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Sustainable Products Initiative in consultazione

Fino al 9 giugno è possibile esprimere pareri in merito alla nuova iniziativa UE sui prodotti sostenibili



La Commissione europea ha posto in consultazione pubblica (QUI il testo), fino al 9 giugno 2021, la nuova iniziativa sui prodotti sostenibili (Sustainable Product Initiative), revisione della direttiva sulla progettazione ecocompatibile, che oggi riguarda solo il campo dell'energia.
L'obiettivo è stabilire principi di sostenibilità e disciplinare gli aspetti legati alla sostenibilità in un'ampia gamma di prodotti e servizi. Tra i temi in discussione, la presenza di sostanze chimiche dannose in prodotti quali: elettronica e apparecchiature TLC, prodotti tessili, mobili acciaio, cemento.

La Sustainable Product Initiative è in linea con gli obiettivi del Green Deal europeo e del nuovo Piano d'azione per l'economia circolare. Il suo scopo - si legge sul sito della Commissione - è rendere i prodotti adatti a un'economia climaticamente neutra, efficiente sotto il profilo delle risorse e circolare e ridurre al contempo i rifiuti.

La consultazione pubblica è stata avviata per raccogliere pareri e informazioni dal pubblico e dai portatori di interesse sull'iniziativa, compresi campo di applicazione, obiettivi e le principali opzioni strategiche che dovrebbero essere prese in considerazione dal legislatore.

fonte: www.polimerica.it


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A Torino nasce hub specializzato nella produzione artigianale con materiali sostenibili

E' l'idea di Izmade, l'impresa sociale vincitrice del premio speciale Impacton nella edizione 2020 di Welfare che impresa



A Torino c’è un’impresa sociale che sta creando il più grande hub territoriale specializzato nella progettazione e produzione artigianale realizzata con materiali sostenibili. Si tratta di Izmade, vincitrice del premio speciale Impacton nell’edizione 2020 di Welfare che impresa!, programma di capacity building per progetti di welfare ad alto potenziale di impatto sociale, economico e ambientale, promosso da Fondazione Italiana Accenture insieme a UBI Banca (Banca del Gruppo Intesa Sanpaolo), Fondazione Snam, Fondazione Bracco, Fondazione con il Sud, Fondazione Peppino Vismara, in partnership con Impacton, Aiccon e Fondazione Politecnico di Milano – Tiresia.

Izmade rappresenta una risposta imprenditoriale visionaria ad una delle sfide più complesse per la nostra società: la sostenibilità ambientale. L’impresa è stata selezionata tra i 12 progetti finalisti di Welfare che impresa! 2020 entrando a pieno titolo nello scaling program di Impacton, la cui missione è intercettare formule di impatto e trasformarle in toolkit digitali per renderle accessibili e adattabili a chiunque desideri replicarli nel proprio contesto territoriale.

La squadra di Izmade è composta da Alessandro, Giuseppe Pasquale e Paolo, giovani architetti e designer che guidano un team di professionisti altamente qualificati per la progettazione e produzione di arredi e allestimenti di design attraverso l’utilizzo creativo di materiali ecosostenibili – materiale di recupero, scarti di lavorazione industriale, materiali innovativi e riciclabili – allo scopo di diffondere e promuovere l'utilizzo delle risorse naturali e del materiale di riciclo nella vita quotidiana. Izmade è anche un MakerSpace aperto, al tempo stesso uno studio e un laboratorio dove progettare e prototipare. Obiettivo di Izmade è far crescere l’hub torinese e fare formazione sull’artigianato eco-sostenibile coinvolgendo la comunità locale e il territorio.

Izmade è stato scelto da Impacton per l’efficacia della sua formula, per essere un progetto solido e già validato, e perchè risponde ad un bisogno trasversale a molte geografie.

Il percorso di Impacton ha coinvolto Izmade attraverso tre workshop finalizzati a identificare la migliore strategia di scalabilità, gli elementi da adattare in ogni contesto locale e le metriche di misurazione d’impatto da tracciare in occasione di ogni replicazione, permettendo così di sintetizzare il progetto in un toolkit digitale che riassume tutti gli elementi fondanti del progetto e permette di replicarne la formula. Il toolkit funziona come una ricetta di cucina: si parte dall’identificare gli “ingredienti”, le risorse chiave necessarie per avviare la replica del progetto, fino ad arrivare alla descrizione di dettaglio dei passi necessari per implementarlo.

Grazie a Welfare che impresa! e al percorso con Impacton, Izmade ha lanciato recentemente la startup Plastiz, che lavorerà in modo verticale sul tema della plastica.

“Fondazione Italiana Accenture è soddisfatta del percorso evolutivo e dai risultati raggiunti da Izmade, anche grazie al supporto di Impacton. Welfare che impresa! è un programma di capacity building, scaling internazionale e investment readiness per imprese sociali che negli anni ha saputo intercettare progetti ad elevato potenziale di crescita, che abbiamo continuato a seguire da vicino per accelerarne lo sviluppo e l’espansione.” - commenta Simona Torre, Segretario Generale di Fondazione Italiana Accenture.

“Dalla nostra esperienza internazionale, sappiamo che per molti progetti ad alto impatto sociale e ambientale come Izmade scalare significa ‘replicare il proprio modello’, adattandolo alle esigenze dei diversi contesti locali! Siamo felici di poter accompagnare con i nostri programmi di replicazione, la diffusione di Izmade, amplificando così il suo impatto, generando connessioni e reti tra giovani imprenditori sociali, studenti e attivisti, enti del terzo settore, e attori pubblici-privati - Margherita Pagani, Founder e CEO di Impacton.

Il concorso “Welfare, che impresa!” ha riaperto le porte lo scorso 16 marzo per la sua Quinta Edizione e intende premiare e supportare i migliori progetti di welfare di comunità promossi da Enti in grado di produrre benefici in termini di sviluppo locale, in settori quali: cultura, valorizzazione del patrimonio e del paesaggio, sostenibilità ambientale e circular economy, smart cities e mobilità, energia, welfare territoriale, servizi di cura e welfare aziendale, agricoltura sociale e rigenerazione e restituzione alla fruizione collettiva di beni pubblici inutilizzati o di beni confiscati alla criminalità organizzata.

Il concorso è promosso da Fondazione Italiana Accenture, Fondazione Bracco, Fondazione Snam, Fondazione CON IL SUD, Fondazione Peppino Vismara e UBI Banca (Banca del Gruppo Intesa Sanpaolo), con il contributo di AICCON, Fondazione Politecnico di Milano – Tiresia, Fondazione Social Venture Giordano Dell’Amore e Impacton e degli incubatori PoliHub, SocialFare, Hubble Acceleration Program, G-Factor, incubatore-acceleratore di Fondazione Golinelli; a|cube e Campania NewSteel.

fonte: www.torinooggi.it



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Materiali ecologici: produrre bioplastica diventa facile

Dalla collaborazione tra Olanda e Giappone nasce un processo in un’unica fase che consente la produzione di monomeri derivati dalle piante




















Produrre bioplastica non è mai stato così facile come con il sistema messo a punto da Kiyotaka Nakajima. Lo scienziato, ricercatore, dell’Università di Hokkaido, in Giappone, ha collaborato con Emiel Hensen della Eindhoven University of Technology, in Olanda per realizzare un nuovo processo di sintesi veloce ed efficiente sotto il profilo energetico. E i risultati, pubblicati su ACS Catalysis (documento in inglese), non sembrano deludere le aspettative.

