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Il vuoto nel sistema dell’esportazione rifiuti

La geopolitica del rifiuto cerca soluzioni facili e costi ridotti all’estero, ma il sistema delle esportazioni è un nervo scoperto per i traffici illeciti















Le due puntate dell’inchiesta relativa all’esportazione dei rifiuti italiani in Tunisia hanno molti elementi di riflessione sia sulla gestione del rifiuto in sé, sia sulla geopolitica del business e della filiera legata allo scarto. L’eredità ingombrante della stagione dell’emergenza rifiuti della Campania, delle ecoballe e della rotta dei rifiuti che segue legislazioni più favorevoli e minori costi di smaltimento è un tema su cui non solo l’Italia ma l’Europa tutta dovrà fare prima o poi veramente i conti. Nasce e prospera una vera geopolitica del rifiuto.

Ma c’è una questione sistemica che in tutta la vicenda emerge sulle altre, ed è quella relativa alle autorizzazioni per l’esportazione dei rifiuti al di fuori del territorio nazionale per un loro eventuale riciclo. Al di là delle tecnicalità complesse (codici CER, fidejussioni e competenze) il nervo scoperto di tutta la vicenda è come sia stato possibile che la Regione Campania abbia potuto autorizzare l’esportazione di un rifiuto reputato riciclabile verso un Paese, nel caso specifico la Tunisia, e verso uno stabilimento di destinazione, sprovvisto delle infrastrutture per trattare e riciclare quello stesso rifiuto. Non solo: dalle note di cui è in possesso IrpiMedia si evince anche come della procedura fosse stato informato anche il ministero dell’Ambiente e le autorità competenti tunisine.

L’inchiesta/1



Arresti eccellenti e aziende fantasma: il traffico di rifiuti tra Italia e Tunisia

Documenti confidenziali mostrano il retroscena di uno scandalo che, partito dalla Campania, ha provocato le dimissioni di un ministro a Tunisi

Le rotte aperte per l’esportazione (legale) dei rifiuti si sono spesso trasformate grazie a filiere che mischiano legale e illegale in corridoi da traffico illecito dei rifiuti. Da una parte grazie a quelle “centrali affaristico-imprenditorial-criminali”, per usare una definizione particolarmente calzante del sostituto procuratore nazionale Antimafia Roberto Pennisi, dall’altra per demerito di un sistema di autorizzazioni che permette quanto successo nella vicenda che abbiamo denunciato con la nostra inchiesta. Un vuoto informativo dal lato italiano e legislativo dal lato tunisino.

L’inchiesta/2


Salerno, Varna e Sousse il triangolo dietro i container di rifiuti bloccati in Tunisia

Intermediazioni, interessi e bolle portano anche in Calabria e Bulgaria: indaga l’antimafia, ma l’inchiesta è ferma per la mancata collaborazione internazionale


Nessuno, dalla Regione al ministero, sembrava sapere se la Tunisia fosse realmente attrezzata per trattare quel tipo di rifiuto: gli unici accertamenti sono stati quelli sulla carta. Dall’altra, l’assenza di una normativa ambientale strutturata ha fatto sì che a Sousse arrivassero rifiuti per cui nessuno stabilimento presente sul territorio era attrezzato. Ed è proprio in questi vuoti che la filiera criminale del rifiuto prospera, usando a proprio favore imprenditori, aziende, norme, funzionari pubblici e procedure. Se realmente l’Italia e l’Europa tengono alla cosiddetta “economia del riciclo”, oltre ai denari degli ambiziosi “piani Marshall” ambientali, vadano a individuare questi vuoti in grado di generare crimini e corruzioni. Col rischio finale che dopo il profitto per pochi il rifiuto venga smaltito in maniera scorretta al Paese di destinazione o torni in Italia bloccato in un porto. Sulle spalle della collettività, in Italia come all’estero.

fonte: irpimedia.irpi.eu


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Come si progetta un’isola ecologica condominiale? Studio dell’Arpa Campania

 









Lo studio propone una metodologia di calcolo per la progettazione di un’ isola ecologica condominiale che accolga i rifiuti in attesa dei prelievi del servizio di raccolta e che preveda anche una compostiera per la trasformazione dell’umido in ammendante per i suoli. Vengono ripercorsi i passaggi per la scelta dimensionale dell’isola ecologica e dell’apparecchiatura, il calcolo del compost prodotto ed il suo utilizzo, l’allestimento dell’impianto, i presidi adottati e la procedura autorizzativa da seguire.

