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Alessandra Prampolini, Wwf Italia. Per salvare la Terra dobbiamo fermare lo sfruttamento nascosto



Quest’anno il tema della Giornata mondiale della Terra è il ripristino degli ecosistemi. Ne abbiamo parlato con Alessandra Prampolini che, dallo scorso gennaio, è direttrice generale del Wwf Italia, prima donna a ricoprire questa carica nell’associazione. Dal consumo di cibo non più sostenibile all’agricoltura, dall’allevamento fino alla deforestazione, Alessandra Prampolini invita ad analizzare la crisi climatica e quella della biodiversità come fenomeni interconnessi, rispetto ai quali vanno messe in campo azioni integrate e trasversali. In quest’ottica, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che l’Italia si appresta a presentare a Bruxelles costituisce uno snodo fondamentale, perché le modalità con le quali decideremo di declinarlo tracceranno il solco lungo il quale ci muoveremo nei prossimi anni.

In occasione della Giornata mondiale della Terra il Wwf ha lanciato la campagna Food4Future. Qual è il messaggio principale che volete veicolare?

Dobbiamo modificare i sistemi agroalimentari sia dal punto di vista della produzione che da quello del consumo. Per come sono oggi, hanno impatti eccessivi sul pianeta e non sono efficienti: né per quanto riguarda la distribuzione – pensiamo al tema dei rifiuti e a quello della fame nel mondo –né per quanto concerne la salute, perché la gran parte del cibo che produciamo non è salutare. I sistemi agroalimentari vanno rivisti alla luce delle necessità umane e dei limiti del pianeta.

Alessandra Prampolini è direttore generale del Wwf Italia dallo scorso mese di gennaio © Giovanna Quaglieri

Quali sono gli impatti negativi sull’ecosistema di un consumo di cibo poco sostenibile?

Clima e biodiversità sono crisi planetarie che rappresentano due facce della stessa medaglia: l’80 per cento della perdita di biodiversità è causata dall’agricoltura e dall’allevamento, che sono responsabili anche del 24 per cento delle emissioni nocive. C’è poi il grande tema del consumo del suolo: abbiamo già consumato i tre quarti delle terre emerse e la prima causa della deforestazione sono proprio le nuove coltivazioni e l’allevamento, che già occupano il 40 per cento delle terre emerse. Un altro punto importante è quello dei cicli biogeochimici: consumiamo fertilizzanti minerali in numero dieci volte maggiore rispetto a 50 anni fa, e ciò si traduce in inquinamento, degrado del suolo e peggiore qualità delle acque. In proposito, l’uso scorretto della risorsa idrica ha portato a un consumo triplicato in 50 anni dell’acqua destinata all’agricoltura, senza dimenticare che l’80 per cento dei laghi italiani versa in uno stato ecologico non buono.
Abbiamo già consumato i tre quarti delle terre emerse e la prima causa della deforestazione sono proprio le nuove coltivazioni e l’allevamento, che già occupano il 40 per cento delle terre emerse.

Il tema della Giornata della Terra 2021 è il ripristino degli ecosistemi. In proposito, un vostro recente report ha quantificato gli impatti sulla deforestazione legati al commercio internazionale. Cosa emerge in particolare da questo lavoro?

Emerge l’enorme impatto della deforestazione importata, nascosta nelle nostre abitudini di consumo e in quello che mangiamo. Un tempo le foreste si utilizzavano principalmente per realizzare utensili in legno o per il riscaldamento domestico, mentre ora la produzione di soia, olio di palma e carne bovina è la principale responsabile della deforestazione. Il Wwf sta lavorando con l’Unione europea a una proposta legislativa per ridurre l’impronta dei consumi, ponendo limiti all’importazione di prodotti che abbiano origine forestale o che siano legati alla deforestazione. Quella nascosta pesa ormai per l’80 per cento rispetto alla deforestazione in tutto il mondo; l’Europa è seconda solo alla Cina in termini di deforestazione importata, e l’Italia figura al secondo posto in Europa.


La deforestazione dell’Amazzonia brasiliana © Mario Tama/Getty Images

Sempre in riferimento anche al cibo che arriva sulle nostre tavole, stiamo perdendo il prezioso esercito degli insetti impollinatori. Qual è il quadro e quali sono le conseguenze?

Si tratta di una delle crisi più drammatiche a livello globale, di un fenomeno che procede a velocità spaventosa e che spesso in passato è stato ignorato. Il numero dei volatori in Europa si è ridotto del 70 per cento negli ultimi 30 anni, e oggi a livello globale il 40 per cento degli insetti più comuni come api selvatiche, farfalle e coleotteri rischiano l’estinzione. Ben l’80 per cento delle 1.400 piante da cui si produce cibo nel mondo richiede l’impollinazione: il venir meno di questo servizio ecosistemico fa crollare le possibilità di portare in tavola alimenti che garantiscono la nostra salute e il nostro sostentamento. La riduzione di cibi legati a una dieta sana come frutta, verdura, noci e semi, aumenta i rischi di diabete e di malattie cardiovascolari; anche perché al contempo si assiste alla crescita di colture alimentari povere di nutrienti come riso, soia, mais e patate.

