Visualizzazione post con etichetta #Slowfood. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta #Slowfood. Mostra tutti i post

L’Italia ritorni alla sua vocazione agricola e artigianale



Nel seguire l’impossibile coesistenza di un sistema della crescita infinita in un pianeta dalle risorse finite, l’Italia ha stravolto la sua natura e vocazione. Scimmiottando i paesi anglosassoni si è pensato di competere sul piano della potenza industriale. Una gara che ci ha visto sempre rincorrere affannosamente anche per la mancanza di risorse interne di fonti fossili e ora per l’impossibilità di uscire economicamente vincitori da una competizione con paesi come la Cina.

Inoltre una industrializzazione senza freni e scrupoli, ha il non indifferente contraccolpo della distruzione ambientale, quindi delle nostre risorse e ricchezze. L’Italia infatti è storicamente un paese a vocazione agricola e artigianale. La capacità di produrre con la nostra inventiva e le nostre mani si riflette anche nelle bellezze artistiche che ci sono sulla penisola in una innumerevole quantità.

Non è certo un caso che l’Italia sia meta turistica ambita anche per le sue realizzazioni create da persone di una capacità artigianale eccezionale che erano lo specchio di una conoscenza diffusa nella popolazione. Che gli italiani siano ottimi artigiani dalla grande creatività è un fatto evidente. Inoltre la nostra ricchezza e varietà dal punto di vista agricolo e alimentare è testimoniata anche dal movimento Slow Food diffuso a livello internazionale. Dove se non in Italia una realtà con queste caratteristiche poteva nascere? Un paese dove cresce una varietà e qualità strepitosa di piante commestibili e alberi da frutto, dove in ogni angolo, anche il più remoto, c’è una specialità alimentare.

Tutto questo è stato progressivamente messo in pericolo dalla massiccia e costante importazione di “cinafrusaglie” e di cibo spazzatura prodotto da paesi che hanno una cultura e ricchezza del cibo neanche lontanamente paragonabile a quella italiana. Cibo e altri prodotti realizzati con prezzi ambientali e umani altissimi e quindi conseguentemente con costi irrisori. Come si fa a competere con chi utilizza milioni di lavoratori super sfruttati e pagati miserie e non mette in nessun conto i disastri ambientali che provoca nella realizzazione delle merci?

Tentare di competere su piani che ci vedono sconfitti in partenza, non solo è illusorio ma assai poco intelligente e per nulla lungimirante. Non è certo correndo la corsa alla produzione illimitata di merci, per lo più superflue e dannose per l’ambiente, che faremo un servizio al nostro paese che invece deve necessariamente ritrovare la sua inclinazione, la sua natura che è il saper fare e il saper coltivare. Artigianato, agricoltura e benessere quindi sono la risposta, laddove il nostro “saperci godere la vita” ci è invidiato proprio da quei paesi anglosassoni e non, continuamente protesi alla performance, al segno più, mentre la loro vita si consuma in grafici e numeri. Anche noi però rischiamo di non saperci più godere la vita in questa impossibile rincorsa alla “performance” che con la nostra natura e saggezza mediterranea, hanno ben poco a che vedere.

E se si ritiene che ritrovare la via dell’artigianato e dell’agricoltura sia impossibile, anacronistico, utopico, si valuti se è più realistico proseguire a sfruttare tutte le risorse possibili e immaginabili, produrre quantità incalcolabili e ingestibili di rifiuti, competere con il mondo per vendere qualsiasi cosa, crescere in una corsa sfrenata verso il nulla e con ciò ottenere solo due risultati: una vita impazzita priva di senso e una natura distrutta dal nostro agire che ci porterà all’inevitabile suicidio collettivo.

Quindi volenti o nolenti, anche a causa dell’esaurimento delle risorse e della catastrofe ambientale, bisognerà ritornare a quello che ci contraddistingue e in cui siamo grandi maestri: costruire una società a misura di persona il più possibile autosufficiente e con un forte tessuto artigianale ed agricolo. Agendo in questo modo si possono ridurre drasticamente le importazioni di merci superflue, spesso dannose e ambientalmente impattanti, considerato che tutto quello che arriva da lontano lascia una scia di inquinamento non indifferente. Cosa c’è poi di più bello che creare con le proprie mani o coltivare vedendo crescere e assaporare i propri alimenti? Si può in questa direzione calibrare e pianificare una industria utile e sostenibile, alimentata da fonti rinnovabili, per le quali, a differenza delle fonti fossili, abbiamo potenzialità enormi e che supporti i settori artigianale e agricolo biologico.

L’Italia può ridiventare un giardino fiorito pieno di creatività, saggezza e prelibatezze, dove finalmente vivere e non competere, dove aiutarsi, cooperare e non farsi la guerra, tanto alla fine non ci sarà nessun vincitore e saremo tutti perdenti. Abbiamo il nostro paese che è già potenzialmente un paradiso terrestre, bisogna solo riscoprirlo e riscoprire i nostri talenti e le nostre capacità. Possiamo diventare un faro internazionale per un cambiamento epocale, sta a noi renderlo possibile.

fonte: www.ilcambiamento.it



#RifiutiZeroUmbria - Sostienici nelle nostre iniziative, anche con un piccolo contributo su questo IBAN IT 44 Q 03599 01899 050188531897Grazie!

#Iscriviti QUI alla #Associazione COORDINAMENTO REGIONALE UMBRIA RIFIUTI ZERO (CRU-RZ) 


=> Seguici su Blogger 
https://twitter.com/Cru_Rz
=> Seguici su Telegram 
http://t.me/RifiutiZeroUmbria
=> Seguici su Youtube 

Carlo Petrini: il futuro del pianeta nelle mani dei giovani

Terra Futura è il titolo del suo ultimo lavoro, ma è anche un concetto chiave per costruire a partire da oggi il mondo di domani. Durante il 69° Trento Film Festival, Agenzia di Stampa Giovanile ha intervistato Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, sui temi dell’educazione e quindi sui giovani, sull’attivismo e soprattutto sulla responsabilità che le nostre azioni quotidiane hanno nei confronti della natura, dell’ambiente e del futuro.




Carlo Petrini – fondatore dell’associazione Slow Food, ideatore della rete internazionale di Terra Madre e autore di “Terra Futura. Dialoghi con Papa Francesco sull’ecologia integrale” – ha trascorso gran parte della sua vita cercando di promuovere attenzione e cura verso il nostro Pianeta. Lo ha fatto attraverso le armi della scrittura e dell’attivismo, ma soprattutto attraverso il duro lavoro nella ricerca di un dialogo tra società, istituzioni, culture, generazioni. Durante il secondo tempo del 69° Trento Film Festival lo abbiamo intervistato, cercando di concentrare la nostra chiacchierata sul grande obiettivo di Slow Food, sull’educazione e quindi sui giovani, sull’attivismo e soprattutto sulla responsabilità che le nostre azioni quotidiane hanno nei confronti della natura, dell’ambiente e del futuro.

Nel ciclo di incontri con Papa Francesco – dai quali poi è nata la pubblicazione “Terra futura. Dialoghi con Papa Francesco sull’ecologia integrale” – scaturisce la forza delle azioni umane quotidiane e comunitarie. Azioni che possono influenzare in positivo e in negativo il benessere del nostro Pianeta. Che ruolo hanno le scelte alimentari e le azioni a esse connesse nel mantenimento e nella cura ambientale?

Da oltre 30 anni il movimento Slow Food rivendica l’idea del cibo come centro della nostra esistenza. Se oggi la multidisciplinarietà legata al cibo (parlare di alimentazione vuol dire richiamare l’antropologia, la storia, l’economia, la genetica, la biologia etc.) è un’asserzione che cerca di permeare sempre più all’interno la nostra cultura, posso assicurare che sul finire del secolo scorso così non era; anzi, il cibo era addirittura totalmente estraneo al dibattito politico. Questo mi è sempre sembrato irragionevole, soprattutto perché la nostra stessa vita ci è data in quanto noi quotidianamente mangiamo; e dunque, più di qualsiasi altro argomento, il cibo merita di essere trattato con molta attenzione.