La plastica “vegetale” sta divenendo il materiale di punta per sostituire i polimeri derivati dal petrolio (leggi anche Le alternative alla plastica: ecco i materiali che premiano l’ecologia). La produzione su larga scala incontra però diverse difficoltà. È il caso del polietilene furanoato, polimero a base biologica in grado in teoria di sostituire egregiamente uno dei giganti dell’industria plastica: il polietilentereftalato (PET). Se i due prodotti sono messi a confronto, il PEF vince sul PET per qualità meccaniche e proprietà termiche ma la produzione su larga scala è ostacolata dall’inefficienza di sintesi dei monomeri, i mattoni costitutivi.

Proprio per risolvere questo problema i ricercatori giapponesi e olandesi hanno studiato un processo veloce ed efficiente che richiedesse meno passaggi e soprattutto meno energia. Il punto di partenza è consistito nello sviluppare un composto stabile chiamato HMF-acetale a partire dalla biomassa vegetale che può essere a sua volta convertito con un’efficienza del 95% nei due monomeri del PEF, ossia l’acido 2,5-furandicarbossilico (FDCA) e il glicole etilenico. Il risultato rappresenta un progresso significativo rispetto allo stato attuale della tecnica, superando una limitazione intrinseca dell’ossidazione dell’HMF per produrre bioplastica. I ricercatori osservano che questo metodo ha “meno passaggi di reazione e l’uso di soluzioni altamente concentrate richiederà meno energia rispetto ai processi convenzionali”. Il team è convinto che la nuova tecnica non solo migliorerà la fattibilità della produzione di PEF commerciale nell’industria chimica, ma aiuterà anche a promuovere un uso diffuso delle bioplastiche, oltre a fornire indicazioni per lo sviluppo di altre applicazioni chimiche a base biologica.

fonte: www.rinnovabili.it

Il perfetto equilibrio dell’arancia Neomateriali nell’economia circolare – Packaging























Sottili imballaggi monodose per un gustoso succo, ingeribili insieme al contenuto. Un contenitore esterno biodegradabile, costituito da uno strato rigido e uno di morbido cuscinetto, che garantisce la protezione ideale per tutti i singoli elementi al suo interno. Il tutto realizzato con un’unica materia prima, che si differenzia nella struttura a seconda dello scopo.
Un perfetto equilibrio tra funzione, forma e consumo.
Non è un innovativo modello di imballaggio appena brevettato, ma uno dei suoi più primordiali esempi, che la natura ha offerto a dimostrazione della sua semplicità e perfezione: è la struttura di un’arancia, elogiata negli anni '60 da Bruno Munari come calzante rappresentazione di good design.
Ogni anno, entriamo in contatto con circa 8.000 imballaggi, elementi pervasivi della nostra vita quotidiana, simbolo di un modello di consumo talvolta distorto ed eccessivo, ma allo stesso tempo fondamentali per la protezione, la conservazione e il trasporto dei beni, per la riduzione dello spreco lungo l’intera filiera, nonché per comunicare all’utente informazioni relative alla qualità del prodotto, orientandolo verso un acquisto consapevole.
Strumento essenziale dunque, ma anche estremamente diffuso, la cui progettazione deve coniugare tutela dell’ambiente ed esigenze degli utenti, assecondando principi di good design. All’imballaggio viene richiesto di essere sempre più performante, di assolvere a pieno le sue funzioni, utilizzando la minor complessità e il minor quantitativo di materiale possibile.
A seguito dell’entrata in vigore delle direttive del Pacchetto economia circolare dell’UE, gli obiettivi si fanno sempre più stringenti, e il mondo del packaging è percorso da un’ondata di innovazione senza precedenti. Il volume Neomateriali nell’economia circolare – Packaging testimonia la ricchezza e la varietà di queste esperienze.
Materiali tradizionali come carta, legno, plastica, acciaio e alluminio si rinnovano in applicazioni sempre più intelligenti, nella riduzione di pesi e volumi e nell’ottimizzazione del materiale impiegato, e raggiungono alti coefficienti di riciclo, limitando il consumo di risorse naturali.
I cambiamenti più dirompenti provengono dalle piccole realtà, come start-up, università e centri di ricerca. Numerosi nuovi materiali (preferibilmente biobased) fanno il loro ingresso nel settore, in forma di sperimentazione o già avviati a produzione industriale. Gusci di gamberetti, carciofi, piume di pollame, caseina del latte, bucce d’uva… gli scarti e i sottoprodotti delle più svariate tipologie di produzione vengono valorizzati dalle aziende stesse per la creazione di packaging alternativi e sostenibili, con un notevole vantaggio sia economico sia ambientale.
Le novità però, non si limitano alla natura delle risorse, ma si estendono ad aggiustamenti di design e di fruizione del prodotto: in un’ottica zero waste per esempio, nascono confezioni contenenti dei semi che possono essere piantate dopo l’uso, altre che si dissolvono nell’acqua. Anche il packaging, inoltre, è stato investito dalla rivoluzione circolare del “prodotto come servizio”. Efficienti sistemi di gestione e take back permettono infatti il riutilizzo di imballaggi tradizionalmente considerati monouso, come quelli impiegati per l’e-commerce, per bevande e cibo da asporto.
Innovazioni d’utilizzo, ecodesign e materiali sostenibili, sono i tre pilastri di un cambiamento che sta travolgendo il settore, offrendo all’imballaggio l’opportunità di mutare le sue vesti e la percezione che ne ha il consumatore: da icona dell’usa e getta a portatore di precisi valori come la qualità e il rispetto per l’ambiente.

fonte: http://www.puntosostenibile.it

Design circolare, Ikea è pronta a dare in affitto e rivendere mobili usati

È l’economia circolare secondo la casa svedese: allungare la vita dei suoi prodotti e realizzarli con materiali riciclati, per renderli più sostenibili. Ne abbiamo parlato con Malin Nordin, Development Leader for Circular Ikea














Älmhult, Svezia – Dal 2030, tutti i prodotti dovranno contenere materialiriciclati o al massimo riciclabili e dal 2019 si dirà addio a tutti gli oggetti di plastica usati una sola volta (per esempio le cannucce). È un obiettivo importante quello che ha annunciato Ikea durante i Democratic Design Days ad Älmhult, dove si trova la sede centrale dell’azienda. Un cambiamento di prospettiva che deve necessariamente spingere verso l’utilizzo di nuovi tipi di plastica non proveniente dal petrolio, come quella vegetale e quella realizzata a partire dall’anidride carbonica, oppure nuovi materiali più amichevoli nei confronti dell’ambiente, come il bambù, legno che cresce molto in fretta e non richiede grandi quantitativi di acqua. All’interno di una maggiore attenzione alla sostenibilità ambientale, però, rientra anche il concetto di design circolare: progettare sin dall’inizio oggetti e mobili che possano essere riutilizzati, riparati e riciclati, secondo nove principi che prevedono anche una vita più lunga per il prodotto e l’eventuale modifica della sua funzione.


“Dobbiamo dare ascolto al cambiamento che sta avvenendo nella società, perché nessuno vuole sprecare e a tutti piacerebbe valorizzare quello che abbiamo a casa”, ci racconta Malin Nordin, Development Leader for Circular Ikea. “Questo significa che dobbiamo rapportarci ai nostri clienti in modi nuovi, dobbiamo andare oltre alla vendita di nuovi prodotti“.