Tra le principali cause dell’estinzione degli impollinatori ci sono anche i cambiamenti climatici. A livello globale si sta facendo abbastanza per contrastarne gli effetti?

Ancora no, purtroppo. Come Unione europea ci siamo posti l’obiettivo della decarbonizzazione al 2050 e target progressivi intermedi con orizzonte al 2030. A fronte dell’Accordo di Parigi, manca però l’implementazione di un piano di azione vincolante per i diversi Paesi: gli obiettivi devono essere legati alla riduzione delle emissioni e a un aumento delle energie rinnovabili, e al contempo serve una chiara scansione temporale per il loro raggiungimento. Lo scorso anno non ha aiutato lo slittamento della Cop26 a causa dell’emergenza pandemica, perché avrebbe rappresentato un importante momento di confronto a cinque anni dagli accordi di Parigi.

L’agricoltura intensiva e il dissennato utilizzo di pesticidi hanno causato un allarmante declino degli insetti impollinatori, tra cui le api © Ingimage

Il Wwf ha rimarcato le “enormi prospettive di collaborazione” che esistono tra uomo e natura nel contrasto ai cambiamenti climatici.
Un aumento delle temperature causa una perdita di biodiversità, ma è bene rimarcare che è vero anche il contrario: ci sono tante specie animali che sono preziose alleate nel contrasto al cambiamento climatico. Faccio qualche esempio. Elefanti, gibboni e macachi svolgono un ruolo essenziale per diffondere i semi di molte specie arboree, e in questo modo contribuiscono all’espansione della biodiversità in habitat anche molto diversi fra di loro. In vita, le balene accumulano carbonio nei tessuti e quando muoiono lo depositano sui fondali marini: ogni balena adulta cattura in media 33 tonnellate di CO2. Anche le formiche, con il loro instancabile lavoro, generano una serie di reazioni chimiche che facilitano assorbimento della CO2 da parte del suolo: i suoli abitati da formiche hanno una capacità di assorbimento 300 volte superiore rispetto agli altri.

Il Next Generation Eu può rappresentare una svolta per la transizione ecologica dell’Europa?

Il Next Generation Eu è lo strumento del secolo e le modalità con le quali decideremo di utilizzarlo daranno l’impronta dei prossimi anni. Rappresenta insomma un’occasione unica e come Wwf stiamo chiedendo che l’approccio sia quello della transizione ecologica, a patto che lo sia realmente. Il primo principio è che il valore della natura deve essere, con un approccio trasversale, incorporato in tutti i processi decisionali.
In Italia si avrebbe entro il 2030 la creazione di 163 mila nuovi posti di lavoro grazie alle rinnovabili © Nicholas Doherty, Unsplash

Alessandra Prampolini, il 30 aprile l’Italia dovrà presentare il Piano nazionale di ripresa e resilienza all’Ue, su cosa si dovrebbe puntare con maggiore decisione?

Almeno il 37 per cento delle risorse deve essere destinato in azioni in difesa del clima e a tutela della biodiversità. In secondo luogo, l’azione di rilancio del nostro Paese deve prevedere un rinnovamento della strategia industriale, il cui fine ultimo deve essere la completa decarbonizzazione: ciò potrà avvenire solo con target di riduzione delle emissioni molto chiari e con investimenti massicci sulle energie rinnovabili. Va infine riqualificata la natura: in Italia abbiamo uno dei patrimoni più importanti in Europa, ma anni di consumo incauto di suolo hanno fatto sì che siano sopravvissute piccole isole di biodiversità, non collegate fra di loro, che oltretutto si stanno riducendo. Servono quindi azioni per la tutela, il ripristino e la riconnessione delle tante aree che il nostro Paese ospita: ciò a vantaggio non solo del turismo, ma anche di attività come l’agricoltura e la pesca.

fonte: www.lifegate.it



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La denuncia di 25 associazioni: «No ai decreti che aprono la strada agli ogm in campo»

Dopo il voto al Senato un vasto fronte di associazioni si mobilita in vista del voto del 13 gennaio in Commissione Agricoltura della Camera: «L’Approvazione dei decreti sulle New Breeding Techniques (Nbt) costituirebbe un grave attacco alla nostra filiera agroalimentare, al principio di precauzione, ai diritti dei contadini, nonché la violazione della sentenza della Corte Europea di Giustizia che equipara nuovi e vecchi Ogm».