Ecco che, insieme all’associazione che ho fondato, siamo arrivati a sostenere che mangiare è un atto politico. Ogni singolo individuo attraverso le sue scelte alimentari non influenza solo il sistema produttivo, ma anche le società, le economie e i territori a esso connesso. Proprio per questo viene da sé che i nostri comportamenti quotidiani, per quanto ci possano sembrare abitudini di poca rilevanza, possono avere un impatto determinante per il nostro benessere, per la salute di tutti gli esseri viventi e per la prosperità della nostra Terra Madre.

Quindi, se da un lato aver portato all’interno dei palazzi del potere anche argomentazioni inerenti al cibo è stato un passo importante, ora è necessario accrescere in ognuno di noi la consapevolezza che tutti i veri cambiamenti, e dunque anche la rivoluzione ecologica di cui necessitiamo, partono dal basso e quindi dalla società civile. Dico di più: ora è necessario che le persone che hanno già sviluppato una forte sensibilità verso le tematiche ecologiche facciano gruppo e muovano azioni comuni volte a sovvertire il paradigma economico imperante, fondato su consumismo e competizione.

In che modo l’associazione Slow Food si impegna per promuovere un’alimentazione “buona, pulita e giusta per tutti”?

La principale caratteristica del nostro movimento è che ogni azione e ogni pensiero vengono promulgati nel pieno rispetto dei territori, delle società e delle culture in cui operiamo. Mi spiego meglio: Slow Food è un’associazione che dalla seconda metà degli anni Ottanta ha accettato la sfida di diffondere a livello internazionale la lotta all’omologazione e alla standardizzazione, ovvero a tutti quei processi sterili basati esclusivamente sul profitto economico che il modello capitalistico stava cercando di propagare ad un mondo sempre più globalizzato.

Il nostro impegno quindi, che mira primariamente a difendere la biodiversità in tutte le sue forme (naturale, agroalimentare, sociale, culturale), è altamente diversificato a seconda dei territori. Sarebbe da stolti concentrarsi su di un unico modello adattabile in ogni area del pianeta: questo modo di ragionare, oltre a essere una logica altamente invasiva e ai limiti del colonialismo, porterebbe esclusivamente a una perdita di biodiversità e quindi a conseguenze catastrofiche per comunità ed ecosistemi. Ecco che le iniziative e i progetti delle nostre condotte italiane non possono essere riportate nelle comunità dell’Africa subsahariana; è necessario che i promotori delle iniziative siano donne e uomini che vivono da vicino il territorio, che conoscono le esigenze delle comunità e che sappiano valorizzare al meglio le peculiarità di ogni regione.

L’educazione è il pilastro fondamentale su cui si deve basare questa rigenerazione ecologica. Una rivoluzione che non riguarda solo i sistemi produttivi e i sistemi economici, ma che deve senza ombra di dubbio rigenerare radicalmente anche il nostro modo di pensare. Allora a chi se non ai giovani, forti della loro fresca e rapida capacità di apprendimento, dobbiamo lasciare il messaggio che tutto è fortemente correlato e che la nostra salute dipende da quella del Pianeta in cui viviamo? Chi dobbiamo esortare, consci degli errori commessi finora, a sovvertire un paradigma che vede il profitto come una variabile di benessere e che non riconosce alcun valore ai beni relazionali e ai beni comuni, se non i futuri cittadini?

C’è però da fare molta attenzione, in quanto il processo educativo passa primariamente dal buon esempio. Se le generazioni più mature non sono disposte a segnare la strada a quelle che verranno, queste ultime si troveranno disorientate in un mondo che non sarà più in grado di generare salubrità e benessere per tutti. Anche in questo caso la soluzione è il dialogo. Un dialogo intergenerazionale in grado di confrontare la forza impulsiva, l’energia e la creatività dei giovani con l’esperienza, la saggezza e le suggestioni dei più “anziani”.

Inoltre sono fortemente convinto che, affinché si voglia diffondere un’educazione efficiente e strumentale all’elaborazione autonoma di pensieri critici e più consapevoli, il dialogo deve anche instaurarsi tra saperi scientifici, accademici e saperi tradizionali, popolari. Questo è il modello educativo che necessitiamo: un approccio che mi piace definire olistico, in grado di coniugare discipline umanistiche a materie scientifiche e che dal 2004, con la fondazione dell’Università di Scienze Gastronomiche, a Pollenzo cerchiamo di applicare.

Ritiene che il movimento ambientalista giovanile Fridays For Future possa portare dei risultati concreti? In che modo la voce dei giovani può essere ascoltata dalle istituzioni?

Voglio partire da una semplice riflessione: il futuro non è di certo di Carlo Petrini. Il futuro è dei giovani e se le cose non cambiano in maniera sostanziale, quando i diciottenni di oggi avranno la mia età vivranno in un mondo più che mai inquinato, poco salubre e con la fertilità dei terreni estremamente compromessa. Per non parlare degli ecosistemi marini, i quali già oggi si trovano a un punto di non ritorno. Ecco che i movimenti dei giovani sono di primaria importanza per il tessuto sociale di oggi e per il futuro di domani. Necessitiamo di questi gruppi che non si fermano solo alla propaganda o all’attivismo sterile, ma data l’energia e l’imperturbabilità propria delle giovani generazioni sono disposti a mettersi in prima linea nel concretizzare buone opere e azioni virtuose sia in campo sociale, sia in campo ambientale.

Io credo che arrivati a questo punto le istituzioni non possano far altro che ascoltare la voce dei giovani e appoggiarli nelle loro lotte. Vorrei dire a questi nuovi rappresentanti della società civile che il tempo è dalla loro parte e che tra qualche anno saranno loro a occupare ruoli istituzionali. Ma non per questo devono accomodarsi e aspettare il loro turno, anzi. Condivisione e cooperazione saranno i valori di cui avvalersi per portare avanti le loro sfide e proprio per questo tengo a dare loro due suggestioni. Le comunità del futuro dovranno per forza di cose essere basate sull’austera anarchia e sull’intelligenza affettiva.

Con austera anarchia intendo la capacità di prendere decisioni autonome, consapevoli e volte al bene comune. A differenza del rigido modello organizzativo che ha caratterizzato la nostra società da più di un secolo a questa parte, nelle comunità l’impegno e le progettualità nascono dalla cooperazione e dal confronto; sto parlando di una nuova organizzazione fluida che si modifica a seconda delle esigenze e dell’apporto che i singoli possono offrire in un dato momento.

Il tutto regge solo ed esclusivamente se alla base delle comunità c’è l’intelligenza affettiva, cioè quel sentimento che lega ogni singolo individuo a una comunità di destino con cui condivide un percorso comune e che per questo è in grado di garantire il rispetto di ogni individualità. In altre parole, l’identificazione in un progetto comune genera una spontanea rete di relazioni e di vicinanze, che non può essere scalfita dall’esterno. Un collante molto più efficace di qualsiasi adesione formale o regola imposta dall’alto.



I disastri climatici, la mancanza di risorse, la distruzione degli ecosistemi, lo sfruttamento del terreno e il watergrabbing stanno causando molte problematiche soprattutto alle persone più svantaggiate, costrette a migrare e abbandonare le proprie abitazioni. A livello globale, perché secondo lei il grido d’aiuto delle persone è poco ascoltato e messo in secondo piano? Pensa che la logica del profitto stia sovrastando la giustizia sociale?

Come dicevo, un paradigma basato solo su consumo e profitto e che non lascia spazio al valore dei beni relazionali e dei beni comuni, oltre a essere disastroso e pericoloso è anche perdente. Questo è più che mai evidente, lo stanno dimostrando gli effetti sugli ecosistemi ma anche quelli sulla nostra stessa salute: a mio modo di vedere hanno ragione quegli scienziati che sostengono che anche questa terribile pandemia è una risposta della natura al depauperamento e alla sofferenza che le stiamo causando da decenni.