Ma che cosa significa la circolarità per Ikea?

“Riguarda il come progettiamo i nostri prodotti fin dall’inizio, per fare in modo che possano far parte di un modello di business compatibile con un’economia circolare.

È per questo che abbiamo messo già nove principi di design circolare [tra cui il progettare per una durata maggiore, il riutilizzo e la produzione più sostenibile, ndr]. Si tratta inoltre di gestire le risorse in modo intelligente, ed è per questo che abbiamo preso l’impegno per utilizzare esclusivamente materiali rinnovabili o riciclati entro il 2030″.



È un altro passo verso la responsabilità sociale d’impresa per Ikea…

“Ci siamo resi conto che, per continuare a crescere e realizzare la nostra ambizione di permettere a più di un miliardo di persone di vivere vite migliori nel rispetto dei limiti del nostro pianeta, avremmo dovuto iniziare a pensare in modo diverso. Passare a un modello di economia circolare ci è sembrata la soluzione. Per farlo dobbiamo essere più attenti alle risorse che sfruttiamo e allo stesso tempo trovare un modo per crescere. La nostra fortuna dipende molto dall’essere rilevanti per il pubblico e i loro comportamenti, e trovare soluzioni per loro: nel momento in cui non tutti fossero entusiasti all’idea di comprare nuovi prodotti, perderemmo rilevanza se non offrissimo alcuna alternative”.

Quali sarebbero queste alternative?

“Vediamo chiaramente un interesse notevole, in più mercati, per evitare di possedere le cose che si hanno a casa, magari perché si ha un contratto di lavoro molto breve o perché il proprio appartamento è molto piccolo. Abbiamo un progetto pilota in Giappone che prevede di noleggiare e prendere in leasing i mobili, per esempio, ma abbiamo come obiettivo anche al Regno Unito e nello specifico Londra. Stiamo ancora cercando di capire a che prezzo farlo, l’estetica dei prodotti e altre questioni pratiche”.

In che modo questo ha un impatto sul design?

“I prodotti che abbiamo oggi non sono veramente pensati e realizzati a questo scopo: dovrebbero essere ancora più facili da montare e smontare, esserci un’ampia disponibilità di parti, sembrare sempre in ottime condizioni. Dobbiamo inoltre trovare modi per rimetterli a noleggio una volta terminato un contratto, mettere al centro la durevolezza dei materiali e capire che tipo di servizi abbiamo bisogno di fornire. Insomma stiamo ancora imparando da questo punto di vista, ma abbiamo già attivato un centinaio di iniziative relative a ritiro, vendita dell’usato e via dicendo”.La sedia Odger è fatta del 30% legno e almeno il 55% del restante materiale è costituito da plastica riciclata

Vendere prodotti per poi ricomprarli: come fa a essere un modello economicamente sostenibile?

“Il punto è che ogni prodotto ha un suo valore, che si tratti del prodotto in se o del materiale di cui è composto. In Giappone abbiamo già un servizio di buy-back tramite il quale riusciamo a rivendere circa l’85% di ciò che ricompriamo; inoltre trovando un sistema per riutilizzare materiali considerati privi di valore si riescono a realizzare prodotti a costi più bassi. In questo modo il circolo diventa virtuoso. Non si tratta però solo di ricomprare prodotti Ikea, ma ogni tipo di oggetto: l’importante è che sia conveniente per il cliente. Certo non è esattamente conveniente riportare la merce fino agli stabilimenti: serve qualcuno che la raccolga, serve un’unità di smantellamento… Ma quel che emerge dai test che stiamo effettuando è promettente, non solo da un punto di vista economico, ma anche come di crescere senza vendere esclusivamente prodotti nuovi. Nella rivendita possiamo al contempo offrire prodotti a fasce di prezzo più basso, raggiungere in questo modo un pubblico più vasto ed essere più rilevanti”.

Plastiche vegetali, realizzate a partire dall’anidride carbonica, bambù… Su quali ambiti ci si concentra di più?

“L’innovazione si sta concentrando molto su plastiche e tessuti. Ci sono molte idee per realizzare materiali di origine organica, ma anche per riutilizzare di più i materiali riciclati. Poi c’è il comfort, con le schiume, un’altra area nella quale ci rendiamo conto di dover trovare nuove soluzioni; come possiamo ottenere comodità senza le schiume classiche, o come possiamo riciclarle o trovare alternative bio.I sacchetti riutillizabili Istad, composti almeno all’85% di plastica riciclabile

Quanto è difficile trovare nuovi modi di realizzare gli stessi prodotti?

“È molto diverso e per molteplici ragioni, per questo abbiamo bisogno di collaborare con l’esterno e con persone fuori da Ikea, che sappiano vedere le cose in un modo diverso. Ecco perché cerchiamo nuovi partner, nuove idee, persone che pertino nuove visioni, per aiutarci a pensare fuori dagli schemi. Allo stesso tempo sono convinta che alle spalle abbiamo noi stessi una storia da imprenditori e innovatori, abbiamo saputo prendere idee vincenti da un settore per trasportarle nel nostro”.

Dal 2019 niente più oggetti di plastica a singolo uso e dal 2030 tutti da materiale riciclato o riciclabile: a quale oggetto le dispiacerà dire addio?

“Ce n’è uno che i miei bambini adorano, e sono le scatole di plastica. Vederli sparire li rattristerà, credo. Ma anche io mi sono resa conto di usare in continuazione i sacchetti di plastica a casa: ci metto il pane, i cetrioli… Li uso spesso ma, facendo questo lavoro, mi sono resa conto di poter agire diversamente. Ho solo bisogno di trovare una soluzione più sostenibile, qualcuno che mi aiuti a farlo in un modo diverso”.

A proposito di fare le cose in modo diverso, vorrei parlare di uno dei vostri prodotti più iconici, la libreria Billy. Anche questa sarà sottoposta a un redesign per essere più sostenibile?

“Una volta ho cambiato la Billy, quando ne ero responsabile. Ma si trattava di piccoli cambiamenti; abbiamo per esempio apportato modifiche al foro di fissaggio, per renderlo più efficace e migliore. A quel tempo avavamo bisogno dell’approvazione da Ingvar [Kamprad, il fondatore di Ikea, ndr] per farlo, e dalla sua famiglia. Si tratta di un prodotto veramente durevole, vedremo se ci sarà ancora bisogno di cambiamenti. Chi lo sa, è un argomento delicato! [ride]”.

fonte: https://www.wired.it

KLIMAHOUSE2018














Un ricco programma quello promosso da Fiera Bolzano per l’edizione 2018 di Klimahouse 2018, di cui Nonsoloambiente è Media Partner.
Moltissimi gli eventi in cui si parlerà di edilizia,  di tecnologie utili per il risparmio energetico e di progettazione di edifici efficienti dal punto di vista energetico, senza tralasciare la componente estetica con focus su design e arredamento sostenibile. Tematiche strategiche per quanto riguarda l’uso di materiali sostenibili, considerate anche le ultime novità normative come i Criteri Ambientali Minimi inseriti nel D.Lgs 50/2016.
A partire da mercoledì 24 gennaio, fino al 27 gennaio, si potranno visitare gli oltre 400 espositori presenti nell’area fiera di Klimahouse 2018. Dunque un lungo weekend sostenibile per tutti i partecipanti.
Qui i dettagli del programma.

