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Che succede ora che il diritto alla riparazione è realtà? Il parere dei parlamentari

Il 25 novembre il Parlamento europeo ha approvato la definizione del "right to repair". "Ora la Commissione europea deve andare avanti rapidamente nel 2021 su un punteggio di riparabilità a livello europeo per tutti i dispositivi elettronici" ha spiegato David Cormand, europarlamentare dei Verdi



Con l’approvazione della risoluzione “Verso un mercato unico più sostenibile per le imprese e i consumatori” del 25 novembre, il Parlamento europeo ha accolto e sviluppato le indicazioni contenute nel nuovo piano d’azione per l’economia circolare adottato dalla Commissione europea l’11 marzo 2020, finalizzate all’introduzione di modelli innovativi di mercato per un consumo e una produzione con criteri sostenibili. Il piano, infatti, contiene una serie di interventi, anche legislativi, da attuare nei prossimi anni e inerenti l’intero ciclo di vita del prodotto con l’obiettivo di migliorarne durabilità, la riparabilità e la sicurezza. Insomma, è arrivato un primo passo da parte del legislatore europeo per la creazione di un’etichetta, apposta sulla confezione, in cui sarà indicato il grado di riparabilità di un prodotto.

“Mercato unico vuol dire protezione dei consumatori”, afferma Sandro Gozi, europarlamentare del gruppo Renew Europe e membro della Commissione per il mercato interno e la protezione dei consumatori. “Noi dobbiamo affermare un diritto alla riparazione per i consumatori, ed è materia strettamente legata al mercato unico. Bisogna che i consumatori siano ben informati sulla possibilità di riparare i prodotti. Lavorando categoria per categoria, deve diventare un diritto generalizzato nel mercato interno. Chiediamo quindi di stabilire principi di sostenibilità dei prodotti immessi sul mercato europeo, a partire proprio dal diritto alla riparazione, dalla cultura del riuso, dall’eliminazione delle pratiche commerciali scorrette. Il mercato unico europeo è il miglior risultato raggiunto dall’Ue fino ad oggi, ma dobbiamo adattarlo all’urgenza dettata dalla crisi attuale e alla visione che abbiamo del futuro dell’Europa“.

Dei passi avanti verso la sostenibilità dei prodotti da parte del Parlamento europeo erano già stati fatti con la con la risoluzione del 31 maggio 2018 sull’attuazione della direttiva sulla progettazione ecocompatibile (2009/125/CE), nota come direttiva Ecodesign o direttiva ErP. Si trattava di un invito ad ad andare oltre la sola efficienza energetica e a considerare anche tutte le altre caratteristiche di un prodotto che hanno un impatto sull’ambiente: composizione, durabilità, smantellamento, riparabilità e riciclabilità. L’80% dell’inquinamento ambientale e il 90% dei costi di produzione, infatti, sono il risultato di decisioni prese in fase di progettazione del prodotto.

“La Commissione ha presentato una sua nuova strategia per la tutela dei consumatori, e all’interno sono già contenute indicazioni che vanno nella direzione auspicata”, conclude Gozi. “In primis, proprio l’informazione obbligatoria per i consumatori e l’estensione a nuove categorie di prodotti delle norme della direttiva Ecodesign.” Secondo un sondaggio Eurobarometro, il 77 per cento dei cittadini dell’UE preferirebbe riparare i propri dispositivi elettronici piuttosto che sostituirli, mentre il 79 per cento pensa che i produttori dovrebbero essere obbligati a rendere “più facile la riparazione dei dispositivi digitali o la sostituzione delle singole parti”. In sostanza, più di tre quarti dei cittadini europei vuole riparare i prodotti ma è scoraggiato a farlo a causa dei prezzi di riparazione troppo alti e anche dalle scarse informazioni che riceve sulla durabilità del prodotto che acquista. Ora la decisione è in mano della Commissione europea, che dovrebbe creare un sistema di valutazione del grado di riparabilità di ogni prodotto tecnologico con un voto da 0 a 10. In questo modo si potrebbe capire quale impatto ha un determinato prodotto sull’ambiente.

“Riparare gli oggetti, anziché sostituirli o buttarli via, servirà ad avere anche meno rifiuti, soprattutto elettronici. Consumiamo troppe risorse e produciamo troppi rifiuti” ha affermato Anna Cavazzini del gruppo Verdi. Secondo le Nazioni Unite, infatti, gli europei producono più rifiuti elettronici di tutti al mondo. Lo racconta il “Global E-waste Monitor 2020”, il report delle Nazioni Unite che denuncia un record mondiale: 53,6 milioni di tonnellate (Mt) che potrebbero diventare 74 Mt entro il 2030, con un conseguente danno ambientale e di salute facilmente immaginabile a causa degli additivi tossici e delle sostanze pericolose come il mercurio. Un flusso in crescita continua, alimentato principalmente da tassi di consumo più elevati di apparecchiature elettriche ed elettroniche, brevi cicli di vita e poche opzioni di riparazione. Per dare un’idea della gravità di quanto riportato dalle Nazioni Unite, basti pensare che i rifiuti elettronici dell’anno scorso pesavano più di tutti gli esseri umani adulti in Europa, o come 350 navi da crociera delle dimensioni della Queen Mary 2, abbastanza per formare una linea lunga 125 km.