Se noi non riusciamo a ricucire al più presto i forti legami con gli ecosistemi in cui viviamo, è ormai sotto gli occhi di tutti che anche a livello sociale vivremo dei grandi disagi. Risulta necessario quindi saper cogliere quanti più insegnamenti possibili da questo ultimo anno e mezzo. Proprio come l’epidemia, usciremo dalla crisi sociale – e quindi anche da quella economica – solo quando tutti saremo immunizzati da un modello che ha fatto di consumi bulimici e competitività la sua essenza. Per far sì che questo avvenga cooperazione e condivisione giocano ancora una volta un ruolo fondamentale: non possiamo più permetterci che nessuno venga lasciato indietro.

A questo proposito, concludo riprendendo dalla Laudato Si’ uno dei concetti fondamentali e allo stesso tempo più rivoluzionari dell’enciclica di Papa Francesco: “Oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri”. Ecco che in tema di esempi, in tema di educazione all’ecologia e in tema di trovare un faro da seguire in questo particolare momento storico, Bergoglio risulta essere la figura più attenta, sensibile, propositiva e influente a livello globale. Consiglio a tutti dunque di leggere le sue encicliche e di far propri gli insegnamenti rigenerativi che questo straordinario Pontefice vuole infondere per curare la nostra società.

Clicca qui per l’articolo originale.

fonte: www.italiachecambia.org



#RifiutiZeroUmbria - Sostienici nelle nostre iniziative, anche con un piccolo contributo su questo IBAN IT 44 Q 03599 01899 050188531897Grazie!

#Iscriviti QUI alla #Associazione COORDINAMENTO REGIONALE UMBRIA RIFIUTI ZERO (CRU-RZ) 


=> Seguici su Blogger 
https://twitter.com/Cru_Rz
=> Seguici su Telegram 
http://t.me/RifiutiZeroUmbria
=> Seguici su Youtube 

Report EFSA: per le associazioni ambientaliste e del biologico è un maldestro tentativo di assoluzione dei pesticidi e dell’attuale modello di agricoltura non più sostenibile




















Dichiarazione di ISDE, WWF, Legambiente, FederBio, Slow Food, Apab, Aiab, Lipu, Pro Natura

Le scorse settimane è stato pubblicato un rapporto di EFSA (l’agenzia europea che si occupa della sicurezza alimentare) dal titolo “Cumulative dietary risk characterisation of pesticides that have chronic effects on the thyroid”.

Il report, riguardante i risultati di due studi pilota retrospettivi su rischi per la salute umana da esposizione cumulativa a multiresiduo di pesticidi per via alimentare, è giunto alla rassicurante conclusione che da tale esposizione non vi sarebbero conseguenze negative per alcuni effetti cronici sulla tiroide e per due effetti acuti sul Sistema Nervoso Centrale (gli unici indagati)

Lo studio affronta un problema di cruciale importanza per la salute pubblica, data la presenza di residui di uno o più pesticidi nel 40.6% degli alimenti, come riportato da EFSA in un report del 2018, in cui però non si faceva distinzione fra multiresiduo e singolo residuo. Dagli ultimi controlli eseguiti in Italia il multiresiduo è in aumento, sono presenti più di un pesticida nel 40% dei campioni di frutta e nel 15% delle verdure, con un massimo di 9 diversi pesticidi nelle fragole e 6 nell’uva da tavola.

Le associazioni ISDE, WWF, Legambiente, FederBio, Slow Food, Apab, Aiab, Lipu e Pro Natura ritengono che questo report dell’EFSA sia solo un esercizio di tipo matematico-statistico, costruito su un modello gravemente lacunoso, in cui si è ricercato solo quello che a priori era prevedibile non trovare, senza invece indagare su ciò che la comunità scientifica da tempo segnala. Per le Associazioni il report di EFSA è un grande “castello di carta”, le cui rassicuranti conclusioni non possono essere in alcun modo condivise. Esistono, infatti, numerose criticità sia di ordine generale che metodologico bene evidenziate nel documento di analisi prodotto dalle stesse Associazioni ambientaliste: Considerazioni sul report EFSA “Cumulative dietary risk characterisation of pesticides that have chronic effects on the thyroid”.

“Il report appare, più che uno studio finalizzato a tutelare la salute pubblica, un maldestro tentativo di assoluzione dei pesticidi e dell’attuale modello agricolo dipendente dalle sostanze chimiche di sintesi – dichiarano le Associazioni – la presenza di multiresiduo negli alimenti rappresenta un problema di grande rilievo per la salute pubblica ed è fonte di preoccupazione nella comunità scientifica e nella società civile, specie per gli effetti sulle componenti più sensibili della popolazione come i bambini, anche perché si assiste ad un aumento della percentuale di campioni con multiresiduo e del numero dei pesticidi presenti”.

Le Associazioni evidenziano inoltre che “la letteratura dispone ormai di consolidate conoscenze che attestano i vantaggi per la salute derivanti da una alimentazione biologica il cui incremento comporta riduzione nella incidenza di infertilità, malformazioni, allergie, otite media, ipertensione in gravidanza, sindrome metabolica, elevato indice di massa corporea, linfomi non Hodgkin. La salute dell’uomo non si può disgiungere da quella degli ecosistemi del Pianeta e sempre più si afferma, anche nel mondo accademico un modello agricolo che rigetta l’uso della chimica e si fonda su un paradigma completamente diverso, quello dell’agricoltura biologica che è l’implementazione pratica dei principi dell’Agroecologia”

In definitiva con questo report, l’EFSA, ha perso una buona occasione per recuperare credibilità e riconquistare la fiducia dei cittadini europei, valori già pesantemente offuscati dalla vicenda glifosate e dai pesanti conflitti d’interesse che hanno caratterizzato il percorso autorizzativo dell’erbicida per il suo utilizzo fino al 2022.


CLICCA QUA PER SCARICARE IL DOCUMENTO COMPLETO 

fonte: www.isde.it


#RifiutiZeroUmbria - #DONA IL #TUO 5 X 1000 A CRURZ - Cod.Fis. 94157660542

=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz 
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria 

Carlo Petrini: il made in Italy non passi da Amazon, ma dalle botteghe

“Il cibo non è un fatto italiano, il cibo è un fatto mondiale”. Così Carlo Petrini ha ribadito nel suo intervento, pronunciato all’apertura del Salone del Gusto 2018, quanto importante sia il tema del cibo nell’epoca della globalizzazione. I nostri comportamenti alimentari sono fondamentali anche per ridurre l’effetto serra.




















Nel nostro mondo, sempre più interconnesso, bisogna varare delle nuove politiche che guardino non solo al nostro singolo Paese di appartenenza, ma anche al mondo. Per questo in Italia, ha affermato Petrini, c’e bisogno di ridurre i consumi di carne, incentivare il biologico, tutelare il suolo e l’agricoltura fermando la cementificazione selvaggia.