È atteso per il 13 gennaio il parere della Commissione Agricoltura della Camera dei 4 decreti proposti dal Ministro dell’Agricoltura, Teresa Bellanova, che con il pretesto dell’aggiornamento delle misure fitosanitarie, riorganizza il sistema sementiero nazionale, apre la strada alla diffusione degli Organismi Geneticamente Modificati (Ogm) e dei cosiddetti “nuovi” Ogm (ottenuti tramite le New Breeding Techniques – Nbt).

«Già lo scorso 28 dicembre, in sordina e con una seduta a ranghi ridotti per le festività, la Commissione Agricoltura del Senato ha espresso parere favorevole sui 4 decreti, che permettono di fatto la sperimentazione in campo non tracciabile di varietà di sementi e materiale di moltiplicazione ottenuti con le “nuove tecniche di miglioramento genetico” (Nbt) che, come ha confermato la sentenza del 2018 della Corte Europea di Giustizia, sono a tutti gli effetti Ogm e come tali devono sottostare alle normative europee esistenti in materia - scrivono in una nota 25 associazioni impegnate sul fronte dell'agricoltura sostenibile e dell'ambiente - Se la Commissione Agricoltura della Camera prenderà la stessa decisione di quella del Senato, Dop, Igp, vini di qualità, produzione biologica, prodotti dei territori, varietà locali e tradizionali potranno essere contaminate da prodotti ottenuti con le nuove tecniche di genome editing (Nbt) che non saranno etichettati come Ogm e quindi saranno irriconoscibili per i consumatori. Ne risulterà che coloro che vorranno prodotti “Gmo-free” garantiti, per esempio nell'export, rifiuteranno anche i prodotti etichettati come “non-Ogm” per mancanza di certezze. Chi pagherà i danni? Di fatto, con questi decreti, le sanzioni per il rilascio ambientale di Ogm sono esigue e, oltre a non avere funzione deterrente, aprono alla possibilità immediata di sperimentazione in pieno campo».

«In realtà, ci sarebbe l’obbligo di adeguare la normativa soltanto se si prevedesse di accettare la coltivazione di varietà Ogm, cosa che la legislazione italiana attuale esclude esplicitamente - proseguono le associazioni - Scelta che si estende alle nuove tecniche di correzione del genoma, in inglese genome editing, grazie alla sentenza esecutiva della Corte europea di Giustizia che nel 2018 ha stabilito che "Gli organismi ottenuti mediante tecniche o metodi di mutagenesi devono essere considerati come Ogm ai sensi dell’articolo 2, punto 2, della direttiva 2001/18…". La definizione di Ogm nel Protocollo di Cartagena - lo stesso che introduce il Principio di precauzione garante della tutela della nostra salute, del nostro ambiente e della biodiversità - si basa su chiari e inconfutabili criteri. Tutte le nuove tecniche di genome editing prevedono l’introduzione di segmenti di genoma e producono organismi modificati che soddisfano tali criteri. Tuttavia, queste tecniche comportano spesso anche mutazioni indesiderate (off target), rese sempre più evidenti e documentate dalla letteratura scientifica. Infine, i protocolli di genome editing coinvolgono normalmente le stesse tecniche base dei “vecchi” Ogm, responsabili di delezioni e riarrangiamenti non voluti».

«È grave inoltre che - surrettiziamente e alla chetichella - i decreti proposti aboliscano, insieme al diritto alla risemina, i diritti propri del sistema sementiero contadino, violando così l’articolo 9 del Trattato internazionale sulle risorse fitogenetiche e per l'alimentazione e l'agricoltura (ITPGRFA). L’articolo stabilisce che "nessuna disposizione del presente articolo comporta una limitazione del diritto degli agricoltori di conservare, utilizzare, scambiare e vendere sementi o materiale di moltiplicazione". Per tutti questi motivi un fronte sempre più ampio di associazioni ambientaliste, organizzazioni dell’agricoltura biologica e contadina, e associazioni di consumatori, denuncia il tentativo del Governo di aprire a nuovi e vecchi Ogm solo per favorire un ristrettissimo numero di imprese, la maggior parte grandi multinazionali, che vogliono ottenere il controllo delle filiere agroalimentari ed intendono mettere agricoltori e consumatori davanti al fatto compiuto, con prodotti brevettati, non tracciabili e privi di certezze qualitative, violando il Principio di precauzione posto a garanzia della salute, dell’ambiente e della biodiversità, per di più in assenza di qualunque analisi d’impatto sul sistema agricolo nazionale».

In vista del voto della Commissione agricoltura della Camera le Associazioni lanciano un appello ai decisori politici: «da due decenni siamo mobilitati per tenere i nostri campi liberi da Ogm, mantenere in capo alle aziende la possibilità di produrre le proprie sementi e dare impulso al nostro sistema agricolo. Contrasteremo in ogni sede anche questo maldestro e subdolo attacco alla nostra filiera agroalimentare, la cui competitività deriva da ciò che la biodiversità coltivata è in grado di esprimere; chiediamo l’immediata esecuzione della sentenza della Corte di Giustizia Europea sulla natura Ogm dei mutanti Nbt ed il pieno rispetto del Trattato sulle risorse genetiche (ITPGRFA) e ci appelliamo ai deputati della Commissione Agricoltura affinché si esprimano contro i decreti, in quanto privi di qualsiasi reale o urgente motivazione. La discussione su scelte strategiche come quelle sugli Ogm e Nbt deve incardinarsi su tavoli trasparenti e partecipati, e al riparo dalle ingerenze delle lobby biotech».

