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Polistirene 100% da riciclo meccanico

Ineos Styrolution introduce nella regione EMEA la nuova serie Styrolution PS ECO 440 anche per applicazioni di imballaggio alimentare.















Ineos Styrolution ha introdotto il primo grado di polistirene rigenerato al 100%, ottenuto da riciclo meccanico grazie ad un avanzato impianto di selezione di rifiuti plastici con sensori al vicino infrarosso (NIR) forniti da Tomra, in grado di garantire una purezza del 99,9%.

Il grado Styrolution PS ECO 440 MR100, dove MR100 indica la percentuale di riciclato (100%), è disponibile nei colori bianco e grigio chiaro. É indicato per numerose applicazioni, anche nel packaging alimentare (strato interno di vaschette XPS con all'esterno polimero vergine) e, a fine vita, può essere riciclato.

Ineos Styrolution prevede di produrre inizialmente, per la regione Emea, un migliaio di tonnellate di resine Styrolution PS ECO 440 , in linea con l'impegno di fornire in Europa materiale con in media il 30% di contenuto riciclato per applicazioni nel packaging entro il 2025.

fonte: www.polimerica.it


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L’Italia ritorni alla sua vocazione agricola e artigianale



Nel seguire l’impossibile coesistenza di un sistema della crescita infinita in un pianeta dalle risorse finite, l’Italia ha stravolto la sua natura e vocazione. Scimmiottando i paesi anglosassoni si è pensato di competere sul piano della potenza industriale. Una gara che ci ha visto sempre rincorrere affannosamente anche per la mancanza di risorse interne di fonti fossili e ora per l’impossibilità di uscire economicamente vincitori da una competizione con paesi come la Cina.

Inoltre una industrializzazione senza freni e scrupoli, ha il non indifferente contraccolpo della distruzione ambientale, quindi delle nostre risorse e ricchezze. L’Italia infatti è storicamente un paese a vocazione agricola e artigianale. La capacità di produrre con la nostra inventiva e le nostre mani si riflette anche nelle bellezze artistiche che ci sono sulla penisola in una innumerevole quantità.

Non è certo un caso che l’Italia sia meta turistica ambita anche per le sue realizzazioni create da persone di una capacità artigianale eccezionale che erano lo specchio di una conoscenza diffusa nella popolazione. Che gli italiani siano ottimi artigiani dalla grande creatività è un fatto evidente. Inoltre la nostra ricchezza e varietà dal punto di vista agricolo e alimentare è testimoniata anche dal movimento Slow Food diffuso a livello internazionale. Dove se non in Italia una realtà con queste caratteristiche poteva nascere? Un paese dove cresce una varietà e qualità strepitosa di piante commestibili e alberi da frutto, dove in ogni angolo, anche il più remoto, c’è una specialità alimentare.

Tutto questo è stato progressivamente messo in pericolo dalla massiccia e costante importazione di “cinafrusaglie” e di cibo spazzatura prodotto da paesi che hanno una cultura e ricchezza del cibo neanche lontanamente paragonabile a quella italiana. Cibo e altri prodotti realizzati con prezzi ambientali e umani altissimi e quindi conseguentemente con costi irrisori. Come si fa a competere con chi utilizza milioni di lavoratori super sfruttati e pagati miserie e non mette in nessun conto i disastri ambientali che provoca nella realizzazione delle merci?

Tentare di competere su piani che ci vedono sconfitti in partenza, non solo è illusorio ma assai poco intelligente e per nulla lungimirante. Non è certo correndo la corsa alla produzione illimitata di merci, per lo più superflue e dannose per l’ambiente, che faremo un servizio al nostro paese che invece deve necessariamente ritrovare la sua inclinazione, la sua natura che è il saper fare e il saper coltivare. Artigianato, agricoltura e benessere quindi sono la risposta, laddove il nostro “saperci godere la vita” ci è invidiato proprio da quei paesi anglosassoni e non, continuamente protesi alla performance, al segno più, mentre la loro vita si consuma in grafici e numeri. Anche noi però rischiamo di non saperci più godere la vita in questa impossibile rincorsa alla “performance” che con la nostra natura e saggezza mediterranea, hanno ben poco a che vedere.

E se si ritiene che ritrovare la via dell’artigianato e dell’agricoltura sia impossibile, anacronistico, utopico, si valuti se è più realistico proseguire a sfruttare tutte le risorse possibili e immaginabili, produrre quantità incalcolabili e ingestibili di rifiuti, competere con il mondo per vendere qualsiasi cosa, crescere in una corsa sfrenata verso il nulla e con ciò ottenere solo due risultati: una vita impazzita priva di senso e una natura distrutta dal nostro agire che ci porterà all’inevitabile suicidio collettivo.

