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La pesca a strascico inquina come il traffico aereo: emissioni per un miliardo di tonnellate l’anno di CO2












Un miliardo di tonnellate di CO2 ogni anno, tanto quanto il traffico aereo mondiale. È la media delle emissioni provocate dalla pesca a strascico. Lo studio, realizzato da 26 biologi marini e pubblicato a marzo 2021 da Nature, stima un impatto che va da 600 milioni a 1,5 miliardi di tonnellate. Soprattutto rivela un aspetto ancora poco noto sull’alterazione di equilibri delicatissimi da parte delle attività umane. Mari e oceani assorbono un terzo dei gas serra emessi in atmosfera e il carbonio si deposita nei sedimenti, che sono il più grande bacino di stoccaggio al mondo. Resta imprigionato lì senza dar fastidio a nessuno, fino a quando le reti, arando i fondali, lo liberano. In parte ritorna nell’aria e in parte resta in acqua, rende acido l’ambiente marino, riducendo così la sua capacità di fare da filtro. L’Italia è il terzo Paese al mondo in questo tipo di emissioni dopo Cina e Russia.






Come funziona la pesca a strascico

Si pratica con reti a cono trascinate da una o due barche. Grattano il fondale con una parte armata di piombi e catene per smuovere il sedimento dove si nascono le tane dei pesci. Servono per pescare i piccoli pesci da frittura, merluzzetti, triglie, razze, telline, vongole, gamberetti e altri piccoli crostacei. Ma distruggono quello che incontrano: dai coralli alle alghe.

Inoltre raccoglie tutto, esemplari adulti e giovani, ostacolando il ripopolamento ittico. Nelle reti finiscono pesci il cui commercio è vietato dalle convenzioni, come cetacei e tartarughe, o specie in estinzione come lo squalo mako, lo smeriglio, la ventresca, che deve essere ributtato in mare. Secondo la Fao oltre 60 specie di squali e razze vengono catturate dallo strascico. Il problema è che, una volta impigliati nelle reti, muoiono. Succede al 18% delle tartarughe marine catturate, mentre un altro 18% muore successivamente per i danni subiti.


La pesca più redditizia

Per questo che è largamente praticata. Nel 2019 il volume commerciabile di questo tipo di pescato è stato di 66 mila tonnellate, il 37% del totale (176.738 tonnellate), ma in termini economici lo strascico pesa il 54% del totale: 480 milioni su 891,7 milioni. La flotta italiana di pescherecci a strascico e la più grande del Mediterraneo: 2.086 su un totale di 12.101, vale a dire il 17,2% di tutta la flotta nazionale, ed è quella che ha resistito di più alla crisi, perdendo lo 0,2% contro il 9,8% del totale. Lo confermano anche i dati di consumo di gasolio: nel 2018, ultimo dato disponibile, i pescherecci a strascico hanno consumato oltre 281 milioni di litri su 354 milioni totali; in Spagna 76 milioni su 100 e in Francia 12,7 milioni su 21,5. La sua insostenibilità parte anche da qui: è il tipo di pesca che in assoluto consuma più carburante.


È la più inquinante

Fino agli anni ‘50/’60 per le reti si usava la canapa o il cotone: a fine vita finito si gettavano nell’oceano e nel giro di qualche anno diventavano cibo per i pesci. Da qualche decennio si utilizzano quelle in nylon, e quando si impigliano, si rompono, si perdono, o vengono volontariamente buttate quando si pesca dove è vietato, oppure abbandonate perché smaltirle costa, restano nei mari fino a 600 anni. Chilometri di reti fantasma trascinate dalle correnti imprigionano pesci, uccidono delfini, soffocano coralli. Poi pian piano si deteriorano in micropezzi, finendo poi nei nostri piatti quando mangiamo il pescato. Dai dati Fao e del Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite: 640.000 tonnellate di reti da pesca navigano negli oceani, il 10% di tutti i rifiuti.


Le soluzioni ignorate

Esiste un tipo di pesca meno impattante, come l’utilizzo delle nasse, delle specie di gabbie che vengono deposte sul fondo, o le «reti da posta», che non vengono trascinate, ma depositate sui fondali, e con reti dalle maglie appena un po’ più larghe. È noto dal 2001, quando uno studio ministeriale italiano condotto da IcrMare ha dimostrato che passando da 50 a 60 mm non si imbrigliano i pesci più piccoli. Il problema è che si riduce anche il fatturato del 22,8%. Per questo non viene fatto. L’Islanda, che ha mari molto ricchi e dove la pesca incide tra il 9 e l’11% sull’economia. Proprio per preservare i suoi mari ha regolamentato il settore sin dagli anni ’90, con limiti fissati di cattura per ciascuna specie e quote percentuali per armatori e pescatori, con il divieto di rigetto in mare (tutto il pesce catturato deve essere portato a terra). E per la pesca a strascico è obbligatorio l’utilizzo di luci colorate nelle reti, speciali griglie che evitano di pescare i pesci troppo piccoli, e le reti devono essere poste a mezza profondità. Quasi ovunque invece ciò che non è vendibile e lo si ributta in mare. È il «bycatch», lo scarto del pescato, spesso costituito da pesci morti. Secondo la Fao nel 2019 sono state 9,1 milioni di tonnellate, di cui 5,1 solo dalla pesca a strascico e aggiunge: la pesca più insostenibile si pratica nel Mediterraneo e nel Mar Nero (62,5% di stock sovrasfruttati), nel Pacifico sudorientale (54,5%) e nell’Atlantico sudoccidentale (53,3%).


