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Recupero di materia, ricerca e formazione, i pilastri dell’economia circolare

Il convegno on-line organizzato da Greentire. L’obiettivo è riuscire a dare visibilità alle competenze e all’innovazione








Recupero di materia, ricerca e sviluppo, e formazione. Sono questi i tre capisaldi su cui fondare l’economia circolare secondo il presidente di Greentire (la società che opera nel settore della gestione Pfu, i pneumatici fuori uso) Roberto Bianco, che ha aperto il convegno on-line ‘Il recupero di materia come pilastro del Green deal’. “Il settore Pfu in Italia è senz’altro un’eccellenza – dice Bianco – ma preferisco non focalizzare l’attenzione sulle filiere di riferimento quanto piuttosto far presente come questo comparto abbia ancora delle potenzialità inespresse”.

Obiettivo è riuscire a dare visibilità alle competenze e all’innovazione: anima dell’economia circolare e del riciclo pensando anche alla transizione ecologica e agli strumenti in atto per incentivare l’utilizzo della materia prima secondaria.

“Regolamentazione e progettazione sono fondamentali per passare da un modello di società lineare a un modello circolare – osserva l’ex sottosegretario a Palazzo Chigi Riccardo Fraccaro – serve un intervento importante dello Stato per orientare l’economia italiana”.

Secondo Rossella Muroni, vicepresidente della commissione Ambiente alla Camera, “a partire dal tema della scarsità di materie prime, l’economia circolare è la strada che società e imprese devono seguire per restare innovative e competitive, perseguendo la #sostenibilità. L’Italia ha tutte le carte in regola per farlo”. Anche perché – prosegue Muroni – il nostro Paese ha “una grande tradizione di recupero di materiali che ci permette di risparmiare e di tagliare le emissioni”. Però alle “imprese virtuose” della filiera dell’economia circolare bisogna dare una mano: “vanno sostenute, eliminando gli ostacoli burocratici, che fanno parte di quei blocchi non tecnologici”. E’ per questo che per esempio “i decreti ‘end of waste’ sono fondamentali; ma servono circa cinque anni per ottenerne uno. Troppo tempo”. Ora con l’esame del decreto Semplificazioni e governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) – rileva ancora Muroni – “provo con due emendamenti a snellire queste procedure, e insieme a rafforzare il sistema dei controlli ambientali”.

E proprio quello legislativo è un elemento che per Bianco è essenziale: “Il contesto normativo dovrebbe premiare le condotte virtuose e penalizzare quelle fraudolente”. I pilastri dell’economia circolare, da sostenere, sono tre: “recupero di materia, che è anche la mission di Greentire, insieme con un necessario cambio di mentalità, fondamentale per vincere la scommessa, e ripensare il prodotto fin dalla progettazione; mentre i gestori dei rifiuti invece dovrebbero allontanarsi da una concezione aziendalista, così come i consumatori dovrebbero privilegiare i prodotti riciclati, senza pregiudizi. Altro punto fondante è la ricerca e sviluppo. Terzo: la formazione, sempre in un’ottica di miglioramento”.



fonte: www.rinnovabili.it


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RiciclaTv: Rifiuti Tessili tra tradizione ed innovazione


 











Ricicla.tv



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A Torino nasce hub specializzato nella produzione artigianale con materiali sostenibili

E' l'idea di Izmade, l'impresa sociale vincitrice del premio speciale Impacton nella edizione 2020 di Welfare che impresa



A Torino c’è un’impresa sociale che sta creando il più grande hub territoriale specializzato nella progettazione e produzione artigianale realizzata con materiali sostenibili. Si tratta di Izmade, vincitrice del premio speciale Impacton nell’edizione 2020 di Welfare che impresa!, programma di capacity building per progetti di welfare ad alto potenziale di impatto sociale, economico e ambientale, promosso da Fondazione Italiana Accenture insieme a UBI Banca (Banca del Gruppo Intesa Sanpaolo), Fondazione Snam, Fondazione Bracco, Fondazione con il Sud, Fondazione Peppino Vismara, in partnership con Impacton, Aiccon e Fondazione Politecnico di Milano – Tiresia.

Izmade rappresenta una risposta imprenditoriale visionaria ad una delle sfide più complesse per la nostra società: la sostenibilità ambientale. L’impresa è stata selezionata tra i 12 progetti finalisti di Welfare che impresa! 2020 entrando a pieno titolo nello scaling program di Impacton, la cui missione è intercettare formule di impatto e trasformarle in toolkit digitali per renderle accessibili e adattabili a chiunque desideri replicarli nel proprio contesto territoriale.

La squadra di Izmade è composta da Alessandro, Giuseppe Pasquale e Paolo, giovani architetti e designer che guidano un team di professionisti altamente qualificati per la progettazione e produzione di arredi e allestimenti di design attraverso l’utilizzo creativo di materiali ecosostenibili – materiale di recupero, scarti di lavorazione industriale, materiali innovativi e riciclabili – allo scopo di diffondere e promuovere l'utilizzo delle risorse naturali e del materiale di riciclo nella vita quotidiana. Izmade è anche un MakerSpace aperto, al tempo stesso uno studio e un laboratorio dove progettare e prototipare. Obiettivo di Izmade è far crescere l’hub torinese e fare formazione sull’artigianato eco-sostenibile coinvolgendo la comunità locale e il territorio.

Izmade è stato scelto da Impacton per l’efficacia della sua formula, per essere un progetto solido e già validato, e perchè risponde ad un bisogno trasversale a molte geografie.

Il percorso di Impacton ha coinvolto Izmade attraverso tre workshop finalizzati a identificare la migliore strategia di scalabilità, gli elementi da adattare in ogni contesto locale e le metriche di misurazione d’impatto da tracciare in occasione di ogni replicazione, permettendo così di sintetizzare il progetto in un toolkit digitale che riassume tutti gli elementi fondanti del progetto e permette di replicarne la formula. Il toolkit funziona come una ricetta di cucina: si parte dall’identificare gli “ingredienti”, le risorse chiave necessarie per avviare la replica del progetto, fino ad arrivare alla descrizione di dettaglio dei passi necessari per implementarlo.

