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Inquinamento: oggetti di plastica e specie aliene, è questo il mare Mediterraneo descritto da Ispra

 










Specie aliene di nuova introduzione, stock ittici sovrasfruttati, rifiuti in grande quantità: è un mare in sofferenza quello monitorato e analizzato dall’Ispra nell’ambito della Strategia Marina. In occasione della giornata mondiale degli oceani l’Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale, fa il punto sullo stato di salute dei mari italiani e sul loro inquinamento. Più precisamente sono 243 le specie aliene identificate, di cui il 68% è ormai stabile lungo le coste. Le aree considerate a maggior rischio di introduzione sono i porti e gli impianti di acquacoltura. La pesca è uno dei temi rilevanti del rapporto. Diversi studi, e alcuni recenti documentari puntano il dito contro questa attività, per il suo impatto sulla biodiversità e sulle risorse. Ma qual è la situazione nei nostri mari? II 75% degli stock ittici nel Mediterraneo sono sovrasfruttati. Si tratta di un dato interessante, visto che 6 anni fa eravamo all’88%. Questo vuol dire che le azioni di sostenibilità stanno dando i loro frutti.

Con una media di 400 rifiuti ogni 100 metri le nostre spiagge sono diventate delle piccole discariche. I rifiuti più abbondanti (60%) sono oggetti che abbiamo utilizzato per massimo cinque minuti: borse per la spesa, cotton fioc, posate usa e getta, cannucce, bottiglie. In alcune aree, anche i rifiuti spiaggiati che derivano dalle attività di pesca e acquacoltura sono molto abbondanti. Fra questi ci sono le “reste”, reti tubolari in plastica utilizzate per l’allevamento dei mitili (cozze), che costituiscono un problema molto sentito soprattutto lungo le coste dell’Adriatico, il mare italiano dove la mitilicoltura è più diffusa. In alcune regioni sono state trovate più di 100 reste ogni 100 m di spiaggia, in pratica una ogni metro. Questo particolare tipo di rifiuto è costituito di polipropilene (PP), un materiale estremamente resistente e duraturo.


Inquinamento: i rifiuti più abbondanti in mare sono oggetti che abbiamo utilizzato per massimo cinque minuti

La situazione non migliora nei fondali dove si deposita più del 70% dei rifiuti marini, il 77% dei quali è plastica. In alcune aree dell’Adriatico per esempio si trovano più di 300 oggetti per chilometro quadrato e la plastica rappresenta più del 80%. È stato stimato, da alcuni studi dell’Ispra, che un pescatore di Chioggia può arrivare a pescare fino a 8 tonnellate di rifiuti in un anno, ovvero 9 kg di rifiuti ogni 100 kg di pesce.

Uno dei principali impatti dei rifiuti marini sugli organismi è rappresentato dall’ingestione della plastica. Nel Mediterraneo più del 63% di tartarughe marine ha ingerito plastica. Altri studi effettuati dall’Ispra nel Mar Tirreno, rivelano che più del 50% di alcuni pesci analizzati e il 70% di alcuni squali che vivono in profondità avevano ingerito plastiche. Inoltre, in profondità, gli attrezzi da pesca, persi accidentalmente o deliberatamente abbandonati hanno un impatto sugli ambienti profondi perché intrappolano spugne, gorgonie, coralli neri. Occorre incoraggiare la marcatura delle attrezzature da pesca, in modo da poter risalire al proprietario in caso di perdita o abbandono in mare e gestire le attrezzature dismesse, favorendone, dove possibile, il riutilizzo, il riciclaggio e il recupero.

fonte: www.ilfattoalimentare.it


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La "migrazione" dei pesci provocata dai cambiamenti climatici

Nel nostro aggiornamento mensile sui cambiamenti climatici, ci occupiamo dell'impatto del riscaldamento globale sugli oceani. Siamo in Danimarca dove l'arrivo di nuove specie mette in luce i cambiamenti provocati dal riscaldamento delle acque. Ma prima, i dati del Servizio sui cambiamenti climatici di Copernicus.



I dati: un maggio di contrasti

​In Europa abbiamo visto l'ondata di freddo di aprile prolungarsi su maggio, con temperature di 0,5 gradi inferiori alla media 1991-2020.

Nel complesso, i dati climatici per il mese scorso sono fatti di contrasti, e potete vederlo nella mappa dell'anomalia della temperatura superficiale dell'aria.

C'è una netta disparità tra il freddo blu sopra l'Europa e l''area rossa sull'Asia centrale, dove le temperature il mese scorso sono state 5 gradi sopra la media. E poi ci sono stati dei veri estremi: All'interno del Circolo polare artico c'è stata una breve ondata di caldo, con il villaggio di Nizhnyaya Pescha che ha raggiunto i 31 gradi il 20 maggio.


Un record nel Circolo polare articoeuronews

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La mappa dell'anomalia delle precipitazioni ci mostra alcuni paralleli con quella della temperatura: le zone più calde sono state anche le più secche, in Grecia, Turchia e Russia, e nell'Europa nordoccidentale ha fatto freddo e umido. Il Galles ha vissuto il suo maggio più piovoso mai registrato con 245 millimetri di pioggia.