Le regole e i controlli

Una volta che una porzione di fondale viene «arata», i pescherecci si spostano più in fondo, e oltre i 200 m l’ambiente marino è ancora più delicato. Uno studio del 2014 condotto dalle università di Ancona e Barcellona, a queste profondità, la pesca a strascico causa una riduzione del contenuto di sostanza organica fino al 52%, e un turnover più lento del carbonio organico (circa il 37%). In Italia questo genere di pesca è vietata entro i 3 km dalla costa o a meno di 50 metri di profondità, e vanno poi rispettati i periodi di fermo biologico per consentire la riproduzione dei pesci. Di fatto si pratica sei mesi l’anno, e i controlli stanno a zero. Nel 2015, secondo MedReAct, sono state rilevate 102 infrazioni, 89 nel 2016. La maggioranza dei casi, molti dei quali segnalati da cittadini, o responsabili di aree marine protette, riguarda lo strascico in zone vietate. La Guardia Costiera rende noto il solo dato del 2020, che è in linea, 90 sequestri di reti da traino effettuati. Intanto i pescatori che non «strascicano» pescano sempre meno, proprio perché di pesce non ne trovano più.


La terra di nessuno

A livello mondiale, oggi solo il 2,7% dei mari è protetto. Secondo lo studio pubblicato da Nature, per eliminare il 90% dei rischi connessi all’emissione dell’anidride carbonica provocata dalla pesca a strascico sarebbe necessario proteggere almeno 4% degli oceani all’interno delle acque nazionali. Soprattutto nelle aree più vulnerabili, ovvero le piattaforme continentali che includono la zona economica esclusiva della Cina, le aree costiere dell’Europa atlantica e la dorsale di Nazca del Perù. L’obiettivo, però, è quello di proteggere il 30% dei mari. In questo modo non solo si potrebbe ripristinare la biodiversità negli habitat oceanici, ma aumenterebbe anche la quantità globale del pescato annuo di 8 milioni di tonnellate, in declino costante dagli anni ‘90. Nell’incontro di ottobre a Kunming, in Cina, promosso dalle Nazioni Unite, il mondo discuterà proprio della Convenzione sulla diversità biologica.

fonte: www.corriere.it



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Nuova vita per la plastica in mare che diventa montatura di occhiali

 










L'innovazione di Sea2See, brand di occhiali da vista e da sole che fa della circolarità la sua bandiera

Dal mare agli occhi. Non è il titolo di una poesia romantica, quanto piuttosto il principio fondante di Sea2See, brand che produce montature per occhiali, da vista e da sole, interamente con plastica recuperata dal mare: un progetto di business sostenibile in un’ottica del tutto circolare dei consumi, con riguardo all’ambiente.

L’impatto ambientale del settore ottico

François van den Abeele, fondatore di Sea2see, ricorda che l’industria della moda è la più inquinante al mondo, subito dopo quella petrolifera. Nel settore ottico - parte integrante del mondo fashion - l'attenzione alla sostenibilità è quasi inesistente: i rifiuti prodotti dalle montature in acetato degli occhiali vecchi hanno un altissimo impatto, soprattutto in virtù del fatto che ogni paio di occhiali è prodotto con materie prime (plastiche) nuove. A ciò si aggiunga che circa il 50% della popolazione porta occhiali da vista. L’idea alla base di Sea2See è unica nel tuo genere e punta a invertire questo trend, conciliando business e tutela ambientale e impattando positivamente anche su un'altra dimensione lavorativa, quella dei pescatori che hanno la possibilità di arrotondare lo stipendio raccogliendo rifiuti dal mare.

Dal rifiuto alla nuova vita

Il team di Sea2see si occupa infatti di recuperare rifiuti dal mare in un’ottica circolare, trasformando così in risorsa ciò che è stato trattato come uno scarto: l’azienda si occupa di tutto, dalla raccolta alla produzione, che avviene in Italia. François spiega che i materiali vengono raccolti nei porti di Spagna e Francia grazie a centinaia di pescatori attivi sulle coste di Ghana e Senegal. I pescatori, oltre a svolgere il proprio lavoro, ricevono uno stipendio extra per il recupero di materiali plastici che vengono devoluti all’azienda. Ogni mese Sea2See raccoglie circa 15 mila kg di rifiuti plastici dai mari.

Il punto di forza del brand è la capacità di recupero del materiale dai rifiuti marini, anziché l'acquisto di materie prime ex novo. La plastica, infatti, in virtù della propria resistenza, è un materiale che non si biodegrada mai: affinché un materiale si biodegradi è infatti necessario che esista un batterio in grado di trasformarlo in un altro materiale, ma per la plastica non c'è nulla di simile. La plastica si limita a degradarsi, nei decenni, nelle cosiddette microplastiche, pericolose sia per gli ecosistemi marini sia per l'alimentazione umana. La superficie di queste microplastiche, infatti, è particolarmente idonea a intrappolare tossine che vengono rilasciate all’interno del corpo dei pesci che le ingeriscono e di cui noi ci nutriamo.