Ecco l’articolo pubblicato sulla rivista Arpa Campania Ambiente.

https://www.snpambiente.it/wp-content/uploads/2021/04/pagg.18-19.pdf

fonte: www.snpambiente.it


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Il traffico di rifiuti dalla Campania che fa tremare la politica in Tunisia

La vicenda ha generato un grande scandalo politico nel paese nordafricano. Sono 7.900 le tonnellate di rifiuti partite dal porto di Salerno tra maggio e luglio 2020




Un ministro tunisino ci ha rimesso prima la poltrona e poi la libertà. Il console tunisino a Napoli è finito nel registro degli indagati. Un’azienda di Polla, in provincia di Salerno, si è liberata di 7.900 tonnellate di rifiuti. Che sono stati presi in carico al porto di Sousse da un’impresa che dichiara di esportare plastica ma in realtà non esiste. Sono gli ingredienti di un traffico di rifiuti internazionale che tocca Italia e Tunisia tra maggio e dicembre 2020, ricostruito in un’inchiesta dai giornalisti investigativi di IrpiMedia e dagli omologhi tunisini di Inkyfada.

“Impossibili da valorizzare”

L’arrivo di 282 container carichi di rifiuti al porto di Sousse ha generato un’onda che settimana dopo settimana è cresciuta fino a travolgere in uno scandalo politico di prim’ordine il ministro per l’Ambiente del paese africano, Mustapha Laroui. I primi sospetti che si tratti di un traffico di rifiuti internazionale, poi il 2 novembre Laroui annuncia che è aperta un’indagine della magistratura tunisina. Passano nemmeno 2 mesi e il ministro è costretto alle dimissioni. Arriva il 21 dicembre e per Laroui scattano le manette. Insieme a lui sarebbero coinvolti anche il suo capo di gabinetto e diversi funzionari statali.

Ma cosa c’è dentro i 282 container? “Scarti di rifiuti urbani e misti, impossibili da valorizzare”, denuncia un rappresentante del ministero dell’Ambiente di Tunisi. Ma dalle carte di cui è entrata in possesso IrpiMedia è chiaro che non è quello che è stato dichiarato al porto di origine, cioè quello di Salerno. Il documento è redatto dalla Sviluppo Risorse Ambientali, un’azienda di Polla. Cosa c’è nei container? Rifiuti derivati dalla lavorazione industriale dell’immondizia differenziata, risponde l’impresa salernitana. E perché la spedizione in Tunisia? Per un secondo trattamento di valorizzazione, visto che a Tunisi si ha “maggior economicità del processo di recupero rispetto al paese d’origine”, si legge nelle carte viste da IrpiMedia.

Chi c’è dietro il traffico di rifiuti tra Salerno e Sousse

Peccato che la Soreplast, l’azienda tunisina che dovrebbe farsi carico dei rifiuti e riciclarli, non ne ha la capacità. Non ha impianti, ma solo due depositi temporanei. Secondo l’accordo con l’azienda salernitana, che ha ricevuto l’ok della regione Campania, Soreplast avrebbe dovuto riciclare la frazione in plastica e avviare a discarica solo quella non ulteriormente differenziabile e recuperabile. Il sospetto è che abbia invece smaltito tutto in discarica. Non tutto: solo 70 container hanno lasciato il porto di Sousse. Gli altri sono ancora lì e costano più di 20mila euro al giorno alla Campania.

A luglio 2020 le autorità tunisine iniziano a sospettare che la faccenda nasconda un traffico di rifiuti. Soreplast ha truccato le dichiarazioni alla dogana. A ottobre vengono avvisate le autorità italiane e a inizio novembre lo scandalo scoppia pubblicamente. La Tunisia chiede alla Campania di riprendersi i rifiuti ancora bloccati al porto, quindi 212 container. La regione lo chiede alla Sviluppo Risorse Ambientali. Il proprietario di Soreplast è sparito dal paese e si è rifugiato in Germania. L’azienda di Polla si rifiuta di procedere senza garanzie di venire rimborsata dall’Italia o dalla Tunisia. Lo stallo al porto di Sousse continua, con il dossier che adesso è passato dai tecnici ai ministeri degli Esteri dei paesi sulle due sponde del Mediterraneo.

fonte. www.rinnovabili.it


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Campania, 19 tonnellate di rifiuti raccolti grazie al progetto Remare

Coordinato dall’Amp di Punta Campanella, il progetto Remare ha coinvolto 393 pescherecci e 4 aree marine protette. In quattro mesi, le reti dei pescatori hanno raccolto oltre 19 tonnellate di rifiuti. Il primato è ancora della plastica




Finanziato dalla Regione Campania grazie a fondi europei, il progetto Remare ha permesso, in poco meno di quattro mesi, da agosto a novembre, la raccolta di oltre 19 tonnellate di rifiuti dalle acque mediterranee.
Nel dettaglio l’iniziativa ha coinvolto 393 pescherecci e 4 aree marine protette in una vasta zona di mare, da nord a sud della Campania, per un totale di 52mila ettari marini: le imbarcazioni sono state attrezzate con apposite bag per la raccolta di tutti gli oggetti finiti nella rete durante la quotidiana attività di pesca, poi consegnati a una società di smaltimento regolarmente iscritta al registro nazionale degli intermediari. 
Tra i rifiuti raccolti dai pescatori campani, il primato spetta alla plastica, con il 64% del totale. Seguono il vetro con l’8%, gli attrezzi da pesca ed il legno, entrambi 4% circa, ed un restante 20% formato da materiale diverso tra cui metalli e tessuti.  