Impossibile lasciare l'ombrello a casa il mese scorso in Galleseuronews



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Copernicus releases its annual European State of the Climate report
Warmest year and record rainfall in Europe, exceptional heat in the Arctic: get a free copy of Copernicus annual report which contains the latest data-driven insights to monitor our changing climate.
By Copernicus


"Pesci migranti" nelle acque danesi

I pesci sono particolarmente sensibili ai cambiamenti di temperatura, e con il riscaldamento degli oceani alcune specie si spostano verso nord, altre arrivano dal sud, alcune prosperano, altre sopravvivono appena. Siamo andati in Danimarca per saperne di più.
​Nuovi tipi di pesce nelle reti

Nel porto di Gilleleje, a nord di Copenaghen, si prepara il pescato giornaliero per la vendita. I pescatori sono sotto pressione a causa delle quote, si lamentano del deflusso agricolo che inquina l'acqua e ora, con i cambiamenti climatici, stanno trovando nuovi tipi di pesce nelle loro reti, dice Lasse Nordahl dell'Asta del pesce di Gilleleje: "Stiamo cominciando a vedere specie che prima non vedevamo così spesso. Per esempio quest'anno abbiamo trovato del polpo. Ci sono state anche molte passere atlantiche negli ultimi anni: non ne trovavamo quando ho iniziato qui. La triglia è un'altra specie che ha cominciato ad apparire, non in grandi quantità, ma è una specie che stiamo vedendo sempre più spesso".
​Animali a sangue freddo

La ragione per cui i pesci si stanno spostando in nuovi habitat è che sono animali a sangue freddo che vivono in acque la cui temperatura è vicina alla loro temperatura corporea. Quindi in Europa alcune specie si stanno allontanando dalle acque più calde. Il ricercatore Mark Payne spiega perché: "A terra se fa troppo caldo ci si può riparare sotto un albero, o magari scavarsi un riparo, mentre l'oceano tende a essere molto più uniforme, non c'è riparo, è molto più difficile avere un attimo di tregua rispetto alla terraferma".

Quantità di sgombro pescato nelle acque intorno all'Islanda: l'evoluzione dal 2006 al 2010
Chi va, chi viene

​All'Università tecnica della Danimarca il monitoraggio regolare delle acque danesi mette in evidenza gli effetti dei cambiamenti climatici. Due le tendenze principali: l'arrivo di specie come tonno, nasello e acciuga e il declino del pesce locale, come il merluzzo del Baltico. Non solo, spiega la ricercatrice Louise Lundgaard: "Oggi un merluzzo di quattro anni è più piccolo rispetto, per esempio, a dieci anni fa. È perché si concentrano più sulla riproduzione che sulla crescita. Questo può essere dovuto alla temperatura dell'acqua, alle condizioni o alla quantità di cibo o ad altri fattori".
Adattarsi ai cambiamenti

I cambiamenti cui assistiamo in Danimarca stanno avvenendo in tutto il mondo. E come si adattano le popolazioni ittiche, la stessa cosa dovremo fare noi, dice Payne: "È sicuramente una sfida per tutte le comunità e le imprese che dipendono dall'oceano intorno alle nostre coste. Saranno costrette ad adattare le loro tecniche di pesca, le loro attrezzature, il modo in cui immagazzinano e lavorano il pesce, e anche il modo di vendere il pesce. Quindi ci sarà bisogno di far fronte a questi cambiamenti nell'intera industria di trasformazione del pesce".

E mentre il settore si adatta, noi consumatori possiamo fare la nostra parte acquistando pesce considerato sostenibile.




fonte: it.euronews.com


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Scalite, la pietra ottenuta da squame di pesce


 











Uno studente di product design trova il modo di riutilizzare scarti di lavorazione alimentare inventando un materiale simile alla pietra realizzato con squame di pesce

Mentre era tutto intento a conseguire il suo bel Master in Product Design presso la RCA, Erik de Laurens stava cercando di creare un nuovo materiale sostenibile.

Un nobile intento, non c’è dubbio alcuno, che lo ha portato (come la sua collega designer industriale francese Violaine Buet) verso l’oceano. Laurens “ha identificato le squame di pesce come una materia prima promettente”, si legge in una pagina sul sito web della sua azienda.


Le irreprensibili squame di pesce
Le squame di pesce, uno scarto alimentare piuttosto sottovalutato

Le squame di pesce sono un prodotto di scarto. Riformulo: uno SPRECO dell’industria della pesca, disponibili in grandi quantità e assolutamente poco valorizzate.
Quando Laurens ha appreso che le squame di pesce contengono un polimero naturale, gli si è accesa una lampadina.

Anzitutto ha cercato e ha scoperto un processo per estrarre questo polimero, poi ha trovato il modo di mescolarlo con gli elementi minerali presenti nelle stesse squame.

Uno dei primi risultati della ricerca di Laurens
Scalite, nasce la pietra “ittica”

La polvere risultante dalla mistura di squame e minerali è stata compressa in fogli o piastrelle, che hanno delle qualità molto simili a quelle della pietra.


Laurens ha chiamato il materiale Scalite, in riferimento alla bachelite e ad altre prime plastiche. Nel frattempo si è laureato, ed oggi gestisce un’azienda con lo stesso nome, vendendo il materiale alle squame in forma di piastrelle per arredo.


Due lastre di Scalite
Una visuale ravvicinata della texture della Scalite

La Scalite è al 100% a base biologica, e non ci sono sostanze chimiche necessarie alla sua produzione.

Nasce da un prodotto di scarto, le squame di pesce, che nessuno vuole. Ha ottime credenziali ambientali ed è anche abbastanza bella per gli occhi.