Grazie a Welfare che impresa! e al percorso con Impacton, Izmade ha lanciato recentemente la startup Plastiz, che lavorerà in modo verticale sul tema della plastica.

“Fondazione Italiana Accenture è soddisfatta del percorso evolutivo e dai risultati raggiunti da Izmade, anche grazie al supporto di Impacton. Welfare che impresa! è un programma di capacity building, scaling internazionale e investment readiness per imprese sociali che negli anni ha saputo intercettare progetti ad elevato potenziale di crescita, che abbiamo continuato a seguire da vicino per accelerarne lo sviluppo e l’espansione.” - commenta Simona Torre, Segretario Generale di Fondazione Italiana Accenture.

“Dalla nostra esperienza internazionale, sappiamo che per molti progetti ad alto impatto sociale e ambientale come Izmade scalare significa ‘replicare il proprio modello’, adattandolo alle esigenze dei diversi contesti locali! Siamo felici di poter accompagnare con i nostri programmi di replicazione, la diffusione di Izmade, amplificando così il suo impatto, generando connessioni e reti tra giovani imprenditori sociali, studenti e attivisti, enti del terzo settore, e attori pubblici-privati - Margherita Pagani, Founder e CEO di Impacton.

Il concorso “Welfare, che impresa!” ha riaperto le porte lo scorso 16 marzo per la sua Quinta Edizione e intende premiare e supportare i migliori progetti di welfare di comunità promossi da Enti in grado di produrre benefici in termini di sviluppo locale, in settori quali: cultura, valorizzazione del patrimonio e del paesaggio, sostenibilità ambientale e circular economy, smart cities e mobilità, energia, welfare territoriale, servizi di cura e welfare aziendale, agricoltura sociale e rigenerazione e restituzione alla fruizione collettiva di beni pubblici inutilizzati o di beni confiscati alla criminalità organizzata.

Il concorso è promosso da Fondazione Italiana Accenture, Fondazione Bracco, Fondazione Snam, Fondazione CON IL SUD, Fondazione Peppino Vismara e UBI Banca (Banca del Gruppo Intesa Sanpaolo), con il contributo di AICCON, Fondazione Politecnico di Milano – Tiresia, Fondazione Social Venture Giordano Dell’Amore e Impacton e degli incubatori PoliHub, SocialFare, Hubble Acceleration Program, G-Factor, incubatore-acceleratore di Fondazione Golinelli; a|cube e Campania NewSteel.

fonte: www.torinooggi.it



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Nuova vita per la plastica in mare che diventa montatura di occhiali

 










L'innovazione di Sea2See, brand di occhiali da vista e da sole che fa della circolarità la sua bandiera

Dal mare agli occhi. Non è il titolo di una poesia romantica, quanto piuttosto il principio fondante di Sea2See, brand che produce montature per occhiali, da vista e da sole, interamente con plastica recuperata dal mare: un progetto di business sostenibile in un’ottica del tutto circolare dei consumi, con riguardo all’ambiente.

L’impatto ambientale del settore ottico

François van den Abeele, fondatore di Sea2see, ricorda che l’industria della moda è la più inquinante al mondo, subito dopo quella petrolifera. Nel settore ottico - parte integrante del mondo fashion - l'attenzione alla sostenibilità è quasi inesistente: i rifiuti prodotti dalle montature in acetato degli occhiali vecchi hanno un altissimo impatto, soprattutto in virtù del fatto che ogni paio di occhiali è prodotto con materie prime (plastiche) nuove. A ciò si aggiunga che circa il 50% della popolazione porta occhiali da vista. L’idea alla base di Sea2See è unica nel tuo genere e punta a invertire questo trend, conciliando business e tutela ambientale e impattando positivamente anche su un'altra dimensione lavorativa, quella dei pescatori che hanno la possibilità di arrotondare lo stipendio raccogliendo rifiuti dal mare.

Dal rifiuto alla nuova vita

Il team di Sea2see si occupa infatti di recuperare rifiuti dal mare in un’ottica circolare, trasformando così in risorsa ciò che è stato trattato come uno scarto: l’azienda si occupa di tutto, dalla raccolta alla produzione, che avviene in Italia. François spiega che i materiali vengono raccolti nei porti di Spagna e Francia grazie a centinaia di pescatori attivi sulle coste di Ghana e Senegal. I pescatori, oltre a svolgere il proprio lavoro, ricevono uno stipendio extra per il recupero di materiali plastici che vengono devoluti all’azienda. Ogni mese Sea2See raccoglie circa 15 mila kg di rifiuti plastici dai mari.

Il punto di forza del brand è la capacità di recupero del materiale dai rifiuti marini, anziché l'acquisto di materie prime ex novo. La plastica, infatti, in virtù della propria resistenza, è un materiale che non si biodegrada mai: affinché un materiale si biodegradi è infatti necessario che esista un batterio in grado di trasformarlo in un altro materiale, ma per la plastica non c'è nulla di simile. La plastica si limita a degradarsi, nei decenni, nelle cosiddette microplastiche, pericolose sia per gli ecosistemi marini sia per l'alimentazione umana. La superficie di queste microplastiche, infatti, è particolarmente idonea a intrappolare tossine che vengono rilasciate all’interno del corpo dei pesci che le ingeriscono e di cui noi ci nutriamo.