Remare – ha detto Antonino Miccio, direttore dell’Area marina protetta di Punta Campanella che ha coordinato l’intera attività –  ha rappresentato un’assoluta novità nel panorama nazionale. Ha messo insieme, per la prima volta, tutte le aree marine protette della regione e le associazioni e le cooperative di pesca”. 
Una “sinergia” che conferma l’efficacia della soluzione discussa solo pochi giorni fa a Ecomondo, in occasione del convegno Legambiente “Marine litter e blue economy, impatti e soluzioni dal mondo della pesca e dell’acquacoltura”, durante il quale l’associazione aveva nuovamente evidenziato come, per rimuovere parte di rifiuti dispersi nell’ambiente marino, fosse “necessario fare leva proprio sul quotidiano lavoro dei pescatori.
Le aree interessate dalla raccolta sono state, nel dettaglio, le zone di mare dell’Area Marina Protetta Regno di Nettuno, tra Ischia, Procida e quelle a nord di Napoli, Punta Campanella, la riserva naturale a cavallo tra i due golfi, di Napoli e Salerno, e le due aree marine protette del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano Amp Santa Maria di Castellabate e Amp Costa degli Infreschi e della Masseta.  Al progetto hanno aderito quasi tutte le associazioni di categoria presenti in Campania, tra cui la Federazione regionale della pesca, la Federazione nazionale delle imprese di pesca, le Confcooperative Fedagripesca Campania, Agci pesca Campania, Lega regionale delle cooperative e mutue della Campania.
Remare – ha concluso Miccio – ha permesso di creare una sinergia tra soggetti che lavorano con il mare per finalità diverse, come le aree marine protette e i pescatori. Ma questa volta hanno seguito e centrato un obiettivo comune. Non è stato facile, perché per la prima volta si è creata una sinergia così estesa. I risultati sono stati incoraggianti, anche in prospettiva futura”. Il progetto Remare – va ricordato –  ha di fatto anticipato la legge Salvamare, la cui approvazione definitiva – ormai prossima – è stata più volte sollecitata dalle diverse associazioni ambientaliste italiane, tra cui la stessa Legambiente, proprio per permettere ai pescatori di contribuire alla pulizia dei mari durante la normale attività lavorativa. 

fonte: www.rinnovabili.it

«Acerra è una città crocifissa», Di Donna contro Comune e Regione










ACERRA. “Siamo un popolo crocifisso. Una città crocifissa che anela a risorgere. Un territorio devastato. Siamo fermi al venerdì Santo”. Monsignor Antonio Di Donna ci va duro nella sua omelia di Pasqua nella cattedrale di Acerra e si scaglia senza mezze misure contro i politici regionali e locali, ma anche contro la rassegnazione del suo popolo.  

“Ragazzi e giovani continuano ad ammalarsi e a morire. Prima la Montefibre, poi l’inceneritore hanno distrutto i nostri campi ed ancora oggi si continua a parlare di quarta linea dell’inceneritore: un grande bufala”, tuona dal pulpito don Antonio Di Donna. Il prelato accusa Palazzo Santa Lucia di dire bugie quando “dice che è necessaria per combattere l’emergenza dei rifiuti che si avrà a settembre con la chiusura dell’impianto, ma è falso perché sappiamo che ci  vogliono tempi molto lunghi per fare una quarta linea dell’inceneritore” Il prelato lamenta ancora una volta un deficit di democrazia perché sull’inceneritore “non c’è controllo e noi non sappiamo niente”.

Ed i suoi strali sono anche per l’inerzia sulle polveri sottili che inquinano l’aria delle città a nord di Napoli. “Da anni non si applica il piano regionale per la tutela dell’aria nelle nostre città. Intanto ragazzi e giovani continuano ad ammalarsi e a morire. E non solo loro”, accusa dal pulpito monsignor Di Donna. Ma il vescovo si Acerra non risparmia nemmeno il Comune  “Anche la politica cittadina è senza progetti, senza sogni.  Il Piano urbanistico comunale è una buona cosa, ma non può ridursi solo ad una questione tecnica. Bisogna prima riflettere, quale città vogliamo per i nostri figli.  Una politica senza sogni senza progettualità si riduce a mero pragmatismo, a rincorrere semplicemente le emergenze“, avverte il prelato al cospetto di una cattedrale stracolma di fedeli invitando tutti a ripopolare le piazze cittadine da tempo deserte. 