Un esempio di applicazione della Scalite

A quando i primi rivestimenti in Scalite per l’arredamento di massa?
Con tutte queste squame sarà un piacere dire che ho la cucina in stile marinaro.

fonte: www.futuroprossimo.it

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Mediterraneo: 50.000 esemplari di 116 specie diverse hanno ingerito plastica














Almeno 116 specie diverse nel Mediterraneo hanno ingerito plastica (l'ingestione è il principale effetto noto della plastica in mare); il 59% di queste sono pesci ossei. inclusi in questa percentuale anche quelli di interesse commerciale come sardine, triglie, orate, merluzzi, acciughe, tonni, scampi, gamberi rossi; il restante 41% è costituito da altri animali marini come mammiferi, crostacei, molluschi, meduse, tartarughe, uccelli.
Questi alcuni dei risultati di uno studio, condotto anche da ricercatori dell’Ispra, incluso nel capitolo del libro "Plastics in the Aquatic Environment - Current Status and Challenges" pubblicato dalla Springer Nature, in cui si aggiorna la letteratura scientifica disponibile per descrivere l'impatto dei rifiuti sulla vita marina nel Mediterraneo, un ecosistema sensibile, caratterizzato da elevata biodiversità ma anche uno degli ecosistemi più minacciati al mondo dai rifiuti marini, su scala globale composti principalmente da plastica.
Sono stati analizzati 128 documenti che riportavano impatti dei rifiuti marini su 329 categorie di organismi del Mediterraneo. Si tratta ad oggi dello studio più ampio ed aggiornato sull’intero Mediterraneo. Se c’è troppa plastica nello stomaco dei pesci, accade anche che buste e bottigliette diventino vettore di trasporto o ambiente di vita per diverse specie. Sono state rintracciate 168 categorie di organismi marini trasportati da oggetti galleggianti (principalmente di plastica), anche in ambienti in cui non erano stati rintracciati prima; tra questi, ci sono anche batteri patogeni che possono causare malattie nei pesci che li ingeriscono. Gli organismi più comuni trasportati dai rifiuti marini sono gli artropodi (crostacei) e gli Cnidari (gorgonie, coralli).
I rifiuti marini, in particolare lenze e reti da pesca, possono inoltre distruggere, ferire e soffocare colonie di coralli e gorgonie anche in ambienti molto profondi e remoti. La produzione mondiale di plastica è passata dai 15 milioni del 1964 agli oltre 310 milioni attuali, e ogni anno almeno 8 milioni di tonnellate finiscono negli oceani del mondo. La plastica raggiunge il mare a causa di una cattiva gestione dei rifiuti, ma anche per la sovrapproduzione di imballaggi e prodotti monouso che vengono messi in circolazione dall’industria alimentare e non solo.
Per limitare i danni, l’Unione europea ha approvato una direttiva contro la plastica monouso, che rappresenta una delle principali tipologie di plastica trovate nel Mediterraneo. La plastica può colpire gli organismi marini attraverso l'ingestione e l’intrappolamento e gli impatti variano a seconda del tipo e delle dimensioni. Almeno 44 specie marine sono soggette ad intrappolamento nella plastica, in particolare reti da pesca.
L'intrappolamento spesso determina la morte per affogamento, strangolamento o denutrizione, soprattutto per i mammiferi marini; la tartaruga marina Caretta caretta è la specie mediterranea più soggetta ad intrappolamento ed è anche una delle principali specie del Mediterraneo note per ingerire plastica (le prime evidenze di ingestione di rifiuti da parte della Caretta risalgono a metà anni '80): è infatti stata identificata come specie indicatrice dell'ingestione di rifiuti nell'ambito della Strategia Marina.
Diverse specie minacciate e quindi incluse nella Lista Rossa dell'International Union for Conservation of Nature (IUCN) - dal corallo rosso, passando per il tonno rosso, lo spinarolo, e arrivando al capodoglio - risultano compromesse dai rifiuti marini. Mentre dallo studio emergono gli effetti diffusi dei rifiuti marini, e in particolare della plastica, sugli organismi marini del Mediterraneo, al contrario, non ci sono evidenze scientifiche di effetti negativi dell'ingestione di microplastiche nei pesci, nè tantomeno del trasferimento delle microplastiche fino all'uomo.


fonte: www.greencity.it

Le microplastiche abbondano nelle nursery del mare. Così i pesciolini le scambiano per cibo e risalgono la catena alimentare



















