come intendiamo valorizzare i successi degli istituti di ricerca e delle Università e massimizzarne le ricadute occupazionali ed economiche?
Domande che rimangono aperte mentre il tempo passa e la rivoluzione delle rinnovabili avanza in tutto il mondo. Ma non in Italia.

fonte: www.altraeconomia.it

Trivelle: serve un Piano delle Aree contro la corsa alle fossili

Oltre 130 realtà sociali e più di 120 personalità promuovono un appello nazionale per dare più voce alle regioni in materia di politica energetica su infrastrutture e oil&gas
 
 













Mettere un freno alla corsa alle fonti fossili nella penisola e restituire voce alle regioni in materia di trivelle. Lo chiedono oltre 130 realtà sociali (tra associazioni ambientaliste, organizzazioni nazionali e comitati locali) e più di 120 personalità con un appello nazionale. Lo strumento è quel Piano Regionale delle Aree da sottrarre alle attività dell’oil&gas, che fu stralciato dalla legge di stabilità 2016. Una richiesta che arriva dopo l’annuncio di una prossima revisione della Strategia Energetica Nazionale da parte del ministro Calenda.

“Le cronache delle ultime settimanesi legge nell’appello – danno ulteriore conferma del fatto che nessuna delle aree del Paese tra quelle indicate nella Strategia Energetica Nazionale 2013 è risparmiata da questa irrefrenabile corsa alle fonti fossili: dal Canale di Sicilia fino alla Val Padana, transitando per la dorsale appenninica – zone terremotate incluse . Non vi è palmo del territorio della Repubblica che si possa ritenere al riparo dall’insediamento di nuove trivelle o di nuove grandi opere inutili, dispendiose ed impattanti”

Per i promotori la bocciatura del referendum costituzionale va letta anche come una presa di posizione di milioni di cittadini contro l’estromissione delle comunità locali e delle regioni dalle decisioni che riguardano i progetti “petroliferi” e le infrastrutture energetiche. Tra le modifiche costituzionali bocciate figura infatti la ripartizione delle competenze tra Stato e regioni. “La reintroduzione del Piano delle Aree e, quindi, la necessità di far partecipare attivamente le Regioni alla redazione dello strumento – continuano i firmatari dell’appello – non è solo atto politicamente ma anche costituzionalmente dovuto in quanto la materia “governo del territorio” è rimasta di competenza concorrente, unitamente a quella energetica”
 
 












Un appello rivolto alle regioni, affinché riportino il Piano delle Aree al centro del dibattito politico – anche a livello nazionale – e spingano per ripristinarlo. Il Piano dovrebbe diventare, nelle intenzioni dei promotori, lo strumento di pianificazione in grado di identificare quali aree del territorio e del mare debbano essere definitivamente e stabilmente sottratte alla disponibilità delle compagnie petrolifere. Tra gli obiettivi figurano infatti la revisione della normativa riguardante l’acquisizione dei titoli minerari, la ricerca, l’estrazione a fini produttivi, lo stoccaggio ed il trasporto di gas e di petrolio. Ma anche evitare che ogni esecutivo possa stravolgere con troppa facilità decisioni di governo del territorio prese in precedenza.
“Non bisogna dimenticare, infatti, che in una delle prime bozze dello Sblocca Italia, seguendo una logica avulsa da qualsiasi disegno programmatico, il Governo aveva previsto che potessero essere aperte alle attività estrattive persino il Golfo di Napoli, il Golfo di Salerno e l’area marina delle Isole Egadi. Nelle intenzioni dei proponenti il varo di un Piano delle Aree avrebbe dovuto costituire un argine, seppur debole, a quegli imprevedibili cambi di rotta da parte del Governo di turno”


fonte: www.rinnovabili.it

MinAmbiente: sui rifiuti più ambizione











Il Ministro dell'ambiente in audizione al Senato il 16/2/2017 ha confermato l'impegno a
sostegno e promozione di obiettivi Ue ambiziosi sui rifiuti lavorando alla formulazione di un quadro regolatorio chiaro e stabile.
Davanti alla Commissione Ambiente di Palazzo Madama il Ministro ha tracciato il quadro degli impegni sul clima e l'energia (Strategia energetica nazionale, azioni sull'economia circolare, riduzione delle emissioni 2021-2030, sviluppo sostenibile), concentrandosi anche sulle azioni in materia di rifiuti. Il Ministro ha confermato che il Governo: continuerà a sostenere l'introduzione di una metodologia unica e armonizzata di calcolo delle quantità di rifiuti riciclate e che chiarirà definitivamente i concetti chiave di recupero, riciclaggio, recupero di materia, riempimento, cessazione della qualifica di rifiuto e trattamento prima del conferimento in discarica; rafforzerà le politiche di prevenzione. Sarà incrementato il riciclo dei rifiuti rispetto ad altre forme di
recupero e smaltimento; supporterà l'aumento degli obiettivi di riciclaggio degli imballaggi.
Infine, il Governo promuoverà la fissazione di un obiettivo più ambizioso di riduzione di tutte le operazioni di smaltimento (non solo la discarica, ma anche l'incenerimento senza recupero energetico e le altre operazioni di smaltimento) di tutti i rifiuti prodotti al posto dell'obiettivo di riduzione della sola operazione di discarica per i rifiuti urbani.