Ed è qui che entra in gioco Sea2See. Togliendo materiale plastico dal mare e dandogli nuova vita e nuovo utilizzo, favorisce non solo la circolarità e la sostenibilità in un ambito che ne era privo, ma anche la salubrità di mari, acque e animali. Un modo etico, innovativo e visionario di fare business pensando anche al domani, un valido esempio di conciliare profitto e salvaguardia ambientale. Spingere il consumatore ad agire in maniera responsabile è uno strumento importante di sensibilizzazione, in questo caso per la tutela dei mari da cui dipende la vita sulla terra, ma è anche un’opportunità che sempre più aziende dovrebbero imparare a cogliere.

fonte: www.infosostenibile.it


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Nelle reti da pesca finiscono tonnellate di rifiuti














Le imbarcazioni dei pescatori raccolgono ogni giorno incredibili quantitativi di rifiuti, per la maggior parte di plastica. Proprio per questo possono essere un’arma preziosa contro il marine litter. Ne parliamo nell'ottava puntata di "Lo sapevi che?" il format curato da Ricicla.tv in collaborazione con l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale.



fonte: www.riciclatv.it


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AdriCleanFish, monitorato l’impatto dei rifiuti in mare

I risultati ottenuti confermano come il mare nostrum risulti essere una tra le aree più impattate da microplastiche a livello mondiale




Ricercatori e pescatori alleati in un progetto di monitoraggio, raccolta e valutazione dell’impatto dei rifiuti in mare e dei loro effetti sulle specie ittiche. Il progetto di ricerca AdriCleanFish è finanziato dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali nell’ambito del Programma Operativo FEAMP 2014-2020 (Fondo Europeo per gli Affari Marittimi e la Pesca) ed è coordinato dall’Università di Siena e dall’Università Ca’ Foscari di Venezia. Per il monitoraggio sono stati scelti i porti adriatici di Civitanova Marche (Macerata) e Chioggia (Venezia).

La maggior parte dei rifiuti arriva da terra, ma una parte consistente è dovuta ad attività legate alla navigazione (diporto, trasporto commerciale e turistico), ad esempio cime, cavi, parabordi, boe e galleggianti. Il monitoraggio conferma che tutti i pescatori pescano rifiuti, per la maggior parte di plastica, e almeno il 20% dei pesci ha ingerito microplastiche. Il Mediterraneo è una delle aree con la maggiore presenza di microplastiche a livello mondiale. Più del 70% dei rifiuti analizzati è in plastica, soprattutto monouso (sacchetti e bottiglie). Circa il 50% di tale materiale è costituito da imballaggi, non solo in plastica ma anche in alluminio (lattine per bibite, quindi anche queste monouso). Ci sono poi ingenti quantità di retine utilizzate per la mitilicoltura, rifiuti legati alla pesca commerciale (pezzi di rete e strutture in gomma utilizzate per proteggere la parte di rete a contatto con il fondo) e oggetti connessi alla piccola pesca (reti da posta, nasse e trappole). Il progetto ha monitorato e analizzato anche i macrorifiuti galleggianti.

I ricercatori di AdriCleanFish hanno analizzato le specie ittiche destinate al consumo umano (in particolare acciuga, nasello, sardina, sogliola, sugarello, triglia di fango). Le indagini ecotossicologiche hanno valutato lo stato di salute delle specie selezionate, i possibili effetti causati dall’ingestione della plastica, l’accumulo dei principali contaminanti chimici di sintesi presenti nelle microplastiche nella parte edibile del pesce e le possibili conseguenze per la salute umana. In media 2 pesci su 10 avevano tracce di plastica nei tratti gastro-intestinali (sia rifiuti plastici in generale che microplastiche). Poiché le microplastiche ingerite vengono espulse dall’apparato digerente e al momento del consumo questa parte viene eliminata, possiamo dedurre che non vengano ingerite dall’uomo.

La novità interessante del progetto AdriCleanFish è stato il coinvolgimento diretto dei pescatori, che possono avere un ruolo importantissimo nella lotta all’inquinamento marino. I pescherecci hanno raccolto i rifiuti in mare, che poi sono stati smistati e analizzati a terra. I ricercatori hanno organizzato degli incontri formativi con i pescatori di Chioggia e Civitanova Marche sulla gestione e conservazione delle risorse biologiche marine; gli stessi pescatori hanno partecipato alla realizzazione di un documentario in cui vengono illustrate le attività svolte durante il progetto. L’obiettivo del documentario è trasmettere a cittadini e istituzioni consapevolezza della gravità dell’impatto dei rifiuti in mare e le conseguenti ripercussioni sulla pesca.

In collaborazione con 58 marinerie italiane, AdriCleanFIsh ha somministrato dei questionari su tutto il territorio nazionale dai quali risulta che il 43% dei pescatori pesca sempre o quasi sempre rifiuti; pochi (1-4%) quelli che dichiarano di non pescare mai o quasi mai rifiuti. Le aree più colpite sono quelle sottocosta e vicino alle foci dei fiumi. Tutti gli intervistati rilevano problemi come lo stoccaggio dei rifiuti a bordo, il rallentamento delle attività di raccolta e separazione del pescato, la mancanza di punti idonei a terra per il conferimento e lo smaltimento dei rifiuti.

Quasi tutti gli intervistati ritengono necessarie attività di sensibilizzazione e responsabilizzazione per i pescatori e i cittadini attraverso i media, nelle scuole, o con periodiche campagne di raccolta dei rifiuti. A questo proposito, si segnala l’iniziativa Fishing for Litter, nata per facilitare il conferimento a terra dei rifiuti raccolti in mare dai pescatori.

fonte: www.rinnovabili.it


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Plastica, pesca e inquinamento: il destino da cambiare

















C’è chi il mare lo canta, chi lo ascolta, chi lo osserva e chi lo racconta da tutta una vita. Sono i protagonisti di questa storia fatta di distese blu cobalto minacciate dalla presenza dell’uomo. Una convivenza difficile quella tra l’essere umano e la natura, figli della stessa madre che non riescono a trovare un punto di incontro.