“La Commissione europea deve ora prendere questo slancio e andare avanti rapidamente nel 2021 su un punteggio di riparabilità a livello europeo per tutti i dispositivi elettronici e le regole di riparabilità, anche per i computer”, ha spiegato David Cormand, europarlamentare dei Verdi e primo firmatario della proposta di relazione. “Il mercato europeo è il primo mercato del mondo. Abbiamo il dovere di renderlo più sostenibile tanto per le imprese che per i consumatori. La Commissione deve introdurre il diritto di riparazione rendendo le riparazioni degli oggetti, soprattutto in campo tecnologico, più attraenti, sistematiche ed efficienti”.

Insomma, ora la Commissione europea ha il pieno sostegno del Parlamento nel portare avanti lo sviluppo di leggi volte a estendere la durata di prodotti e a introdurre un sistema di etichettatura obbligatorio per informare i consumatori sul livello di riparabilità dei prodotti venduti nei negozi e online.

Obsolescenza programmata: cos’è e perché va rimossa

La delibera del Parlamento Europeo ha ripreso in toto la legge francese contro l’obsolescenza programmata e ha unificato in un unico processo la necessità di rispondere con misure strutturali alla scarsità delle risorse naturali e all’aumento dei rifiuti. Quando si parla di obsolescenza programmata (detta anche pianificata), si fa riferimento ad una particolare strategia che, nell’economia industriale, viene impiegata per definire il ciclo vitale di un prodotto, così da limitarne la durata nel tempo. Una politica commerciale adottata dalle aziende produttrici che ha lo scopo di accorciare la vita naturale di un prodotto spingendo così il consumatore a comprare prima del tempo il modello nuovo.

E’ una pratica che, soprattutto negli ultimi anni, è salita all’onore delle cronache soprattutto per strumenti elettronici, quali cellulari, lavatrici, frigoriferi: una volta acquistato, dopo appena un paio di anni, gli aggiornamenti di sicurezza non vengono più rilasciati, le nuove applicazioni non sono più compatibili con il sistema operativo esistente e diventa così tecnologicamente vecchio. Una strategia industriale che è anche parte integrante del programma di studi delle scuole per progettisti e ingegneri ai quali viene insegnato il concetto di ciclo vitale del prodotto, un modo diverso di dire obsolescenza programmata.

In Francia già dal 2016 esiste una legge che considera reato le tecniche messe in atto dalle aziende per ridurre la durata di funzionamento di un prodotto al fine di aumentarne il tasso di sostituzione. Famosa è la diatriba con Apple: la giustizia francese aveva aperto un’indagine contro Apple per truffa e obsolescenza programmata dopo le ammissioni fatte dal colosso di Cupertino nel 2018 sul rallentamento delle batterie di alcuni modelli di iPhone per evitare spegnimenti improvvisi. Anche l’Antitrust italiano aveva acceso un faro su Apple e Samsung per l’affaire dell’obsolescenza programmata. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato nel 2018 aveva deciso di avviare due distinti procedimenti per pratiche commerciali scorrette nei confronti delle società del gruppo Samsung e del gruppo Apple operanti in Italia a seguito di segnalazioni di consumatori e di un’attività preistruttoria svolta d’ufficio.

Il diritto alla riparazione in Italia

Ma vediamo come funziona il diritto alla riparazione oggi in Italia. Partiamo dal dato che, nel caso il prodotto risulti difettoso, il consumatore ha diritto a chiedere la sua riparazione o la sostituzione entro due anni dalla consegna del bene ed è previsto che nel manuale di istruzioni del prodotto ci siano informazioni precise sulla durata di vita del prodotto. Ma la scelta tra riparazione, sostituzione, rimborso non è ugualmente conveniente.

“Quando gli oggetti che possediamo diventano obsoleti, o hanno bisogno di parti di ricambio, ci rendiamo subito conto che ripararli o aggiornarli può non essere possibile oppure avere un costo troppo elevato”, afferma Ilaria Fontana, vicepresidente del gruppo Movimento 5 Stelle alla Camera, parte della Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici e promotrice del progetto di legge ‘Diritto alla riparazione’. Fontana è stata, di fatto, tra le prime a parlare della possibilità di un diritto alla riparazione, portandosi in avanti anche rispetto al voto dell’europarlamento. “Ogni consumatore deve avere, al momento dell’acquisto il diritto alla riparazione, ovvero la garanzia di poter prolungare la vita utile del bene che sta per comprare. Il mio progetto di legge depositato alla Camera punta a creare un mercato di pezzi di ricambio integrato nei centri di raccolta comunali e nei piani di gestione dei rifiuti regionali. Ma anche semplificare il contesto normativo esistente consentire che la riparazione abbia gli stessi requisiti che esistono oggi per il riuso”.