Un discorso, quello di Petrini, di grande visione globale, pur affrontando le criticità dell’Italia e che è risultato al pubblico come un ideale contraltare a quanto affermato poco prima dal ministro delle politiche agricole alimentari e forestali (MiPAAF) Gian Marco Centinaio. Il ministro, in una invettiva accorata, aveva ribadito la propria intenzione di preservare il made in Italy, lottando contro l’italian sounding e le contraffazioni alimentari, bloccando navi e rimandandole indietro nel caso di trasporto di prodotti non rispondenti alle normative e ai gusti degli italiani.
Una tutela strenua della nostra italianità contro ogni ingerenza estera, una versione del Salvini pensiero declinato sul cibo insomma. Una tutela che, secondo Centinaio, passerà anche attraverso accordi con Amazon e Alibaba, i due colossi del commercio elettronico più noti e usati al mondo. Come ci si sarebbe potuto aspettare proprio questo passaggio di Centinaio ha trovato una replica puntuale da Carlin Petrini.
Se per la maggior parte del suo intervento l’ideatore del movimento Slow Food aveva solo proposto una visione alternativa a quanto detto da Centinaio, senza mai citarlo direttamente, nel finale del suo discorso ha apostrofato il ministro, in modo ironico, affermando che fare accordi con Amazon e Alibaba per preservare il made in Italy equivale a stringere accordi con dei nemici, delle multinazionali che poco o nulla hanno a che fare con lo slow food e con la sostenibilità ambientale. Piuttosto, ha affermato Petrini, bisognerebbe incentivare il ritorno alle botteghe, dove si possano consumare i prodotti del territorio, con ritmi e sapori che nulla hanno a che vedere con la distribuzione tramite e-commerce globalizzati.
fonte: www.greenstyle.it

Torino, al via il primo corso di cucina antispreco per richiedenti asilo che trasforma il cibo recuperato a Porta Palazzo in piatti gourmet


Il 27 giugno a Torino nelle Cucine condivise di Edit parte il primo corso di cucina antispreco che vedrà lo chef Paolo Ribotto della Condotta Slow Food di Torino insegnare agli Ecomori come trasformare il cibo recuperato al mercato di Porta Palazzo
















Dal recupero cibo alla cucina antipreco il passo è breve ma se a farlo sono Slow Food, Edit e un gruppo di richiedenti asilo, il risultato non è un mero esercizio di abilità ai fornelli ma un vero e proprio manifesto sul cibo tra sostenibilità ambientale e solidarietà.





















Il 27 giugno prende il via il corso di cucina antipreco presso le Cucine Condivise di Edit a Torino ma non sarà un corso di cucina come gli altri. Infatti a cimentarsi in una insolita brigata di cucina saranno gli Ecomori che, grazie alla sapiente ed esperta guida dello chef Paolo Ribotto della Condotta Slow Food di Torino impareranno a trasformare il cibo recuperato al mercato in ottime pietanze. Le abilità dello chef e degli alunni saranno messe a dura prova dal fatto che gli ingredienti si conosceranno solo poco prima di ogni incontro. Infatti alla base delle ricette ci sarà il cibo recuperato al mercato di Porta Palazzo dagli Ecomori che tutti i giorni, grazie all’innovativo progetto del Comune di Torino, Novamont e Eco dalle Città recuperano e redistribuiscono il cibo ai bisognosi che ogni giorno affollano a fine mercato i banchi del settore ortofrutta in cerca di cibo.

Dall’antipasto al dolce, in quattro incontri lo chef Ribotto insegnerà agli Ecomori come ridare dignità al cibo recuperato, in puro stile di Slow Food e della Condotta di Torino: buono, pulito e giusto.

 

Non è la prima volta che la cucina antipresco sale in cattedra all’interno dell’incubatore gastronomico dell’Edit. Dopo le due Cene Accademiche sull’Antispreco preparate da chef stellati in occasione del Bocuse d’Or, questa volta sarà lo chef Ribotto a portare nelle Cucine condivise quel cibo che a causa del suo aspetto viene gettato tra i rifiuti ma che in realtà, sia dal punto di vista organolettico che nutrizionale, non ha niente da invidiare a quello venduto nei migliori banchi d’ortofrutta.

Sarà una vera e propria sfida che, attraverso un corso di cucina antispreco e l’intuizione della Condotta Slow Food di Torino, unirà sostenibilità ambientale e solidarietà attraverso il cibo mescolando la cultura gastronomica piemontese con quelle dei vari paesi rappresentati dai richiedenti asilo.

fonte: www.ecodallecitta.it

Slow Food lancia Menu for Change la prima campagna internazionale sul rapporto tra cambiamento climatico e cibo

Petrini: "A chi si domanda perché posso rispondere questo: è incosciente chi si bea della qualità alimentare di un prodotto senza chiedersi se a monte c’è distruzione dell’ambiente e sfruttamento del lavoro" 
















La domenica di Cheese fa da cornice al lancio della campagna Menu for Change di Slow Food. È la prima volta che una campagna di comunicazione e raccolta fondi internazionale evidenzia la relazione tra produzione alimentare e clima che cambia, annuncia il fondatore di Slow Food Carlo Petrini: «A chi si domanda perché un’associazione che si occupa di cultura alimentare dovrebbe promuovere una campagna sulle questioni del cambiamento climatico, posso rispondere questo: è incosciente chi si bea della qualità alimentare di un prodotto senza chiedersi se a monte c’è distruzione dell’ambiente e sfruttamento del lavoro».
Tutti noi, continua Petrini, siamo responsabili di quello che mangiamo e anche di quello che coltiviamo: «Il più grande terreno da coltivare è la lotta allo spreco. Tutte le istituzioni internazionali ripetono che siccome nel 2050 saremo 9 miliardi e mezzo “bisogna produrre più cibo”, ma già oggi abbiamo cibo per 12 miliardi di viventi. Significa che un’ampia parte di quello che viene raccolto, trasformato e venduto finisce nella pattumiera».
C’è un intero paradigma agricolo e agroalimentare da cambiare, mentre la produzione va concentrandosi nelle mani di pochi. Un esempio drammatico viene dalla filiera del pomodoro: «Tonnellate di pomodori arrivano in Italia dalla Cina, vengono lavorati e colonizzano i Paesi africani, invasi da scatole di concentrato prodotto da aziende con nomi come Gino e la bandiera tricolore sul barattolo. Questi marchi simil-italiani stanno distruggendo le produzioni agricole africane perché hanno prezzi perfino più bassi delle loro. Il risultato è che i giovani abbandonano la terra e vanno a lavorare come schiavi nei campi del Sud Italia. Siamo tutti chiamati in causa, le piccole azioni moltiplicate per milioni di persone possono cambiare il mondo».
A questi paradossi del mercato si aggiunge l’impatto devastante del cambiamento climatico. A Cheese lo raccontano le testimonianze dirette dei più colpiti, gli agricoltori e allevatori del Sud del mondo. Tumal Orto Galibe, pastore del nord del Kenya, racconta che negli ultimi quindici anni «perfino l’aspettativa di vita si è ridotta. Nelle comunità dei pastori abbiamo visto un aumento delle patologie. Ed è sempre più difficile adattarsi a un clima che cambia nell’arco di mesi mentre prima cambiava nei decenni: nell’aprile di quest’anno, in una sola notte di piogge improvvise e torrenziali ho perso più di 230 capi di bestiame».
Un produttore di formaggi della delegazione cubana interviene per spiegare che l’isola ha già ceduto terreno al mare ed è stata battuta di recente da cinque diversi uragani, la cui potenza è correlata alla crescente temperatura delle acque. L’uragano Irma possedeva una potenza pari a 7mila miliardi di watt (circa 2 volte le bombe usate durante la guerra mondiale) e ha lasciato il 40% della popolazione priva di elettricità, danneggiando la parte più turistica del Paese.
Non si tratta certo di impressioni individuali, perché ad avallarle ci sono i dati scientifici: «Siamo in chiusura della seconda estate più calda e della quarta più secca dal 1753, in Italia e in buona parte dell’Europa mediterranea» ricorda il climatologo Luca Mercalli.
Dopo il record del 2003, tutte le estati sono state più calde della media. Con conseguenze che l’agricoltura e l’alimentazione pagano fino in fondo: «Un recente studio francese ha esaminato gli effetti del cambiamento climatico sulle razze animali e i formaggi. Anche in alta montagna l’aumento delle temperature sta cambiando il modo di condurre gli alpeggi e i malgari sono costretti a tornare in pianura anche con un mese di anticipo. Siccità e parassiti arrivano dove finora non si erano mai visti».
Finora questi sconvolgimenti hanno avuto un impatto disomogeneo: alcune aree dell’emisfero nord ne hanno addirittura beneficiato. Ma non per molto ancora, affermano i ricercatori della Società Meteorologica Italiana Guglielmo Ricciardi e Alessandra Buffa: «Dal 2030 la riduzione dei raccolti vedrà un aumento esponenziale dei danni rispetto ai benefici».
Il settore agricolo è tra i più impattanti in termini di gas serra: con il 21% di emissioni è secondo solo alle attività legate all’energia (37%). La fermentazione enterica degli allevamenti industriali copre il 70% di questo dato.