fonte: http://nonsoloambiente.it

Il marchio Ecolabel UE per un'economia realmente circolare

Circa 40.000 prodotti e servizi disponibili 




















Da 25 anni Ecolabel, l'etichetta ufficiale dell'Unione Europea per certificare l’ecosostenibilità di prodotti e servizi, ha favorito la transizione europea verso lo sviluppo di un'economia circolare: Ecolabel UE costituisce infatti un modo affidabile per i consumatori di riconoscere prodotti di qualità e allo stesso tempo ecologici.
Grazie a criteri trasparenti e protocolli normativi precisi, i consumatori possono essere certi che non solo stanno operando scelte consapevoli, ma che ciò che acquistano è un prodotto efficace almeno quanto i prodotti convenzionali concorrenti.
L'approccio circolare è parte integrante dei rigorosi criteri di prodotto che caratterizzano Ecolabel UE: l'etichetta premia i prodotti innovativi che, tra le altre caratteristiche, sono durevoli, riparabili, a basso contenuto di carbonio, con imballaggi limitati e, in generale, con un maggior contenuto di materiale riciclato.
La domanda di prodotti più ecologici sta crescendo a livello globale poiché le persone sono sempre più consapevoli della necessità di un modo di vivere più sostenibile. Assicurare il consumo e la produzione sostenibili è uno degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite e costituisce, per molte aziende, un'opportunità per esportare merci, creando così nuovi posti di lavoro verdi nell'UE.
Le imprese verdi sono in costante crescita (in media un 4% ogni anno, anche durante la recessione economica); la Commissione europea sta incoraggiando le imprese a mantenere gli sforzi profusi per migliorare le proprie prestazioni nell’ambito della sostenibilità e impostare ottimi esempi, sia a livello locale che globale, per la produzione di beni e l’erogazione di servizi classificabili come “green”. In tal senso, il marchio Ecolabel UE contribuisce enormemente a conseguire gli obiettivi prefissi nell'ambito dell'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
Un marchio europeo per un mercato europeo: questa è stata l'idea di base 25 anni fa, quando venne creata l’etichetta. Oggi, con circa 40.000 prodotti e servizi disponibili, Ecolabel UE costituisce una realtà consolidata, riconosciuta in tutta Europa e non solo: il marchio Ecolabel europeo offre, infatti, vantaggi sia alle aziende sia ai consumatori.
Da una parte, i produttori possono sfruttare il vantaggio di un mercato che rende più efficace la produzione e l'utilizzo delle risorse, oltre a beneficiare di una piattaforma per comunicare il proprio impegno ambientale in modo serio e affidabile, allineandosi al contempo con obiettivi globali e europei per un'economia circolare; dall’altra, i consumatori possono contribuire a diminuire l’impatto ambientale di prodotti e servizi senza rinunciare ad efficacia, qualità e funzionalità d’uso di ciò che acquistano.
Per festeggiare il 25° anniversario dell'Ecolabel UE, in Europa e in Italia sono previste numerose azioni promozionali, soprattutto nell’ambito della Settimana verde dell'UE, l'evento annuale della Commissione europea istituito nel calendario della politica ambientale comune.
Al tema degli strumenti per lo sviluppo sostenibile il notiziario settimanale del Sistema nazionale per la protezione dell'ambiente (SNPA) AmbienteInforma ha recentemente dedicato un focus, presentando alcune delle più significative esperienze realizzate in diverse regioni del Paese.


fonte: http://www.arpat.toscana.it

Quei materiali “critici” sempre più usati dalle fonti rinnovabili

L’Europa finanzia con 3 milioni di € un progetto che coinvolge trenta partner, tra cui Enea, che dovranno sviluppare l’innovazione scientifico-tecnologica nel campo delle terre rare. Sostituzione e riciclo le alternative contro i rischi futuri di approvvigionamento. Ma i costi sono alti. Intervista a Giovanni Di Girolamo, esperto ENEA.












Cobalto, neodimio, platino, indio e gallio sono alcune delle materie prime “critiche” sempre più utilizzate nelle energie rinnovabili, dall’eolico al fotovoltaico, passando per le batterie di accumulo.
Ne avevamo parlato più volte su QualEnergia.it (ad esempio in un articolo del 2013 e nel 2016).
In questi giorni è partito un nuovo progetto europeo, SCRREEN (Solutions for Critical Raw Materials - European Expert Network) finanziato nell’ambito di Horizon 2020 con tre milioni di euro. I trenta partner coinvolti, tra cui ENEA, raccoglieranno le migliori esperienze della ricerca scientifico-tecnologica.
Abbiamo approfondito il tema con Giovanni Di Girolamo, esperto ENEA di tecnologie e processi dei materiali per la sostenibilità.
Di Girolamo, ci spieghi come si fa a decidere se una materia prima è “critica” oppure no.
In linea di massima, la valutazione sulla “criticità” di una materia prima si basa su due fattori: importanza economica e rischi di approvvigionamento. La criticità però è un concetto mobile, che cambia nel tempo secondo le condizioni del mercato e l’evoluzione tecnologica (nuovi prodotti, nuovi processi). Negli anni può crescere o diminuire il consumo di un certo materiale per produrre determinati beni, può cambiare la situazione geopolitica dei paesi fornitori. Così un elemento che oggi non è critico, ad esempio l’alluminio, potrebbe diventare critico in futuro.
L’Europa quando ha iniziato a porsi il problema?
In Europa la discussione sulle materie prime critiche si è intensificata 4-5 anni fa, quando le istituzioni si sono rese conto che i nostri paesi non possiedono giacimenti tali da garantire la domanda di queste risorse per i vari utilizzi. Nel 2010 è uscita una prima lista con 14 elementi ritenuti critici; quattro anni più tardi sono stati aggiunti 6 materiali. Nel 2017 è prevista la pubblicazione di una nuova lista.
Quali direzioni sta seguendo la ricerca scientifica in questo campo?
Siamo su più fronti: il primo è adottare soluzioni tecniche che consentano di migliorare i processi d’estrazione mineraria e di lavorazione, ad esempio riducendo i consumi d’energia e acqua. Il secondo punto d’interesse è cercare materiali alternativi a basso costo, che però abbiano prestazioni analoghe o superiori a quelle degli elementi “a rischio”. Il terzo punto è il riciclo: raccogliere gli scarti delle lavorazioni e i prodotti a fine vita, individuare i materiali critici, classificarli e recuperarli mediante processi di tipo metallurgico.
Concentriamoci sulle energie rinnovabili: quali sono le materie critiche maggiormente utilizzate?
Le materie prime critiche hanno un ruolo fondamentale in moltissimi settori, dall’aeronautica all’elettronica di consumo e anche nelle energie rinnovabili. Qualche esempio: il neodimio nei magneti permanenti delle turbine eoliche, il silicio nella maggior parte dei pannelli fotovoltaici, l’indio e il gallio nei moduli solari a film sottile, la grafite e il cobalto nelle batterie allo ione di litio. Per il silicio al momento non ci sono grossi problemi di approvvigionamento futuro ma, come specificavo all'inizio, tutto dipende dall'uso che se ne farà.
Dove si trovano questi elementi così rari e preziosi?
Per quanto riguarda il fotovoltaico, la Cina è il maggiore produttore mondiale di gallio, germanio e indio con il 60-70% degli approvvigionamenti complessivi, oltre a fornire il 56% del silicio. Passando alle batterie, il Congo è un importante paese produttore di cobalto; per il lantanio e le terre rare, invece, l’Europa dipende dalla Cina, ma si stanno esplorando alcuni giacimenti in Lapponia e altri territori del Nord. Se guardiamo ai magneti permanenti per le turbine eoliche e le auto elettriche, la Cina è sempre il principale fornitore di terre rare leggere (87% del totale), tra cui il neodimio. Per le celle a combustibile, invece, sono Russia e Sudafrica a produrre grandi quantità di materiali usati nei catalizzatori, come il platino e altri metalli del suo gruppo.
L’eolico per esempio quali problemi si trova di fronte?
Nell’eolico c’è il problema della criticità dei materiali usati nei magneti permanenti, perché si prevede un incremento sostanziale del mercato e al momento non esistono valide alternative. Il riciclo appare la soluzione attualmente percorribile, costo del processo permettendo. Stando ai dati europei riferiti al 2012, l’eolico nel nostro continente consumava 330 tonnellate annue di neodimio e 34 di disprosio, rispettivamente il 2 e 7% della produzione globale.
Per le batterie di accumulo elettrochimico è atteso un fortissimo sviluppo, legato a diverse applicazioni, dalla mobilità elettrica allo storage residenziale. Ci sono delle novità all’orizzonte?
Qui le maggiori novità sono connesse all’eventuale, ma non scontata, sostituzione del cobalto e allo sviluppo di batterie di nuova generazione. Molto dipenderà dall’effettiva diffusione delle automobili elettriche e dalle strategie seguite dalle aziende per il riciclo-recupero delle batterie a fine vita. Sempre a titolo di esempio, nel 2012 il consumo di cobalto per produrre batterie di accumulo elettrico ammontava a circa 21.000 tonnellate, pari al 37% della produzione globale.
In quali casi conviene puntare alla sostituzione di un materiale con un altro?
Allo stato attuale, la sostituzione interviene quasi esclusivamente quando l’attività mineraria e il riciclo non sono in grado di soddisfare il fabbisogno richiesto. Voglio sottolineare che questo tema va visto da un punto di vista funzionale, quindi non solo la sostituzione di un materiale, ma anche di prodotti, processi o servizi. Oggi per molti materiali la sostituzione è possibile solo a costi maggiorati o con minori performance. Per il fotovoltaico una delle alternative sembra essere il film sottile a base di telluro di cadmio (CdTe, ndr).
Il riciclo è una strada percorribile per ridurre i rischi futuri di approvvigionamento?
È importante progettare i prodotti secondo le norme dell’ecodesign e prevedere già in partenza come e cosa riciclare, trattando i prodotti a fine vita in modo tale da recuperare le frazioni di interesse, solitamente con processi di tipo piro o idro-metallurgico. Per esempio, consideriamo che al momento solo il 5% delle batterie è riciclato e che esistono processi per recuperare da esse molti elementi.