Quindi volenti o nolenti, anche a causa dell’esaurimento delle risorse e della catastrofe ambientale, bisognerà ritornare a quello che ci contraddistingue e in cui siamo grandi maestri: costruire una società a misura di persona il più possibile autosufficiente e con un forte tessuto artigianale ed agricolo. Agendo in questo modo si possono ridurre drasticamente le importazioni di merci superflue, spesso dannose e ambientalmente impattanti, considerato che tutto quello che arriva da lontano lascia una scia di inquinamento non indifferente. Cosa c’è poi di più bello che creare con le proprie mani o coltivare vedendo crescere e assaporare i propri alimenti? Si può in questa direzione calibrare e pianificare una industria utile e sostenibile, alimentata da fonti rinnovabili, per le quali, a differenza delle fonti fossili, abbiamo potenzialità enormi e che supporti i settori artigianale e agricolo biologico.

L’Italia può ridiventare un giardino fiorito pieno di creatività, saggezza e prelibatezze, dove finalmente vivere e non competere, dove aiutarsi, cooperare e non farsi la guerra, tanto alla fine non ci sarà nessun vincitore e saremo tutti perdenti. Abbiamo il nostro paese che è già potenzialmente un paradiso terrestre, bisogna solo riscoprirlo e riscoprire i nostri talenti e le nostre capacità. Possiamo diventare un faro internazionale per un cambiamento epocale, sta a noi renderlo possibile.

fonte: www.ilcambiamento.it



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Una soluzione circolare per i rifiuti delle organizzazioni umanitarie

Le organizzazioni umanitarie che distribuiscono generi alimentari producono un’immensa mole di rifiuti con involucri e imballaggi. Occorrono soluzioni innovative per il loro smaltimento. L’economia circolare è una soluzione possibile














Ogni anno, le organizzazioni umanitarie consegnano milioni di tonnellate di cibo in tutto il mondo. Si tratta di operazioni complesse con molte sfide logistiche, perché la maggior parte delle emergenze umanitarie si verifica in aree dilaniate da conflitti armati o distrutte da disastri naturali. Qualunque siano le modalità di spedizione e recapito, tutto è confezionato in miliardi di sacchetti di polipropilene, bottiglie di plastica, scatole di cartone o involucri di alluminio. Per evitare perdite di cibo e semplificare le distribuzioni, è comprensibile che le organizzazioni umanitarie utilizzino involucri o imballaggi di vario tipo: l’imballaggio protegge il cibo durante il carico, lo scarico, il trasporto su strade sconnesse o la caduta da un aereo. Può anche preservare la sua qualità in condizioni ambientali difficili – temperature estreme, umidità, polvere – che potrebbero influire sulla sua durata di conservazione.




Trasformare i rifiuti in risorsa

Rimane però da capire cosa succede degli involucri e degli imballaggi dopo la distribuzione del cibo. Com’è facilmente comprensibile, una volta aperti, la maggior parte degli imballaggi alimentari umanitari diventa rifiuto, e finisce bruciato o in discarica. D’altra parte, la preoccupazione delle organizzazioni umanitarie è salvare vite umane, le questioni ambientali non sono in agenda. È quindi lecito affermare che queste decine di migliaia di tonnellate di rifiuti di imballaggio sono una grande fonte di inquinamento: la biodegradazione della plastica e dell’alluminio richiede secoli e non dovrebbe essere un onere per i paesi che ricevono assistenza.

Le organizzazioni umanitarie hanno compreso il problema e stanno cercando di migliorare la sostenibilità della catena di approvvigionamento utilizzando materiali biodegradabili o riciclati oppure, in ottica di economia circolare, usano imballaggi progettati per essere riutilizzati. Quando si trasformano definitivamente in rifiuti, si adoperano per raccoglierli e riciclarli. Questo nuovo approccio significa che i rifiuti hanno smesso di essere un problema per diventare una risorsa.

Il mercato degli scarti

Nelle regioni in cui sono disponibili infrastrutture per il riciclo dei materiali esiste addirittura un mercato degli scarti. I rivenditori di rottami possono acquistare parte dei rifiuti generati dagli imballaggi alimentari delle organizzazioni umanitarie ricavandone un guadagno per le persone assistite e un’opportunità per sviluppare la catena del valore dei rifiuti per gli stakeholder locali.