Le microplastiche, in mare, si annidano dove il danno che possono arrecare è maggiore, e cioè in formazioni naturali che sono vere e proprie nursery per le larve e i pesci appena nati. Lì infatti si concentrano in quantità straordinariamente alte, ed essendo di dimensioni analoghe a quelle delle prede che i piccoli pesci iniziano a cercare (e cioè di 1 millimetro o meno di diametro), vengono inesorabilmente mangiate e assorbite, e iniziano a depositarsi negli organi in crescita. Questo il quadro, allarmante, che emerge da uno degli studi più completi mai condotti sull’argomento, nato da una collaborazione tra il NOAA’s Pacific Islands Fisheries Science Center statunitense, la Bangor University britannica e altri atenei americani, e pubblicato su PNAS.
In esso sono stati analizzati circa mille chilometri quadrati di costa al largo delle Hawaii, combinando i dati di un centinaio di piccoli satelliti con quelli provenienti dalle osservazioni in mare, per verificare localizzazioni e dimensioni di quelle che vengono chiamate surface slick, ovvero chiazze di superficie che si formano naturalmente per la convergenza delle correnti. Si tratta di zone nastriformi con caratteristiche diverse dall’acqua circostante, visibili anche dallo spazio e che, proprio per le loro particolari caratteristiche, diventano naturali luoghi di svezzamento per molte specie.
Il risultato è che le slick sono letteralmente piene di larve di moltissime specie – da quelle dei coralli, a quelle dei pesci di superficie, fino a quelli che una volta adulti vivono più in profondità – e del plancton di cui si nutrono, ma anche di microplastiche. In media, la densità di queste ultime nelle slick esaminate è risultata essere di otto volte superiore a quella rilevata nella grande isola di plastica dell’Oceano Pacifico, la cosiddetta Great Pacific Garbage Patch. Analizzando la concentrazione di un centinaio di campioni presi a strascico in queste aree, la stessa concentrazione è risultata essere 126 volte quella delle acque circostanti, mentre all’interno è risultata essere sette volte rispetto a quella delle larve di pesci. I quali, quindi, crescono accerchiati da un mare di plastiche, più che di acqua e nutrimento.
Anche dissezionando centinaia di piccoli pesci e larve (per lo più di specie commercialmente ricercate) il risultato è stato lo stesso: una parte di essi aveva ingerito microplastiche (8,6%), che si erano depositate nel loro organismo e da lì erano quindi pronte per entrare nella catena alimentare e arrivare fino all’essere umano. Non è un caso, quindi, se le si è ormai trovate nelle specie più disparate, dagli squaliformi al pesce spada, dai tonni agli uccelli marini.
Questo metodo di studio può essere applicato alle slick di tutto il mondo, e aiutare così a comprendere meglio la diffusione delle microplastiche, nonché i suoi effetti sui piccoli pesci che sono alla base di molte catene alimentari.
fonte: www.ilfattoalimentare.it

L’Ocean Film Festival fa tappa in Italia, con le immagini più spettacolari della natura marina
















Da sempre l’uomo è affascinato dall’Oceano, con i suoi spazi sconfinati, la sua potenza incontrollabile, la misteriosa vita brulicante sotto la superficie. Mai come oggi, però, l’Oceano si rivela in tutta la sua fragilità. Mentre i cambiamenti climatici alterano in modo irreversibile i suoi equilibri, l’inquinamento ha raggiunto proporzioni tali che, fra circa trent’anni, nelle acque ci sarà più plastica che pesce. Con questo spirito si presenta l’Ocean Film Festival, che vuole essere un omaggio all’ecosistema marino, alle creature che lo abitano e alle persone che lottano tutti i giorni per custodirlo.

Nata in Australia, la rassegna cinematografica arriva in Italia per il terzo anno consecutivo, con una selezione di nove tra le migliori opere. Le immagini mostrano gli aspetti più spettacolari del “pianeta acqua”, tra evoluzioni sul surf, viaggi in barca a vela, immersioni e incontri ravvicinati con gli animali selvatici. Il calendario prevede 15 tappe in 14 città e parte da Milano lunedì 14 ottobre, presso il Teatro Nazionale CheBanca!.













                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  
L’edizione 2019 dell’Ocean Film Festival vede il supporto degli sponsor Volvo Car ItaliaSlam e Aqua Lung Italia, il patrocinio dell’Ambasciata d’Australia in Italia e il supporto del Centro Velico Caprera e dell’università di Milano-Bicocca (Marine Sciences e MaRHE Center). Tra le associazioni che supportano la manifestazione, insieme a Sea Shepherd Italia, Project Aware con Padi Italia e Surfrider International Europe – Genova, c’è anche LifeGate PlasticLess®, l’iniziativa di LifeGate che combatte concretamente l’inquinamento in mare installando dispositivi che catturano plastiche e microplastiche.

Le tappe dell’Ocean Film Festival

Il programma è identico per tutte le serate e prevede la proiezione dei nove cortometraggi e mediometraggi selezionati, in lingua originale con sottotitoli in italiano. La sala apre al pubblico alle 19:30 e gli spettacoli iniziano alle 20:00, fatta eccezione per le date di Trieste e Brescia che iniziano alle 20:30.
Di seguito il calendario:
14 ottobre 2019: Milano (Teatro Nazionale CheBanca!) e Firenze (Cinema La Compagnia)
15 ottobre 2019: Lecco (Cinema Palladium) e Livorno (The Space Cinema – Sala 4)
16 ottobre 2019: Roma (The Space Cinema Moderno – Sala 3)
17 ottobre 2019: Saronno (Cinema Silvio Pellico) e Napoli (The Space Cinema – Sala 11)
21 ottobre 2019: Padova (Multisala MPX-Pio X – Sala Petrarca) e Torino (Cinema Massimo – Sala 1 e Sala 2)
22 ottobre 2019: Udine (The Space Cinema Pradamano) e Torino (Cinema Massimo – Sala 1)
23 ottobre 2019: Trieste (Cinema Ambasciatori) e Bologna (Cinema Teatro Antoniano)
24 ottobre 2019: Genova (The Space Cinema Porto Antico – Sala 6)
29 ottobre 2019: Brescia (Cinema Nuovo Eden)
I biglietti sono in vendita online, presso i punti vendita del circuito Vivaticket oppure al botteghino la sera dell’evento. Maggiori informazioni nel sito ufficiale del festival.
fonte: www.lifegate.it

Le cassette del pesce in polistirolo messe al bando per salvare i mari dalla plastica















I mari sono inquinati dalla plastica, ma anche il pesce pescato può inquinare. In un anno sono 14mila le tonnellate di polistirolo utilizzato per il trasporto e la vendita della merce ittica, su un totale di 20mila tonnellate di polistirolo destinate al settore alimentare italiano. Numeri da capogiro, considerando che il polistirolo è un prodotto monouso e con uno scarso valore di mercato come rifiuto riciclabile.