documenti di riferimento


Area Normativa / Rifiuti / Normativa in Cantiere
Piano d'azione Ue per l'economia circolare (schemi di direttive in materia di rifiuti, discariche, imballaggi e
Raee)
Presentato dalla Commissione europea il 2 dicembre 2015

fonte: http://www.reteambiente.it


Le strategie climatiche di lungo periodo e l’approssimazione italiana

Predisporre strategie energetico-climatiche al 2050 significa per un paese avere obiettivi e percorsi chiari da attuare con specifiche politiche. Alcuni paesi europei si sono mossi in questa direzione, mentre in Italia prevalgono ancora posizioni esitanti e confuse, se non perfino contraddittorie. L’editoriale di Gianni Silvestrini.















In Italia l’Accordo sul clima di Parigi è come se non fosse mai entrato in vigore. Mentre nel mondo molte nazioni, città, imprese hanno accelerato il loro impegno, da noi tutto tace.
Anzi, il nostro paese riafferma una posizione difensiva rispetto agli obbiettivi proposti dalla UE al 2030. Ponendoci così più vicini alla carbonifera Polonia che alle posizioni della Germania e della Francia.
E quando si decide di intervenire, lo si fa in maniera maldestra come ci ricorda la proposta di rivisitare la SEN coinvolgendo un consulente esterno con potenziali conflitti di interesse, invece di utilizzare Enea, Rse e Ispra. E, soprattutto, senza prevedere un’ampia consultazione pubblica.
Per di più, mentre il MiSE si avvia su questa strada, il Ministero dell’Ambiente lavora (?) alla strategia climatica. Insomma, una bella confusione, dettata da mancanza di chiarezza, timidezza politica e assenza di regia.
E così, molto opportunamente, il prossimo 25 gennaio il Coordinamento FREE terrà a Roma una conferenza stampa alla Camera per riflettere criticamente sull’attuale impostazione e per avanzare una proposta sul modello partecipativo e sulle linee guida che dovrebbero ispirare la strategia climatica.
L’avvio di una seria politica di contrasto al riscaldamento del pianeta può infatti rappresentare una straordinaria opportunità per modernizzare il paese e rilanciare l’economia, sollecitando cambiamenti profondi in molti settori
Pensiamo, ad esempio, agli obiettivi al 2030 nei settori non ETS che implicano una riduzione delle emissioni del 18% rispetto ai valori attuali. Un risultato ottenibile solo con un salto di qualità nei comparti dell’edilizia (riqualificazione spinta di interi quartieri) e trasporti (decollo della mobilità elettrica), che negli ultimi 25 anni non hanno registrato un calo delle emissioni.
E un analogo colpo d’ala sarà necessario per coprire il 50% della domanda elettrica al 2030 con le fonti rinnovabili.
Ma una riflessione critica, un rilancio della progettualità sono necessari non solo per raggiungere gli obiettivi previsti per la fine del prossimo decennio, ma anche per riflettere sui cambiamenti a lungo termine ed evitare scelte dannose.
Non a caso, l’Accordo sul Clima prevede la predisposizione di efficaci strategie di decarbonizzazione al 2050.
Al momento, anticipando i tempi, cinque paesi (Usa, Canada, Messico, Germania e Francia) hanno già depositato i propri documenti presso il Segretariato.
Altre realtà avevano già elaborato propri scenari a metà secolo. Così nel 2011 l’Unione Europea aveva predisposto la “Energy Roadmap 2050” che prevedeva una riduzione delle emissioni climalteranti tra l’80 e il 95% rispetto al 1990. 
Il Regno Unito con il Climate Change Act del 2008 si era già impegnato nel 2008 ad un taglio dell’80%. E i governi di Svezia e Danimarca vorrebbero diventare totalmente “Fossil Free” entro il 2050.  
Ma perché è importante capire come e dove ridurre le emissioni sul lungo periodo?
Innanzitutto per avere la consapevolezza dell’ambizioso percorso da compiere, delle implicazioni per i vari comparti, degli investimenti da evitare.
Il cambiamento che abbiamo di fronte non ha infatti eguali nella storia dell’umanità. In un terzo di secolo le fonti fossili, che al momento garantiscono il 78% dei consumi mondiali e l’81% di quelli italiani, dovrebbero avviarsi verso un uso residuale. La necessità di questa rapida retromarcia è difficile da interiorizzare e ha notevoli implicazioni.
Prendiamo il caso del metano. Se al 2050 i consumi di gas dovessero azzerarsi, o anche ridursi solo dell’80%, la costruzione di molti nuovi gasdotti diverrebbe uno emblematico e costoso esempio di investimenti inutili. 
E ci sono anche riflessi interni. Non a caso i gestori delle infrastrutture inglesi di trasporto di metano hanno valutato quattro possibili scenari di decarbonizzazione al 2050.
Tornando all’elaborazione degli scenari climatici, va sottolineata l’importanza del metodo del “backcasting”, cioè dell’esplorazione delle trasformazioni necessarie per raggiungere un determinato obbiettivo ad una certa data: nel nostro caso il taglio dell’80-95% delle emissioni climalteranti al 2050.
Così, ed esempio, si dovranno analizzare i percorsi e gli obiettivi intermedi in grado di portare l’intero patrimonio edilizio su valori “nearly zero energy”. Individuata la traiettoria di riduzione diventano indispensabili le verifiche intermedie, per aggiustare il tiro se è il caso.
La Francia, ad esempio, ha introdotto i “Budget di carbonio” che prevedono la verifica ogni 5 anni dell’adeguatezza delle politiche nei vari comparti.
Ma una “Strategia Climatica 2050” deve necessariamente abbracciare tematiche molto più ampie di quelle energetiche.
Il percorso di decarbonizzazione è infatti strettamente legato alla transizione verso un’economia sempre più circolare. Deve quindi prevedere la valorizzazione della bioeconomia, l’impegno contro l’obsolescenza programmata dei prodotti, il contenimento dell’espansione antropizzata sui territori.
Vista poi l’importanza dei trasporti, devono essere affrontati i cambiamenti radicali in arrivo, includendo ipotesi chiare sul ruolo della mobilità elettrica senza guidatore.
Ma, la strategia deve necessariamente riguardare anche l’agricoltura, l’allevamento, la gestione forestale, la possibilità di catturare il carbonio nei boschi e nel suolo, includendo una riflessione critica sul nostro modello alimentare.
Sul versante della fiscalità, va considerato lo strumento della carbon tax, spingendo per una sua adozione a livello europeo. Infine, vanno ovviamente considerate le azioni necessarie per adattarsi ai cambiamenti climatici che si accentueranno nei prossimi decenni
Come si vede, l’elaborazione è necessariamente molto trasversale e richiede da un lato il coinvolgimento attivo e non solo formale dei vari stakeholders, dall’altro una cabina di regia delle varie amministrazioni che, in assenza di un Ministero dei cambiamenti climatici, non può che essere allocata presso la Presidenza del Consiglio.
Vista la portata degli ostacoli e delle opportunità connesse con questa sfida, un processo partecipato nella formulazione del Piano è fondamentale affinché tutti i protagonisti della società abbiano consapevolezza dell’ampiezza e radicalità dei cambiamenti necessari e siano protagonisti delle scelte da avviare. 
Questa è peraltro la strada già seguita dalla Germania e dalla Francia nell’elaborazione dei propri piani. Il documento tedesco è stato predisposto attraverso un ampio processo partecipativo che ha visto il coinvolgimento dei Länder, di 60 città e di 125 associazioni del mondo delle imprese, del lavoro e della società civile.
Nell’arco di sei mesi, con il supporto di Istituti di ricerca, sono state predisposte e consegnate al governo 96 proposte. È partito quindi un processo di elaborazione e confronto tra i vari ministeri durato un anno che ha portato al “German Climate Action Plan 2050” che prevede una riduzione delle emissioni a metà secolo dell’80-95% rispetto al 1990, con un obiettivo di riduzione del 55% al 2030 articolato per settori (fig. 1 e 2).
Vista la forte presenza industriale, è previsto anche uno specifico programma di ricerca per approfondire i percorsi che possono portare ad una neutralità delle emissioni climalteranti in questo comparto, includendo la cattura e l’impiego della CO2.





