Alcuni ricercatori hanno trovato qualcosa come 114 modi diversi di definire l’economia circolare, spesso però legati alla gestione dei rifiuti e non ad un nuovo modello economico. Il concetto tuttavia è chiarissimo: essendo il pianeta in una fase storica nella quale bisogna ridurre gli sprechi di materie prime e frenare la disoccupazione, bisogna assolutamente rispondere in maniera forte attraverso azioni in grado di invertire rotta. La transizione dal modello di crescita lineare legata al “prendi, produci, usa, getta” ad un modello circolare consiste nell’aumentare progressivamente la permanenza dei beni e delle risorse nel sistema economico, riducendo nel frattempo la domanda di nuove materie prime.

“In Italia manca una distinzione effettiva tra beni usati e beni riparati o ricondizionati” continua Fontana. “Un bene donato a un centro di raccolta non viene considerato rifiuto, mentre un bene che deve essere ricostruito rientra tra le operazioni di recupero del Testo Unico Ambientale ed è quindi un rifiuto a tutti gli effetti. Ora bisogna preparare il terreno affinché le nuove tecnologie e le nuove attività lavorative legate all’economia circolare prendano piede: basterebbe pensare a quale importanza avrebbe per le piccole aziende poter contare sugli acquisti verdi delle pubbliche amministrazioni, il cosiddetto Green public procurement (GPP), ovvero la possibilità per piccoli progetti su scala quasi artigianale di fare il grande passo verso una vera e propria industrializzazione”.

Il Piano Nazionale sul GPP prevede infatti dei Criteri Ambientali Minimi (CAM) da applicare anche per l’acquisto di prodotti elettronici, in modo da poter contare sulla pubblica amministrazione per beni più longevi e ambientalmente più sostenibili. L’Italia sta recependo il primo pacchetto di direttive europee sull’economia circolare: nuove norme in materia di gestione dei rifiuti che alzando i target minimi da raggiungere spingeranno verso la riduzione della produzione di rifiuti e quindi anche di una maggiore longevità dei prodotti.

fonte: economiacircolare.com

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Economia circolare, l’attuazione delle direttive Ue in Italia è sempre più vicina

In Commissione Ambiente al Senato è stato votato il Parere sullo schema di decreto legislativo su imballaggi e rifiuti di imballaggio, in recepimento delle direttive europee sull’economia circolare.





Giovedì 23 luglio la Commissione Ambiente al Senato ha votato il parere sullo schema di decreto legislativo di attuazione della direttiva Ue 2018/851 sui rifiuti e della direttiva Ue 2018/852 sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio. Queste due direttive insieme alle direttive 2018/849, sui veicoli fuori uso, e 2018/850, sulle discariche di rifiuti, fanno parte del cosiddetto pacchetto sull’economia circolare in vigore dal 4 luglio 2018, ma non hanno efficacia diretta nei singoli Stati e devono dunque essere recepite e attuate da norme nazionali.

"Abbiamo ora votato in Commissione Ambiente al Senato il Parere allo Schema di Decreto legislativo su Ag 169 su Imballaggi e rifiuti di imballaggio, in recepimento delle Direttive europee sull’economia circolare, provvedimento di cui sono Relatore”, scrive sulla sua pagina facebook il senatore del Pd Andrea Ferrazzi che aggiunge “Sono particolarmente contento di poter dire che tre mesi di intenso lavoro hanno portato ad uno straordinario passo avanti per il nostro paese, senza nessun voto contrario dell’opposizione. Grazie a tutti coloro che hanno contribuito a questo provvedimento coraggioso nella logica della transizione Green e dell’economia circolare”.

Ferrazzi, che ha anche presentato il Ddl per eliminare il limite del 50% all’utilizzo di plastica riciclata nelle bottiglie per l’acqua (testo che si sarebbe arenato al Ministero del Tesoro), chiude il suo post facendo una sintesi delle novità passate in Commissione Ambiente: definizione chiara e univoca del Contributo ambientale; concorrenza nei sistemi collettivi di raccolta e gestione rifiuti con armonizzazione delle discipline, accordo unico di comparto tra i consorzi e l’Anci, trasparenza dei dati relativi alla raccolta differenziata e dei flussi finanziari; registro elettronico nazionale sui rifiuti; riforma del sistema di tracciabilità dei rifiuti; responsabilità estesa del produttore; elementi qualitativi e non solo quantitativi nella racconta e riciclaggio; riduzione del principio di prossimità per lo smaltimento e il trattamento tanto dei rifiuti indifferenziati quanti degli differenziati; riclassificazione dei rifiuti speciali; rivisitazione dei rifiuti compostabili con conferimento negli organici; chiarimento sul conferimento delle utenze non domestiche da attività commerciali, artigianali e industriali; adeguamento delle infrastrutture e impianti, semplificando le procedure per i nuovi impianti di riciclaggio con agevolazioni per la realizzazione di nuovi al fine di diminuire il trasferimento dei rifiuti all’interno e all’esterno del territorio nazionale. Un grande passo avanti."