fonte: www.qualenergia.it

Il design della non materia





All’università ci insegnano che il design industriale nasce nell’Inghilterra della Rivoluzione industriale con la progettazione e il disegno di manufatti da replicare in numerose copie (uno degli esempi più luminosi sono le ceramiche Wedgwood).
Ma è stato nell’Ottocento e nei primi del Novecento che i designer hanno avuto l’opportunità di disegnare davvero qualsiasi cosa, inventando prima di tutto loro stessi, la propria identità culturale e filosofica. Di fatto tenendo in mano la forma e le funzioni dei landscape domestici e urbani degli ultimi 200 anni.
Certo, non tutti gli oggetti circolanti erano il frutto di una mente progettante: molto design anonimo (si veda la mostra “Hidden forms” tenutasi nel 2014 alla Triennale di Milano) ha compiuto eccellenti intrusioni nella nostra vita, ma “dal cucchiaio alla città” i designer molto hanno potuto.
Ed è stato questo molto – più di qualsiasi rivoluzione industriale – che ha trasformato la vita umana: le piccole e grandi innovazioni disponibili negli Usa nella prima metà del Novecento hanno generato un incredibile aumento del benessere e della qualità della vita.
Le voci critiche che si sono sollevate a partire dagli anni Settanta – basti pensare a giganti come Victor Papanek ed Enzo Mari – sono rimaste confinate in un’area intellettuale, all’interno di un dibattito culturale destinato a pochi. Poi negli anni Ottanta, stanchi e consumati dal “tutto” che era stato disegnato, i designer si sono presi la briga di ridisegnarlo. In quegli anni il mercato dell’offerta non si poneva molte domande, chiedeva quasi solo forme: questo doveva fare il design. Il diktat era interpretare la forma, che doveva essere seduttiva e meravigliare: una fiera delle vanità neppur lambita dai primi dibattiti in Italia e in Europa sui limiti dello sviluppo. […]
I primi dibattiti sulla raccolta differenziata dei materiali – risalenti a circa 20 anni fa –  si sono posti anche come un tentativo, raramente compreso fino in fondo,  di semplificare una realtà obesa, onnivora e quindi complessa.
Nel mentre sono arrivate le direttive sui rifiuti a cambiare la faccia delle politiche pubbliche e delle responsabilità anche private in materia di gestione rifiuti (che ancora non si chiamavano risorse). In particolare fu il Libro verde sulle politiche integrate di prodotto (Ipp) del 2013 a chiamare in causa l’importanza del ciclo di vita e quindi il valore dell’ecodesign.
In effetti, già dalla fine degli anni Novanta l’Europa ha richiamato a una riflessione basata sulla necessità di integrare le politiche ambientali per migliorare prodotti e servizi nell’arco del rispettivo ciclo di vita. Il nodo era come ottenere, nel modo più efficiente possibile, prodotti più ecologici: allora si parlava molto di rivoluzione imminente prodotta dai materiali riciclati che si proponevano di entrare nella nostra vita come rimateria e come farli utilizzare dai consumatori.
Per sperare in un futuro più luminoso – e meno gravido di conseguenze da gestire – la partita da giocare era quella. Ma purtroppo i designer che si accostavano a quel tema erano pochissimi perché gli imprenditori attivi in quel mondo e capaci di ricorrere a loro erano radi […]
È però negli anni Novanta che si inizia a chiedere al designer un nuovo compito: progettare nuovi processi e servizi ecologici, non più solo di prodotti. Con la fine dell’edonismo reaganiano, il designer ha l’opportunità di reinventarsi – nel ruolo e funzione – in chiave sostenibile. E per passare dal prodotto al servizio trova in Ezio Manzini il suo più noto profeta.
Sono gli anni in cui di fatto emetteva i primi vagiti la necessità di esprimere creatività non solo nel progettare merci, ma anche percorsi, interazioni, reciprocità, nuovi paradigmi e funzioni sostenibili…