Le associazioni firmatarie sono: Acu; Aiab; Altragricoltura Bio; Ari; Ass. Agr. Biodinamica; Civiltà Contadina; Coord. Zero OGM; Crocevia; Deafal; Égalité; European Consumers; European Coordination Via Campesina; Fair Watch; FederBio; Firab; Greenpeace; Isde; Legambiente; Lipu; Navdanya; Pro Natura; Slow Food; Terra!; Unaapi; Wwf.

fonte: www.terranuova.it

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Il buongiorno non si vede dal mattino? Colpa del glifosato nel caffè
















Nestlè è finita sotto accusa a causa della presenza di glifosato nei suoi caffè. Nonostante gli allarmi della comunità scientifica mondiale circa la pericolosità dell’erbicida, il governo brasiliano continua a promuovere l’utilizzo del glifosato in agricoltura.
Recentemente ha destato grande scalpore e preoccupazione un articolo di Bloomberg che mette sotto accusa un grande colosso dell’industria alimentareAl centro dell’inchiesta questa volta è il caffè, o meglio il glifosato che sarebbe stato rinvenuto dentro ad alcuni prodotti del gruppo Nestlè. Secondo Bloomberg, i prodotti a marchio Nescafè e Nespresso sugli scaffali dei negozi di tutto il mondo conterrebbero quantità di glifosato superiori a quanto concesso dalle normative.
Il glifosato è l’erbicida più diffuso al mondo e da tempo gli effetti collaterali provocati dal principio attivo sono ben noti, tuttavia aziende come Monsanto, Syngenta e Bayer continuano a produrne 800mila tonnellate l’anno, respingendo le accuse e promuovendone l’utilizzo. Per decenni il glifosato è stato utilizzato in agricoltura su scala mondiale, conseguentemente tracce dell’erbicida sono state rilevate praticamente in qualunque tipo di prodotto agroalimentare. Considerata la vasta scala di utilizzo, logicamente i danni non potevano finire qui: test effettuati hanno dimostrato la presenza di glifosato anche nella carne degli animali e negli uomini.
Gli studi condotti dalla comunità scientifica non hanno potuto che confermare la tesi della pericolosità del glifosato riscontrando che ad una sola settimana di somministrazione corrispondevano aumenti dei livelli di obesità, alterazioni nell'apparato riproduttivo femminile, del funzionamento della prostata, dei reni e pubertà precoce. Non solo, questi test hanno inoltre dimostrato che l’assunzione del principio attivo può provocare una predisposizione a pluripatologie e delle mutazioni che sarebbero causa dello sviluppo di tumori nelle 2/3 generazioni successive. In seguito alla recente polemica che ha travolto i prodotti Nescafè e Nespresso, l’azienda madre Nestlè ha dichiarato: “Monitoriamo attivamente i residui chimici, incluso il glifosato, nel caffè verde che acquistiamo. Questo programma di monitoraggio ha dimostrato che in alcune forniture i livelli di residui chimici sono vicini ai limiti definiti dalle normative. Stiamo rafforzando i nostri controlli in collaborazione con i fornitori per garantire che il nostro caffè continui a soddisfare le normative in tutto il mondo”.


Le reazioni del mondo al problema del glifosato sono purtroppo eterogenee e lasciano molti spunti sui quali riflettere. Da una parte troviamo paesi come l’Austria dove l’utilizzo del glifosato è severamente vietato, oppure altri Stati Europei, la Malesia e l’Australia dove esistono delle soglie limite di impiego molto restrittive. Sull'altro piatto della bilancia però si posizionano paesi come il Brasile - non a caso il luogo d’origine dei chicchi di caffè dai quali si ricavano i due prodotti sotto accusa – che, incuranti degli allarmi lanciati dalla comunità scientifica, non solo non accennano a fare alcun passo verso la limitazione del glifosato, ma ne incentivano l’utilizzo. Il governo brasiliano ha introdotto per giunta la possibilità di utilizzare in agricoltura anche una serie di altri prodotti chimici dalla comprovata tossicità.
Ovviamente la politica interna di Nestlè viaggia sulla stessa lunghezza d’onda del governo del paese sudamericano. L’azienda, infatti, alle sue dichiarazioni ha aggiunto: “I nostri agronomi continueranno a lavorare con i coltivatori di caffè per aiutarli a migliorare le loro pratiche di gestione delle infestanti, compreso l’uso appropriato degli erbicidi e l’adozione di altri metodi di diserbo”. Nessun passo indietro quindi, né tanto meno nessun cambio di rotta annunciato: ora l’ultima parola sta ai consumatori.