fonte: www.ecodallecitta.it


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La dottoressa Fiorella Belpoggi interviene su #Covid-19 e #Inquinamento




#Covid-19 e #Inquinamento: la dottoressa Fiorella Belpoggi è stata invitata a intervenire nella Commissione Ambiente e Territorio del Consiglio comunale di #Bologna.
qui sotto trovate il suo intervento.



📌 a questo link il documento che è stato messo agli atti della commissione —> https://bit.ly/3fcd8hx


Istituto Ramazzini


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Consumo di suolo: che fine ha fatto la legge del Forum Salviamo il Paesaggio

Da oltre un anno le Commissioni congiunte Agricoltura e Ambiente del Senato stanno lavorando sulla bozza di una norma nazionale a contrasto del consumo di suolo. L’iter sta però procedendo con “ritardi e rallentamenti gravi” e nelle ultime settimane pare essersi fermato. “Salviamo il Paesaggio” e “Pro Natura” sollecitano il Parlamento e provano a tenere viva la discussione nei territori

© Kolar - Unsplash


L’iter legislativo che dovrebbe dare all’Italia una legge sul consumo di suolo è da alcuni mesi fermo al Senato. Lo denuncia il Forum Italiano dei Movimenti per la Terra ed il Paesaggio, formato da diverse associazioni e da singoli cittadini, a cui si deve la proposta di legge presentata nel febbraio 2018, il Ddl AS 164: “Norme per l’arresto del consumo di suolo e per il riuso dei suoli urbanizzati”, un testo elaborato da 75 esperti della materia. Nel frattempo, l’ultimo rapporto ISPRA-SNPA (2019) informa che in media 14 ettari al giorno e 2 metri quadrati al secondo di suolo vengono persi in Italia e che per ogni persona ci sono oltre 380 metri quadrati occupati da cemento, asfalto e altri materiali artificiali. Un fenomeno particolarmente accentuato nelle aree urbane ad alta densità, dove nel 2018 si sono persi in media 24 metri quadrati per ogni ettaro di aree verde. Di recente, anche la Corte dei Conti (con la Deliberazione del 31 ottobre 2019) ha invitato a ridurre il consumo di suolo, evidenziando il rapporto con i fenomeni di dissesto idrogeologico che comportano un grave impegno finanziario per il Paese. Per non parlare delle conseguenze sul cambiamento climatico, evidenziate nel rapporto ISPRA-SPNA.

“Le Commissioni congiunte ambiente ed agricoltura del Senato hanno fatto un lavoro importante con moltissime audizioni di esperti, enti e associazioni. Nonostante questo, non si è giunti a un accordo sul testo definitivo, che era previsto per novembre scorso. Ci sono state altre priorità e le resistenze politiche sono molte, da più fronti, come dimostra il complicato iter legislativo, oltre 12 proposte di legge diverse”, spiega Alessandro Mortarino del Forum.

E se con una legge che azzera il consumo di suolo la paura infondata è quella di “bloccare il settore edilizio”, Mortarino risponde che “Il titolo della nostra proposta parla chiaro, stop alle costruzioni da una parte, riuso dell’esistente dall’altra: nella rigenerazione urbana ecocompatibile ci sono moltissime potenzialità di sviluppo economico. Alcuni dati del censimento promosso dal Forum nei Comuni ci dicono che gli edifici sfitti e non utilizzati sono tra il 30% e il 40% del totale, un patrimonio su cui lavorare. Si può discutere sui singoli emendamenti, ma la cornice generale deve essere questa”.

Il rischio ora è che la legislatura si concluda senza arrivare a nulla. Si vanificherebbe così l’enorme lavoro che ha portato alla proposta di legge, risultato della convergenza di competenze scientifiche e accademiche e della mobilitazione della cittadinanza attiva (sono circa 100 le associazioni nazionali e più di 800 quelle locali che aderiscono al Forum). Da qui, dunque, la necessità di tornare a scuotere cittadini ed istituzioni per sollecitare l’urgenza di un cambio di rotta radicale. Il Forum, insieme alla Federazione nazionale Pro Natura, ha realizzato un documento congiunto, dove si rivolge un appello alle due Commissioni del Senato per riprendere al più presto i lavori. Secondo punto: agire nei Comuni. “Davanti a un percorso rallentato in Parlamento -dice Mortarino- bisogna tenere viva la discussione nei territori. Abbiamo preparato una mozione per i Consigli comunali dove si chiede di attuare iniziative e azioni a sostegno del Ddl. Attraverso gli aderenti al Forum, che comprende molti singoli cittadini, stiamo cercando di diffonderla in più Comuni possibile”. Proprio grazie al coinvolgimento della cittadinanza, alcuni Comuni (ad esempio in provincia di Milano Desio, Cassinetta di Lugagnano, Ozzero e altri) hanno potuto adottare in questi anni nuovi Piani urbanistici a crescita zero. “Infine -conclude Mortarino- vogliamo rilanciare la discussione a un livello nazionale: stiamo progettando due incontri importanti sul consumo di suolo in primavera, a Roma, uno con un taglio più politico-istituzionale e l’altro tecnico- scientifico”.