«Non ci dobbiamo però concentrare solo sulla valutazione delle attività principali, – avvertono i meteorologi – ma valutare le attività di preproduzione (mangimi e concimi) e di postproduzione (trasporto, stoccaggio, packaging). Le emissioni di CO2, poi, non sono l’unico parametro da considerare: vanno tenuti in conto anche il contesto geografico di produzione, la qualità dei suoli e il loro livello di tossicità e l’uso in quanto risorsa scarsa, l’utilizzo di acqua e di biosfera (water footprint e ecological footprint)».

Sebbene anche la Fao sottolinei la necessità di andare verso un’indagine multiprospettica, che tenga conto degli influssi del cambiamento climatico su sicurezza alimentare, nutrizione e perdita di biodiversità, siamo ancora lontani dall’avere una visione complessiva della filiera.
Così come troppo poco sappiamo del funzionamento globale degli oceani, conferma il biologo marino Silvio Greco: «Mentre in terra il cambiamento climatico offre diversi segnali, nelle acque questo non avviene. Sappiamo per certo solo che l’oceano fa qualcosa di straordinario: ci dà il 50% del nostro respiro, immagazzinando CO2. Eppure noi lo stiamo mettendo in crisi».


Quest’anno i biologi australiani hanno decretato la morte della Grande barriera corallina, il reef più vasto del pianeta con oltre 2300 km di coralli ormai quasi interamente sbiancati. Ma non va meglio in acque a noi più familiari: «Il Mediterraneo è ancora più compromesso. Al problema dell’innalzamento dei mari qui si sommano la forte salinità di un ambiente chiuso, l’acidificazione, l’arrivo di 300 specie aliene invasive».

Il Mare Nostrum conserva il 25% della biodiversità marina mondiale e ospita il 30% dei traffici commerciali, ma ora conta anche 1 tonnellata di plastica ogni 3 tonnellate di pesce.
Di fronte a tutto questo, conclude Greco, «non possiamo fare come Ulisse davanti alle sirene: la comunità scientifica è costretta a sentire il grido della Terra e a dire le cose come stanno».
Ma anche noi possiamo fare molto: scegliere cosa mettere nel piatto è un atto politico.  


fonte: www.ecodallecitta.it

Zitti zitti, arriva il Ceta

Quella di ieri è stata una giornata intensa per i movimenti e i cittadini che si oppongono al Ceta, il trattato di libero scambio tra Unione Europea e Canada “gemello” del più noto Partenariato transatlantico (Ttip).
Siamo infatti alle battute finali di un percorso che, dopo l’approvazione in sede europea nell’ottobre scorso, deve ora affrontare i processi di ratifica nei parlamenti nazionali. In Italia il ddl di ratifica è stato approvato a fine maggio dal governo e verrà votato domani in Senato.



















Tutto questo – è triste ricordarlo – avviene in tempi accelerati, senza un vero confronto politico e nel più totale silenzio dei mezzi di informazione. Alzi la mano infatti chi può dire di aver letto una riga di giornale o di aver ascoltato un servizio televisivo dedicato al Ceta in questi ultimi giorni.
Spetta così alla società civile sopperire a queste carenze e lo si sta facendo concentrando la pressione proprio su quel ramo del Parlamento che è chiamato ad esprimersi a breve.
Da una parte abbiamo visto la mobilitazione pubblica, indetta dalla campagna Stop Ttip Italia con il tweetstorm e l’iniziativa “adotta un senatore”, dall’altra l’incontro tra il presidente del Senato Pietro Grasso – già destinatario di una lettera aperta sul tema – e i rappresentanti di undici associazioni (Slow Food, Coldiretti, Cgil, Arci, Acli Terra, Legambiente, Fairwatch, Greenpeace e le principali organizzazioni dei consumatori) che hanno consegnato alla seconda carica dello Stato il documento “Alla ricerca di un commercio libero e giusto (Free and fair) – Dal sovranismo economico ad un percorso di reciprocità”.
Le istanze portate avanti da sindacati, ambientalisti e movimenti a difesa dei consumatori hanno trovato attenzione e riscontro nelle parole del presidente Grasso, il quale si è detto consapevole dell’«impatto di grande rilievo sull’ambiente e sull’economia dei Paesi coinvolti» esercitato dagli accordi commerciali e ha dichiarato: «Trovo quindi comprensibile l’appello ad un esame attento e scrupoloso delle norme all’attenzione delle aule parlamentari e sono sicuro che esso non resterà inascoltato».
Lo stesso documento è stato illustrato e consegnato durante l’audizione informale con i senatori della 3° Commissione Permanente del Senato della Repubblica (Affari Esteri, Emigrazione), impegnati nell’esame del disegno di legge di ratifica (ddl 2849).
In questa occasione la vicepresidente nazionale di Slow Food Italia, Cinzia Scaffidi, ha ribadito le ragioni dell’opposizione all’accordo, motivate in particolare sotto due profili: in primo luogo la mancata salvaguardia di tante (troppe) produzioni agroalimentari di qualità che non trovano adeguata tutela nel testo del Ceta, in secondo luogo la concreta eventualità che il trattato indebolisca quel principio di precauzione che è un cardine fondamentale nell’intera legislazione comunitaria.
Le norme europee stabiliscono infatti che, ove vi siano minacce di danno serio o irreversibile per l’ambiente o la salute umana, l’assenza di certezze scientifiche non debba essere usata come pretesto per impedire misure di prevenzione. Il meccanismo è stato applicato ad esempio per supportare il divieto di somministrazione di ormoni nella carne e scongiurare l’avvio su larga scala di colture Ogm: il Canada al contrario non lo riconosce e, al pari degli Stati Uniti, punta ad “ammorbidirne” gli effetti in Europa.
Sono tante le questioni che questo gigantesco ibrido politico lascia aperto, a dispetto della sua mole – il Ceta è infatti un corpo di regole composto da 1057 pagine e lungo ben 7900 metri lineari. Dentro  c’è  un  po’  di  tutto:  dagli  investimenti  alla finanza, dalle professioni ai brevetti.




















C’è però soprattutto un tentativo di stravolgere le regole nell’agricoltura attivando, con l’abbattimento istantaneo dei dazi, megaflussi di importazione competitiva che la nostra agricoltura non è in grado di reggere. Ma anche, come si diceva, introducendo specifiche che creano paradossali effetti di protezionismo a tutela non delle eccellenze agroalimentari, ma delle loro versioni “taroccate”.
Avete presente il famoso Parmesan? Bene, questa denominazione continuerà a esistere in Canada perché già da tempo registrata nel Paese. Lo stesso accadrà per i formaggi “Asiago o Fontina style” e addirittura per un prosciutto canadese denominato “Parma”.
Le indicazioni geografiche riconosciute dal Ceta sono poche (appena 41 su 288) e chi è rimasto fuori dall’elenco non avrà la possibilità di entrarvi nemmeno in futuro, dal momento che l’aggiornamento delle liste verrà ammesso solo per sottrazione, o per aggiungere nuovi prodotti IG riconosciuti da ora in avanti.
Se questo, come si vede, preclude lo sviluppo su un grande mercato estero dei prodotti di qualità che hanno avuto la sfortuna di non rientrare tra “gli eletti”, c’è da aggiungere che anche la tutela delle IG ammesse sarà soggetta a varie – e non sempre chiare – eccezioni e limitazioni