Eataly, con le sue sette pescherie lungo il Paese, vuole favorire la salvaguardia dell’ambiente.

A Slow Fish, iniziativa di Slow Food a Genova dal 9 al 12 maggio con a tema Il mare: bene comune, Eataly ha presentato il suo primo tassello per un mosaico del cambiamento: sostituire le casse in polistirolo con casse in polietilene riciclabili.

Il contenitore, sviluppato con il consorzio nazionale Polieco, può essere riutilizzato per cinque anni con la possibilità di essere riciclato a fine vita. Al punto vendita di Roma sarà avviata la sperimentazione in collaborazione con la cooperativa di pescatori di Civitavecchia. Solo loro producono ogni mese uno scarto di 25mila cassette di polistirolo al mese


Marcello Favagrossa, responsabile marketing e comunicazione Eataly

“Da parte di Eataly questo intervento non è un episodio singolo, ma è un’attenzione che fa parte del nostro dna”, afferma Marcello Favagrossa, responsabile marketing e comunicazione Eataly. “Da un paio di anni come operatori nell’ambito del commercio del pesce avevamo avuto la segnalazione dell’emergenza della plastica nei mari. Le nostre pescherie hanno un prodotto di altissima qualità, ma con il paradosso di produrre migliaia di tonnellate al mese di polistirolo monouso, che diventa subitorifiuto”, aggiunge. Polistirolo che, quando si riduce a dimensioni inferiori ai 5 millimetri, se gettato in mare, rientra nella catena alimentare. 

Pesce al mercato(foto di Chuttersnap su Unsplash)

Da qui l’idea di stravolgere il lavoro e la logistica delle pescherie dei punti vendita a Torino, Pinerolo, Milano, Roma e nei negozi a vocazione marinara come Genova, Bari e Venezia. Sarà proprio Genova la prima a seguire l’esempio di Roma. Le cassette, una volta che Eataly le avrà svuotate, verranno riconsegnate lavate ai fornitori che, a loro volta, provvederanno a una seconda fase di lavaggio. Si tratta di un vuoto a rendere a uso prolungato.

«Oggi continuiamo un percorso teso a ridurre al massimo il nostro impatto complessivo: abbiamo dei fornitori storici con cui c’è un’intesa forte sul tema e che sono molto ricettivi. La sensibilità è andata crescendo nel tempo. Tra settembre e ottobre Eataly dichiarerà il manifesto del packaging pulito e giusto per tutti i prodotti e i processi», chiude Favagrossa.

fonte: www.wired.it

Pesci: anche i piccoli sono minacciati dalla microplastica

Anche i piccoli di pesce sono colpiti dai danni della microplastica: sin dallo stato larvale, infatti, ne ingeriscono grandi quantità.





Anche i piccoli di pesce sono minacciati dalla microplastica. È quanto rivela un nuovo studio condotto da alcuni scienziati del NOAA lungo le coste dell’isola principale delle Hawaii: sempre più specie marine, anche le più minuscole, confondono i frammenti di plastica per plancton e prede. Un ingestione che in molti casi può risultare in problemi nello sviluppo degli esemplari, quando non addirittura letale.

I ricercatori hanno analizzato le aree della costa dove le principali nove specie di pesci presenti alle Hawaii, alcune fondamentali per la sussistenza delle popolazioni umane locali, depongono le uova. Dei veri e propri vivai, degli allevamenti naturali dove i pesci, sin dalla tenerissima età, possono approfittare di grandi quantità di nutrimento e di plancton. Dagli studi condotti, è emerso come tutti i piccoli di queste specie principali ingeriscano quotidianamente grandi quantità di microplastiche, alcuni di pochi millimetri di grandezza. Jonathan Whitney, uno dei ricercatori alla base dello studio, ha così aggiunto:La scoperta ha preoccupato gli esperti, poiché sembra che i pesci approfittino della plastica sin dallo stato larvale, un problema che potrebbe comprometterne seriamente la crescita. A oggi, oltre al fatto che i frammenti di plastica possano risultare letali impedendo la digestione o causando ferite interne, non sono note nel dettaglio delle altre possibili conseguenze. Si sospetta, tuttavia, che il materiale inquinante possa inficiare il normale processo di crescita, riducendo l’assorbimento di nutrienti. Ancora, viene inquinata anche la catena d’alimentazione umana, considerato come questi pesci vengano normalmente pescati dalle popolazioni locali.

Il prossimo step sarà quello di vagliare il livello d’inquinamento di altre isole hawaiane oltre a Big Island, come Oahu e Maui, ma la soluzione non sembra essere a portata di mano. Le microplastiche, proprio perché di ridottissime dimensioni, sono difficilissime da raccogliere e smaltire.

Fonte: Hawaii News

Più del 90% delle sardine e delle acciughe dell’Adriatico ha ingerito i rifiuti marini

Studio italiano: 18% di microplastica nelle acciughe e 33% nelle sardine rispetto alla marine litter ingerita



Ieri greenreport.it ha dato conto di uno studio sull’ingestione di microplastiche da parte dei lanzardo o sgombro cavallo o cavalle (Scomber colias) nelle acque costiere delle isole Canarie e alcuni nostri lettori e Lucrezia Cilenti, del Centro di Lesina dell’Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine del Consiglio nazionale delle ricerche (Irbim – Cnr), ci hanno fatto notare che un team di ricercatori italiani ha pubblicato recentemente su Environmental Science and Pollution Research l’importante studio “Marine litter in stomach content of small pelagic fishes from the Adriatic Sea: sardines (Sardina pilchardus) and anchovies (Engraulis encrasicolus)”, che si occupa dello stesso argomento in maniera forse più ampia e che riguarda le acciughe e le sardine dell’Adriatico.