fonte: https://www.nonsoloambiente.it/

Terra dei Fuochi e false verità: i danni all’agroalimentare sano

Intervista a Massimo Fagnano, associato di Agronomia ed Ecologia agraria nel Dipartimento di Agraria dell’Università di Napoli Federico II che spiega cosa c’è dietro a una campagna mediatica che definisce “una vera azione di depistaggio” perché ha portato a identificare tutta la Campania con la Terra dei Fuochi



















Ambiente, cibo e salute. Tre parole che sembrano entrare in rotta di collisione con le produzioni agroalimentari della Campania, ritenute responsabili di danneggiare gravemente la salute perché semplicisticamente associate alla cosiddetta Terra dei Fuochi. A distanza di qualche anno da un’incessante campagna mediatica basata su false verità c’è ancora chi non mangia le mozzarelle di bufala o altri prodotti agricoli della regione. Proviamo a capire qual è la differenza tra le verità scientifiche e le bufale (non casearie!) che hanno prodotto danni incalcolabili al comparto agroalimentare campano.

Com’è nata la storia della Terra dei Fuochi?

Inizialmente, nel 2000, il termine Terra dei Fuochi è stato coniato per sottolineare l’incivile abitudine di smaltire i rifiuti, sia urbani che speciali, lungo le strade e di dar loro fuoco, con la conseguenza di immettere nell’aria che respiriamo numerose sostanze tossiche che mettono a rischio la salute delle nostre popolazioni. Questa abitudine ha diverse cause (assenza di discariche per rifiuti speciali, lavoro nero ed evasione fiscale, pigrizia e strafottenza della popolazione) e richiederebbe ben altri interventi che, come vedremo, non hanno niente a che vedere con la campagna mediatica e la conseguente ondata di panico che si è sviluppata nel 2013.
Infatti tutta l’attenzione mediatica e gli interventi sono stati concentrati sul settore agricolo e sulla produzione agricola, come capro espiatorio di questo disastro socio-economico e culturale che arrivo a definire una vera azione di depistaggio. La prova è che il fenomeno della presenza di rifiuti ai bordi delle strade, nei terreni incolti o nei siti abbandonati non è stato assolutamente scalfito.
L’ondata di panico del 2013 è nata dalle dichiarazioni di un sedicente pentito che ha ripetuto le stesse rivelazioni che aveva già fatto alla magistratura quindici anni prima. La cosa scandalosa è che i media nazionali hanno dato credito a queste rivelazioni invitando questo criminale a diverse trasmissioni a tema, senza riportare né i dati sui prodotti agricoli (nessuno è stato mai trovato contaminato), né le interviste ai magistrati che dichiaravano che il pentito diceva “balle spaziali” che non avevano trovato nessun riscontro e che non era attendibile, così come non era stato giudicato attendibile anni prima.

In ogni caso, tutte le trasmissioni si concentravano sul tema dei prodotti agricoli contaminati che erano la causa dei tumori e dei problemi di salute della popolazione, arrampicandosi sugli specchi per dimostrare una cosa non vera e in qualche caso presentando teorie fantascientifiche (gli esseri umani che mangiano radici di pomodoro come fossero carote o fusti di pomodoro come fossero patate) che sarebbero state comiche se il loro effetto sul settore agricolo non fosse stato invece drammatico.
Un altro risultato è stato che la pressione mediatica ha spinto le istituzioni (Regione e Governo) a concentrare l’attenzione solo sui suoli e i prodotti agricoli: ad esempio, a dicembre 2013 è stato emanato un Decreto Ministeriale per istituire un gruppo di lavoro, nel quale hanno nominato anche me, proprio per mappare l’idoneità dei suoli all’uso agricolo.

La zona contaminata interdetta alla coltivazione è di 30 ettari su 50.000. Come fate a restringere l’area a questo perimetro?

I 50.000 ettari sono la superficie agricola dei Comuni che hanno aderito al Patto per la Terra dei Fuochi, i 30 ettari sono quelli che abbiamo classificato come potenzialmente contaminati e in via precauzionale abbiamo proposto per l’interdizione alla produzione agricola, utilizzando criteri molto stringenti. Ad esempio, per far scattare l’interdizione bastava che un solo contaminante nel terreno raggiungesse concentrazioni pericolose per la produzione agricola oppure che la vegetazione, sia coltivata che spontanea, contenesse contaminanti pericolosi per la salute, oppure ancora che ci fossero rifiuti in superficie o che le indagini magnetometriche evidenziassero la possibilità della presenza di rifiuti interrati. Su questi 30 ettari è stata anche prescritta l’eventuale rimozione di rifiuti, l’effettuazione di caratterizzazioni ambientali e delle analisi di rischio per giungere a provvedimenti definitivi.