Il blocco delle attività produttive e dei trasporti hanno generato conseguenze per molti inaspettate: acque cristalline e animali che tornano a popolare quegli angoli che fino a poco tempo prima erano loro proibiti. Ma quanto durerà?




fonte: www.ricicla.tv



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Campania, 19 tonnellate di rifiuti raccolti grazie al progetto Remare

Coordinato dall’Amp di Punta Campanella, il progetto Remare ha coinvolto 393 pescherecci e 4 aree marine protette. In quattro mesi, le reti dei pescatori hanno raccolto oltre 19 tonnellate di rifiuti. Il primato è ancora della plastica




Finanziato dalla Regione Campania grazie a fondi europei, il progetto Remare ha permesso, in poco meno di quattro mesi, da agosto a novembre, la raccolta di oltre 19 tonnellate di rifiuti dalle acque mediterranee.
Nel dettaglio l’iniziativa ha coinvolto 393 pescherecci e 4 aree marine protette in una vasta zona di mare, da nord a sud della Campania, per un totale di 52mila ettari marini: le imbarcazioni sono state attrezzate con apposite bag per la raccolta di tutti gli oggetti finiti nella rete durante la quotidiana attività di pesca, poi consegnati a una società di smaltimento regolarmente iscritta al registro nazionale degli intermediari. 
Tra i rifiuti raccolti dai pescatori campani, il primato spetta alla plastica, con il 64% del totale. Seguono il vetro con l’8%, gli attrezzi da pesca ed il legno, entrambi 4% circa, ed un restante 20% formato da materiale diverso tra cui metalli e tessuti.  

Remare – ha detto Antonino Miccio, direttore dell’Area marina protetta di Punta Campanella che ha coordinato l’intera attività –  ha rappresentato un’assoluta novità nel panorama nazionale. Ha messo insieme, per la prima volta, tutte le aree marine protette della regione e le associazioni e le cooperative di pesca”. 
Una “sinergia” che conferma l’efficacia della soluzione discussa solo pochi giorni fa a Ecomondo, in occasione del convegno Legambiente “Marine litter e blue economy, impatti e soluzioni dal mondo della pesca e dell’acquacoltura”, durante il quale l’associazione aveva nuovamente evidenziato come, per rimuovere parte di rifiuti dispersi nell’ambiente marino, fosse “necessario fare leva proprio sul quotidiano lavoro dei pescatori.
Le aree interessate dalla raccolta sono state, nel dettaglio, le zone di mare dell’Area Marina Protetta Regno di Nettuno, tra Ischia, Procida e quelle a nord di Napoli, Punta Campanella, la riserva naturale a cavallo tra i due golfi, di Napoli e Salerno, e le due aree marine protette del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano Amp Santa Maria di Castellabate e Amp Costa degli Infreschi e della Masseta.  Al progetto hanno aderito quasi tutte le associazioni di categoria presenti in Campania, tra cui la Federazione regionale della pesca, la Federazione nazionale delle imprese di pesca, le Confcooperative Fedagripesca Campania, Agci pesca Campania, Lega regionale delle cooperative e mutue della Campania.
Remare – ha concluso Miccio – ha permesso di creare una sinergia tra soggetti che lavorano con il mare per finalità diverse, come le aree marine protette e i pescatori. Ma questa volta hanno seguito e centrato un obiettivo comune. Non è stato facile, perché per la prima volta si è creata una sinergia così estesa. I risultati sono stati incoraggianti, anche in prospettiva futura”. Il progetto Remare – va ricordato –  ha di fatto anticipato la legge Salvamare, la cui approvazione definitiva – ormai prossima – è stata più volte sollecitata dalle diverse associazioni ambientaliste italiane, tra cui la stessa Legambiente, proprio per permettere ai pescatori di contribuire alla pulizia dei mari durante la normale attività lavorativa. 

fonte: www.rinnovabili.it

Greenpeace avverte: ogni anno la pesca scarica migliaia di tonnellate di plastica in mare



Il Report di Greenpeace evidenzia l’enorme diffusione in tutti gli oceani di rifiuti plastici legati alla pesca. Reti e lenze abbandonate rappresentano un gravissimo rischio per la fauna marina: l’ONG chiede alle Nazioni Unite una più stretta regolamentazione


















Nonostante l’enorme quantità di rifiuti plastici monouso raccolti lungo le spiagge di tutto il mondo siano riconducibili ad una manciata di multinazionali (operanti in particolare nei settori alimentare e cosmetico), i principali responsabili dell’inquinamento da plastica degli oceani risultano ad oggi essere gli attrezzi da pesca persi ed abbandonati dai pescatori.
Ad evidenziarlo è un nuovo Report di Greenpeace, secondo il quale ogni anno, negli oceani, vengono scaricate oltre 640.000 tonnellate tra reti, lenze, trappole ed altri strumenti da pesca. Basti pensare che, secondo un recente studio, le 42.000 tonnellate di macro-plastica che compongono l’enorme isola di rifiuti accumulatasi nel Pacifico settentrionale risulta essere costituita per l’86% da reti da pesca. “L’attrezzatura fantasma (Ghost Gear, cioè appunto gli attrezzi da pesca abbandonati e perduti) rappresenta una delle principali fonti di inquinamento plastico oceanico ed influenza la vita marina nel Regno Unito tanto quanto in qualsiasi altro luogo del mondo”, ha dichiarato al The Guardian Louisa Casson della Campagna Oceani di Greenpeace UK. “I governi di tutto il mondo devono agire per proteggere i nostri oceani globali e stringere l’industria della pesca con regolamentazioni che la obblighino a smaltire correttamente i rifiuti pericolosi. Un primo fondamentale passo verrà fatto con il Trattato globale sull’oceano che verrà concordato alle Nazioni Unite il prossimo anno”.