Ed è qui che entra in gioco Sea2See. Togliendo materiale plastico dal mare e dandogli nuova vita e nuovo utilizzo, favorisce non solo la circolarità e la sostenibilità in un ambito che ne era privo, ma anche la salubrità di mari, acque e animali. Un modo etico, innovativo e visionario di fare business pensando anche al domani, un valido esempio di conciliare profitto e salvaguardia ambientale. Spingere il consumatore ad agire in maniera responsabile è uno strumento importante di sensibilizzazione, in questo caso per la tutela dei mari da cui dipende la vita sulla terra, ma è anche un’opportunità che sempre più aziende dovrebbero imparare a cogliere.

fonte: www.infosostenibile.it


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Un ministero della transizione che parte in salita

Perché la scelta del ministro per la transizione ecologica lascia perplessi e perché le energie rinnovabili non possono trovare terreno fertile nell'approccio tecnocratico.




Cimentarsi oggi in previsioni su cosa potranno fare le personalità incaricate di governare la tematica climatica ed energetica dell’esecutivo Draghi non è un compito appassionante.

Primo, perché qui proviamo a parlare di cose concrete, cercando di dare un contributo a imprese e cittadini sulle tematiche che riguardano le fonti rinnovabili e l’efficienza energetica e del contesto in cui si muovono. La sfera di cristallo la lasciamo ad altri.

Secondo, perché le variabili che incideranno sulle contorte dinamiche politiche, e su quelle industriali, del mercato globale e sui tempi a disposizione di questo governo, peraltro di corto respiro, sono così numerose che potremmo avventurarci su percorsi imprevedibili. Il “cigno nero” è poi sempre dietro l’angolo; ne sappiamo qualcosa da un anno a questa parte, anche se non è detto che questo cigno abbia sempre connotati negativi.

I fatti dei giorni scorsi, tuttavia, ci portano ad un paio di considerazioni.

La prima riguarda la scelta del neo ministro del tanto agognato dicastero della Transizione Ecologica che si occuperà soprattutto delle tematiche energetiche: Roberto Cingolani. Un fisico, direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia e responsabile dell’innovazione tecnologica di Leonardo spa, ex Finmeccanica, tra le primissime imprese al mondo nel campo degli armamenti (le entrate dal settore difesa sono il 68% del suo fatturato).

Il “tecnico” neo ministro, sconosciuto a gran parte degli operatori nel settore dell’energia verde italiana e degli stessi entusiasti promotori del nuovo ministero, ha fatto delle dichiarazioni che poco hanno a che fare con quel processo di decarbonizzazione che dovrebbe portare avanti (alcune risalenti ad un anno fa le potete leggere qui).

A parte il fatto che non è mai piacevole vedere nella stessa frase o persona due concetti come “ecologia e armi”, si potrebbe aggiungere che storicamente gli ostacoli e i freni principali allo sviluppo delle rinnovabili sono sempre stati messi per mano degli “esperti” legati al sistema energetico ed economico tradizionale e dei fossili, ancora oggi ben radicati nelle nostre istituzioni.

E il motivo è semplice: il loro approccio è tecnocratico, con processi decisionali che arrivano dall’alto e rigidamente incanalati.

Un metodo che confligge con un modello energetico che deve passare velocemente dal fossile all’energia distribuita e pulita. Quest’ultima avrebbe bisogno, al contrario, di una spinta dal basso, con iniziative diffuse e frammentarie, caotiche e virali, che liberino idee e ingegno, come tutte le rivoluzioni tecnologiche. Insomma, il tecnocrate ha spesso un bias cognitivo che non gli consente di comprendere la vera innovazione, se non quella meramente tecnica.

Ma spieghiamo meglio il concetto di vera innovazione, e cioè su ciò che in buona parte dovrà essere il contenuto del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNNR). Un aspetto da chiarire è cosa sono le innovazioni che creano mercati e perché proprio queste dovranno essere facilitate dal governo.

Come afferma nel saggio “Prosperity Paradox”, Clayton Christensen, professore alla Harvard Business School, le innovazioni che creano mercati sono quelle che servono le persone per le quali prima non esisteva nessun prodotto o per le quali il prodotto esistente era inaccessibile, perché complesso o costoso; quindi, le vere innovazioni democratizzano un prodotto o un servizio, lo rendono più economico, mentre precedentemente potevano essere prerogativa di pochi, dei più facoltosi.

Ma questo tipo di innovazioni, che definiremo “buone innovazioni”, con un effetto domino, producono dell’altro. In particolare, favoriscono la creazione di posti di lavoro locali, difficili da trasferire in altri paesi, ma anche lavori globali da esportare dove serve; creano profitti che poi possono essere reinvestiti anche per finanziare i servizi pubblici, visto che attirano risorse per nuove infrastrutture; infine, riescono perfino a modificare la cultura di una società, permeando vecchie e nuove istituzioni, insieme ad una nuova spinta all’istruzione e alla ricerca.

La storia anche recente è piena di esempi. Come non vedere nell’innovazione buona quel processo di transizione energetica che in molti chiedono?

Le innovazioni e la massiva diffusione delle tecnologie solari e rinnovabili e quelle per l’efficienza energetica nell’industria e nell’edilizia, le diverse forme di stoccaggio, la mobilità elettrica, possono essere catalizzatori di ulteriori innovazioni, infrastrutture e opportunità per l’intera società. E di nuovi mercati.

Ma innovazioni, ben inteso, che devono essere lasciate libere di moltiplicare i lori effetti, dare benefici all’ambiente ed essere a disposizione di tutti e non realizzate per l’interesse economico di pochi.