“Questa città non può fermarsi al venerdì santo. Sarà Pasqua per Acerra, quando tutti parteciperemo allo sviluppo della città, vincendo la rassegnazione e non voltandoci dall’altra parte. Quando le forze sane di questa città si metteranno insieme per la rinascita del territorio. Quando sarà fatto tutto il possibile per la salute dei cittadini. Sarà Pasqua, quando le scuole, le biblioteche, i centri musicali e sportivi saranno più numerosi delle sale da gioco. Quando i mafiosi ed i mercanti di veleni si pentiranno ed i giovani non dovranno più emigrare. Quando finalmente non si ammaleranno più bambini e giovani”, ammonisce monsignor Antonio Di Donna.


fonte: www.ilmattino.it

Sfreedo: la spesa su WhatsApp per ridurre gli sprechi

Ridurre lo spreco alimentare, mangiare sano e al giusto prezzo. Sono questi i vantaggi offerti da Sfreedo, un servizio semplice, diretto e gratuito che permette di risparmiare dal 20% sino al 100% su prodotti alimentari freschi di giornata o prossimi alla scadenza e impedire che cibo buono e di qualità finisca in discarica.




Sfreedo è un’iniziativa nata a Caserta nel 2015 che ha come obiettivo ridurre lo spreco alimentare e mettere in collegamento diretto tra loro consumatori consapevoli e negozianti che si ritrovano sugli scaffali alimenti prossimi alla scadenza e che, nonostante siano perfettamente integri e commestibili, sarebbero costretti – per legge – a conferire in discarica. Sfreedo, che oggi è presente nelle città di Caserta e Napoli, accelera la vendita di prodotti alimentari prossimi alla scadenza e permette di ridistribuire a prezzi molto scontati cibi integri e di qualità.

La parola “sfreedo” in gergo locale significa “ciò che avanza”, “gli avanzi” ed è un servizio semplice, diretto e gratuito che permette ai consumatori di risparmiare sino al 100%. Negozianti e cittadini si iscrivono gratuitamente al WhatsApp di Sfreedo e, sempre attraverso WhatsApp, i commercianti aderenti al servizio informano in tempo reale tutti gli iscritti – chiamati “sfreeders” – della disponibilità di cibi di cui è necessario sollecitare la vendita affinché non vadano al macero. A loro volta, gli utenti interessati ad uno o più prodotti ottimi ma in scadenza, li prenotano e si recano allo “Sfreedo Point” per concludere l’acquisto (ma per chi lo desidera, è disponibile anche un servizio di consegna a domicilio).

I prodotti disponibili su Sfreedo sono i più vari: frutta e verdura fresca e di stagione, carne, pesce e salumi, mozzarelle di bufala, prodotti da forno e pasticceria, panettoni e pandori, nonché pizza al taglio e pasti già pronti grazie all’adesione di alcuni ristoranti e gastronomie. Gli alimenti che possono essere offerti su Sfreedo devono avere una scadenza a massimo 30 giorni e un prezzo che sia almeno di un 20% inferiore rispetto al prezzo di vendita regolare – il risparmio economico, di conseguenza, va dal 20% fino al 100%. In tre anni di attività Sfreedo ha coinvolto decine di punti vendita e dato vita ad una comunità di oltre 14.000 sfreeders, salvando dalla discarica circa 80 tonnellate di ottimo cibo.



“L’idea di Sfreedo nasce dall’esigenza personale di non voler pagare a prezzo pieno un prodotto di prossima scadenza, come un qualsiasi prodotto con scadenza più a lungo termine”, ha spiegato alla stampa Michele Bellocchi, fondatore di Sfreedo. “Ragionando intorno a questo dettaglio ne è venuto fuori che, di conseguenza, un esercente avrebbe potuto “liberarsi” più velocemente di un prodotto con scadenza a breve termine se fosse stato disposto a ridurne il prezzo (oltre alle classiche offerte a cui siamo già abituati). Le reazioni da parte di esercenti e consumatori sono state di assoluto entusiasmo, oltre ogni più rosea aspettativa, al punto che non è stato distribuito alcun volantino per pubblicizzare l’iniziativa. Ci ha pensato il passaparola a fare tutto: solo nel primo mese di test gli esercenti erano 12, di cui due ristoranti, e i consumatori 450, utilizzando semplicemente il gruppo Facebook“.