Il Rapporto insiste sulla pericolosità di tali strumenti per la vita marina. Tutta la plastica negli oceani può intrappolare, soffocare o uccidere gli animali, tuttavia l’inquinamento plastico del settore ittico risulta ancora più letale perché specificamente progettato per catturare e uccidere la fauna marina. “Le reti da pesca in particolare – spiega Casson – rappresentano un’enorme minaccia per per la fauna selvatica, dai pesci più piccoli ai crostacei, dalle tartarughe agli uccelli marini, fino alle balene già a rischio di estinzione”. Il pericolo è ancora più alto se si considera che questi elementi, una volta in acqua possono viaggiare alla deriva fino alle coste dell’Artico, una delle aree incontaminate più a rischio del Pianeta, o intrecciarsi con la barriera corallina causando enormi danni all’intero ecosistema. La diffusione di simili rifiuti plastici si deve sia alla pesca illegale, non normata e non dichiarata, che a quella industriale: secondo l’ONG, la scarsissima regolamentazione ed il lento progresso politico nella creazione di santuari oceanici che vietino la pesca industriale in aree protette sono ciò che di fatto consente al problema di persistere ed aggravarsi.

Per questi motivi, Greenpeace chiede al trattato delle Nazioni Unite di fornire un quadro globale per la protezione marina, favorendo l’apertura di santuari oceanici in grado di tutelare almeno il 30% degli oceani entro il 2030.

fonte: www.rinnovabili.it

Le politiche ambientali. Arriva il decreto Salvamare

La Lega non è soddisfatta: "Snaturato il testo iniziale, pescatori demonizzati"




Un riconoscimento, e non più una certificazione, per gli imprenditori della pesca che usano materiali a basso impatto ambientale e che prendono parte a campagne di pulizia marina e, allo stesso tempo, smaltiscono i rifiuti trovati accidentalmente in mare. Questo il senso di un emendamento al ddl Salvamare all'esame della commissione Ambiente alla Camera. L'emendamento di Rossella Muroni di LeU e Paola Deiana del M5s, relatrici al provvedimento, è stato approvato dalla commissione, e modifica così il testo.
Il disegno di legge “Promozione del recupero dei rifiuti in mare e per l'economia circolare” (legge Salvamare) contempla 7 articoli e sostanzialmente punta a trasformare i pescatori in eco-spazzini del mare, permettendogli di portare a terra i rifiuti tirati su durante la loro normale attività e conferirli all'impianto dedicato.
La commissione Ambiente ha dato il via libera anche ad altre proposte di modifica, come l'allargamento del raggio d'azione del decreto end of waste sui rifiuti accidentalmente pescati (sempre delle relatrici); si dovrà così pensare oltre che alla plastica e al suo riciclo anche ai "materiali non compatibili con l'ecosistema marino".
La Lega protesta - "La Lega compatta si è astenuta dal voto del cosiddetto ddl Salvamare in commissione Agricoltura: il testo iniziale è stato totalmente snaturato e con l'introduzione di una voce sui bollettini della Tari per il conferimento dei rifiuti recuperati dai fondali. Si demonizzano ingiustamente i pescatori. Sono inoltre spariti i criteri di premialità, che la Lega aveva proposto, nel sistema punti per le infrazioni, sull'attività di raccolta accidentale dei rifiuti da parte dei nostri pescatori". Così i deputati della Lega in Commissione Agricoltura di Montecitorio: Lorenzo Viviani (capogruppo), Mario Lolini (vicepresidente), Guglielmo Golinelli, Aurelia Bubisutti, Dimitri Coin, Flavio Gastaldi, Marzio Liuni, Carmelo Lo Monte e Martina Loss.  "Il governo giallofucsia è uscito allo scoperto e ha varato la prima tassa sulle spalle degli italiani con l'introduzione di una nuova voce nel bollettino Tari, la tassa sui rifiuti, nascosta tra le maglie del ddl Salvamare. La Lega, in commissione Ambiente alla Camera, si è opposta a questo balzello che colpirà tutte le famiglie e le imprese, ma la maggioranza ha votato contro la nostra proposta sulla copertura con risorse statali".

fonte: http://www.e-gazette.it

Audizione Ispra alla Camera dei deputati sui rifiuti dispersi in mare




















La Commissione Ambiente della Camera dei Deputati, nell’ambito dell’esame in sede referente della proposta di legge recante disposizioni concernenti l’impiego di unità da pesca per la raccolta dei rifiuti solidi dispersi in mare e per la tutela dell’ambiente marino, ha svolto le audizioni di rappresentanti dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), della Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali (Federparchi) e della Fondazione Angelo Vassallo “Sindaco Pescatore”.
Durante l’audizione, il direttore generale Ispra, Alessandro Bratti, ha parlato dei risultati del progetto MLREPAIR (REducing and Preventing, an integrated Approach to Marine Litter Management in the Adriatic Sea), che sono stati recentemente presentati, di cui l’Istituto è partner: in 10 mesi (da luglio 2018 ad aprile 2019) 6 barche della marineria di Chioggia hanno raccolto 14206 kg (14 tonnellate) di rifiuti in Alto Adriatico con l’iniziativa Fishing for Litter (FFL).

Reti da pesca abbandonate, da rifiuto a prodotto d’alta moda

Grazie all’iniziativa di Healty Seas, le oltre 4 tonnellate di reti da pesca abbandonate sui fondali e recuperate al largo delle Eolie saranno ripulite e rigenerate in nylon, che verrà utilizzato nelle collezioni di Gucci, Richard Malone e Adidas























Oltre 4 tonnellate di reti da pesca abbandonate sui fondali marini recuperate dai volontari della no profit Healty Seas e pronte per raggiungere le passerelle dell’alta moda. Succede al largo delle isole Eolie dove, tra il 6 e l’8 ottobre scorsi, c’è stata una cordata tra Healty Seas, appunto, e Aquafil, Aeolian Islands Preservation Fund, Blue Marine Foundation, Ghost Fishing Foundation, diving locali, pescatori eoliani e Guardia Costiera per recuperare le reti da pesca abbandonate in mare, tra cui una di oltre 2 tonnellate persa una decina di anni fa durante una tempesta. Si tratta di un rifiuto presente nei mari di tutto il mondo che, secondo i rapporti di UNEP e FAO, rappresenterebbe il 10% dei rifiuti plastici presenti negli oceani; ogni anno, infatti, vengono abbandonate in mare 640.000 tonnellate di reti da pesca.
  