Solamente se ci sarà la possibilità di veder crescere questa spinta dal basso e questo tipo di innovazione in Italia, guidata e stimolata dalla politica, allora potremmo giudicare favorevolmente l’operato di questo, come di altri governi.

fonte: www.qualenergia.it


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Rifiuti in auto

Ogni anno i produttori trasformano in inserti insonorizzanti tappetini e tessuti miliardi di bottiglie in Pet e reti di pesca abbandonate in mare oltre ad altri scarti industriali











È passato il periodo in cui le plastiche riciclate venivano utilizzate solo per la produzione di componentistica elettrica e meccanica del vano motore e comunque in zone non visibili all’occhio. Il concetto di plastica riciclata fino ad ora aveva ricoperto un ruolo marginale, nonostante gli sforzi e le sensibilità che si sono affermate nello scorrere del tempo. È l’uso di quest’ultimo elemento che le aziende, anche del settore premium, intendono far leva per presidiare quella fetta di mercato attenta alla sostenibilità ambientale.

L’uso dopo l’abbandono

L’impegno delle case automobilistiche nel riciclo degli scarti di materiale plastico è molto apprezzabile. Trasformare una bottiglia di Pet o una rete da pesca di nylon abbandonata in mare in tappetini, tessuti o protezioni antirumore è un procedimento molto costoso: bisogna recuperare, pulire, smistare, analizzare, trattare, triturare (in gergo depolimerizzare) e convertire in filato. Si tratta di iniziative che contribuiscono alla soluzione di un problema del quale i produttori non hanno una responsabilità diretta, visto che le componenti di plastica delle vetture seguono da anni processi di smaltimento rigorosi.

A queste iniziative si affiancano quelle di raccolta dei rifiuti abbandonati negli oceani. A tale proposito riveste importanza quanto realizzato dalla divisione Marina della Suzuki che sta sviluppando il primo motore fuoribordo in grado di aspirare la microplastica dispersa nei mari. Da dove sono recuperate anche le reti da pesca che, assieme a quelle buttate via dagli allevamenti ittici, alle plastiche industriali ed agli scarti della fabbriche tessili diventano un filato, l’Econyl, con il quale la Jaguar-Land Rover realizzerà tappetini.

Impegno e ricerca

Econyl è un marchio registrato dalla Aquafil, società leader nel settore delle fibre sintetiche dal 1965 ad Arco, in provincia di Trento, che oggi ha filiali in tutto il mondo. Un’eccellenza italiana che ogni anno elimina e tratta circa 40 mila tonnellate di rifiuti riducendo l’impatto ambientale del nylon del 90% rispetto a quello derivato dal petrolio.

Per il marchio britannico Jaguar-Land Rover, il tessuto Kvadrat rappresenta un’altra tappa nel percorso verso un modello di lusso sostenibile che la Casa considera una valida alternativa alla pelle. In tale processo trovano una seconda vita almeno una cinquantina di bottiglie di plastica per macchina.

Anche l’Audi riutilizza il Pet in varie componenti della quarta generazione di Audi A3 e annuncia che in futuro prossimo tutti i suoi rivestimenti tessili saranno realizzati in materiali riciclati.

L’impegno delle case automobilistiche in questo ambito sta diventando sempre maggiore, anche perché consapevoli che sempre più clienti considerano i fattori di sostenibilità e rispetto dell’ambiente tra le motivazioni che orientano l’acquisto. Tale tendenza risulta essere trasversale e coinvolge anche marchi generalisti come Fiat.

Per approfondimenti https://www.seaqual.org/

fonte: www.arpat.toscana.it


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Di quando non compreremo più la lavatrice

Dalla cultura della convidisione, più nota come sharing economy, arriva la nuova frontiera del product as service: non serve più possedere gli oggetti, basta acquistarne i singoli utilizzi. Ecco qualche spunto di riflessione e qualche dato











Perché diventare proprietari di una fotocopiatrice, un’auto, un sistema di illuminazione se si può fruire di questi beni e dei servizi connessi, come manutenzione e aggiornamento, senza doverli acquistare? Sono tante le aziende che affiancano alla produzione e vendita di beni quella di servizi legati al prodotto stesso e questo processo si definisce, con una parola derivata dalla definizione inglese “servitizzazione”.

Cosa c’è di nuovo in tutto questo? Poco, se si pensa che già nei primi anni ‘60 Rolls Royce ha aperto la strada ai contratti di servizio nel settore aeronautico e commerciale con il programma Powered by the Hours, basato sulle ore di utilizzo e non più sulla vendita degli aeromobili.

C’è tanto di nuovo, invece, se immaginiamo che il modello product as service, vale a dire il servizio venduto congiuntamente al prodotto con una formula che spesso viene definita “senza pensieri”, possa far breccia nel mercato rivolto direttamente al consumatore finale, il cosiddetto business to consumer (B2C), dopo aver ormai convinto il business to business (il commercio tra aziende, B2B).

La domanda che allora si pongono sempre più addetti ai lavori è la seguente: cosa accadrebbe se la servitizzazione cominciasse a riguardare anche la lavatrice di casa nostra?

Le modalità

Nell’ultimo decennio (si, sono passati già 12 e 8 anni dall’entrata in scena in Italia rispettivamente di Airbnb e BlaBlaCar), nel tentativo di ridurre gli impatti ambientali delle nostre piccole e grandi scelte di consumo e allo stesso tempo, dove possibile, tagliarne i costi, ci siamo resi protagonisti di tante decisioni a loro modo rivoluzionarie: in particolare, attraverso i modelli di sharing, abbiamo spesso rinunciato al possesso di un prodotto, a favore del solo accesso al bene. Anche i modelli di servitizzazione vanno in questa direzione. Come funzionano? Il produttore mantiene la proprietà del bene che viene utilizzato dal cliente, il quale ne è l’utilizzatore unico (almeno nell’ambito di uno stesso ciclo di vita) in cambio di un corrispettivo mensile per usufruire di un servizio. La domanda da cui siamo partiti diventa allora: cosa accade se non compiamo più la lavatrice ma ogni mese paghiamo in base ai lavaggi che facciamo?