Molti ricordano le immagini dei limoni-mostro o dei pomodori neri. Tutta colpa dell’inquinamento?

Anche qui la questione sarebbe comica se non fosse stato tragico l’effetto sui nostri agricoltori: è stato detto che i nostri pomodori “dal cuore nero esportavano il tumore in tutta Europa”. Qui non è necessario uno scienziato, ma basta uno studente del secondo anno per sapere che il limone mostruoso è frutto delle punture dell’acaro delle meraviglie, tra l’altro un ragnetto che è bioindicatore di salubrità ambientale perché si diffonde solo negli agrumeti incontaminati, oppure che il pomodoro dal cuore nero è in realtà soggetto al marciume apicale, una diffusissima fisiopatia determinata squilibri idrici dovuti all’alternanza tra carenza e abbondanza di acqua. L’inquinamento non c’entra niente, si tratta solo di annunci dovuti all’ignoranza se non alla cattiva fede di chi vuole far crescere l’ondata di panico forse per spingere le autorità a stanziare più fondi per fantomatiche bonifiche.

Quali sono state le ripercussioni economiche per il comparto agroalimentare?

La conseguenza non è stato un calo delle vendite, ma un crollo dei prezzi: tutti gli addetti al settore sapevano che i nostri prodotti non erano contaminati però hanno speculato sul danno di immagine, cioè hanno continuato a comprare e vendere in tutta Italia i nostri prodotti agricoli, ma chiedendo sconti ai nostri produttori che sono arrivati fino al 75-80% del prezzo normale. Una vera e propria azione di sciacallaggio che ha fatto fallire decine di aziende agricole e creato centinaia di nuovi disoccupati, il che in una Regione povera e disastrata come la nostra è stato un vero e proprio crimine sociale.
Bisogna dire, per la verità, che i clienti europei al contrario sono stati molto corretti. Quando hanno sentito della campagna mediatica, hanno mandato i loro tecnici che hanno prelevato prodotti, terreni e acque ed hanno fatto le analisi nei loro laboratori. Visto che tutte le analisi hanno dato esiti favorevoli hanno confermato gli ordini senza speculare sui prezzi. Infatti le esportazioni dei nostri prodotti agricoli sono aumentate addirittura più della media nazionale.
Ciò significa che, anche in questo caso, la crisi è stata asimmetrica: ha colpito i piccoli produttori meno organizzati, mentre i grandi produttori, già ben strutturati sui mercati internazionali hanno sofferto la crisi poco o niente.

Molti non mangiano la mozzarella di bufala perché la ritengono contaminata e molti addirittura la accomunano alle mozzarelle blu. Possiamo provare a fare chiarezza e rassicurare i consumatori? Quali controlli vengono effettuati e come si riconosce il prodotto sicuro?

Non facciamo confusione: la mozzarella blu era prodotta in Germania e non c’entra con la Campania.
Quando dico che nessuno ha mai trovato prodotti agricoli campani contaminati, significa che proprio nessuno li ha mai trovati, penso al RASFF della Commissione Europea (un sistema di allarme rapido progettato per lo scambio rapido di informazioni tra le autorità nazionali sui rischi per la salute legati ad alimenti e mangimi, ndr), ai nostri clienti della GDO (grande distribuzione organizzata, ovvero il sistema di vendita al dettaglio attraverso una rete di supermercati e di altre catene di intermediari, ndr) e dei mercati europei, all’Istituto Superiore di Sanità, all’Ispettorato Centrale Repressione Frodi, al gruppo di lavoro del Patto per la Terra dei Fuochi di cui ho parlato prima, a noi dell’Università Federico II o all’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Mezzogiorno che gestisce il programma Campania Trasparente.

Proprio questo potrebbe essere l’unico effetto positivo della questione Terra dei Fuochi. La nostra Regione si è dotata di uno strumento di controllo a tappeto della qualità dell’ambiente e dei prodotti agricoli che non ha eguali in Italia e nel mondo: finora sono state effettuate decine di migliaia di analisi, con a una percentuale di irregolarità prossima allo zero. È un sistema di controlli dell’aria, dell’acqua, del terreno delle produzioni vegetali ed animali di un’intera Regione che si propone una volta tanto come modello virtuoso che dovrebbe essere replicato anche nelle altre Regioni.
La nostra è sicuramente la Regione più controllata d’Italia, quindi i nostri prodotti sono assolutamente molto più sicuri dei prodotti di altre regioni o di Paesi extraeuropei che subiscono molti meno controlli o che non sono controllati affatto: se devo dare un consiglio a chi è preoccupato della salubrità di ciò che mangia suggerisco di cercare di evitare i prodotti alimentari provenienti da altri continenti, come l’America e l’Asia, che purtroppo invadono i mercati con prodotti a basso costo ma anche di bassa qualità e di dubbia salubrità.

