Visualizzazione post con etichetta #TassaAmbientale. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta #TassaAmbientale. Mostra tutti i post

Il Parlamento inglese contro il fast fashion: una tassa di 1 cent per ogni capo

La commissione Ambiente del Parlamento redige un rapporto clamoroso contro il settore moda. La tassa farebbe raccogliere 35 milioni di sterline per l'economia circolare



Anche la politica nazionale – sebbene non sia quella italiana – se ne accorge, finalmente. L’attuale sistema produttivo dell’abbigliamento fast fashion, non è più sostenibile. Di fronte a un settore moda che non sa autoriformarsi, a indicare la direzione possono essere (una volta tanto) gli Stati nazionali. Soprattutto se anche la pressione dell’opinione pubblica e le campagne animate dalla società civile non danno i risultati sperati.
Approfondimento

APPUNTAMENTI
3.800 litri d’acqua per un paio di jeans. The fashion experience ribalta la moda

A Milano, mecca della moda, un'installazione multimediale e un percorso emotivo che mostra cosa c'è dietro l'etichetta. Ambiente sfruttato e diritti negati

La notizia viene dal Regno Unito, che prova a percorrere la strada “istituzionale” per imporre il cambiamento ai big della moda. A farlo è la commissione parlamentare ambientale (Environmental Audit Committee) della Camera dei comuni che, attraverso una sua relazione, chiede al governo britannico di intervenire in modo rapido e concreto sul settore.


J’accuse del Parlamento alla moda fast fashion

Bisogna ammettere che fa un po’ strabuzzare gli occhi leggere l’incipit del documento, intitolato FIXING FASHION: clothing consumption and sustainability. Fashion: it shouldn’t cost the earth. Un testo redatto e pubblicato (a febbraio 2019) non dalla Clean Clothes Campaign, bensì da una commissione ufficiale pubblica in cui, a proposito dell’industria della moda, i parlamentari britannici scrivono: «Il modo in cui noi facciamo, utilizziamo e gettiamo via i nostri vestiti è insostenibile. La produzione tessile contribuisce di più al cambiamento climaticodell’intero trasporto internazionale aereo e navale, consuma laghi d’acqua dolce e crea inquinamento da sostanze chimiche e da plastica».

TABELLA le pagelle dell’industria tessile UK verso una moda sostenibile – fonte relazione commissione parlamentare “Fixing Fashion”, febbraio 2019

L’indagine dei parlamentari appare un bel salto. Anche perché, nel dare una sorta di pagella all’attenzione ambientale dei marchi inglesi, va al cuore dei problemi. Nessuno sconto ad un settore che occupa 550mila dipendenti nel Regno Unito e, stando al portale specializzato FashionUnited.uk, vale 66miliardi di sterline, con giganti produttivi come Burberry (10 miliardi di dollari di capitalizzazione), Next Plc (7,16 miliardi), Mark & ​​Spencer (6,18 miliardi di dollari) e ASOS (6,18 miliardi di dollari).
La febbre del consumo e il peso della moda inglese sull’ambiente

I parlamentari non si nascondono. Sollevano innanzitutto il tema dell’inquinamento: tra il 20% e il 35% di tutte microplastiche da fonti primarie disperse in ambiente marino – scrivono – provengono da indumenti sintetici, e ogni singolo lavaggio domestico da 6 kg ha il potenziale per rilasciare 700mila fibre tessili, molte delle quali vanno a contaminare gli oceani (marine litter). Non viene nemmeno taciuto l’enorme consumo di acqua dolce per la produzione, considerato sconveniente specialmente per trattamenti finalizzati a rovinare appositamente i tessuti per ragioni estetiche.
foto etichetta capo prodotto in Cina e reso consunto per ragioni di stile.

Denunciano la mancanza di rispetto delle leggi sul salario minimo(fissato a 8,21 sterline l’ora per i maggiori di 25 anni, ma che spesso non arriva a 5 sterline, anche nelle fabbriche della ricca Leicester, ad esempio). E ricordano quanto sia diffuso lo sfruttamento del lavoro nella moda, e di quello minorile, per cui chiedono un rafforzamento della legge sulla “schiavitù moderna” e maggiori controlli.


Ma, soprattutto, accusano apertamente il modello industriale che si incarna nel fast fashion, la spinta all’acquisto.