I benefici

Tra gli ultimi che hanno provato a rispondere ci sono i ricercatori dell’Università di Linkopin. Già nel 2012 un report della Fondazione Ellen MacArthur presentava i vantaggi ambientali dell’adozione del modello product as service per le lavatrici domestiche: la ricerca sottolineava come, favorendo la diffusione di apparecchiature più performanti (più costose dei modelli standard, ma accessibili per un maggior numero di consumatori grazie al pagamento del canone mensile), la servitizzazione avrebbe portato a una diminuzione significativa sia dei consumi di energia sia dell’uso di materiali. È stato calcolato che in vent’anni la sostituzione di 5 lavatrici di fascia bassa con 5 lavatrici di alta qualità – in grado di sopravvivere a 10mila cicli di lavaggio a fronte di soli 2mila – può generare un risparmio paria a 2,5 tonnellate di CO2 equivalente (nella fase di uso del prodotto) e 180 kg di acciaio (nella fase di produzione del prodotto). I ricercatori svedesi confermano i benefici ambientali e non solo: sottolineano anche come i vantaggi di questo modello di business rispetto a tradizionali scelte lineari siano anche di carattere economico e sociale. Da una parte, si aspettano che i consumatori a basso reddito, potendo usufruire di apparecchiature più performanti, siano messi nelle condizioni di risparmiare sulla bolletta elettrica; dall’altra, spiegano, l’intera società potrebbe trarre vantaggio dal miglioramento delle prospettive occupazionali, attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro nel settore riparazione e rigenerazione.

Lunga vita all’elettrodomestico

La chiave di lettura per capire al meglio i vantaggi legati alla servitizzazione è forse proprio questa: il valore del prodotto sta nella funzione che svolge (lavare bene gli abiti, nel nostro caso) e più a lungo riesce a svolgerla, più il venditore del prodotto-servizio guadagna. È dunque interesse del produttore assicurarsi che il prodotto resti a lungo in vita e in buona salute, cioè funzionante. Altro che obsolescenza programmata, dunque: la parola d’ordine sarà longevità, cioè accuratezza nelle scelte di design (pensiamo alla possibilità di pensare prodotti modulari per sostituirne le parti) e qualità dei materiali.

Servizi in quantità

Ma quali sono i servizi connessi a una banale lavatrice? Difficile mettere freni alla fantasia di chi deve venderci qualcosa: chi oggi sceglie di pagare un abbonamento mensile per un servizio pay for light (paga per la luce) non riceve solo un set di lampadine garantite per un numero considerevole di anni, ma anche una completa consulenza illuminotecnica, un piano di efficientamento energetico e un servizio di smaltimento dei rifiuti. Allo stesso modo, scegliendo di sottoscrivere un abbonamento washing as service (servizio di lavaggio) probabilmente ci sentiremo proporre una fornitura di ammorbidente annuale e ci dovremo abituare ad aprire regolarmente la porta di casa nostra al tecnico incaricato della manutenzione della macchina. Tutti (o molti) i servizi associati al prodotto contribuiranno al miglioramento della qualità del prodotto stesso. E se da una parte è vero che il momento della sostituzione di un elettrodomestico rappresenta spesso anche un’opportunità preziosa per scegliere un nuovo prodotto che ci consenta di beneficiare degli ultimi sviluppi tecnologici in termini di efficienza energetica; dall’altra, è certo anche che l’adozione di un modello pay for service garantisce la prevenzione della generazione dei rifiuti e, proprio attraverso i servizi, assicura un miglioramento continuo delle prestazioni dell’apparecchio che abbiamo installato ormai da tempo installato in casa.

Ma cosa succede una volta arrivati all’irreparabile? Il produttore mantiene il controllo sull’intera vita del prodotto, dalla nascita fino al fine vita. Questo significa che, considerando gli obblighi contrattuali di restituzione dei prodotti al fornitore dopo l’uso, il tasso di ritorno (il rapporto tra rapporto tra le tonnellate raccolte dai sistemi formali di gestione dei rifiuti e quelle dei prodotti immessi sul mercato) dei cosiddetti grandi bianchi, che ad oggi in Italia si attesta intorno al 30%, può crescere in maniera significativa (evitando scorte di prodotti obsoleti nelle famiglie o lo smaltimento illegale). Insieme alle disponibilità di prodotti (o componenti) di seconda mano di alta qualità.

I rischi

Poco di quello raccontato finora però, potrebbe essere davvero possibile, o almeno così tanto promettente, senza il contributo di nuove tecnologiche: innovazioni social, big data analytics, cloud, machine to machine (ne sono un esempio le connessioni wireless tra diverse apparecchiature) sono i tasselli costitutivi di questo processo di progressiva dematerializzazione del mondo industriale. Secondo lo studio “Circular Advantage” condotto da Accenture nel 2014 (qui in Pdf), l’operatività del modello di business products as service è garantita dalle tecnologie digitali, che stabiliscono scambi di informazione in tempo reale con e tra utenti, tra gli utenti e le macchine e tra le macchine e i sistemi di gestione: un ruolo fondamentale per disegnare servizi in linea con le esigenze (mutevoli) dei consumatori e per stabilire relazioni consumatori-produttori (o meglio consumatori-meccanismi di intermediazione finanziaria-produttore) durevoli.

Questo significa che non si può abbassare la guardia sui temi della corretta gestione dei dati personali generati attraverso l’uso delle apparecchiature domestiche, che dicono certamente molto a chi sa leggerli su quello che facciamo e siamo. Allo stesso modo, bisogna chiedersi quanti e quali siano i materiali utilizzati per lo sviluppo di queste tecnologie e per la loro integrazione in apparecchiature fino a pochi anni fa estremamente semplici; e poi, i processi e le tecnologie di riciclo così come li conosciamo oggi, saranno in grado di recuperare i materiali di valore presenti nelle apparecchiature che dovremo gestire tra un po’ di anni? O prodotti sempre più complessi contribuiranno ad alimentare una miniera urbana inaccessibile?