fonte: https://altreconomia.it

Le politiche ambientali. Arriva il decreto Salvamare

La Lega non è soddisfatta: "Snaturato il testo iniziale, pescatori demonizzati"




Un riconoscimento, e non più una certificazione, per gli imprenditori della pesca che usano materiali a basso impatto ambientale e che prendono parte a campagne di pulizia marina e, allo stesso tempo, smaltiscono i rifiuti trovati accidentalmente in mare. Questo il senso di un emendamento al ddl Salvamare all'esame della commissione Ambiente alla Camera. L'emendamento di Rossella Muroni di LeU e Paola Deiana del M5s, relatrici al provvedimento, è stato approvato dalla commissione, e modifica così il testo.
Il disegno di legge “Promozione del recupero dei rifiuti in mare e per l'economia circolare” (legge Salvamare) contempla 7 articoli e sostanzialmente punta a trasformare i pescatori in eco-spazzini del mare, permettendogli di portare a terra i rifiuti tirati su durante la loro normale attività e conferirli all'impianto dedicato.
La commissione Ambiente ha dato il via libera anche ad altre proposte di modifica, come l'allargamento del raggio d'azione del decreto end of waste sui rifiuti accidentalmente pescati (sempre delle relatrici); si dovrà così pensare oltre che alla plastica e al suo riciclo anche ai "materiali non compatibili con l'ecosistema marino".
La Lega protesta - "La Lega compatta si è astenuta dal voto del cosiddetto ddl Salvamare in commissione Agricoltura: il testo iniziale è stato totalmente snaturato e con l'introduzione di una voce sui bollettini della Tari per il conferimento dei rifiuti recuperati dai fondali. Si demonizzano ingiustamente i pescatori. Sono inoltre spariti i criteri di premialità, che la Lega aveva proposto, nel sistema punti per le infrazioni, sull'attività di raccolta accidentale dei rifiuti da parte dei nostri pescatori". Così i deputati della Lega in Commissione Agricoltura di Montecitorio: Lorenzo Viviani (capogruppo), Mario Lolini (vicepresidente), Guglielmo Golinelli, Aurelia Bubisutti, Dimitri Coin, Flavio Gastaldi, Marzio Liuni, Carmelo Lo Monte e Martina Loss.  "Il governo giallofucsia è uscito allo scoperto e ha varato la prima tassa sulle spalle degli italiani con l'introduzione di una nuova voce nel bollettino Tari, la tassa sui rifiuti, nascosta tra le maglie del ddl Salvamare. La Lega, in commissione Ambiente alla Camera, si è opposta a questo balzello che colpirà tutte le famiglie e le imprese, ma la maggioranza ha votato contro la nostra proposta sulla copertura con risorse statali".

fonte: http://www.e-gazette.it

Il Parlamento inglese contro il fast fashion: una tassa di 1 cent per ogni capo

La commissione Ambiente del Parlamento redige un rapporto clamoroso contro il settore moda. La tassa farebbe raccogliere 35 milioni di sterline per l'economia circolare



Anche la politica nazionale – sebbene non sia quella italiana – se ne accorge, finalmente. L’attuale sistema produttivo dell’abbigliamento fast fashion, non è più sostenibile. Di fronte a un settore moda che non sa autoriformarsi, a indicare la direzione possono essere (una volta tanto) gli Stati nazionali. Soprattutto se anche la pressione dell’opinione pubblica e le campagne animate dalla società civile non danno i risultati sperati.
Approfondimento

APPUNTAMENTI
3.800 litri d’acqua per un paio di jeans. The fashion experience ribalta la moda

A Milano, mecca della moda, un'installazione multimediale e un percorso emotivo che mostra cosa c'è dietro l'etichetta. Ambiente sfruttato e diritti negati

La notizia viene dal Regno Unito, che prova a percorrere la strada “istituzionale” per imporre il cambiamento ai big della moda. A farlo è la commissione parlamentare ambientale (Environmental Audit Committee) della Camera dei comuni che, attraverso una sua relazione, chiede al governo britannico di intervenire in modo rapido e concreto sul settore.