Il caso della Cmb Partner: 50mila tonnellate di grano canadese sequestrate a Bari
Chiudiamo con una nota di merito, dedicata ai pochi organi di stampa che hanno riportato la notizia del sequestro di un carico da 50mila tonnellate di grano canadese nel porto di Bari, avvenuto l’8 giugno.
Nelle stive della «Cmb Partner» i Carabinieri forestali, dopo le prime analisi sui campioni, avrebbero rilevato la presenza di sostanze nocive in percentuali superiori ai limiti consentiti dalla legge. Il cargo proveniente da Vancouver trasporta un carico che avrebbe richiesto oltre 1600 autoarticolati per essere sbarcato e indirizzato alle più svariate destinazioni.
Questo episodio di cronaca può forse servire a farci riflettere ulteriormente: sono 2,3 milioni le tonnellate di grano duro importate lo scorso anno dall’estero. Metà di queste giungono dal Canada, che ha incrementato di un altro 15% i quantitativi nel 2017.
I campioni risultati irregolari per un contenuto fuori legge di pesticidi sono pari allo 0,8% nel caso di cereali stranieri mentre la percentuale scende ad appena lo 0,3% nel caso di quelli di produzione nazionale.
Peraltro in alcuni Paesi terzi vengono utilizzati principi attivi vietati in Italia: proprio in Canada, ad esempio, si fa uso intensivo del glifosato nella fase di pre-raccolta, pratica che il Ministero della Salute ha vietato con un decreto in vigore dal 22 agosto 2016.
Ce n’è abbastanza insomma per continuare a tenere alta l’attenzione, in tutte le sedi possibili. Ed è quello che, da parte nostra, vi promettiamo di fare.

Andrea Cascioli
a.cascioli@slowfood.it

fonte: www.slowfood.it

Qualità della vita ed economia circolare

Quest’anno la seconda edizione del Festival sulla Qualità della Vita, ospiterà un importante dibattito pubblico tra le principali associazioni nazionali impegnate nella salvaguardia e tutela ambientale del nostro territorio, in tre settori fondamentali: il trattamento dei rifiuti, con Massimo Piras, Presidente del Movimento Legge Rifiuti Zero per l’economia circolare, Cinzia Scaffidi, vicepresidente Slow Food Italia e Direttrice del centro studi dell’associazione, e Luca Fioretti, del direttivo nazionale dell’Associazione Comuni Virtuosi.
Sarà proprio l’economia circolare, quest’anno tema principale del festival insieme all’alimentazione, ad animare il confronto. Questo approccio è considerato da molti chiave per il rilancio dell’economia europea, a seguito dell’approvazione del Pacchetto sull’economia circolare da parte della Commissione Juncker nel dicembre del 2015.
In breve, l’economia circolare è il contrario dell’economia lineare, che tratta la materia prima trasformata ed utilizzata dal consumatore, fino alla fine del suo “ciclo di vita” come rifiuto e quindi concettualmente come qualcosa di non più utilizzabile.
Si tratta di prendere la linea retta – economia lineare – sottesa all’attuale sistema economico, che preleva, trasforma, vende e butta, indifferente alle conseguenze – cambiamenti climatici, difficoltà di approvvigionamento delle materie prime, inquinamento e distruzione della biodiversità – e piegarla fino a trasformarla in un cerchio.
In questo modo, i prodotti vengono progettati per durare ed essere smontati facilmente, i rifiuti vengono valorizzati e trasformati in risorse con cui prolungare all’infinito il ciclo di vita dei beni.
Nel nuovo paradigma, più vicino al buonsenso e rispettoso della natura, rientrano ambiti cognitivi molto diversi come la bioeconomia, la sharing economy, il remanufacturing, la biomimesi o i sistemi di gestione avanzata dei rifiuti.
Ad aprire l’incontro Massimo Piras, Presidente del movimento legge “Rifiuti Zero” che illustrerà non solo le linee guida del pacchetto europeo di recente approvazione, ma soprattutto come possiamo concretamente metterle in pratica nella vita di tutti i giorni. Inoltre verrà presentata una proposta di delibera che tutti i comuni possono adottare per raggiungere l’obiettivo ambizioso, ma possibile della riduzione complessiva dei rifiuti conferiti.
Interverrà all’incontro anche Massimo Ranieri, Presidente della società Ecologica Lanciano, per mostrare i risultati di una gestione corretta e, soprattutto, partecipata, del trattamento dei rifiuti.
A Lanciano infatti in un anno la raccolta differenziata ha raggiunto quote apprezzabili, sfiorando l’80% considerata la base del 28% ereditata da una gestione privata. Tutto ciò a dimostrazione che l’alternativa alla discarica e all’incenerimento dei rifiuti è la differenziata spinta.
Obiettivo primario sarà fornire uno stimolo alle amministrazioni comunali abruzzesi – invitate all’incontro – per rimettere al centro dell’agenda politica la questione rifiuti, con l’intervento dell’ex Sindaco di Monsano Luca Fioretti che racconterà al pubblico l’esperienza dell’associazione Comuni Virtuosi, rete di Enti locali, che opera a favore di una armoniosa e sostenibile gestione dei propri Territori, diffondendo verso i cittadini nuove consapevolezze e stili di vita all’insegna della sostenibilità, di buone pratiche attraverso l’attuazione di progetti concreti ed economicamente vantaggiosi, sulla gestione del territorio, sull’efficienza e il risparmio energetico, nuovi stili di vita all’insegna della partecipazione attiva dei cittadini.
Fondamentale corollario di Cinzia Scaffidi sull’educazione alimentare, l’alimentazione come “atto politico” che influenza non solo la nostra salute, ma oggi anche il consumo di suolo, con le coltivazioni intensive che distruggono la biodiversità. Prevista inoltre per domenica 9 ottobre alle 17.00 la presentazione del suo ultimo libro “Mangia come parli”.
L’incontro si terrà nella giornata centrale del festival, all’AURUM sabato 8 ottobre alle ore 18.00, in sala d’Annunzio, moderato da Massimo Melizzi, Presidente di Pescara Punto Zero, associazione organizzatrice del festival e referente del movimento legge rifiuti Zero in Abruzzo.

fonte: http://comunivirtuosi.org/


Glifosato, giro di vite sull’impiego dell’erbicida

glifosato
La (buona) notizia è passata sotto silenzio in questi caldi giorni di vacanze, ma merita darne conto: a partire dal 22 agosto, infatti, il ministero della Salute ha posto una serie di paletti all’immissione in commercio e all’impiego di prodotti fitosanitari contenenti glifosato.
All’erbicida più famoso del mondo, attorno alla cui tossicità si era scatenata nei mesi scorsi una polemica senza fine, ora si imporranno diverse limitazioni. Perlomeno in Italia, dove martedì scorso è stato emanato il decreto dirigenziale che impone una serie di modifiche alle condizioni di utilizzo della sostanza (potete consultarlo per intero a questo link).
In particolare, il governo impone il divieto di irrorare glifosato nelle aree frequentate dalla popolazione o da “gruppi vulnerabili”: nell’elenco sono compresi parchi, giardini, campi sportivi e aree ricreative, cortili e aree verdi all’interno dei plessi scolastici, aree gioco per bambini e aree adiacenti alle strutture sanitarie.
La revoca si estende anche all’impiego di glifosato nelle coltivazioni in fase di pre-raccolta, al solo scopo di ottimizzare il raccolto o la trebbiatura. Infine, c’è il divieto di uso non agricolo sui suoli contenenti una percentuale di sabbia superiore all’80%, pensato per proteggere le acque sotterranee dalla contaminazione.
A spingere il legislatore italiano ad adottare la misura è il nuovo regolamento di esecuzione 2016/1313 emanato dalla Commissione europea lo scorso 1 agosto: il regolamento impone in particolare che gli Stati membri incoraggino lo sviluppo e l’introduzione della difesa integrata e di approcci o tecniche alternativi per ridurre la dipendenza dall’utilizzo di pesticidi.
L’obiettivo principale è fare in modo che i prodotti fitosanitari a base di glifosate non contengano ammina di sego polietossilata. Secondo la valutazione tossicologica trasmetta dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare, infatti, la tossicità del glifosate «deriva soprattutto dalla componente ammina di sego polietossilata nella formulazione».
Sembrava ormai che la querelle sull’erbicida fosse giunta a un punto morto, dopo la pilatesca decisione della Commissione europea di rinnovarne l’autorizzazione al commercio per 18 mesi, in attesa di nuovi studi sulla sua sicurezza.
Anche se la questione degli effetti cancerogeni sugli esseri umani resta dibattuta, a dispetto di certi tentativi di tirare per la giacca gli scienziati di Fao e Oms, un primo importante passo è stato compiuto: lo scorso giugno la piccola Malta era stata il primo Stato europeo a bandire del tutto i prodotti contenenti glifosato, compreso il diffusissimo Roundup della Monsanto.
Con la nuova regolamentazione l’Italia si pone all’avanguardia in fatto di sicurezza alimentare e dimostra di aver recepito almeno in parte le richieste avanzate in questi mesi da una vasta area della società civile. Ora, aspettando il verdetto definitivo (?) dell’Agenzia europea delle sostanze chimiche, resta comunque da capire cosa succederà alle importazioni dai Paesi che fanno un massiccio uso di glifosato in pre-raccolta: il Canada, ad esempio, dove la tecnica del “pre-harvest” viene messa in atto per accelerare la maturazione del grano. La speranza è che le norme non vengano aggirate con espedienti più o meno leciti, come già accade con gli Ogm.