Il team di cui fa parte la Cilenti, composto anche da Monia Renzi del Biocenter Research Center di Orbetello, comprende anche Antonietta Specchiulli e Cristina Manzo (Irbim – Cnr); Andrea Blašković (Biocenter Research Center); Giorgio Mancinelli (Irbim – Cnr, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche ed Ambientali dell’università del Salento e CoNISMa, Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Scienze del Mare), spiega che «Questo studio indaga i rifiuti marini e le microplastiche nei contenuti dello stomaco delle due specie commerciali più importanti dell’Adriatico, le sardine (Sardina pilchardus) e le acciughe (Engraulis encrasicolus) raccolte tra giugno 2013 e maggio 2014. Principali caratteristiche dei rifiuti marini e degli oggetti in plastica (cioè numero, dimensione, forma e colore) sono stati determinati. In particolare, abbiamo mirato a (1) valutare le differenze di contenuto, forma e colore tra le specie considerate relative alla loro strategia di alimentazione; (2) valutare le relazioni tra i dati biometrici, il sesso e i rifiuti registrati caratteristiche secondo la specie; (3) valutare l’influenza della stagionalità sui rifiuti marini e sulle microplastiche ingerite da sardine e acciughe».




















Dopo aver ricordato che «Negli ultimi 50 anni la produzione di materiale plastico ha registrato un forte aumento raggiungendo i 311 milioni di tonnellate annue nel 2014. Studi di previsione a lungo termine suggeriscono che nel 2050 la produzione annua sarà compresa tra gli 850 milioni di tonnellate e i 1124 milioni di tonnellate», avverte: «A causa del suo ampio uso, della scarsa biodegradabilità e degli input crescenti, un’enorme quantità di plastica si sta accumulando negli ambienti marini portando ad una crescente preoccupazione per la conservazione dell’ecosistema marino. Infatti, la “Marine litter” (rifiuto marino) è stata introdotta dalla Marine Strategy Framework Directive (MSFD – Directive 2008/56/EC) come uno degli 11 descrittori per definire lo stato di qualità ambientale degli ecosistemi marini e mirare al raggiungimento del “buono stato ambientale” entro il 2020».

Il team di ricercatori italiani sottolinea che «L’allarme maggiore viene generato dall’accumulo di grandi quantità di piccoli pezzi di plastica (<5 mm di diametro), noti come microplastiche, negli organismi marini. Le microplastiche potrebbero rappresentare una minaccia per l’integrità degli ecosistemi marini e per la loro conservazione, dettata dalla loro capacità di assorbire le sostanze chimiche inquinanti dall’acqua e di rilasciarle poi nell’ambiente. Inoltre, possono rappresentare un vettore per la diffusione di microrganismi alieni. Recenti studi hanno dimostrato che le microplastiche vengono ingerite da un gran numero di organismi marini, penetrando nella rete trofica marina influenzando le abitudini alimentari, la riproduzione e la respirazione delle specie. Le Microplastiche sono state trovate nel sistema digestivo di varie specie di pesci, compresi i pesci pelagici di piccola taglia».

Lo studio evidenzia che «Le sardine e le acciughe svolgono un ruolo ecologico chiave negli ecosistemi costieri, trasferendo energia dal plancton a livelli trofici più elevati fino a noi attraverso la dieta. I dati ottenuti in questo studio hanno evidenziato che oltre il 90% delle sardine e delle acciughe analizzate ha ingerito i rifiuti marini. La frazione microplastica è rappresentata da percentuali che vanno dal 18% nelle acciughe al 33% nelle sardine rispetto alla marine litter ingerita».

I ricercatori concludono: «L’attuale conoscenza sulla presenza di microplastiche negli ambienti e cicli correlati attraverso la rete trofica e, di conseguenza sulla salute umana, devono essere implementati per valutare meglio le abitudini alimentari delle specie marine e gestire meglio gli ambienti costieri. Sono quindi necessarie ulteriori valutazioni per capire come la contaminazione da microplastica dei pesci potrebbe influenzare la salute umana attraverso il transfert delle tossine (Santillo et al., 2017). Infine, i risultati presentati in questo studio potrebbero essere considerati come analisi preliminare sui livelli registrati in queste specie e su alcuni fattori che potrebbero essere correlati ai livelli osservati. Anche se alcuni aspetti potrebbero essere di qualche preoccupazione per la salute, anche perché queste due specie spesso si consumavano senza essere state eviscerate, i risultati presentati sono limitati geograficamente e potrebbero non rappresentare realisticamente l’assunzione umana da parte della popolazione italiana. Ulteriori studi dovrebbero essere eseguiti con questo scopo specifico per raccogliere campioni che potrebbero essere considerati più rappresentativi per la valutazione dell’esposizione umana attraverso la dieta. Un possibile suggerimento per ridurre l’assunzione di rifiuti plastici da parte degli esseri umani è quello di eviscerare gli organismi prima del consumo».

fonte: http://www.greenreport.it

Dieci idee per salvarci dalla plastica

Nelle reti dei pescatori italiani finiscono pesci e plastica in ugual misura. Come ridurre questo scandalo? Ecco 10 proposte. Più l’identikit di un pericoloso animale marino