Tramite l’iscrizione gratuita al servizio, la comunità degli sfreeders viene informata quotidianamente dei prodotti scontati in scadenza e disponibili presso i vari “Sfreedo Point” di Caserta e di Napoli. Il servizio Sfreedo, semplice, diretto e gratuito permette ai consumatori di ricevere in tempo reale notifiche dai negozi sui prodotti in Sfreedo, risparmiare portando a casa ottimi cibi e di confrontarsi con una community attenta alla spesa e sensibile al consumo consapevole. I vantaggi per gli esercenti, invece, sono la sensibile riduzione degli stock a magazzino, il recupero del capitale investito, ad esempio, in un eccessivo approvvigionamento, l’acquisizione di nuovi clienti, la riduzione dei rifiuti derivanti dallo smaltimento di imballaggi di vario tipo.



La mission di Sfreedo è accelerare la vendita di alimenti per ridurne lo spreco, tuttavia può capitare che qualche alimento resti invenduto e, in tal caso, per scongiurare la discarica, viene devoluto a titolo gratuitoalle associazioni onlus aderenti al circuito Sfreedo. “In Italia e nel mondo esistono già sistemi per combattere lo spreco alimentare”, ha dichiarato Michele Bellocchi, “ma che fine fanno i prodotti che non vengono venduti nemmeno a prezzo scontato? La nostra rete di valore affonda le radici nell’etica, nell’economia civile, un modello di sviluppo inclusivo, partecipato e collaborativo fondato sulle sinergie. Abbiamo scelto di lavorare con alcune persone e organizzazioni meravigliose, non solo per la grande professionalità e conoscenza dei diversi contesti, ma anche perché si occupano di curare e migliorare la nostra società. Ad oggi abbiamo salvato ben 80 tonnellate di cibo e il nostro traguardo è quello di aumentare gli utenti della nostra community, che ad oggi sono più di 14.000, e continuare la lotta allo spreco alimentare”.

fonte: http://www.italiachecambia.org

Terra dei fuochi. Fumo nero su Caivano, rifiuti e interessi criminali ci uccidono




















Mercoledì, tarda mattinata. Un’immensa nuvola di fumo nero oscura il cielo di Caivano e paesi limitrofi. Si vede da Napoli, da Caserta, dall’autostrada. Qualcosa di grave sta succedendo, qualcosa che da anni si ripete in questo nostro territorio martoriato. La gente, per intuito, si chiude in casa, mette al riparo i figli: l’aria in breve tempo si è fatta irrespirabile. 


Mercoledì, tarda mattinata. Un’immensa nuvola di fumo nero oscura il cielo di Caivano e paesi limitrofi. Si vede da Napoli, da Caserta, dall’autostrada. Qualcosa di grave sta succedendo, qualcosa che da anni si ripete in questo nostro territorio martoriato. La gente, per intuito, si chiude in casa, mette al riparo i figli: l’aria in breve tempo si è fatta irrespirabile. 
L'intervento è davvero difficile (Ansa)
L'intervento è davvero difficile (Ansa)
Sui social compaiono le prime foto. Il rogo è enorme. È andata in fiamme un’azienda che lavora al riciclo della carta e della plastica. In questi ultimi due anni sono centinaia queste aziende che vanno prendendo fuoco. Nessuno può dire se si tratti di un incendio doloso o di un incidente.
Una cosa è certa: l’immondizia, in un modo o in un altro, ci sta rendendo invivibile la vita. Che cosa sta accadendo? Parlando di se stesso, un camorrista dice: faccio parte del “sistema”. Ecco, il sistema. C’è un sistema, un ingranaggio, un modo di ragionare, di agire cui ho aderito. Credo che anche per quanto riguarda la raccolta, lo smaltimento, il trattamento, il riciclo dei rifiuti siamo entrati in una sorta di sistema maledetto che mette al riparo il singolo industriale e rovina l’esistenza a una folla di persone di cui è impossibile sapere il numero.
Che effetti avrà la diossina sprigionatosi per tutto il pomeriggio di mercoledì dalla zona industriale di Caivano? Una volta spento il rogo tutto passerà nel dimenticatoio. Ci sono azioni cattive che vengono punite, altre che resteranno per sempre in una sorta di limbo legale. Io non so se questo ennesimo incendio sia doloso, non sta a me dirlo, dico solo che mi viene sempre più difficile credere, in questi casi, che si tratti di incidenti. 
Le operazioni per spengere le fiamme sono andate avanti a lungo (Kontrolab)
Le operazioni per spengere le fiamme sono andate avanti a lungo (Kontrolab)
La recente legge sugli ecoreati infatti punisce severamente chi appicca i roghi, ma non prevede alcuna punizione se a bruciare sono rifiuti plastici ammassati in quantità enormi, in modo dissennato, in aziende legali in attesa di essere smaltiti o trattati. Per cui viene il sospetto che ai roghi piccoli - che bruciavano all’aperto – si siano sostituiti i roghi giganti, incredibilmente e dolorosamente “legali”. In questa tristissima storia dei rifiuti c’è sempre qualcosa che non torna, una sorta di anello mancante.
L’incendio che ci ha rapinato l’aria e la gioia di vivere mercoledì scorso, se ancora ce ne fosse bisogno, è l’ennesima prova che “Terra dei fuochi” non è più solo un luogo ma un fenomeno che riesce sempre di più ad uscire dalla macchia e ammantarsi di legalità. E non c’è niente di più terribile per il popolo indifeso che essere colpiti e affondati da un nemico “legale”.
Il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, conosce molto bene questo meccanismo perverso. Da lui ci apettiamo molto. Dove c’è la “monnezza”, in un modo o in un altro, c’entra la camorra. Per impaurire, per affossare, per consigliare. A volte degli industriali è nemica e pretende il pizzo, altre volte diventa loro buona amica e il pizzo lo incassa senza far rumore, altre volte ancora arriva ad essere loro socia in affari. 
Il fumo si vede da molto lontano (Kontrolab)
Il fumo si vede da molto lontano (Kontrolab)
Questo nostro popolo ne ha subito tante. È stanco, amareggiato, deluso. È arrabbiato. Ha paura. C’è bisogno di più Stato. O, meglio, c’è bisogno che lo Stato in “Terra dei fuochi” si decida a fare lo Stato. Uno Stato attento, vicino, che sa ascoltare e al momento intervenire. Che punisce severamente chi deve essere punito e si fa custode attento dei suoi cittadini. La domanda è sulla bocca di tutti: come è possibile ammassare tonnellate e tonnellate di materiali altamente infiammabili in un sito senza prevedere un sistema antincendio funzionante e all’avanguardia? I Vigili del fuoco non stanno dietro la porta e le autobotti in questi casi somigliano a minuscoli secchi d’acqua. Occorre bloccare il sistema. È un sistema disumano, che uccide. Ingiusto. Un sistema che premia gli scaltri e abbatte gli onesti.