J’accuse del Parlamento alla moda fast fashion

Bisogna ammettere che fa un po’ strabuzzare gli occhi leggere l’incipit del documento, intitolato FIXING FASHION: clothing consumption and sustainability. Fashion: it shouldn’t cost the earth. Un testo redatto e pubblicato (a febbraio 2019) non dalla Clean Clothes Campaign, bensì da una commissione ufficiale pubblica in cui, a proposito dell’industria della moda, i parlamentari britannici scrivono: «Il modo in cui noi facciamo, utilizziamo e gettiamo via i nostri vestiti è insostenibile. La produzione tessile contribuisce di più al cambiamento climaticodell’intero trasporto internazionale aereo e navale, consuma laghi d’acqua dolce e crea inquinamento da sostanze chimiche e da plastica».

TABELLA le pagelle dell’industria tessile UK verso una moda sostenibile – fonte relazione commissione parlamentare “Fixing Fashion”, febbraio 2019

L’indagine dei parlamentari appare un bel salto. Anche perché, nel dare una sorta di pagella all’attenzione ambientale dei marchi inglesi, va al cuore dei problemi. Nessuno sconto ad un settore che occupa 550mila dipendenti nel Regno Unito e, stando al portale specializzato FashionUnited.uk, vale 66miliardi di sterline, con giganti produttivi come Burberry (10 miliardi di dollari di capitalizzazione), Next Plc (7,16 miliardi), Mark & ​​Spencer (6,18 miliardi di dollari) e ASOS (6,18 miliardi di dollari).
La febbre del consumo e il peso della moda inglese sull’ambiente

I parlamentari non si nascondono. Sollevano innanzitutto il tema dell’inquinamento: tra il 20% e il 35% di tutte microplastiche da fonti primarie disperse in ambiente marino – scrivono – provengono da indumenti sintetici, e ogni singolo lavaggio domestico da 6 kg ha il potenziale per rilasciare 700mila fibre tessili, molte delle quali vanno a contaminare gli oceani (marine litter). Non viene nemmeno taciuto l’enorme consumo di acqua dolce per la produzione, considerato sconveniente specialmente per trattamenti finalizzati a rovinare appositamente i tessuti per ragioni estetiche.
foto etichetta capo prodotto in Cina e reso consunto per ragioni di stile.

Denunciano la mancanza di rispetto delle leggi sul salario minimo(fissato a 8,21 sterline l’ora per i maggiori di 25 anni, ma che spesso non arriva a 5 sterline, anche nelle fabbriche della ricca Leicester, ad esempio). E ricordano quanto sia diffuso lo sfruttamento del lavoro nella moda, e di quello minorile, per cui chiedono un rafforzamento della legge sulla “schiavitù moderna” e maggiori controlli.


Ma, soprattutto, accusano apertamente il modello industriale che si incarna nel fast fashion, la spinta all’acquisto.

«Il consumo di nuovi vestiti è stimato più elevato nel Regno Unito rispetto a qualsiasi altro Paese europeo, 26,7 kg pro capite. Ciò a fronte di 16,7 kg in Germania, 16 kg in Danimarca, 14,5 kg in Italia, 14 kg nei Paesi Bassi e 12,6 kg in Svezia». Un consumo ingiustificato dalle reali necessità, con ritmi di rinnovo dei guardaroba parossistici. E che si associa a minime quantità di riuso (circa 300mila tonnellate di rifiuti tessili l’anno finisce in discarica o negli inceneritori) e riciclo (meno dell’1% dei tessuti).
2000-2015 la crescita delle vendite di abbigliamento a fronte del declino del riuso – fonte Ellen MacArthur Foundation, “A new textiles economy Redesigning fashion’s future”, 2017
Un cent ogni capo e 35mln di sterline all’economia circolare

Soluzioni? La commissione britannica alla fine del suo documento prova a suggerirne qualcuna. E il Governo risponde a tutte le 18 raccomandazioni esposte dal report. Ciò che risulta estremamente interessante è che la commissione identifica la necessità di un cambio di rotta, e di accelerare i tempi rispetto alle timide iniziative già intraprese dal governo (ad esempio il Sustainable Clothing Action Plan – SCAP 2020). E per realizzare questa rivoluzione spinge non sulla leva della sensibilità ambientale ma sulla leva fiscale ed economica. Evidentemente ben più potenti. 
obbiettivi di sostenibilità nella filiera dell’abbigliamento UK per gli aderenti a SCAP 2020



Nella relazione si chiede ad esempio di favorire, grazie a regimi fiscali differenti, l’utilizzo di PET riciclato a discapito della plastica vergine, anche quando ciò incide sul settore abbigliamento, ad esempio. E poi si propone con decisione l’introduzione di una tassa ad hoc per rendere il sistema moda più sostenibile.