LE RETI DEI PESCATORI, nei mari italiani, tirano su una bizzarra varietà di pescato. Metà del peso è pesce. L’altro 50% è plastica. Bottiglie, frammenti, fusti, tubi, cannucce, polistirolo, stoviglie. Lo ha detto il ministro dell’Ambiente Sergio Costa, annunciando la ventura legge anti plastica. È di plastica, del resto, l’85% dei rifiuti nel Mediterraneo. Vi stupite? Se state sfogliando 7 in spiaggia, guardatevi attorno. Secondo la ricerca annuale Beach Litter di Legambiente, in 100 metri di litorale italiano ci sono 620 rifiuti, tra cui 26 stoviglie usa e getta, 51 tappi, 39 bottigliette. I cotton fioc buttati nel wc rappresentano un terzo della plastica sui fondali. Il sale li disgrega in pezzetti di meno di mezzo centimetro (o microplastiche) e gli animali li mangiano, spesso soffocando.


FIN QUI, TUTTO ABBASTANZA NOTO. Di lotta alla plastica si parla molto e anche l’Unione Europea approverà entro il 2019 una direttiva per vietare le plastiche monouso. La raccolta differenziata degli imballaggi in questo materiale, in Italia, è passata dal 39% dichiarato nel 1997 all’85% del 2017 (dati Istat). Insomma: non siamo (più) proprio dei barbari. E allora come è possibile che il mare in cui nuotiamo, e i pesci che mangiamo, siano sempre più pieni di plastica? Una domanda forse ingenua: non da esperta, ma da cittadina che occupa, in casa propria, più spazio per la raccolta differenziata che per le scarpe. E paga una tassa rifiuti cospicua: io 170 euro l’anno, a Milano, con casa molto piccola, e la famiglia media circa 300 euro l’anno. Il 70% dei cittadini, per l’ultima indagine Istat, lo considera un costo «elevato». E allora non si può davvero fare di più? Ho provato a chiederlo agli addetti ai lavori: ingegneri dei materiali, ambientalisti, funzionari del ministero dell’Ambiente e del Corepla, il consorzio che si occupa del recupero degli imballaggi in plastica, biologi marini. Ecco dieci proposte per le aziende, per le istituzioni, per i cittadini. Più un mostro marino da fare estinguere al più presto.


1) DISINCENTIVARE L’USA E GETTA. È la strada più battuta, ma anche quella di più sicuro impatto. I sacchetti di plastica sono spariti dalla grande distribuzione, ma le aziende che li producono, in Italia, continuano a venderli a negozi e mercati. Perché non sanzionare anche quelli? Il ministero dell’Ambiente, mi spiega una funzionaria, si sta orientando verso un aumento delle imposte a chi produce plastica monouso, e a un incentivo ai produttori di plastiche biodegradabili o materiali alternativi.


2) INTRODURRE I VUOTI A RENDERE. In Germania, se compro una bottiglietta d’acqua a Norimberga e poi la riconsegno in qualsiasi negozio di Amburgo ricevo indietro 25 cent di cauzione che ho pagato all’acquisto. Il negozio si occupa del recupero. Perché non si fa anche da noi? «Difficile», mi spiega Antonello Ciotti, presidente del Corepla. «L’investimento iniziale è molto alto (in Germania si è parlato di circa 2 miliardi di euro, ndr)». In Italia, poi, i rifiuti sono di pertinenza comunale: difficile istituzionalizzare un sistema in cui io posso far gestire a Palermo un rifiuto di Firenze, e così via.


3) INCENTIVARE IL MERCATO DEL RICICLO. L’Italia, ogni anno, crea 2 milioni e 200 mila tonnellate di imballaggi in plastica. Il consorzio delle aziende che li producono, Corepla, ha l’obbligo di smaltirli. Il 31% si ricicla: il 2017 è stato il primo anno in cui si è riciclata più plastica di quella mandata in discarica, che è il 27%. Quella che non si può riciclare finisce nei termovalorizzatori, o come combustibile nei cementifici. Ma cosa si fa con quella riciclata? In potenza, molto: pannelli per l’edilizia, indumenti in pile, giostre e panchine... Ma i materiali rigenerati non sono sempre la prima scelta dei produttori. «In Italia», spiega ancora Ciotti, «vige il cosiddetto Green procurement: le amministrazioni, nei capitolati di spesa, dovrebbero preferire l’acquisto di arredi urbani in materiali riciclati. Ma spesso non succede perché il Green procurement non è vincolante. Perché non renderlo tale?». La spesa della pubblica amministrazione per l’acquisto di beni e servizi, per inciso, è di circa 90 miliardi l’anno, il 6% del Pil. Orientarne anche solo un punto in senso ecologico potrebbe fare la differenza.


4) INVESTIRE IN NUOVI IMPIANTI. Abbiamo molti rifiuti raccolti bene. Ma pochi impianti per gestirli: appena 40 in tutta Italia, quasi tutti al Nord. La Cina è stata a lungo la valvola di sfogo della differenziata europea: la plastica di Paesi come il Regno Unito, che non hanno una rete efficace di riciclo, finiva lì. Da gennaio scorso, la Cina ha chiuso le frontiere alle nostre materie di scarto, per riciclare le proprie. E l’Europa è intasata di materiali usati. Italia compresa: non a caso i siti di stoccaggio dei rifiuti plastici, strabordanti di materiali che non gestiscono, spesso prendono fuoco. Con frequenza sospetta: negli ultimi 3 anni ci sono stati più di 200 roghi.