Don Maurizio Patriciello

fonte: www.avvenire.it

Terra dei Fuochi e false verità: i danni all’agroalimentare sano

Intervista a Massimo Fagnano, associato di Agronomia ed Ecologia agraria nel Dipartimento di Agraria dell’Università di Napoli Federico II che spiega cosa c’è dietro a una campagna mediatica che definisce “una vera azione di depistaggio” perché ha portato a identificare tutta la Campania con la Terra dei Fuochi



















Ambiente, cibo e salute. Tre parole che sembrano entrare in rotta di collisione con le produzioni agroalimentari della Campania, ritenute responsabili di danneggiare gravemente la salute perché semplicisticamente associate alla cosiddetta Terra dei Fuochi. A distanza di qualche anno da un’incessante campagna mediatica basata su false verità c’è ancora chi non mangia le mozzarelle di bufala o altri prodotti agricoli della regione. Proviamo a capire qual è la differenza tra le verità scientifiche e le bufale (non casearie!) che hanno prodotto danni incalcolabili al comparto agroalimentare campano.

Com’è nata la storia della Terra dei Fuochi?

Inizialmente, nel 2000, il termine Terra dei Fuochi è stato coniato per sottolineare l’incivile abitudine di smaltire i rifiuti, sia urbani che speciali, lungo le strade e di dar loro fuoco, con la conseguenza di immettere nell’aria che respiriamo numerose sostanze tossiche che mettono a rischio la salute delle nostre popolazioni. Questa abitudine ha diverse cause (assenza di discariche per rifiuti speciali, lavoro nero ed evasione fiscale, pigrizia e strafottenza della popolazione) e richiederebbe ben altri interventi che, come vedremo, non hanno niente a che vedere con la campagna mediatica e la conseguente ondata di panico che si è sviluppata nel 2013.
Infatti tutta l’attenzione mediatica e gli interventi sono stati concentrati sul settore agricolo e sulla produzione agricola, come capro espiatorio di questo disastro socio-economico e culturale che arrivo a definire una vera azione di depistaggio. La prova è che il fenomeno della presenza di rifiuti ai bordi delle strade, nei terreni incolti o nei siti abbandonati non è stato assolutamente scalfito.
L’ondata di panico del 2013 è nata dalle dichiarazioni di un sedicente pentito che ha ripetuto le stesse rivelazioni che aveva già fatto alla magistratura quindici anni prima. La cosa scandalosa è che i media nazionali hanno dato credito a queste rivelazioni invitando questo criminale a diverse trasmissioni a tema, senza riportare né i dati sui prodotti agricoli (nessuno è stato mai trovato contaminato), né le interviste ai magistrati che dichiaravano che il pentito diceva “balle spaziali” che non avevano trovato nessun riscontro e che non era attendibile, così come non era stato giudicato attendibile anni prima.