«Il consumo di nuovi vestiti è stimato più elevato nel Regno Unito rispetto a qualsiasi altro Paese europeo, 26,7 kg pro capite. Ciò a fronte di 16,7 kg in Germania, 16 kg in Danimarca, 14,5 kg in Italia, 14 kg nei Paesi Bassi e 12,6 kg in Svezia». Un consumo ingiustificato dalle reali necessità, con ritmi di rinnovo dei guardaroba parossistici. E che si associa a minime quantità di riuso (circa 300mila tonnellate di rifiuti tessili l’anno finisce in discarica o negli inceneritori) e riciclo (meno dell’1% dei tessuti).
2000-2015 la crescita delle vendite di abbigliamento a fronte del declino del riuso – fonte Ellen MacArthur Foundation, “A new textiles economy Redesigning fashion’s future”, 2017
Un cent ogni capo e 35mln di sterline all’economia circolare

Soluzioni? La commissione britannica alla fine del suo documento prova a suggerirne qualcuna. E il Governo risponde a tutte le 18 raccomandazioni esposte dal report. Ciò che risulta estremamente interessante è che la commissione identifica la necessità di un cambio di rotta, e di accelerare i tempi rispetto alle timide iniziative già intraprese dal governo (ad esempio il Sustainable Clothing Action Plan – SCAP 2020). E per realizzare questa rivoluzione spinge non sulla leva della sensibilità ambientale ma sulla leva fiscale ed economica. Evidentemente ben più potenti. 
obbiettivi di sostenibilità nella filiera dell’abbigliamento UK per gli aderenti a SCAP 2020



Nella relazione si chiede ad esempio di favorire, grazie a regimi fiscali differenti, l’utilizzo di PET riciclato a discapito della plastica vergine, anche quando ciò incide sul settore abbigliamento, ad esempio. E poi si propone con decisione l’introduzione di una tassa ad hoc per rendere il sistema moda più sostenibile.

Basterebbe un solo centesimo di sterlina d’imposta su ogni capo venduto nel Regno Unito per raccogliere ogni anno ben 35 milioni di sterline. Denaro che entrerebbe nelle casse pubbliche per realizzare un piano complessivo che investa sui centri di raccolta e selezione dell’abbigliamento, e per il riuso e il riciclo delle fibre. Una cifra che salirebbe addirittura a 169,5 milioni di sterline se il prelievo fosse di 5 cent.
TABELLA raccolta di risorse imponendo una tassa tra 1 e 5 centesimi di sterlina per capo – fonte relazione commissione parlamentare “Fixing Fashion”, febbraio 2019
Serve un design che pensa al fine vita dei capi

Infine la politica britannica è chiamata a fare il suo compito: pensare al futuro della società. E per questo la domanda per il governo inglese (in attesa di un sostituto di Theresa May) è di investire su chi fa ricerca nei materiali innovativi e nell’ecodesign. Obiettivo: applicare al tessile le norme europee sulla Responsabilità estesa del produttore (EPR), in modo che i marchi ragionino sull’intero ciclo dei loro vestiti e accessori, dall’estrazione o coltivazione delle materie prime allo smaltimento dei rifiuti, impatto ambientale incluso. Incentivando l’intera filiera a ridurlo.
incremento degli impatti ambientali negativi dell’industria tessile nel 2050 – fonte “A new textiles economy: redesigning fashion’s future”, Ellen MacArthur Foundation, 2017

«Abbiamo bisogno di un nuovo modello economico per la moda – scrivono del resto i membri della commissione -. Il business as usualnon funziona più». Ma ci sono degli innovatori britannici che stanno «forgiando una nuova visione per la moda». Questi innovatori si trovano ad affrontare la concorrenza da parte delle imprese focalizzate sulla riduzione delle spese, massimizzando i profitti a prescindere dai costi ambientali o sociali. Il governo deve fornire «chiari incentivi economici per i rivenditori affinché facciano la cosa giusta». Più chiaro di così…

fonte: https://valori.it

Budget Ue, "serve una carbon tax". La lettera di 19 economisti

Per favorire la transizione energetica “verde” e colmare il vuoto nel budget dell'Unione Europea post 2020 lasciato dalla Brexit, un gruppo di economisti propone di tassare i combustibili fossili. I ricavi dovrebbero finanziare, ad esempio, i trasporti pubblici nelle città e la riconversione industriale.




