Adesso tutto questo materiale recuperato, sarà opportunamente pulito e trattato da Aquafil per essere rigenerato in nylon ECONYL®. Si tratta di un materiale ottenuto da rifiuti che altrimenti finirebbero in discarica ed è di fatto un nylon riciclato con le stesse identiche caratteristiche di quello da fonte vergine, che può essere rigenerato, ricreato e rimodellato all’infinito e che sarà utilizzato nelle collezioni di Gucci, Richard Malone e Adidas. “Dobbiamo guardare oltre il semplice schema del recupero e riciclo dei prodotti a fine vita – ha commentato il Presidente e CEO di Aquafil, Giulio Bonazzi – pensando a design sostenibili che permettano la circolarità compiuta delle diverse fasi di vita dei prodotti e a un sistema industriale più sostenibile”.

Le operazioni di recupero delle reti abbandonate sui fondali sono state seguite anche dagli studenti, che hanno avuto l’opportunità di incontrare i subacquei e di approfondire il problema dei rifiuti marini e i principi dell’economia circolare. In cinque anni di attività, Healty Seas, in collaborazione con subacquei e pescatori volontari, ha recuperato dai mari oltre 375 tonnellate di reti da pesca abbandonate e ha come obiettivo quello di sensibilizzare le comunità locali nella protezione dell’ambiente marino. “Collaborando con le comunità costiere e le organizzazioni del settore della pesca – ha spiegato la coordinatrice del progetto di Healty Seas, Veronika Mikos – speriamo di prevenire l’abbandono nei mari delle reti e di aumentare la conoscenza su questo grave problema globale”.

fonte: www.rinnovabili.it

In 4 mesi i “pescatori spazzini” di Livorno hanno pulito il mare da 16 quintali di rifiuti

La sperimentazione è quasi conclusa: Regione Toscana, Legambiente e Unicoop Firenze chiedono a Governo e Parlamento una legge nazionali che incentivi a non ributtare in acqua le plastiche pescate





















Sei i pescherecci coinvolti, con una media di sei chili al giorno per ogni barca: finora i “pescatori spazzini” di Livorno coinvolti al progetto Arcipelago pulito, lanciato la scorsa primavera, hanno tirato su con le loro reti 16 quintali di rifiuti, issati accidentalmente sulle proprie barche durante le battute di pesca. In media, ogni giorno il 6% del pescato è rappresentato da spazzatura, o meglio da rifiuti speciali.
Attualmente la normativa nazionale prevede che un pescatore che raccoglie questi rifiuti con le reti ne diventa poi responsabile, e ne debba dunque pagare lo smaltimento, se vuole riportarli a terra anziché lasciarli a inquinare il mare: un’occasione mancata alla quale il progetto Arcipelago pulito sta sopperendo, davanti alla coste livornesi, grazie a un protocollo d’intesa siglato a marzo tra Regione Toscana, ministero dell’Ambiente, Unicoop Firenze, Legambiente, Guarda costiera, Autorità di sistema portuale del Mar Tirreno Settentrionale, la società Labromare che gestisce la raccolta dei rifiuti nel porto, Revet che ricicla quanto possibile (i primi dati parlano di un 20% dei rifiuti pescati, il resto non può essere riciclato), la cooperativa Cft e i pescatori appunto.
Se infatti i primi protagonisti del progetto sono i pescatori, che hanno attrezzato le barche con appositi sacchi stivati a bordo dove raccogliere i rifiuti issati con le reti, c’è Labromare che periodicamente svuota i cassoni in porto, Cft che li trasporta e Revet che li analizza e classifica per poi destinarli al riciclo o allo smaltimento. La Guardia costiera vigila in mare sul corretto svolgimento delle operazioni, Unicoop destina al progetto, come incentivo ai pescatori, parte del ricavato del centesimo che soci e clienti pagano per legge dall’inizio del 2018 per le buste in mater-b dell’ortofrutta (ma racconta anche il progetto nei propri spazi, provando ad educare in consumatori), mentre Legambiente offre il proprio contributo in termini di esperienza scientifica e sensibilizzazione.
I risultati finora inanellati sono più che incoraggianti, ma adesso la sperimentazione toscana di sei mesi sta per concludersi e serve una legge nazionale: l’appello in particolare è rivolto al ministro Costa, che due mesi fa aveva annunciato la sua disponibilità a lavorare ad una norma in tal senso (e nel mentre la deputata LeU Rossella Muroni ha già depositato una proposta di legge in tal senso).