In ogni caso, tutte le trasmissioni si concentravano sul tema dei prodotti agricoli contaminati che erano la causa dei tumori e dei problemi di salute della popolazione, arrampicandosi sugli specchi per dimostrare una cosa non vera e in qualche caso presentando teorie fantascientifiche (gli esseri umani che mangiano radici di pomodoro come fossero carote o fusti di pomodoro come fossero patate) che sarebbero state comiche se il loro effetto sul settore agricolo non fosse stato invece drammatico.
Un altro risultato è stato che la pressione mediatica ha spinto le istituzioni (Regione e Governo) a concentrare l’attenzione solo sui suoli e i prodotti agricoli: ad esempio, a dicembre 2013 è stato emanato un Decreto Ministeriale per istituire un gruppo di lavoro, nel quale hanno nominato anche me, proprio per mappare l’idoneità dei suoli all’uso agricolo.

La zona contaminata interdetta alla coltivazione è di 30 ettari su 50.000. Come fate a restringere l’area a questo perimetro?

I 50.000 ettari sono la superficie agricola dei Comuni che hanno aderito al Patto per la Terra dei Fuochi, i 30 ettari sono quelli che abbiamo classificato come potenzialmente contaminati e in via precauzionale abbiamo proposto per l’interdizione alla produzione agricola, utilizzando criteri molto stringenti. Ad esempio, per far scattare l’interdizione bastava che un solo contaminante nel terreno raggiungesse concentrazioni pericolose per la produzione agricola oppure che la vegetazione, sia coltivata che spontanea, contenesse contaminanti pericolosi per la salute, oppure ancora che ci fossero rifiuti in superficie o che le indagini magnetometriche evidenziassero la possibilità della presenza di rifiuti interrati. Su questi 30 ettari è stata anche prescritta l’eventuale rimozione di rifiuti, l’effettuazione di caratterizzazioni ambientali e delle analisi di rischio per giungere a provvedimenti definitivi.

Molti ricordano le immagini dei limoni-mostro o dei pomodori neri. Tutta colpa dell’inquinamento?

Anche qui la questione sarebbe comica se non fosse stato tragico l’effetto sui nostri agricoltori: è stato detto che i nostri pomodori “dal cuore nero esportavano il tumore in tutta Europa”. Qui non è necessario uno scienziato, ma basta uno studente del secondo anno per sapere che il limone mostruoso è frutto delle punture dell’acaro delle meraviglie, tra l’altro un ragnetto che è bioindicatore di salubrità ambientale perché si diffonde solo negli agrumeti incontaminati, oppure che il pomodoro dal cuore nero è in realtà soggetto al marciume apicale, una diffusissima fisiopatia determinata squilibri idrici dovuti all’alternanza tra carenza e abbondanza di acqua. L’inquinamento non c’entra niente, si tratta solo di annunci dovuti all’ignoranza se non alla cattiva fede di chi vuole far crescere l’ondata di panico forse per spingere le autorità a stanziare più fondi per fantomatiche bonifiche.

Quali sono state le ripercussioni economiche per il comparto agroalimentare?

La conseguenza non è stato un calo delle vendite, ma un crollo dei prezzi: tutti gli addetti al settore sapevano che i nostri prodotti non erano contaminati però hanno speculato sul danno di immagine, cioè hanno continuato a comprare e vendere in tutta Italia i nostri prodotti agricoli, ma chiedendo sconti ai nostri produttori che sono arrivati fino al 75-80% del prezzo normale. Una vera e propria azione di sciacallaggio che ha fatto fallire decine di aziende agricole e creato centinaia di nuovi disoccupati, il che in una Regione povera e disastrata come la nostra è stato un vero e proprio crimine sociale.
Bisogna dire, per la verità, che i clienti europei al contrario sono stati molto corretti. Quando hanno sentito della campagna mediatica, hanno mandato i loro tecnici che hanno prelevato prodotti, terreni e acque ed hanno fatto le analisi nei loro laboratori. Visto che tutte le analisi hanno dato esiti favorevoli hanno confermato gli ordini senza speculare sui prezzi. Infatti le esportazioni dei nostri prodotti agricoli sono aumentate addirittura più della media nazionale.
Ciò significa che, anche in questo caso, la crisi è stata asimmetrica: ha colpito i piccoli produttori meno organizzati, mentre i grandi produttori, già ben strutturati sui mercati internazionali hanno sofferto la crisi poco o niente.

Molti non mangiano la mozzarella di bufala perché la ritengono contaminata e molti addirittura la accomunano alle mozzarelle blu. Possiamo provare a fare chiarezza e rassicurare i consumatori? Quali controlli vengono effettuati e come si riconosce il prodotto sicuro?