Basterebbe un solo centesimo di sterlina d’imposta su ogni capo venduto nel Regno Unito per raccogliere ogni anno ben 35 milioni di sterline. Denaro che entrerebbe nelle casse pubbliche per realizzare un piano complessivo che investa sui centri di raccolta e selezione dell’abbigliamento, e per il riuso e il riciclo delle fibre. Una cifra che salirebbe addirittura a 169,5 milioni di sterline se il prelievo fosse di 5 cent.
TABELLA raccolta di risorse imponendo una tassa tra 1 e 5 centesimi di sterlina per capo – fonte relazione commissione parlamentare “Fixing Fashion”, febbraio 2019
Serve un design che pensa al fine vita dei capi

Infine la politica britannica è chiamata a fare il suo compito: pensare al futuro della società. E per questo la domanda per il governo inglese (in attesa di un sostituto di Theresa May) è di investire su chi fa ricerca nei materiali innovativi e nell’ecodesign. Obiettivo: applicare al tessile le norme europee sulla Responsabilità estesa del produttore (EPR), in modo che i marchi ragionino sull’intero ciclo dei loro vestiti e accessori, dall’estrazione o coltivazione delle materie prime allo smaltimento dei rifiuti, impatto ambientale incluso. Incentivando l’intera filiera a ridurlo.
incremento degli impatti ambientali negativi dell’industria tessile nel 2050 – fonte “A new textiles economy: redesigning fashion’s future”, Ellen MacArthur Foundation, 2017

«Abbiamo bisogno di un nuovo modello economico per la moda – scrivono del resto i membri della commissione -. Il business as usualnon funziona più». Ma ci sono degli innovatori britannici che stanno «forgiando una nuova visione per la moda». Questi innovatori si trovano ad affrontare la concorrenza da parte delle imprese focalizzate sulla riduzione delle spese, massimizzando i profitti a prescindere dai costi ambientali o sociali. Il governo deve fornire «chiari incentivi economici per i rivenditori affinché facciano la cosa giusta». Più chiaro di così…

fonte: https://valori.it

Differenziata dell’umido in tutta Italia entro il 2020. Lo prevede un nuovo emendamento

L'emendamento interviene sull'articolo 15 del ddl che recepisce la direttiva Ue 851 del 2018 sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio












Entro il 2020, i rifiuti organici dovranno essere raccolti in modo differenziato su tutto il territorio nazionale. Lo prevede un emendamento M5s, a firma unica Alberto Zolezzi, approvato in commissione Ambiente della Camera al ddl di delegazione europea. L'emendamento interviene sull'articolo 15 del ddl che recepisce la direttiva Ue 851 del 2018 sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio.
La VIII commissione, nel corso di una seduta notturna, ha esaminato gli emendamenti di sua competenza depositati in XIV commissione, dove dovranno tornare per essere riapprovati. Sempre sull'articolo 15, un altro emendamento Zolezzi ha aggiunto un criterio di delega per "prevedere che i rifiuti aventi analoghe proprietà di biodegradabilità e compostabilità, rispettanti gli standard europei per imballaggi recuperabili mediante compostaggio e biodegradazione siano raccolti insieme ai rifiuti organici, assicurando la tracciabilità di tali flussi e dei rispettivi dati, al fine di conteggiare il relativo riciclo organico negli obiettivi nazionali di riciclaggio dei rifiuti urbani e dei rifiuti di imballaggi". Un'altra proposta M5s approvata ha previsto che dovranno essere predisposti standard uniformi su tutto il territorio nazionale anche su "sistemi di misurazione puntuale e presuntiva dei rifiuti prodotti".
Ancora un emendamento Zolezzi ha poi modificato il criterio di delega che prevedeva l'assegnazione alle regioni della funzione di individuazione delle zone idonee alla localizzazione di impianti di smaltimento e di recupero, tenendo conto della pianificazione territoriale di area vasta. Con la modifica apportata, le regioni dovranno invece individuare le zone "non idonee alla localizzazione di impianti di smaltimento e di recupero, tenendo conto della pianificazione nazionale e di criteri ambientali oggettivi, come ad esempio il dissesto idrogeologico, la saturazione del carico ambientale, l'assenza di adeguate infrastrutture d'accesso".

fonte: http://www.e-gazette.it


Le strutture sanitarie italiane producono 2.700 metri cubi di rifiuti radioattivi l’anno

Braga: «Lo smaltimento quasi sempre avviene presso impianti di incenerimento in base alla normativa vigente». Ma manca ancora il Deposito nazionale





