Tassare i combustibili fossili per sostenere la diffusione delle tecnologie “pulite” e per colmare il buco nei finanziamenti Ue lasciato dalla Gran Bretagna dopo la Brexit.
Questa, in sintesi, la proposta avanzata da 19 economisti, tra cui Enrico Letta, l’ex direttore della World Trade Organization(WTO), Pascal Lamy, e l’ex ministro tedesco delle finanze, Hans Eichel, in una lettera inviata a Bruxelles, alla vigilia del vertice di oggi, in cui si comincerà a discutere sul budget europeo 2021-2027.
Nella lettera (allegata in basso) si suggerisce innanzitutto di varare una sorta di carbon tax su carbone, petrolio e gas (fossil fuel contribution), che potrebbe partire con uno schema-pilota dai cinque ai sette anni e da un livello molto modesto di tassazione, intorno a 5 € per tonnellata di CO2 emessa dalle tre fonti fossili, che potrebbe già garantire ricavi annuali nell’ordine di 17 miliardi di euro.
Altre soluzioni potrebbero essere: aumentare le accise sul diesel e “colpire” il settore aereo imponendo una tassa sul kerosene o applicando un livello minimo d’imposta sul valore aggiunto sui biglietti aerei.
Misure di questo tipo, evidenziano gli economisti, potrebbero rimpolpare il budget europeo con circa 50 miliardi di euro l’anno e contribuire ampiamente a mitigare l’impatto ambientale dei trasporti.
Secondo i firmatari della lettera, i ricavi aggiuntivi generati dalla carbon tax e dalle altre misure contro l’utilizzo dei carburanti fossili, dovrebbero poi finanziare la transizione energetica “socialmente sostenibile”, incrementando i fondi destinati ai trasporti pubblici nelle città, alla riqualificazione professionale di chi ha perso il lavoro nelle industrie più inquinanti, allo sradicamento della povertà energetica in Europa e in altri continenti.

fonte: www.qualenergia.it

La Cina ha cominciato a incassare la tassa ambientale

La lotta contro l’inquinamento è una delle "tre battaglie difficili" che la Cina deve vincere in 3 anni


























Dal primo gennaio la Cina ha cominciato a percepire la tassa ambientale che, secondo il governo di pechino, dovrebbe contribuire a proteggere meglio l’ambiente e a ridurre gli scarichi inquinanti. L’agenzia ufficiale Xinhuasottolinea che «L’introduzione di questa tassa ha messo fine alle “imposte per gli scarichi inquinanti” che la Cina ha percepito per quasi 40 anni».
Wang Jinnan, a capo dell’Accademia cinese per la pianificazione del ministero della protezione dell’ambiente, spiega che «Si tratta della prima tassa cinese chiaramente concepita per la protezione dell’ambiente che contribuirà a stabilire un sistema fiscale e finanziario “verde” e a incoraggiare il controllo dell’inquinamento e il trattamento degli inquinanti», La Cina ha cominciato a imporre tasse sugli scarichi inquinanti dal 1979, ma Xinhua denuncia che «Alcuni governi locali hanno approfittato delle lacune e hanno esentato qualche impresa da queste tasse, mentre avrebbero potuto apportare delle importanti entrate fiscali, Durante gli anni, i regolamenta tori hanno suggerito di rimpiazzare questo sistema di tassazione con una legge».
Secondo Wang, «Con la legge sulla protezione dell’ambiente, che prende di mira le imprese e le istituzioni pubbliche che scaricano direttamente nella natura degli inquinanti specifici,  le imprese dovranno pagare delle tasse per la produzione di rumore, di inquinanti dell’aria e dell’acqua e anche di rifiuti solidi».
Le autorità del governo centrale comunista fisseranno i limiti della tassazione ambientale e autorizzeranno i governi locali  a determinare le tasse. La nuova tassa si applica solo alle imprese alle istituzioni pubbliche a ad altri operatori commerciali e non ai singoli cittadini. Il governo centrale destinerà le entrate prodotte dalla tassa ambientale ai governi locali, per motivarli a partecipare maggiormente alla lotta contro l’inquinamento. Secondo le stime degli analisti, la nuova tassa potrebbe apportare un’entrata annua che va fino a 50 miliardi di yuan (circa 7,68 miliardi di dollari). 
Lottare contro l’inquinamento
La Conferenza centrale sul lavoro economico organizzata a dicembre ha evidenziato che «Lottare contro l’inquinamento figura tra le “tre battaglie difficili” che la Cina prevede di vincere entro i tre anni a venire».
Una battaglia molto difficile da vincere: da gennaio a novembre 2017 la Cina ha indagato su oltre 35.600 violazioni delle leggi e dei regolamenti sulla protezione dell’ambiente, con un aumento del 102% rispetto al 2016 ed è evidente – anche da quel che scrive accompagnando l’avvio della nuova tassa – che il governo centrale comunista non si fida per niente dei compagni delle amministrazioni locali, spesso accusati di essere corrotti proprio dagli inquinatori.

fonte: www.greenreport.it