Continua a leggere su Materia Rinnovabile n. 12, settembre-ottobre 2016

fonte: http://www.puntosostenibile.it

Elettrodomestici più duraturi grazie a nuova normativa ecodesign


Gli elettrodomestici e le altre apparecchiature elettriche ed elettroniche prodotte e vendute in Italia dureranno più a lungo e saranno maggiormente sostenibili. Lo prevede la nuova normativa sull’ecodesign in vigore dallo scorso 7 agosto.
Il decreto n. 140 del 10 giugno 2016 porta la firma del ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti. Il principale obiettivo del provvedimento è di stimolare la produzione di apparecchi elettrici ed elettronici facili da riutilizzare e da recuperare a fine vita. La raccolta e il riciclo dei RAEE fa registrare ogni anno risultati sempre più positivi nel nostro Paese, ma la filiera elettronica va ripensata in ogni sua fase per centrare target maggiormente ambiziosi e perseguire un’economia circolare.
I produttori dovranno progettare apparecchi più longevi e facili da disassemblare per il recupero delle componenti e delle materie prime. La nuova normativa sull’ecodesign chiede ai produttori di progettare dispositivi con una vita media più ampia, che possano essere aggiornati e riparati facilmente. Una strategia che procede in direzione opposta all’obsolescenza programmata tanto contestata alle aziende d’elettronica, riducendo la mole di rifiuti tecnologici da smaltire e tutelando il consumatore. Ogni prodotto dovrà essere riparabile e avere almeno una componente riciclabile.
Per incentivare i produttori ad adeguarsi alle nuove norme il Ministero dell’Ambiente ha previsto uno sconto sull’ecocontributo per le aziende che dimostrano di aver ridotto il costo del trattamento degli apparecchi a fine vita. A stabilire la riduzione del contributo sarà il Comitato di vigilanza e controllo sulla gestione dei RAEE. I produttori dovranno coordinarsi con i gestori degli impianti di trattamento dei RAEE per concordare nuove strategie volte ad agevolare il disassemblaggio dei dispositivi.
I prodotti che verranno immessi sul mercato entro 90 giorni dall’entrata in vigore della normativa sull’ecodesign, fissata tra due mesi, potranno fregiarsi dell’etichetta prodotto ricondizionato con una garanzia minima di 12 mesi.
Le associazioni ambientaliste hanno accolto con favore il provvedimento, plaudendo al Governo italiano per aver anticipato la discussione sull’economia circolare in corso a Bruxelles. In sede europea si sta discutendo anche di introdurre nuove classi energetiche abolendo le categorie A+, A++ e A+++, ritenute poco chiare dai consumatori, e reintroducendo la vecchia classificazione dalla A alla G. La discussione è destinata a protrarsi a lungo. Per le caldaie e le pompe di calore le nuove classi non entreranno in vigore prima del 2030.
I prodotti di classe A, quando verranno immessi sul mercato apparecchi più efficienti, scaleranno a una classe inferiore. L’UE dovrà trovare un accordo con i produttori su questo punto per via dei costi sostenuti dalle aziende per cambiare le etichette. Un’altra novità in arrivo dall’UE è l’istituzione di un database dei prodotti elettronici che faciliterà i controlli delle autorità sul rispetto delle norme.
L’etichetta digitale garantirà trasparenza ai consumatori che potranno controllare dallo smartphone le caratteristiche e l’idoneità del prodotto acquistato.
Legambiente dal suo canto sta lavorando a un Label Pack A+, un’etichetta di sistema che valuterà l’efficienza di più tecnologie, come la caldaia abbinata ai pannelli solari. Nel frattempo gli ambientalisti consigliano ai consumatori di affidarsi al sito indipendente topten.ch, un portale finanziato dalla Commissione Europea che elenca gli apparecchi più efficienti, in grado di tagliare la bolletta fino al 50%.

fonte: http://www.greenstyle.it

Comuni Virtuosi, dove la politica dal basso migliora la qualità della vita

Comuni Virtuosi, dove la politica dal basso migliora la qualità della vita
Gestione sostenibile del territorio, attuazione di politiche green per  valorizzare con progetti  concreti le diverse realtà locali, ma anche responsabilizzazione e partecipazione attiva  dei cittadini all’amministrazione dei Comuni,  grazie a stili di vita consapevoli e buone pratiche. Sono solo alcune delle linee guida dell’Associazione dei Comuni Virtuosi, rete formata da  enti locali governati da amministratori lungimiranti che si mettono in gioco.

I Comuni Virtuosi condividono esperienze consapevoli

L’Associazione nasce nel 2005 su iniziativa di quattro Comuni: Colorno, Vezzano Ligure, Monsano e Melpignano.

Comuni Virtuosi, fare politiche è guardare al futuro con consapevolezza
“L’idea – spiega Marco Boschini, coordinarore dell’associazione – ha avuto origine dalla necessità di confrontare  in maniera organizzata le buone pratiche ambientali sperimentate dai rispettivi Enti sul proprio territorio. Il Comune Virtuoso è infatti una realtà locale dove gli amministratori si mettono in gioco per cambiare  il modello di sviluppo, trovando nella propria comunità un partner e complice naturale. Fare politica significa, o dovrebbe significare, capacità di vedere il futuro, sperimentando nel presente azioni concrete sostenibili, ed è quello che cerchiamo di fare”.

Migliorare l’ambiente significa salvaguardare la vita

Centro dell’azione politica e amministrativa dei Comuni Virtuosi è sicuramente la questione ambientale, intesa sotto ogni aspetto: la qualità della vita, del paesaggio,  dell’ ambiente, ma anche  la storia e la cultura del territorio.
“È arrivato il momento di cambiare radicalmente rotta – prosegue Marco -. Lo rivelano  tutti gli indicatori economici e le statistiche, ma anche e soprattutto i cittadini che vivono un peggioramento progressivo del proprio tenore di vita. I grandi temi apparentemente lontani legati al global warming si evidenziano a livello locale in un concreto calo del benessere collettivo. Occorre inventarsi, dal basso, nuove politiche di sostenibilità ed inclusione sociale, perché come ci ha ricordato anche Papa Francesco nella Lettera Enciclica Laudato si’, la crisi ambientale si lega indissolubilmente alla crisi sociale”.

Comuni virtuosi non si nasce, si diventa!

Quando un Comune può considerarsi virtuoso e quindi richiedere l’iscrizione? Al di là degli aspetti formali è essenziale  aderire ai principi dell’Associazione scegliendo così di coinvolgere l’intera comunità, a tutti i livelli.

Comuni Virtuosi, il rilancio del territorio passa anche per la mobilità sostenibile
“Per iscriversi alla rete – spiega Marco – l’ente locale deve promuovere sul proprio territorio uno o più progetti concreti che rientrino nelle cinque linee guida del nostro Premio Nazionale Comuni a 5 stelle  il programma si sviluppa appunto in cinque punti:  gestione del territorio, quindi opzione cementificazione zero, recupero e riqualificazione delle aree dismesse, progettazione e programmazione del territorio partecipata, bioedilizia; impronta ecologica della macchina comunale, cioè sviluppare un’efficienza energetica, favorire acquisti verdi, instituire mense biologiche; rifiuti perciò organizzare una  raccolta differenziata porta a porta spinta, intraprendere progetti per la riduzione dei rifiuti e riuso; mobilità sostenibile quindi incoraggiare lo sviluppo di car-sharing, car-pooling, traporto pubblico integrato, scegliere  carburanti alternativi al petrolio e quindi meno inquinanti; nuovi stili di vita che consiste nell’ assecondare tutti quei progetti che hanno come scopo lo stimolo nella cittadinanza di scelte quotidiane sobrie e sostenibili come auto-produzione, filiera corta, cibo biologico e di stagione, sostegno alla costituzione di gruppi di acquisto, turismo e ospitalità sostenibili, promozione della cultura della pace, cooperazione e solidarietà, disimballo dei territori, diffusione commercio equo e solidale, autoproduzione, finanza etica”.