Le prospettive

Vi è già venuta già voglia di cambiare lavatrice? Nonostante, i numeri riportati da uno studio del 2016 dal Dipartimento Economico del gruppo bancario Ing ci dicono che le realtà industriali europee fanno sempre più affidamento per la generazione di reddito sui servizi relativi a un prodotto, mentre solo il 56% delle loro entrate è legato alle attività produttive, sono ancora pochi gli esempi di prodotti di uso quotidiano che sono stati servitizzati. Uno dei primi esperimenti in questo senso si chiama Bundles e viene dall’Olanda: pagando una rata che varia a seconda dei lavaggi mensili (il cui costo va sommato a quello di un fisso), si può ricevere a casa una lavatrice Miele di alta qualità (la scelta può ricadere tra due tipologie diverse di lavatrice) connessa ad internet, servizi di riparazione a domicilio, informazioni relative al proprio trend di utilizzo via WhatsApp e consigli per migliorare le performance del prodotto. Bundles entra nelle case degli olandesi mettendo a disposizione anche asciugatrici, lavastoviglie e macchinette del caffè. Anche Homie è una realtà olandese. Si tratta di uno spin-off dell’università TU Delf. Il modello di business è analogo a quello di Bunlers, ma in questo caso tutta l’attenzione è posta alla minimizzazione degli impatti ambientali legati all’uso degli elettrodomestici stimolando abitudini di consumo sostenibile. Come? Il prezzo del servizio varia a seconda del consumo di energia ad esso associato e, dato che nel caso delle lavatrici questo è tanto più elevato quanto più è alta la temperatura del programma di lavaggio, i lavaggi a bassa temperatura costano meno (0,75€ per un lavaggio a 20° a fronte di 2,50€ per uno a 90°). È previsto addirittura uno sconto per chi imposta il programma eco.

E Italia? Dobbiamo probabilmente aspettare ancora un po’, ma è difficile che questo tipo di modello tardi ancora molto a farsi strada. Fidelizzazione del cliente, controllo sull’uso delle risorse, flessibilità dei servizi a disposizione del consumatore, risparmio economico ed energetico, manutenzione continua delle apparecchiature domestiche. I vantaggi sono evidenti anche in mancanza di alcune condizioni favorevoli. Come sottolineato su GreenBiz da Ken Webster, direttore dell’Innovazione della Fondazione Ellen MacArthur, e dal professore
Tomohiko Sakao, coautore dello studio dell’Università di Linkopin ed esperto di ecodesign e modelli teorici per l’implementazione di sistemi product as service: “La direzione verso la quale stiamo andando è chiara, anche in assenza di fattori abilitanti come l’individuazione di un prezzo per le apparecchiature che sia reale, pieno, che includa cioè anche il costo delle emissioni di CO2 legate al prodotto. Se immaginiamo che tali condizioni favorevoli fossero già in atto, l’economia circolare diventerebbe il modello di business standard per questo tipo di prodotti”.

L’ultima spinta può forse arrivare quindi dal legislatore che potrà rendere il product as a service alla portata di tutti introducendo meccanismi incentivanti e promuovendo il passaggio da una produzione legata ai volumi a una più attenta alle performance.

fonte: economiacircolare.com


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Al via gli incentivi all’innovazione circolare, pronti 210mln di euro

Il Ministro dello Sviluppo economico Patuanelli firma il decreto attuativo a sostegno di progetti R&S per la riconversione dei processi produttivi in ottica circolare




Via libera ai nuovi incentivi per l’innovazione circolare. Ieri il Ministro allo Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, ha firmato il decreto attuativo con cui prende corpo una delle misure di sostegno economico inserite nel DL Crescita 2019. Parliamo dell’articolo 26, “Agevolazioni a sostegno di progetti di ricerca e sviluppo per la riconversione dei processi produttivi nell’ambito dell’economia circolare”.
Il provvedimento in questione definisce i criteri, le condizioni e le procedure per l’erogazione degli incentivi, per un totale stanziato di 210 milioni di euro“Con questa misura – si legge nella nota stampa ministeriale –  il MiSE sostiene la ricerca, lo sviluppo e la sperimentazione di soluzioni innovative e sostenibili”L’obiettivo è “promuovere la riconversione delle attività produttive verso un modello di economia circolare in cui il valore dei prodotti, dei materiali e delle risorse abbia una maggiore durata e la produzione di rifiuti sia ridotta al minimo”. Come? Sostenendo progetti di ricerca industriale e sviluppo sperimentale delle imprese.
A fini dell’ammissibilità agli incentivi, le realtà – in forma singola o come rete di imprese – devono garantire alcune caratteristiche chiave per i progetti proposti:
  1. essere realizzati nell’ambito di una o più unità locali ubicate nel territorio nazionale; 
  2. prevedere, anche in deroga agli importi minimi previsti per l’utilizzo delle risorse, spese e costi ammissibili non inferiori a euro 500 mila e non superiori a euro 2 milioni; 
  3. avere una durata non inferiore a dodici mesi e non superiore a trentasei mesi; 
  4. prevedere ricerca e sviluppo finalizzate alla riconversione produttiva delle attività economiche attraverso la realizzazione di nuovi prodotti, processi o servizi o al notevole miglioramento degli stessi, tramite lo sviluppo delle tecnologie abilitanti fondamentali Key Enabling Technologies (KETs).
In tal senso, le attività potranno riguardare innovazioni di prodotto e di processo in un’ottica di “zero rifiuti” e di compatibilità ambientale, o prototipi di modelli tecnologici finalizzati al rafforzamento dei percorsi di simbiosi industriale. I progetti potranno riguardare anche sistemi per la fornitura, l’uso razionale e la sanificazione dell’acqua, strumenti innovativi in grado di aumentare il tempo di vita dei prodotti e nuovi modelli di packaging intelligente a base di materiali recuperati.
Il provvedimento ministeriale interviene con 150 milioni di euro per la concessione dei finanziamenti agevolati a valere sulle risorse del fondo FRI e con 60 milioni per la concessione dei contributi alla spesa a valere sul Fondo sviluppo e coesione e sul Fondo per la crescita sostenibile. Sono previste due riserve, ognuna pari a circa la metà degli stanziamenti: una per i progetti delle imprese di piccole e medie dimensioni e delle reti di imprese nell’intero territorio nazionale ed una destinata esclusivamente ai progetti da realizzare nel Mezzogiorno.
fonte: www.rinnovabili.it