Tra le quattro relazioni approvate ieri all’unanimità dalla cosiddetta commissione Ecomafie spicca la Relazione sulla gestione dei rifiuti radioattivi prodotti nella attività sanitarie, il cui testo sarà disponibile a breve sul sito della Camera dei deputati. Come ha illustrato la presidente della commissione Chiara Braga (nella foto, ndr), quello toccato dalla relazione è «un tema che non era mai stato indagato dalla commissione rifiuti».
«È stato realizzato un censimento – argomenta Braga – analizzando sia il lato della produzione che il sistema di trattamento. È stato inviato un questionario a tutte le strutture sanitarie segnalate dalla Regioni, con una copertura di più del 90%, pari a 750 unità. Questo lavoro ha permesso di ricostruire un quadro complessivo, con 2700 mc di rifiuti prodotti nel 2015 a livello nazionale. L’82% dei rifiuti radioattivi sanitari vengono gestiti direttamente da chi li produce, fino al raggiungimento delle condizioni di smaltimento che quasi sempre avviene presso impianti di incenerimento in base alla normativa vigente. La quota restante è gestita dalla rete di operatori del servizio integrato gestito da Enea, che assicurano una corretta gestione dei rifiuti in questione. Sarebbe importante acquisire i dati di controllo prima dello smaltimento finale, per dare un riscontro di garanzia ai cittadini sulla filiera, riguardo a un tema particolarmente sensibile come quello della gestione dei rifiuti radioattivi».
Tra i principali problemi che meriterebbero di essere affrontati con celerità è necessario poi sottolineare la mancanza del Deposito nazionale: un’infrastruttura ambientale di superficie dove mettere in sicurezza i rifiuti radioattivi prodotti in Italia, generati dall’esercizio e dallo smantellamento delle centrali e degli impianti nucleari, dalle attività di medicina nucleare, industriali e di ricerca. Tale Deposito dovrà consentire – come spiegano dalla Sogin – dovrà la sistemazione definitiva di circa 75 mila metri cubi di rifiuti di bassa e media attività e lo stoccaggio temporaneo di circa 15 mila metri cubi di rifiuti ad alta attività, che dovranno essere a loro volta successivamente trasferiti in un deposito geologico di profondità. Dei circa 90 mila metri cubi di rifiuti radioattivi, il 60% deriverà dalle operazioni di smantellamento degli impianti nucleari, mentre il restante 40% dalle attività di medicina nucleare, industriali e di ricerca, che continueranno a generare rifiuti anche in futuro. Il problema è che tale Deposito è atteso da anni, senza che ancora sia stato neanche scelto il luogo adibito ad ospitarlo.
La Carta delle aree potenzialmente idonee (Cnapi) ad ospitare il Deposito nazionale doveva essere stata consegnata alla cittadinanza tre anni fa, e lo scorso giugno il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda – interrogato sul tema proprio dalla commissione Ecomafie – aveva affermato che la Cnapi sarebbe stata pubblicata entro fine 2017. Promessa difficile da mantenere in piena campagna elettorale vista la delicatezza del tema, e che difatti è stata disattesa.

E così la nuova presidente della commissione Ecomafie, Chiara Braga, è tornata a raccomandare che «si accelerino i tempi per la realizzazione del deposito nazionale attraverso la pubblicazione della carta nazionale delle aree potenzialmente idonee, con l’avvio della consultazione pubblica». Ma una data certa è ancora ben lontana dal delinearsi.

fonte: www.greenreport.it

MinAmbiente: sui rifiuti più ambizione











Il Ministro dell'ambiente in audizione al Senato il 16/2/2017 ha confermato l'impegno a
sostegno e promozione di obiettivi Ue ambiziosi sui rifiuti lavorando alla formulazione di un quadro regolatorio chiaro e stabile.
Davanti alla Commissione Ambiente di Palazzo Madama il Ministro ha tracciato il quadro degli impegni sul clima e l'energia (Strategia energetica nazionale, azioni sull'economia circolare, riduzione delle emissioni 2021-2030, sviluppo sostenibile), concentrandosi anche sulle azioni in materia di rifiuti. Il Ministro ha confermato che il Governo: continuerà a sostenere l'introduzione di una metodologia unica e armonizzata di calcolo delle quantità di rifiuti riciclate e che chiarirà definitivamente i concetti chiave di recupero, riciclaggio, recupero di materia, riempimento, cessazione della qualifica di rifiuto e trattamento prima del conferimento in discarica; rafforzerà le politiche di prevenzione. Sarà incrementato il riciclo dei rifiuti rispetto ad altre forme di
recupero e smaltimento; supporterà l'aumento degli obiettivi di riciclaggio degli imballaggi.
Infine, il Governo promuoverà la fissazione di un obiettivo più ambizioso di riduzione di tutte le operazioni di smaltimento (non solo la discarica, ma anche l'incenerimento senza recupero energetico e le altre operazioni di smaltimento) di tutti i rifiuti prodotti al posto dell'obiettivo di riduzione della sola operazione di discarica per i rifiuti urbani.

documenti di riferimento


Area Normativa / Rifiuti / Normativa in Cantiere
Piano d'azione Ue per l'economia circolare (schemi di direttive in materia di rifiuti, discariche, imballaggi e
Raee)
Presentato dalla Commissione europea il 2 dicembre 2015

fonte: http://www.reteambiente.it