Gestione dei rifiuti, un problema da risolvere a monte

Un intero articolo delle finalità statuarie dell’Associazione  è dedicato alla gestione dei rifiuti, una problematica che tuttora fa passare notti insonni a molte pubbliche amministrazioni in Italia.

Alcuni Comuni Virtuosi sono stabilmente oltre il 90 per cento di raccolta differenziata
“Dal nostro punto di vista – racconta Marco -,  la soluzione  è da ricercare in due concetti: rifiuti zero ed economia circolare  perciò introduzione del sistema porta a porta spinto dei rifiuti, tariffazione puntuale, progetti per la riduzione a monte della produzione. Fanno parte della rete Comuni che sono stabilmente oltre il 90% di raccolta differenziata , con una produzione pro capite di indifferenziato che non arriva ai trenta chili anno. Altro che discariche e inceneritori…”.

Cresce il numero dei Comuni iscritti, ma le grandi città…

Ad oggi il numero degli enti virtuosi è in crescita anche se  geograficamente distribuiti soprattutto nelle Regioni del Settentrione e del Centro Italia .
“Ormai andiamo verso i cento comuni – evidenzia Marco -, abbastanza equamente distribuiti in tutte le regioni del Nord, con una presenza maggiore in Emilia Romagna, Lombardia,  e al Centro soprattutto nelle Marche. Da qualche anno anche le città di medie dimensioni hanno iniziato ad investire in  progetti di sostenibilità concreti. Recentemente  abbiamo accolto nella rete città importanti come Parma e Forlì. Roma, Napoli, e tutte le altre grandi città italiane, potrebbero tranquillamente diventare virtuose: non è vero che certi progetti possono essere realizzati solo nei piccoli centri , è  solo una questione di volontà politica, e di visione.

Iniziative e premi per valorizzare il territorio

Per stimolare i Comuni a intraprende sempre più progetti  volti al miglioramento e alla valorizzazione del territorio sono state istituite una serie di iniziative e di premi.

I Comuni Virtuosi dal 2005 attuano politiche sostenibili dal basso per il rilancio del territorio
“Tra le nostre principali iniziative – conclude Marco – ci sono la Borsa di Studio Dario Ciapetti, il Premio dei Comuni Virtuosi, la collana l’Italia Migliora e  il Festival della Lentezza. La borsa di studio si rivolge a tutti i neo-laureati italiani, studiosi delle tematiche ambientali, e vuole ricordare Dario Ciapetti, sindaco di Berlingo, scomparso prematuramente. Il Premio Comuni Virtuosi è uno strumento per scovare in giro per l’Italia singole progettualità di eccellenza nel campo della sostenibilità, ed è aperto a tutti i Comuni d’Italia. L’Italia migliora è invece una collana editoriale inaugurata nel 2015 in collaborazione con la casa editrice EMI, ed è pensata per presentare e raccontare alcuni dei nostri progetti migliori sperimentati nei comuni virtuosi della rete. Infine il Festival della Lentezza è un manifestazione che ha come scopo quello di riflettere sul nostro tempo e sull’impiego che ne facciamo”.



fonte: http://lafame.net

Comunicare la sostenibilità

Intervista a Federico Rossi, coautore del volume "Comunicare la sostenibilità", esperto consulente aziendale nel campo della comunicazione.
037-16 - Comunicare la sostenibilità
Continuando nel filone del confronto con esperienze e conoscenze di esperti di vario genere nel campo della comunicazione, che ci hanno portato ad intervistare, fra gli altri, Ernesto Belisario e Daniela Vellutino (trasparenza, opendata e dati ambientali), Giampietro Vecchiato (comunicazione di crisi), Francesca Maffini (emergenze ambientali e comunicazione), Rosy Battaglia (giornalismo civico e data journalism), Fabio Mariottini e Giancarlo Naldi (le riviste del sistema agenziale), Angelo Robotto e Giancarlo Marchetti (diffondere l'informazione ambientale), Stefano Tibaldi (reportistica per la sostenibilità) con questo ed un successivo numero affrontiamo la questione della comunicazione della sostenibilità, con particolare attenzione al punto di vista delle imprese.
Abbiamo infatti proposto alcune domande a Federico Rossi e Maria Grazia Persico, coautori del volume "Comunicare la sostenibilità", recentemente pubblicato per la Franco Angeli. In questo numero di ARPATnews presentiamo lintervista a Federico Rossi, mentre nei prossimi giorni pubblicheremo quella a Maria Grazia Persico.
Nel libro “Comunicare la sostenibilità”, che ha scritto insieme a Maria Grazia Persico, individua la sostenibilità come una prospettiva necessaria per le imprese, se intendono davvero rimanere competitive, vuole spiegarci meglio questo concetto?
È inutile negarlo, il vecchio paradigma economico basato sulla crescita tout-court e sul conseguente sfruttamento indiscriminato delle risorse è giunto al capolinea.
Nonostante la sostenibilità, oggi, rappresenti uno degli argomenti più caldi sul fronte aziendale, si palesa ancora una sostanziale confusione sia negli imprenditori sia nei manager su cosa effettivamente sia e cosa possa rappresentare in termini di vantaggio competitivo e di leva differenziale rispetto alla concorrenza, in un mercato che oggi si caratterizza sempre più per dinamicità, imprevedibilità, velocità e globalizzazione.
La sensibilità dei consumatori verso i temi della sostenibilità è in forte crescita. Questi non solo sono più informati e consapevoli ma inseriscono la sostenibilità (del prodotto e dell’azienda) nell’insieme dei driver che utilizzano per scegliere un prodotto.
Siamo di fronte a un’evoluzione che sta cambiando le regole del gioco e che in tempi brevi determinerà le condizioni minime per poter partecipare alla competizione.
Solo chi sarà realmente sostenibile e sarà in grado di comunicarlo in modo chiaro, trasparente e puntuale, sopravviverà.

Vuole spiegarci meglio la sua idea di sostenibilità?
Ancora troppe aziende ritengono che per essere sostenibili sia sufficiente soddisfare parte del proprio fabbisogno energetico con l’installazione di pannelli fotovoltaici sul tetto degli stabilimenti, ridurre lo spreco di carta o spegnere le luci quando non servono.
Essere sostenibili non è una dichiarazione di intenti da inserire in un company profile, è una filosofia aziendale che taglia in modo profondo e trasversale tutta la struttura e che parte dalla revisione in chiave “green” (consumi energetici e idrici, emissioni, rifiuti, utilizzo risorse, etc.) dei processi e dei prodotti.
Una revisione con forti basi scientifiche che deve essere misurata, validata e comunicata.
Una revisione che non deve essere limitata alla propria azienda ma deve essere estesa a tutta la filiera: dalla culla alla tomba, come si usa dire.
E proprio l’approccio ampliato a tutto il ciclo di vita e a tutta la catena del valore (fortemente sostenuto anche a livello normativo) rappresenta un punto chiave.
L’azienda non dovrà più guardare solo dentro i propri stabilimenti o fermarsi alla “richiesta di sostenibilità” del proprio cliente diretto ma dovrà assumere un punto di vista molto più ampio.
Sarà sufficiente solo che un anello della catena (basta pensare ai sempre più stringenti criteri “green” richiesti dai buyer della grande distribuzione) faccia della sostenibilità un elemento fondante delle proprie scelte e tutta la filiera sarà chiamata ad adeguarsi.
In questo scenario la sostenibilità diventa non solo un driver evolutivo dell’azienda ma assurge al ruolo di indirizzo gestionale che, per essere realmente differenziale deve essere supportato da un’adeguata strategia di comunicazione.
Sostenibilità, però, non vuol dire solo ambiente; vuol dire attenzione anche alla sfera sociale. Il tutto ovviamente con massima attenzione agli equilibri economici.
La sostenibilità diventa così anche un cambio di paradigma nella produzione e distribuzione del valore.
Un valore non più solo legato alla remunerazione degli azionisti ma orientato alla distribuzione di un benessere diffuso che coinvolga tutti gli stakeholders in un’ottica di sviluppo sostenibile anche dal punto di vista etico.
Il tutto ricordando che la sostenibilità non necessariamente richiede ingenti investimenti finanziari e non deve essere per forza collegata a settori strettamente normati e regolamentati.
Essere sostenibili richiede, in primis, la voglia dell’azienda di rimettersi in gioco, di rileggere i propri processi, i propri prodotti e più in generale il proprio modo di fare business sotto una lente nuova. Una lente che porterà sempre di più a rispondere in modo adeguato e puntuale a un’evoluzione ineluttabile del mercato.