fonte: www.rinnovabili.it

La fusione Bayer-Monsanto è contro la legge sulla concorrenza

Aumento dei prezzi e della dipendenza, blocco dell’innovazione, concentrazione del potere. Ecco perché la fusione Bayer-Monsanto non s’ha da fare















La mega fusione Bayer-Monsanto dovrebbe essere impedita ai sensi del diritto comunitario in materia di concorrenza. Lo afferma un importante studio dell’University College di Londra, pubblicato ieri per la Giornata mondiale dell’alimentazione.
Gli autori della relazione affermano che la Commissione Europea sia obbligata a bloccare il tentativo di fusione, stando ad una lettura coerente della legge in vigore. Secondo Friends of the Earth, organizzazione che ha sostenuto la ricerca, sarebbe illegittimo avallare ulteriori concentrazioni di potere economico in un settore agricolo che rischia di concentrarsi nelle mani di appena tre mega-società (ChemChina-Syngenta, DuPont-Dow e Bayer-Monsanto), in grado di possedere e vendere circa il 64% dei pesticidi e il 60% dei semi brevettati.
All’inizio di quest’anno più di 200 organizzazioni della società civile hanno invitato il commissario europeo della concorrenza, Margrethe Vestager, a fermare l’ondata di fusioni nel settore agroalimentare. Quasi 900 mila cittadini hanno firmato petizioni che chiedono alla Commissione di agire. Il pericolo, infatti, è che gli agricoltori vedano aumentare i prezzi e la dipendenza dalle multinazionali, che vendono loro pacchetti con tutti i servizi necessari: sementi, pesticidi e anche prodotti per l’agricoltura digitale. Una ulteriore fusione andrebbe a rafforzare un sistema in cui chi coltiva la terra è tecnologicamente dipendente da soggetti terzi e non ha potere negoziale sui prezzi di sementi e prodotti fitosanitari.


La relazione sottolinea che l’emergere dei giganti agroindustriali avrebbe anche l’effetto di soffocare le aziende che praticano una agricoltura alternativa: le tre mega-corporazioni che controllano la catena mondiale del cibo assumerebbero un tale potere che le pratiche sostenibili non sarebbero incentivate allo sviluppo.
Gli accademici, inoltre, invitano la Commissione Europea ad ampliare le indagini sulla fusione per tener conto dei costi sociali e ambientali nel complesso, poiché è probabile che queste grandi manovre causeranno «importanti rischi per la sicurezza e la sovranità alimentare, la biodiversità, l’accessibilità dei prezzi, la qualità degli alimenti, la varietà e l’innovazione».
Non è ancora chiaro quali concessioni le multinazionali potrebbero fare per vincere la ritrosia di un Commissario particolarmente severo con i grandi monopoli, ma è molto probabile che nessuna strada resterà intentata.

fonte: http://www.rinnovabili.it

Zitti zitti, arriva il Ceta

Quella di ieri è stata una giornata intensa per i movimenti e i cittadini che si oppongono al Ceta, il trattato di libero scambio tra Unione Europea e Canada “gemello” del più noto Partenariato transatlantico (Ttip).
Siamo infatti alle battute finali di un percorso che, dopo l’approvazione in sede europea nell’ottobre scorso, deve ora affrontare i processi di ratifica nei parlamenti nazionali. In Italia il ddl di ratifica è stato approvato a fine maggio dal governo e verrà votato domani in Senato.



