Andrea Cascioli
a.cascioli@slowfood.it

fonte: http://www.slowfood.it

Quando l’Orto in Condotta diventa Solidale


Dopo il racconto del progetto di Orto Solidale realizzato dalla Condotta Slow Food Gorgonzola – Martesana, continuiamo a sviluppare il tema grazie all’incontro con Alessio Iori, fiduciario della Condotta Slow Food Basso Mantovano la quale gestisce una rete di orti dal 2009. Questa rete ha ispirato, tra gli altri, l’orto di Gorgonzola e quello di Legnano realizzando quel virtuoso circolo di buone pratiche tipico della rete Slow Food.

Alessio, com’è nato il progetto di orti solidali nel Basso Mantovano?

L’orto solidale nasce come naturale evoluzione del progetto Slow Food Orto in Condotta realizzato a partire dal 2006 nella scuola Secondaria di Primo Grado di Pegognaga. Tra le altre cose, era previsto un censimento degli orti domestici di questo comune che mise in evidenza come l’orticoltura fosse una pratica ancora ben radicata nel paese e nel circondario.
La nostra rete di orti solidali del Basso Mantovano in questi anni è parecchio cresciuta: attualmente ci sono 5 orti in 5 paesi diversi, di cui 4 sviluppati in collaborazione con le amministrazioni comunali (a Moglia, Pieve di Coriano, Suzzara, San Benedetto Po) oltre a Pegognaga, dove l’orto è ospite di un agriturismo sociale.

L’orto di cui sei responsabile a San Benedetto Po si è attrezzato per accogliere disabilità mentali e fisiche e da quest’anno accoglie anche dei richiedenti asilo. Come funzionano queste attività?

L’anno scorso ci siamo accorti che una ragazza con disabilità fisiche che già partecipava alle attività in orto non aveva facile accesso a queste. Quindi ci siamo attivati recuperando materiali in disuso e con l’aiuto di alcuni amici muratori abbiamo elevato il livello del terreno in modo da rendere più semplice la lavorazione della terra, la cura degli ortaggi e la loro raccolta. Abbiamo poi aperto un’altra entrata più comoda: con queste semplici mosse l’orto d’ora in avanti non avrà barriere.
Abbiamo poi voluto attivare collaborazioni ad hoc con realtà locali a noi affini strutturando le attività per ragazzi diversamente abili. Oggi sono coinvolti in un progetto di più ampio respiro grazie alla collaborazione con il Circolo Arci Primo Maggio di San Benedetto Po: i ragazzi prestano turni di servizio insieme a persone normodotate e spesso dopo aver raccolto le verdure ci spostiamo tutti in cucina per preparare i piatti che degusteremo alla sera tutti assieme.
Per quanto riguarda invece i richiedenti asilo, grazie alla collaborazione con la cooperativa sociale Olinda da quest’anno abbiamo cominciato a coinvolgere nelle attività orticole un gruppo di africani. Inizialmente partecipavano semplicemente ai lavori dell’orto, con il passare del tempo il gruppo è cresciuto in numero e le attività si sono ampliate e hanno quindi avuto accesso a un corso base d’italiano e a lezioni di musica. Siamo sempre alla ricerca di sementi africane in modo da permettere a loro di ritrovare i gusti della loro terra e a noi di scoprire nuovi sapori! Per questo ci siamo appoggiati alla rete di Terra Madre e al progetto dei 10.000 orti in Africa. A breve assieme a loro cucineremo anche il cheb ou jen, piatto a base di riso, verdure e spezie… l’orto è anche questo: condivisione e contaminazione di sapori per avvicinare persone e culture. Mai come ora ne abbiamo così bisogno.

Puoi citarci qualche esperienza significativa che siete riusciti a realizzare dentro e fuori la rete slow?

Sono veramente tante le iniziative e gli scambi che possono nascere grazie ad un orto solidale… Tra le più significative citerei, ad esempio, la località di Gangi nella Condotta Slow Food delle Alte Madonie, dove abbiamo messo a confronto la nostra esperienza con i due orti sociali presenti nei comuni siciliani. Durante questo incontro è nato un dibattito veramente interessante con alcuni agricoltori custodi della zona e ci siamo da subito attivati nello scambio di sementi: “zucchine da tenerume” in cambio di “zucca cappello del prete mantovana”! Ne è nata anche una buona amicizia.
Abbiamo anche occasione di collaborare con il mondo della scuola. A Ustica, infatti, assieme a Giancarlo, responsabile del giardino locale, e ai produttori della Lenticchia, Presidio Slow Food, abbiamo realizzato un laboratorio educativo per i bambini dell’isola, mentre l’orto solidale di San Benedetto Po è meta prediletta della gita scolastica annuale delle Scuole dell’Infanzia e Primaria locali. Infine, sono parecchie anche le iniziative di stampo sociale, a Pegognaga vengono ospitate alcune famiglie con disagi sociali e l’orto di Suzzara collabora con la Caritas aiutando circa 80 famiglie indigenti.

 

La Condotta Slow Food di Gorgonzola-Martesana ci ha raccontato che il vostro progetto è stato fondamentale per sviluppare il loro orto solidale. L’esperienza di scambio, tra l’altro, è servita anche per gemellare le due Condotte. Qual è il valore aggiunto della rete Slow Food per un progetto come questo?

L’orto solidale instaura relazioni sociali sul territorio connettendo e fidelizzando la rete di soci Slow Food già esistente. Dunque si tratta di partire con un modello di orto attingendo da un network di persone già sensibili a questo tema e che attraverso il progetto diventa ancora più “attivo” e non solo semplice fruitore di cene, laboratori o eventi.
Potenzialmente il progetto può avere sviluppi enormi su tutto il territorio poiché, essendo semplice da attivare, potrebbe essere esportato come modello di sostenibilità alimentare in tutte le Condotte Slow Food e non solo.

Quante persone sono coinvolte nel progetto di orto solidale e come contribuiscono?