«L’esperimento che in questi mesi stiamo facendo ci dice che i pescatori possono dare un contributo importante per pulire il mare – spiega l’assessore alla Presidenza della Regione Toscana, Vittorio Bugli – e come Regione siamo pronti a mettere a disposizione l’esperienza fatta ed avanzare proposte normative. Fino al 20 agosto i pescatori di Livorno coinvolti hanno raccolto 1.590 chilogrammi di rifiuti e poco meno di un quarto delle plastiche raccolte sono risultate riciclabili: se moltiplichiamo questo dato per tutti i pescherecci presenti in Italia possiamo comprendere il contributo che allargare questo progetto darebbe alla salvaguardia dell’ambiente e allo sviluppo di un’economia collaborativa».

fonte: www.greenreport.it

Dieci idee per salvarci dalla plastica

Nelle reti dei pescatori italiani finiscono pesci e plastica in ugual misura. Come ridurre questo scandalo? Ecco 10 proposte. Più l’identikit di un pericoloso animale marino





LE RETI DEI PESCATORI, nei mari italiani, tirano su una bizzarra varietà di pescato. Metà del peso è pesce. L’altro 50% è plastica. Bottiglie, frammenti, fusti, tubi, cannucce, polistirolo, stoviglie. Lo ha detto il ministro dell’Ambiente Sergio Costa, annunciando la ventura legge anti plastica. È di plastica, del resto, l’85% dei rifiuti nel Mediterraneo. Vi stupite? Se state sfogliando 7 in spiaggia, guardatevi attorno. Secondo la ricerca annuale Beach Litter di Legambiente, in 100 metri di litorale italiano ci sono 620 rifiuti, tra cui 26 stoviglie usa e getta, 51 tappi, 39 bottigliette. I cotton fioc buttati nel wc rappresentano un terzo della plastica sui fondali. Il sale li disgrega in pezzetti di meno di mezzo centimetro (o microplastiche) e gli animali li mangiano, spesso soffocando.


FIN QUI, TUTTO ABBASTANZA NOTO. Di lotta alla plastica si parla molto e anche l’Unione Europea approverà entro il 2019 una direttiva per vietare le plastiche monouso. La raccolta differenziata degli imballaggi in questo materiale, in Italia, è passata dal 39% dichiarato nel 1997 all’85% del 2017 (dati Istat). Insomma: non siamo (più) proprio dei barbari. E allora come è possibile che il mare in cui nuotiamo, e i pesci che mangiamo, siano sempre più pieni di plastica? Una domanda forse ingenua: non da esperta, ma da cittadina che occupa, in casa propria, più spazio per la raccolta differenziata che per le scarpe. E paga una tassa rifiuti cospicua: io 170 euro l’anno, a Milano, con casa molto piccola, e la famiglia media circa 300 euro l’anno. Il 70% dei cittadini, per l’ultima indagine Istat, lo considera un costo «elevato». E allora non si può davvero fare di più? Ho provato a chiederlo agli addetti ai lavori: ingegneri dei materiali, ambientalisti, funzionari del ministero dell’Ambiente e del Corepla, il consorzio che si occupa del recupero degli imballaggi in plastica, biologi marini. Ecco dieci proposte per le aziende, per le istituzioni, per i cittadini. Più un mostro marino da fare estinguere al più presto.


1) DISINCENTIVARE L’USA E GETTA. È la strada più battuta, ma anche quella di più sicuro impatto. I sacchetti di plastica sono spariti dalla grande distribuzione, ma le aziende che li producono, in Italia, continuano a venderli a negozi e mercati. Perché non sanzionare anche quelli? Il ministero dell’Ambiente, mi spiega una funzionaria, si sta orientando verso un aumento delle imposte a chi produce plastica monouso, e a un incentivo ai produttori di plastiche biodegradabili o materiali alternativi.


2) INTRODURRE I VUOTI A RENDERE. In Germania, se compro una bottiglietta d’acqua a Norimberga e poi la riconsegno in qualsiasi negozio di Amburgo ricevo indietro 25 cent di cauzione che ho pagato all’acquisto. Il negozio si occupa del recupero. Perché non si fa anche da noi? «Difficile», mi spiega Antonello Ciotti, presidente del Corepla. «L’investimento iniziale è molto alto (in Germania si è parlato di circa 2 miliardi di euro, ndr)». In Italia, poi, i rifiuti sono di pertinenza comunale: difficile istituzionalizzare un sistema in cui io posso far gestire a Palermo un rifiuto di Firenze, e così via.


3) INCENTIVARE IL MERCATO DEL RICICLO. L’Italia, ogni anno, crea 2 milioni e 200 mila tonnellate di imballaggi in plastica. Il consorzio delle aziende che li producono, Corepla, ha l’obbligo di smaltirli. Il 31% si ricicla: il 2017 è stato il primo anno in cui si è riciclata più plastica di quella mandata in discarica, che è il 27%. Quella che non si può riciclare finisce nei termovalorizzatori, o come combustibile nei cementifici. Ma cosa si fa con quella riciclata? In potenza, molto: pannelli per l’edilizia, indumenti in pile, giostre e panchine... Ma i materiali rigenerati non sono sempre la prima scelta dei produttori. «In Italia», spiega ancora Ciotti, «vige il cosiddetto Green procurement: le amministrazioni, nei capitolati di spesa, dovrebbero preferire l’acquisto di arredi urbani in materiali riciclati. Ma spesso non succede perché il Green procurement non è vincolante. Perché non renderlo tale?». La spesa della pubblica amministrazione per l’acquisto di beni e servizi, per inciso, è di circa 90 miliardi l’anno, il 6% del Pil. Orientarne anche solo un punto in senso ecologico potrebbe fare la differenza.


4) INVESTIRE IN NUOVI IMPIANTI. Abbiamo molti rifiuti raccolti bene. Ma pochi impianti per gestirli: appena 40 in tutta Italia, quasi tutti al Nord. La Cina è stata a lungo la valvola di sfogo della differenziata europea: la plastica di Paesi come il Regno Unito, che non hanno una rete efficace di riciclo, finiva lì. Da gennaio scorso, la Cina ha chiuso le frontiere alle nostre materie di scarto, per riciclare le proprie. E l’Europa è intasata di materiali usati. Italia compresa: non a caso i siti di stoccaggio dei rifiuti plastici, strabordanti di materiali che non gestiscono, spesso prendono fuoco. Con frequenza sospetta: negli ultimi 3 anni ci sono stati più di 200 roghi.