5) PREMIARE LA DIFFERENZIATA FATTA BENE. Molta plastica viene gettata via unta, sporca, o non separata da altri materiali: produce così rifiuti più difficili da gestire, e da vendere. D’altro canto, l’83% degli italiani ha dichiarato all’Istat che farebbe la differenziata con più scrupolo se questa pratica fosse collegata a incentivi fiscali o tariffari. Oggi sono in vigore multe per chi non la fa, ma sono efficaci, dice l’Istat, solo per il 60% dei cittadini. Meglio incentivare!


6) COINVOLGERE I PESCATORI. Che se ne fanno, vi sarete chiesti, i pescatori, del famoso 50% del pescato composto da plastica? Oggi sono costretti a ributtarlo a mare: portando a riva bottiglie e frammenti dovrebbero pagarci su una tassa, o addirittura sarebbero imputati di traffico illegale di rifiuti. Perché non incentivarli, invece, a collaborare? Una proposta di legge c’è già, l’ha presentata la deputata Rossella Moroni (Leu); la legge anti plastica a cui sta lavorando il ministero dell’Ambiente la includerà, prevedendo anche isole ecologiche mobili nei porti.


7) INSTALLARE FILTRI ALLE FOCI DEI FIUMI. L’80% dei rifiuti in mare arriva da terra. L’associazione Marevivo sta lavorando a una proposta di legge per installare, alle foci, sistemi meccanici che fermino la plastica. «Si fa già in Canada e negli Stati Uniti», spiega il biologo Gianluca Poeta. Con qualche difficoltà: le barriere si intasano di rami, sassi, animali. E in Italia, osserva Poeta, si ripresenterebbe il problema della pertinenza comunale dei rifiuti: «I comuni situati alle foci dei fiumi sono in genere contrari a occuparsi di rifiuti altrui».


8) RIVEDERE L’ACCORDO ANCI-CONAI. I Comuni italiani, rappresentati dall’Anci, ricevono dal Consorzio nazionale dei produttori imballaggi (Conai) un rimborso per la differenziata: il principio è che chi produce il rifiuto (i produttori di imballaggi) si occupi di pagarne il recupero (con i produttori che si autotassano per ogni tonnellata di materiale prodotto). Il contributo è fissato ogni 5 anni: nell’ultimo lustro è stato di 1,5 miliardi. Che non bastano mai: i Comuni sono spesso in perdita nella gestione della differenziata. Perché? Intanto, spesso delegano la raccolta a società multiservizi: per la plastica succede nell’87% dei casi. Il servizio è affidato in Italia a 1.800 aziende; in maniera spesso diretta, con contratti lunghi, senza gara. Alle condizioni più convenienti? Non sempre. Tanto che nel 2016 se n’è occupato l’Antitrust, che ha decretato fra l’altro che «il finanziamento della differenziata da parte dei produttori di imballaggi», alla fine, non arrivi a superare «il 20% del totale, laddove dovrebbe essere per intero a loro carico». I contributi del Conai, infatti, sono anche tra i più bassi d’Europa. L’associazione Comuni Virtuosi stima che, per la raccolta degli imballaggi, i Comuni arrivino a spendere tre volte quello che recuperano. Alzando la tassa rifiuti, o investendo meno in una raccolta differenziata corretta. O, addirittura, uscendo dall’accordo: lo fanno molti comuni al Sud, e portano tutto in discarica. Nel 2019 l’accordo scadrà: non è il caso che l’Anci punti a rinnovarlo in modo più favorevole ai Comuni, accettando magari di vincolarli a una gestione più oculata del servizio e tutelando i cittadini?


9) INVESTIRE SULL’ECODESIGN. Per esempio: le bottigliette dell’acqua sono fatte di un tipo di plastica, mentre tappo e anello, spesso, di un altro. Le buste in cui spediamo i libri sono carta foderata da pluriball, e per differenziarli tocca separarli. Non si possono progettare diversamente? «Forse: ma a scapito della leggerezza della busta, o dell’impatto visivo della bottiglia», spiega il presidente di Corepla. Si può agire in modo indiretto: ad esempio – e Corepla lo fa – aumentando il contributo richiesto a chi produce imballaggi in plastiche non riciclabili. Peccato che poi i produttori scarichino il costo sul consumatore: oltre a pagare la tassa rifiuti ci troviamo il costo della differenziata nascosto nello scontrino del supermercato.


10) DIFFERENZIARE TUTTA LA PLASTICA. A oggi la raccolta comprende solo gli imballaggi (un terzo di tutta la plastica che buttiamo via), ed è gestita da Corepla. Perché non estenderla anche a giocattoli, indumenti, attrezzature mediche, tubature? «Se le imprese che li producono dovessero autotassarsi per gestirne il recupero, come fanno i produttori di imballaggi, ci avvicineremmo agli obiettivi Ue per il riciclo», spiega Ciotti. Cioè al 50% della plastica riciclata entro il 2020.


E PER FINIRE, lottare con lo ZZL! Cioè lo Zozzone Litoraneo: sottospecie dell’homo sapiens (o meglio insipiens?) che va in spiaggia, fa il picnic, fuma e lascia sulla sabbia una tossica eredità di mozziconi e rifiuti. O al massimo, per pulirsi la coscienza, li butta nei cestini pubblici già pieni, e pazienza se poi il vento li fa volare nell’ambiente. Non è una specie rara: la ricerca Beach litter di Legambiente mostra che il 48% dell’immondizia delle spiagge si deve proprio a lui. Se il vostro vicino d’ombrellone è uno così, chiedeteglielo: «Ma perché non te la porti a casa?»



fonte: www.corriere.it