Il numero di partecipanti per orto oscilla mediamente tra i 6 e i 10 ortolani per realtà, in stretta correlazione alla superficie dell’orto. Come citato nel nostro regolamento, è previsto il versamento di una quota annuale per il mantenimento e la coltivazione dell’orto, in cambio tutti i soci hanno diritto a una ripartizione equa e solidale dei suoi frutti.
La Condotta Slow Food Basso Mantovano ha supportato l’iniziativa stanziando una quota per sostenere l’avvio del progetto e ricerca possibili sponsor o donazioni per il proseguimento delle attività. I soci dell’orto solidale sono anche soci Slow Food proprio perché il progetto nasce come comunitario, legandosi al concetto della Comunità dell’apprendimento, ovvero un network di persone che favoriscono la conservazione e il rafforzamento di una produzione di cibo sostenibile, attraverso l’educazione della società civile e grazie allo strumento dell’orto. Ogni socio dunque è coinvolto in un percorso più ampio che non mira alla sola coltivazione e raccolta dei prodotti, ma è tenuto a partecipare a un corso di formazione, all’assemblea annuale e alle riunioni organizzative.
Una volta impiantato l’orto e deciso il programma colturale, viene tenuto un registro di bordo dell’orto e periodicamente vengono pubblicati aggiornamenti informativi pubblici disponibili sul sito dell’orto. È prevista inoltre la figura dell’Ortolano Custode con l’obiettivo di garantire la continuità di coltivazione nell’orto. L’Ortolano custode non versa la quota annuale e gode degli stessi diritti degli altri soci. Infine tra i soci viene nominato un responsabile tecnico-coordinatore e uno contabile.

Credi che l’orto possa contribuire a concretizzare i valori e le buone pratiche di Slow Food?

Ne sono assolutamente convinto poiché l’orto solidale nasce proprio dai valori Slow Food di “buono, pulito e giusto” e sottolineerei che questo vale “per tutti”. La persona che si approccia all’orticoltura acquisisce un maggior senso di consapevolezza alimentare poiché con le proprie mani ricava il proprio cibo quotidiano.
Per saperne di più:
FB Rete degli Orti Solidali del Basso Mantovano
www.ortosolidale.it
info@ortosolidale.it

Fuori il glifosato dall’Europa

glifosato
Il glifosato è l’erbicida più utilizzato al mondo: secondo la Transaprency Market Research nel 2012 ne sono state vendute  718.600 tonnellate. In Italia è uno dei prodotti fitosanitari più diffusi: è il componente di circa l’80% degli erbicidi venduti. Purtroppo nel nostro Paese il monitoraggio delle presenza del glifosato nelle acque al momento è effettutato solo in Lombardia, dove la sostanza è presente nel 31,8% dei punti di osservazione delle acque superficiali e il suo metabolita (Ampa) nel 56,56% dei casi. Considerate che il glifosato e l’Ampa sono tra le sostanze che più determinano il superamento degli standard di qualità ambientare (Sqa) nelle acque superficiali. 
Fra i capi di imputazione prodotti contro il glifosato da studi differenti ci sarebbero: disturbi al sistema ormonale e ai batteri intestinali benefici, danni al Dna, tossicità riproduttiva e dello sviluppo, malformazioni, cancro e neurotossicità. È lecito chiedersi come il portavoce della compagnia incriminata possa bellamente liquidare le conclusioni di tanti studiosi, alludendo alla “salubrità” del prodotto.
E ancora, in questi giorni leggiamo nei principali quotidiani nazionali che il glifosato sta arrivando nei nostri piatti. È stato da poco rinvenuto in 14 diversi tipi di birre tedesche (in quantità tali da non mettere a rischio la salute, ma in ogni caso c’erano), e (riporta il Corriere della sera di oggi) ora anche nel cavolfiore, nelle lenticchie, nei porri, nei fichi, nei pompelmi, nelle patate, nel frumento e nell’avena. L’autorizzazione per l’uso di questo erbicida è scaduta il 31 dicembre scorso. Ora l’Ue deve decidere se rinnovarlo per atri 15 anni. Noi speriamo di no e vi invitiamo a firmare la petizione che chiede all’Europa di vietarne l’uso.

Per firmare la petizione che chiede il bando del glifosato clicca qui

E intanto leggete anche l’editoriale di Carlo Petrini che ci ben spiega perché dovremmo liberarci da questo prodotto.
Nel 1962 usciva negli Stati Uniti un libro intitolato Primavera silenziosa. L’autrice di quel testo, che rimane tuttora uno dei testi fondamentali per il movimento ambientalista, si chiamava Rachel Carson e aveva impiegato quattro anni del suo lavoro per esplorare gli impatti ambientali e sulla salute umana dell’uso dei pesticidi in agricoltura. Tra questi, in particolare, c’era il Ddt, prodotto da un’azienda di St. Louis, la Monsanto, e usato per combattere la zanzara anofele, responsabile della diffusione della malaria. Inizialmente si credeva che il Ddt non avesse conseguenze sulla salute umana, tant’è che il suo inventore, il chimico svizzero Paul Hermann Müller, nel 1948 fu insignito del premio Nobel in fisiologia e medicina. Se dieci anni dopo si arrivò a vietarlo negli Stati Uniti fu anche grazie al libro di Carson che, nonostante la violenta campagna messa in atto contro di lei dall’industria chimica – Monsanto, Velsicol e American Cyanamid in testa – supportata dal Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti, ebbe il coraggio di sostenere le proprie opinioni.
Parlare di questa vicenda ha senso ancora oggi perché come un disco rotto sembra ripetersi, benché i nomi cambino, almeno in parte. Monsanto non produce più il Ddt, né tantomeno i Pcb (policlorobifenili), che hanno vissuto una vicenda analoga di approvazioni e successivi divieti. Dal 1974, però, il suo prodotto di punta è diventato il glifosato, l’erbicida più efficace e venduto al mondo, commercializzato con il nome di Roundup – le cui vendite viaggiano di pari passo con quelle delle sementi geneticamente modificate Roundup Ready, ossia predisposte a tollerare questo erbicida. Da quando il brevetto di Monsanto è scaduto, un’inchiesta di Die Zeit mostra che, soltanto in Germania, sono approdati sul mercato ben ottanta prodotti nella cui composizione rientra il glifosato. Anche in Italia, il glisofato è un dei prodotti fitosanitari più venduti.
Come per il Ddt di un tempo, è attualmente in corso un acceso dibattito sull’innocuità o pericolosità di questa sostanza le cui tracce sono state individuate negli ortaggi e nei frutti, in prodotti a base di cereali, nel mais e nella soia Gm che compongono i mangimi animali… Lo scorso marzo l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) ha classificato il glifosato come “probabilmente cancerogeno”. Poco tempo dopo sono arrivati due pareri di segno opposto e contrario: l’Istituto federale tedesco per la valutazione del rischio (Bfr) ha valutato il glifosato come “non cancerogeno” e l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa), lo ha classificato come “probabilmente non cancerogeno”. Come riferisce Die Zeit, nel formulare il proprio parere, si sono ampiamente fondati su studi non pubblicati, commissionati dalle stesse aziende produttrici di fitofarmaci.
Nei prossimi giorni, la Commissione europea dovrà rinnovare o revocare l’autorizzazione all’uso del glifosato nelle campagne europee. La valutazione della Commissione dovrà mettere a confronto due approcci completamente diversi. Da un lato quella delle corporation, che sostengono che il glifosato abbia incrementato i raccolti, garantisca l’alimentazione a livello globale, salvi vite umane dalla fame. Dall’altro quella della società civile, che perora la causa della messa al bando del glifosato e la necessità di un’agricoltura che si affranchi il più possibile dalle sostanze chimiche (per questo motivo, We Move Eu ha attivato un’ampia campagna di mobilitazione – Stop Glyphosate –, alla quale aderisce anche Slow Food). Bisognerà decidere se il futuro del cibo è in mano all’industria chimica o a una politica che abbia a cuore la salute dei consumatori, il benessere ambientale e una primavera vera, sempre meno silenziosa.
A livello mondiale il problema della sicurezza alimentare non è una questione di basse rese agricole, ma di troppi sprechi e di scarse possibilità di accesso al cibo. È un problema politico. È un problema sociale.

L’editoriale di Carlo Petrini è stato pubblicato su La Repubblica del 26 febbraio 2016
Fonti: Internazionale 1141, 19 febbraio 2016
Corriere della Sera 29 febbraio 2016

fonte: http://www.slowfood.it