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reCharge, il pneumatico smart che rigenera il battistrada

La Goodyear presenta una nuova mescola biodegradabile per il battistrada che può essere ricaricata con singole capsule, semplificando radicalmente il processo di sostituzione delle gomme





L’americana Goodyear continua a stupire con prodotti innovativi e all’avanguardia. L’ultimo debutto spetta a reCharge, concept di un nuovo pneumatico smart in grado di auto-rigenerarsi. “Goodyear vuole che i pneumatici contribuiscano in maniera ancora più potente alle esigenze specifiche di mobilità dei consumatori”, ha dichiarato Mike Rytokoski, Vicepresidente e CMO della sezione europea dell’azienda.“È con questa ambizione che abbiamo deciso di creare un prodotto quanto più preparato per il futuro della mobilità elettrica, personalizzata e conveniente”.

Il progetto ha puntato, soprattutto, su tre caratteristiche fondamentali: la personalizzazione, la sostenibilità e la semplicità di utilizzo.





L’elemento chiave è l’innovativa mescola biodegradabile del pneumatico smart: può essere ricaricata con singole capsule, semplificando radicalmente il processo di sostituzione delle gomme. Come? Queste piccole unità contengono una miscela di gomma di tarassaco rinforzata con fibre simili alla seta del ragno. Tale mix rende il materiale estremamente resistente e, al tempo stesso, al 100 per cento biodegradabile. Per “ricaricare” il battistrada basterebbe, quindi, iniettare questa pasta sulla superficie della ruota; qui si indurrebbe formando nuovo battistrada.
Il machine learning personalizzerà le tue gomme


Il composto è personalizzabile, spiega la società, per adattarsi alla modalità di guida di ogni automobilista. In altre parole, grazie ad algoritmi intelligenti (che probabilmente implicano l’apprendimento automatico e altri aspetti di intelligenza artificiale) verrebbero analizzati i dati di telemetria del veicolo per creare profili individuali del conducente, fornendo una base per personalizzare la mescola. Le capsule di reCharge permetterebbero anche, quando necessario, di mutare la superficie della gomma per adattarla alle differenti condizioni ambientali e stagionali.


Credit: Goodyear

Altra caratteristica chiave del concept: il battistrada di reCharge sarebbe sostenuto da un telaio leggero con una forma alta e stretta. Questo funzionerebbe in combinazione con le fibre resistenti della pasta per rendere, di conseguenza, il pneumatico estremamente resistente in quasi tutte le condizioni di guida.


“Goodyear reCharge è un concept di pneumatico senza compromessi, che supporta la mobilità elettrica personalizzata, sostenibile e senza problemi”, ha concluso Sebastien Fontaine, Lead Designer presso il Goodyear Innovation Center di Lussemburgo.


fonte: https://www.rinnovabili.it

Fotovoltaico, cella tandem da record dai laboratori Enea

Perovskite e silicio con un’efficienza superiore al 26%.

















Un’innovativa cella solare “tandem” in perovskite e silicio con un’efficienza record superiore al 26% è stata messa a punto da un gruppo tutto italiano composto da ricercatori ENEA del Laboratorio di Tecnologie Fotovoltaiche, Università di Roma “Tor Vergata” (con il centro CHOSE), l’IIT – Istituto Italiano di Tecnologia (con Graphene Labs e il suo spin-off BeDimensional).
I risultati di questa ricerca sono stati pubblicati sulla rivista internazionale Joule (link in basso)
La cella sviluppata – spiega una nota stampa Enea – è composta da due celle solari accoppiate meccanicamente una sull’altra in modo da lavorare in tandem. La cella frontale, a base di perovskite, opportunamente dimensionata, converte bene la luce blu e verde dello spettro solare, lasciando passare la luce solare rossa ed infrarossa verso la cella posteriore realizzata in silicio.
“La combinazione dei due materiali massimizza l’assorbimento dei raggi solari e produce un’elevata foto-tensione, pari alla somma delle tensioni generate dalle due singole celle, producendo in questo modo una maggiore efficienza rispetto ad una singola cella solare”, sottolinea Mario Tucci, responsabile del Laboratorio Tecnologie Fotovoltaiche dell’ENEA.
Due elementi chiave nella realizzazione della cella tandem hanno permesso di ottenere alta efficienza: il grafene ha migliorato le prestazioni nella cella in perovskite, mentre l’eterogiunzione con film amorfi nella cella posteriore in silicio ha consentito di aumentarne la tensione. Finora è stata ottenuta l’efficienza record del 26,3%, ma l’obiettivo è di superare il 30%.
Grazie alla tecnica messa a punto dai ricercatori italiani nella struttura tandem delle celle, si spiega, è possibile conservare i vantaggi delle singole tecniche di fabbricazione, combinando la semplicità di realizzazione di film sottili in perovskite mediante “solution process” con la produzione di celle in silicio ad eterogiunzione.
fonte: https://www.qualenergia.it

Celle solari notturne: l’Università del Maryland inverte il fotovoltaico

Un duo di scienziati sta studiando un concept fotovoltaico alternativo che utilizza la terra come fonte di calore e il cielo notturno come dissipatore.

