Tutto questo – è triste ricordarlo – avviene in tempi accelerati, senza un vero confronto politico e nel più totale silenzio dei mezzi di informazione. Alzi la mano infatti chi può dire di aver letto una riga di giornale o di aver ascoltato un servizio televisivo dedicato al Ceta in questi ultimi giorni.
Spetta così alla società civile sopperire a queste carenze e lo si sta facendo concentrando la pressione proprio su quel ramo del Parlamento che è chiamato ad esprimersi a breve.
Da una parte abbiamo visto la mobilitazione pubblica, indetta dalla campagna Stop Ttip Italia con il tweetstorm e l’iniziativa “adotta un senatore”, dall’altra l’incontro tra il presidente del Senato Pietro Grasso – già destinatario di una lettera aperta sul tema – e i rappresentanti di undici associazioni (Slow Food, Coldiretti, Cgil, Arci, Acli Terra, Legambiente, Fairwatch, Greenpeace e le principali organizzazioni dei consumatori) che hanno consegnato alla seconda carica dello Stato il documento “Alla ricerca di un commercio libero e giusto (Free and fair) – Dal sovranismo economico ad un percorso di reciprocità”.
Le istanze portate avanti da sindacati, ambientalisti e movimenti a difesa dei consumatori hanno trovato attenzione e riscontro nelle parole del presidente Grasso, il quale si è detto consapevole dell’«impatto di grande rilievo sull’ambiente e sull’economia dei Paesi coinvolti» esercitato dagli accordi commerciali e ha dichiarato: «Trovo quindi comprensibile l’appello ad un esame attento e scrupoloso delle norme all’attenzione delle aule parlamentari e sono sicuro che esso non resterà inascoltato».
Lo stesso documento è stato illustrato e consegnato durante l’audizione informale con i senatori della 3° Commissione Permanente del Senato della Repubblica (Affari Esteri, Emigrazione), impegnati nell’esame del disegno di legge di ratifica (ddl 2849).
In questa occasione la vicepresidente nazionale di Slow Food Italia, Cinzia Scaffidi, ha ribadito le ragioni dell’opposizione all’accordo, motivate in particolare sotto due profili: in primo luogo la mancata salvaguardia di tante (troppe) produzioni agroalimentari di qualità che non trovano adeguata tutela nel testo del Ceta, in secondo luogo la concreta eventualità che il trattato indebolisca quel principio di precauzione che è un cardine fondamentale nell’intera legislazione comunitaria.
Le norme europee stabiliscono infatti che, ove vi siano minacce di danno serio o irreversibile per l’ambiente o la salute umana, l’assenza di certezze scientifiche non debba essere usata come pretesto per impedire misure di prevenzione. Il meccanismo è stato applicato ad esempio per supportare il divieto di somministrazione di ormoni nella carne e scongiurare l’avvio su larga scala di colture Ogm: il Canada al contrario non lo riconosce e, al pari degli Stati Uniti, punta ad “ammorbidirne” gli effetti in Europa.
Sono tante le questioni che questo gigantesco ibrido politico lascia aperto, a dispetto della sua mole – il Ceta è infatti un corpo di regole composto da 1057 pagine e lungo ben 7900 metri lineari. Dentro  c’è  un  po’  di  tutto:  dagli  investimenti  alla finanza, dalle professioni ai brevetti.




















C’è però soprattutto un tentativo di stravolgere le regole nell’agricoltura attivando, con l’abbattimento istantaneo dei dazi, megaflussi di importazione competitiva che la nostra agricoltura non è in grado di reggere. Ma anche, come si diceva, introducendo specifiche che creano paradossali effetti di protezionismo a tutela non delle eccellenze agroalimentari, ma delle loro versioni “taroccate”.
Avete presente il famoso Parmesan? Bene, questa denominazione continuerà a esistere in Canada perché già da tempo registrata nel Paese. Lo stesso accadrà per i formaggi “Asiago o Fontina style” e addirittura per un prosciutto canadese denominato “Parma”.
Le indicazioni geografiche riconosciute dal Ceta sono poche (appena 41 su 288) e chi è rimasto fuori dall’elenco non avrà la possibilità di entrarvi nemmeno in futuro, dal momento che l’aggiornamento delle liste verrà ammesso solo per sottrazione, o per aggiungere nuovi prodotti IG riconosciuti da ora in avanti.
Se questo, come si vede, preclude lo sviluppo su un grande mercato estero dei prodotti di qualità che hanno avuto la sfortuna di non rientrare tra “gli eletti”, c’è da aggiungere che anche la tutela delle IG ammesse sarà soggetta a varie – e non sempre chiare – eccezioni e limitazioni















Il caso della Cmb Partner: 50mila tonnellate di grano canadese sequestrate a Bari
Chiudiamo con una nota di merito, dedicata ai pochi organi di stampa che hanno riportato la notizia del sequestro di un carico da 50mila tonnellate di grano canadese nel porto di Bari, avvenuto l’8 giugno.
Nelle stive della «Cmb Partner» i Carabinieri forestali, dopo le prime analisi sui campioni, avrebbero rilevato la presenza di sostanze nocive in percentuali superiori ai limiti consentiti dalla legge. Il cargo proveniente da Vancouver trasporta un carico che avrebbe richiesto oltre 1600 autoarticolati per essere sbarcato e indirizzato alle più svariate destinazioni.
Questo episodio di cronaca può forse servire a farci riflettere ulteriormente: sono 2,3 milioni le tonnellate di grano duro importate lo scorso anno dall’estero. Metà di queste giungono dal Canada, che ha incrementato di un altro 15% i quantitativi nel 2017.
I campioni risultati irregolari per un contenuto fuori legge di pesticidi sono pari allo 0,8% nel caso di cereali stranieri mentre la percentuale scende ad appena lo 0,3% nel caso di quelli di produzione nazionale.
Peraltro in alcuni Paesi terzi vengono utilizzati principi attivi vietati in Italia: proprio in Canada, ad esempio, si fa uso intensivo del glifosato nella fase di pre-raccolta, pratica che il Ministero della Salute ha vietato con un decreto in vigore dal 22 agosto 2016.
Ce n’è abbastanza insomma per continuare a tenere alta l’attenzione, in tutte le sedi possibili. Ed è quello che, da parte nostra, vi promettiamo di fare.

Andrea Cascioli
a.cascioli@slowfood.it

fonte: www.slowfood.it