5) PREMIARE LA DIFFERENZIATA FATTA BENE. Molta plastica viene gettata via unta, sporca, o non separata da altri materiali: produce così rifiuti più difficili da gestire, e da vendere. D’altro canto, l’83% degli italiani ha dichiarato all’Istat che farebbe la differenziata con più scrupolo se questa pratica fosse collegata a incentivi fiscali o tariffari. Oggi sono in vigore multe per chi non la fa, ma sono efficaci, dice l’Istat, solo per il 60% dei cittadini. Meglio incentivare!


6) COINVOLGERE I PESCATORI. Che se ne fanno, vi sarete chiesti, i pescatori, del famoso 50% del pescato composto da plastica? Oggi sono costretti a ributtarlo a mare: portando a riva bottiglie e frammenti dovrebbero pagarci su una tassa, o addirittura sarebbero imputati di traffico illegale di rifiuti. Perché non incentivarli, invece, a collaborare? Una proposta di legge c’è già, l’ha presentata la deputata Rossella Moroni (Leu); la legge anti plastica a cui sta lavorando il ministero dell’Ambiente la includerà, prevedendo anche isole ecologiche mobili nei porti.


7) INSTALLARE FILTRI ALLE FOCI DEI FIUMI. L’80% dei rifiuti in mare arriva da terra. L’associazione Marevivo sta lavorando a una proposta di legge per installare, alle foci, sistemi meccanici che fermino la plastica. «Si fa già in Canada e negli Stati Uniti», spiega il biologo Gianluca Poeta. Con qualche difficoltà: le barriere si intasano di rami, sassi, animali. E in Italia, osserva Poeta, si ripresenterebbe il problema della pertinenza comunale dei rifiuti: «I comuni situati alle foci dei fiumi sono in genere contrari a occuparsi di rifiuti altrui».


8) RIVEDERE L’ACCORDO ANCI-CONAI. I Comuni italiani, rappresentati dall’Anci, ricevono dal Consorzio nazionale dei produttori imballaggi (Conai) un rimborso per la differenziata: il principio è che chi produce il rifiuto (i produttori di imballaggi) si occupi di pagarne il recupero (con i produttori che si autotassano per ogni tonnellata di materiale prodotto). Il contributo è fissato ogni 5 anni: nell’ultimo lustro è stato di 1,5 miliardi. Che non bastano mai: i Comuni sono spesso in perdita nella gestione della differenziata. Perché? Intanto, spesso delegano la raccolta a società multiservizi: per la plastica succede nell’87% dei casi. Il servizio è affidato in Italia a 1.800 aziende; in maniera spesso diretta, con contratti lunghi, senza gara. Alle condizioni più convenienti? Non sempre. Tanto che nel 2016 se n’è occupato l’Antitrust, che ha decretato fra l’altro che «il finanziamento della differenziata da parte dei produttori di imballaggi», alla fine, non arrivi a superare «il 20% del totale, laddove dovrebbe essere per intero a loro carico». I contributi del Conai, infatti, sono anche tra i più bassi d’Europa. L’associazione Comuni Virtuosi stima che, per la raccolta degli imballaggi, i Comuni arrivino a spendere tre volte quello che recuperano. Alzando la tassa rifiuti, o investendo meno in una raccolta differenziata corretta. O, addirittura, uscendo dall’accordo: lo fanno molti comuni al Sud, e portano tutto in discarica. Nel 2019 l’accordo scadrà: non è il caso che l’Anci punti a rinnovarlo in modo più favorevole ai Comuni, accettando magari di vincolarli a una gestione più oculata del servizio e tutelando i cittadini?


9) INVESTIRE SULL’ECODESIGN. Per esempio: le bottigliette dell’acqua sono fatte di un tipo di plastica, mentre tappo e anello, spesso, di un altro. Le buste in cui spediamo i libri sono carta foderata da pluriball, e per differenziarli tocca separarli. Non si possono progettare diversamente? «Forse: ma a scapito della leggerezza della busta, o dell’impatto visivo della bottiglia», spiega il presidente di Corepla. Si può agire in modo indiretto: ad esempio – e Corepla lo fa – aumentando il contributo richiesto a chi produce imballaggi in plastiche non riciclabili. Peccato che poi i produttori scarichino il costo sul consumatore: oltre a pagare la tassa rifiuti ci troviamo il costo della differenziata nascosto nello scontrino del supermercato.


10) DIFFERENZIARE TUTTA LA PLASTICA. A oggi la raccolta comprende solo gli imballaggi (un terzo di tutta la plastica che buttiamo via), ed è gestita da Corepla. Perché non estenderla anche a giocattoli, indumenti, attrezzature mediche, tubature? «Se le imprese che li producono dovessero autotassarsi per gestirne il recupero, come fanno i produttori di imballaggi, ci avvicineremmo agli obiettivi Ue per il riciclo», spiega Ciotti. Cioè al 50% della plastica riciclata entro il 2020.


E PER FINIRE, lottare con lo ZZL! Cioè lo Zozzone Litoraneo: sottospecie dell’homo sapiens (o meglio insipiens?) che va in spiaggia, fa il picnic, fuma e lascia sulla sabbia una tossica eredità di mozziconi e rifiuti. O al massimo, per pulirsi la coscienza, li butta nei cestini pubblici già pieni, e pazienza se poi il vento li fa volare nell’ambiente. Non è una specie rara: la ricerca Beach litter di Legambiente mostra che il 48% dell’immondizia delle spiagge si deve proprio a lui. Se il vostro vicino d’ombrellone è uno così, chiedeteglielo: «Ma perché non te la porti a casa?»



fonte: www.corriere.it