Non facciamo confusione: la mozzarella blu era prodotta in Germania e non c’entra con la Campania.
Quando dico che nessuno ha mai trovato prodotti agricoli campani contaminati, significa che proprio nessuno li ha mai trovati, penso al RASFF della Commissione Europea (un sistema di allarme rapido progettato per lo scambio rapido di informazioni tra le autorità nazionali sui rischi per la salute legati ad alimenti e mangimi, ndr), ai nostri clienti della GDO (grande distribuzione organizzata, ovvero il sistema di vendita al dettaglio attraverso una rete di supermercati e di altre catene di intermediari, ndr) e dei mercati europei, all’Istituto Superiore di Sanità, all’Ispettorato Centrale Repressione Frodi, al gruppo di lavoro del Patto per la Terra dei Fuochi di cui ho parlato prima, a noi dell’Università Federico II o all’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Mezzogiorno che gestisce il programma Campania Trasparente.

Proprio questo potrebbe essere l’unico effetto positivo della questione Terra dei Fuochi. La nostra Regione si è dotata di uno strumento di controllo a tappeto della qualità dell’ambiente e dei prodotti agricoli che non ha eguali in Italia e nel mondo: finora sono state effettuate decine di migliaia di analisi, con a una percentuale di irregolarità prossima allo zero. È un sistema di controlli dell’aria, dell’acqua, del terreno delle produzioni vegetali ed animali di un’intera Regione che si propone una volta tanto come modello virtuoso che dovrebbe essere replicato anche nelle altre Regioni.
La nostra è sicuramente la Regione più controllata d’Italia, quindi i nostri prodotti sono assolutamente molto più sicuri dei prodotti di altre regioni o di Paesi extraeuropei che subiscono molti meno controlli o che non sono controllati affatto: se devo dare un consiglio a chi è preoccupato della salubrità di ciò che mangia suggerisco di cercare di evitare i prodotti alimentari provenienti da altri continenti, come l’America e l’Asia, che purtroppo invadono i mercati con prodotti a basso costo ma anche di bassa qualità e di dubbia salubrità.

fonte: www.rinnovabili.it

Quel marcio sul ciclo dei rifiuti scoperchiato dall'inchiesta di Fanpage.it

L'inchiesta video “Bloody Money" di Fanpage.it sul ciclo dei rifiuti in Italia è assolutamente da conoscere. Purtroppo questo scoop non sta avendo la dovuta evidenza sulla stampa nazionale. Riteniamo sia un nostro dovere rilanciarla anche sulla nostra testata.


















Non è il nostro principale settore di informazione, sebbene piuttosto legato ai temi che trattiamo, ma l'inchiesta video “Bloody Money" di Fanpage.it sul ciclo dei rifiuti in Italia è assolutamente da conoscere per comprendere il malaffare che spesso ruota intorno a questo problema fondamentale.
Purtroppo questo scoop non sta avendo la dovuta evidenza sulla stampa nazionale. Quindi, nel nostro piccolo, riteniamo sia un nostro dovere, anche civile, rilanciarla ai lettori di questa testata, e senza troppi commenti.
Sta scoperchiando il marciume di un sistema che coinvolge molti soggetti, anche insospettabili: professionisti, politici, aziende del nord Italia, società legate alle istituzioni regionali, oltre ovviamente alla criminalità organizzata.
Uno dei metodi utilizzati da queste persone è declassare la pericolosità dei rifiuti e consentirne l’impiego in cantieri e opere infrastrutturali, con grave rischio per la salute della comunità. Il tutto con l’utilizzo anche di denaro riciclato della camorra. E forse siamo solo alla punta dell’iceberg.
L’inchiesta di Fanpage.it ha fatto partire un'inchiesta della Procura di Napoli che sta indagando, infatti, su politici e imprenditori.
Come ha scritto ieri Linkiesta “Sembra una fiction, è la realtà. E se non volete crederci, ci sono i numeri del Rapporto Ecomafia di Legambiente a suffragarlo. In Italia, nel solo 2016 sono stati contestati dalla forze dell’ordine circa 26mila crimini ambientali. 25.899, per la precisione. 71 al giorno, 3 ogni ora, per un giro d'affari complessivo di 13 miliardi di euro. Di quei 26mila crimini, seimila riguardano i rifiuti, in crescita del 12% rispetto al 2015. Non solo: nel corso dell’ultimo anno e mezzo, sono state sequestrate 756mila tonnellate di rifiuti, pari a 30mila tir, una colonna in grado di intasare l’autostrada da Roma a Modena”.
Ecco la dimensione della questione.
Clicca sull'immagine il link per vedere le puntate dell’inchiesta video “Bloody Money” di Fanpage.it:

fonte: www.qualenergia.it