Il Piano francese è meno ambizioso di quello tedesco, ma pur sempre impegnativo, con una riduzione delle emissioni del 40% al 2030 e del 75% al 2050 (Fig. 3). In Francia un intenso processo partecipativo si era già registrato in vista dell’adozione nel luglio 2015 della Legge per la “Transizione energetica per uno sviluppo verde”.










Nel merito dei programmi previsti, risultano molto stringenti gli obiettivi sul parco edilizio, con una riduzione dell’87% delle emissioni rispetto ai livelli attuali. Ma il Piano climatico francese affronta esplicitamente molti temi oltre a quello energetico.  Così, il passaggio ad un’economia circolare ha un ruolo centrale, con un’attenzione alla durata dei prodotti, allo spreco alimentare, alla bioeconomia, alla riduzione del consumo di suolo.
Si evidenzia il rischio degli “stranded assets” nell’analisi degli investimenti. Si propone una carbon tax progressivamente crescente (opzione che però è stata congelata per il 2017). Un largo spazio viene inoltre dedicato al ruolo dell’agricoltura e dei boschi.
Tornando al nostro paese è importante che si evitino false partenze. E chissà che Paolo Gentiloni, ricordando la sua militanza ambientalista, non riesca a dare la giusta priorità alle politiche climatiche ... Mai dire mai!

fonte: http://www.qualenergia.it