Nel libro, fra i diversi esempi portati ce n’è uno di particolare interesse, quello di una acciaieria di Udine. Vuole sinteticamente parlarcene?
Quello siderurgico è sicuramente uno dei settori produttivi in cui la problematica dell’impatto ambientale si è fatta sentire negli anni in maniera più evidente. Questo dovuto anche ad alcuni eventi che sono arrivati a occupare le prime pagine dei giornali.
Il settore, inoltre, presenta una legislazione molto articolata e sempre più stringente sia a livello nazionale sia a livello europeo e internazionale.
Il percorso di sostenibilità ABS nasce, quindi, non solo per ottemperare ai quadri normativi di riferimento ma per rispondere a un sentimento comune che vede nel settore metallurgico uno dei business “grey” per antonomasia.
Proprio per questo il progetto di sostenibilità non punta alla costruzione di un’argomentazione di vendita ma al riposizionamento di un percepito del settore in generale e al rafforzamento della reputazione aziendale.
I destinatari principali dell’azione di comunicazione di sostenibilità conseguente non sono i clienti, come potrebbe risultare naturale, ma la collettività di riferimento e gli enti di controllo relativi.
ABS, però, non ha limitato l’approccio di sostenibilità agli aspetti ambientali ma ha esteso gli interventi anche alla sfera sociale riservando particolare attenzione al clima organizzativo, al welfare interno e alla sicurezza dei lavoratori e assicurando un supporto diretto e concreto alle attività della comunità locale.
Negli ultimi anni l’azienda ha investito oltre 50 milioni di euro per far sì che tutti gli impianti possano garantire i più elevati standard ambientali e di sicurezza; rispettando, e in molti casi anche anticipando, le prescrizioni delle più severe normative nazionali e internazionali.
L’obiettivo dell’azione di comunicazione è stato quello di aprirsi con trasparenza e coraggio all’esterno.
Un’acciaieria non potrà mai essere a “impatto zero” ma allo stesso tempo è inimmaginabile un mondo senza l’acciaio. L’impegno delle aziende del comparto deve essere quello di intervenire e innovare il più possibile i processi al fine di ridurre (nei limiti tecnicamente possibili) gli impatti.
ABS lo ha fatto e ha posto questo aspetto tra i suoi indirizzi strategici.
Il passo successivo era quello di farlo sapere all’esterno, parlando a un pubblico diversificato sempre con l’obiettivo di far comprendere l’impegno quotidiano dell’azienda su questo fronte.

Dal punto di vista della comunicazione, cosa cambia per una impresa che ha scelto la sostenibilità?
Tralasciando le attività di comunicazione che un’azienda o un ente possono mettere in campo per creare (anche ex ante) una cultura e una sensibilità verso la sostenibilità, l’elemento fondamentale da tenere presente è che la comunicazione resta un’attività terminale, ovvero un’attività che deve venire dopo una profonda attività di revisione dei processi e dei prodotti in chiave sostenibile.
Anche quando punta a creare un elemento differenziale con la concorrenza, la comunicazione di sostenibilità raramente è persuasiva, ponendosi come obiettivo l’informazione e il coinvolgimento del target e più in generale degli stakeholders.
Il fine è la creazione di un trait-d’union tra gli stakeholders stessi e l’impresa che punti a evidenziare quanto fatto da quest’ultima sul piano della sostenibilità e quanto questo sia in linea con le aspettative dei primi.
Deve puntare a rendere visibili e facilmente comprensibili le strategie e le attività sviluppate affinché il paradigma innovativo che vede un nuovo equilibrio tra impresa, ambiente, sfera sociale e stakeholders possa concretizzarsi.
Questo non vuol dire che la comunicazione di sostenibilità non possa contenere elementi creativi forti, caratterizzanti e riconoscibili. Anzi. Proprio perché il compito principale è “tradurre”, rendendo fruibile a un pubblico vasto, disomogeneo e diversificato una tematica molto specifica che affonda la sue radici in un substrato tecnico non immediatamente comprensibile ai più, la comunicazione deve essere studiata in ogni minimo dettaglio.
Una comunicazione di sostenibilità vincente è quindi quella che, sfruttando appunto la forza della creatività, delle idee e dei mezzi di comunicazione che coerentemente con il messaggio vengono selezionati, riesce a trasferire messaggi corretti, veritieri, attendibili, chiari, accurati, rilevanti e coerenti.
Solo in questo modo la comunicazione di sostenibilità potrà aggiungere all’obiettivo dell’informazione anche due obiettivi più strettamente “commerciali” come la crescita del capitale reputazionale e la creazione di un nuovo vantaggio competitivo.
Altro elemento da tenere ben presente è che la comunicazione di sostenibilità deve parlare a tutto l’universo degli stakeholders aziendali e non focalizzarsi solo sui clienti.
L’impegno è quello quindi di riuscire a modulare i messaggi in modo da declinare l’impegno (reale) di sostenibilità aziendale in funzione delle aspettative e del livello di competenza dei singoli portatori di interesse.

Dal suo punto di vista di professionista della comunicazione, che lavora soprattutto nel settore privato, cosa si aspetterebbe dalla comunicazione di una ARPA?
Senza scendere nel dettaglio tecnico dei contenuti della comunicazione e nelle dinamiche relazionali con i suoi referenti, un ente come ARPA può e deve giocare un ruolo importante nella creazione di una sensibilità ambientale a tutti i livelli.
Lo sforzo dovrà essere quello di usare proprio la comunicazione per rendere fruibile a un pubblico sempre più ampio e molto diversificato un insieme di tematiche spesso complesse e specialistiche.
L’ARPA può già vantare una credibilità e una competenza riconosciuta, dovrà essere capace di uscire dai paradigmi tipici della comunicazione delle pubbliche amministrazioni, ovvero una comunicazione che spesso guarda più all’espletamento di un obbligo di legge che al reale trasferimento di informazioni e all’apertura di un dialogo con i propri referenti.
Chiarezza e fruibilità dovranno essere gli aspetti da perseguire.
Così facendo l’ARPA potrà diventare un soggetto importante non solo sul fronte del controllo e del monitoraggio ma anche nell’ambito della diffusione di una più ampia cultura della sostenibilità.

fonte: http://www.arpat.toscana.it