Celle solari notturne, in grado di produrre elettricità anche nelle ore più buie. È questa la scommessa accettata dall’Università del Maryland. Un gruppo di scienziati dell’ateneo americano ha, infatti, studiato alcune soluzioni tecniche “radiative” con l’obiettivo di progettare nuovi dispositivi da mettere in funzione dopo il tramonto.
Il fotovoltaico possiede un grande potenziale all’interno della transizione energetica: il sole è ovunque, gratis, e la tecnologia per sfruttare la sua energia sta continuando ad aumentare l’efficienza e a ridurre i costi. Ma come i grandi detrattori delle rinnovabili ci tengono spesso a ricordare, funziona solo nelle ore diurne.

Partendo da questo “ostacolo”, gli scienziati hanno messo a punto un concept fotovoltaico alternativo che utilizza la terra come fonte di calore e il cielo notturno come dissipatore. Il risultato sono quelle che loro chiamano “celle solari notturne”, ma che mostrano un funzionamento completamente diverso rispetto la tecnologia madre.
Come spiega Jeremy Munday, professore presso il Dipartimento di Ingegneria Elettrica e Informatica e coautore dello studio, il processo alla base del concept è simile al modo in cui funziona una normale unità fotovoltaica, ma al contrario. Nel dettaglio, le celle solari notturne sarebbero composte da fotovoltaico termoradiativo (un dispositivo ibrido che accoppia una cella termoradiativa ad una tradizionale cella fv) ed un sistema che sfrutta il raffreddamento radiativo. Quest’ultimo è un fenomeno naturale nel quale il calore viene irradiato nello spazio dalla superficie della Terra o da un oggetto caldo durante la notte.
Una normale cella solare genera energia assorbendo la luce, generando una tensione e il flusso di corrente. In questi nuovi dispositivi, invece, viene emessa luce e la corrente e la tensione vanno nella direzione opposta, ma si genera comunque energia”, ha spiegato Minday. “Devi usare materiali diversi, ma la fisica è la stessa”. Il professore e il suo studente Tristan Deppe stanno attualmente lavorando sui primi prototipi fisici ma sono convinti che le celle solari notturne, se appositamente progettate, potrebbero vantare fino a 50 W di potenza per metro quadrato in condizioni ideali, circa un quarto di ciò che la tecnologia fotovoltaica convenzionale può generare di giorno. Non solo. Con opportune modifiche, potrebbe funzionare anche durante nelle ore di luce creando un sistema potenzialmente attivo 24 ore su 24. I risultati dello studio sono stati pubblicati del numero di gennaio di ACS Photonics (testo in inglese).

fonte: www.rinnovabili.it

La super-carica di domani: ecco la batteria litio zolfo più efficiente al mondo

Testato un nuovo approccio in grado di ridurre lo stress dei cicli di carica nei dispositivi litio-zolfo. Un miglioramento che potrebbe portare ad una vera rivoluzione nell’energy storage



















Oltre alla tecnologia a ioni di litio c’è tutto un mondo di innovazioni e architetture cellulari pronte a far progredire il settore dell’accumulo. Una di queste è rappresentata dalla batteria litio zolfo (Li-S). Si tratta di un tipo di dispositivo ricaricabile noto per la sua elevata energia specifica. Attualmente i migliori prototipi Li -S offrono energie specifiche dell’ordine di 500 W h / kg , dato notevolmente più elevato rispetto a quello delle batterie a ioni di litio oggi sul mercato (che si trovano invece nell’intervallo 150–250 Wh / kg).
La chimica di questi dispositivi possiede tuttavia un grande limite: le prestazioni energetiche si attenuano rapidamente quando l’elettrodo di zolfo viene caricato ai livelli richiesti a causa della sostanziale variazione di volume di litio e perdita del materiale attivo dal catodo. La conseguenza diretta è un ciclo di vita molto ridotto.

Gli scienziati della Monash University, in Australia, sono convinti, però, d’aver trovato la strada giusta per commercializzare la più efficiente batteria litio zolfo mai realizzata, in grado di sovraperformare di oltre quattro volte le prestazioni degli attuali leader di mercato.
Mahdokht Shaibani del Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale dell’ateneo, ha guidato un gruppo di lavoro internazionale che ha sviluppato una batteria Li-S ad altissima capacità con alte prestazioni e basso impatto mondiale. Nel dettaglio gli scienziati hanno utilizzato gli stessi materiali delle normali batterie agli ioni di litio riconfigurando tuttavia il design dei catodi di zolfo in modo da poter sopportare carichi di stress più elevati senza un calo della capacità o delle prestazioni complessive.
Ispirato da un’esclusiva architettura a ponte registrata per la prima volta nella lavorazione di polveri detergenti negli anni ’70, il team ha progettato un metodo che creava legami tra particelle che compensassero lo stress e offrissero un livello di stabilità finora sconosciuto. Il dispositivo si è dimostrato stabile per 200 cicli di carica-scarica, con un’efficienza coulombica superiore al 99%. I risultati della ricerca sono stati pubblicati in questi giorni sulla rivista Science Advances (testo in inglese), dopo che il team ha ottenuto il brevetto per il proprio processo di fabbricazione.
Per Mainak Majumder, co-autore della ricerca, lo sviluppo raggiunto dal gruppo rappresenta un importante passo avanti per l’industria australiana dell’energy storage e, in futuro, per la telefonia, i veicoli elettrici, i computer e le reti solari. “La fabbricazione e l’implementazione delle batterie Li-S nelle automobili e nelle reti permetteranno di ottenere una parte più significativa di quei 213 miliardi di dollari in cui è stimata la catena del valore del litio australiano e rivoluzioneranno il mercato automobilistico”. “Questo approccio  – ha aggiunto Matthew Hill – non solo favorisce metriche ad alte prestazioni e lunga durata, ma è anche semplice ed estremamente economico da produrre, utilizzando processi a base acquosa, e può portare a riduzioni significative dei rifiuti”.

fonte: www.rinnovabili.it