Dove le risorse sono scarse, le organizzazioni umanitarie possono creare nuovi oggetti dai rifiuti: in Etiopia Engineers Without Borders trasforma i rifiuti di plastica in lavandini e materiali da costruzione, in Bangladesh il World Food Programme trasforma gli involucri di alluminio in sacchetti riutilizzabili, in Kenya i sacchi per il cibo diventano sacchetti riutilizzabili.

Per la gestione dei rifiuti umanitari vanno individuate soluzioni innovative che si adattino ai contesti locali (convenienti, a bassa tecnologia e di facile manutenzione) e siano replicabili su larga scala. Creare danni ambientali alle comunità che si vogliono aiutare con un’azione umanitaria più che un rischio è una certezza. Una soluzione possibile sarebbe includere la sostenibilità ambientale fin dall’inizio nei programmi di assistenza alimentare delle organizzazioni umanitarie, in una catena virtuosa che comincia dagli approvvigionamenti per finire con un corretto smaltimento.

fonte: www.rinnovabili.it



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Pfas nei contenitori dei cibi da fast food, la denuncia di otto associazioni: ancora troppo usati negli imballaggi di carta



Ci sono ancora troppi Pfas nei contenitori per i cibi da fast food e d’asporto. È la denuncia di un gruppo di otto associazioni europee, coordinate dall’organizzazione ceca Arnika, che hanno raccolto imballaggi alimentari e stoviglie monouso in carta, cartone e fibre vegetali delle maggiori catene di fast food e takeaway come McDonald’s, KFC, Subway o Dunkin’ Donuts. I campioni, provenienti da sei Paesi europei (Danimarca, Francia, Germania, Paesi Bassi, Regno Unito e Repubblica Ceca), sono stati analizzati proprio con lo scopo di cercare le sostanze per- e polifluoralchiliche, una classe di composti chimici persistenti in grado di accumularsi nell’ambiente e negli organismi.

Per decidere quali contenitori portare in laboratorio alla ricerca dei Pfas, i campioni sono stati selezionati con un test semplicissimo. Siccome queste sostanze chimiche sono utilizzate per rendere gli imballaggi e le stoviglie in carta repellenti ai grassi, è stata usata una goccia d’olio: se non viene assorbita, è possibile che il contenitore sia stato trattato intenzionalmente con Pfas. Dopo il test della goccia, 38 imballaggi sono risultati sospetti.
Il contenuto totale di sostanze organiche fluorurate (un indicatore di Pfas) in contenitori alimentari di diverse catene di fast food in europa (Fornte: Arnika)

Alla fine, dei 42 campioni (28 contenitori scelti tra i “sospetti”, più 14 controlli) mandati in laboratorio, 32 contenevano livelli di Pfas tali da indicare un trattamento intenzionale. Ma non solo, tutti gli altri contenitori analizzati mostravano comunque la presenza di tracce di queste sostanze chimiche. Risultati che suggeriscono una contaminazione diffusa della materia prima utilizzata per realizzate questi prodotti.

I livelli più elevati di sostanze organiche fluorurate – un indicatore accettato di contenuto totale di Pfas – sono stati rilevati nelle stoviglie biodegradabili e compostabili realizzate con fibre vegetali. Talvolta, il contenuto di Pfas era 60 volte più alto del valore guida stabilito dall’Amministrazione veterinaria e alimentare danese per valutare la contaminazione dai packaging per il cibo in carta e cartone. La Danimarca è anche l’unico Paese che ha bandito, nel luglio 2020, l’uso di Pfas negli imballaggi alimentari realizzati con queste materie prime: infatti, i campioni di origine danese presentavano soltanto tracce di queste sostanze. E proprio qui McDonald’s è riuscita con successo a eliminare i Pfas dai suoi contenitori. La domanda che si fanno le associazioni: allora perché non lo fa ovunque?

McDonald’s in Danimarca ha rimosso con successo i Pfas dai sacchetti per patatine fritte, ma non negli altri Paesi europei (Fonte: Arnika)

Le associazioni hanno quindi cercato di capire quali siano le sostanze più utilizzati nella realizzazione di questi contenitori. Il risultato è stato che non è possibile identificare con certezza il 99% dei composti chimici fluorurati presenti negli imballaggi testati. La conclusione non stupisce, se consideriamo che la famiglia dei Pfas comprende oltre 5 mila sostanze e nel corso delle analisi ne sono state ricercate solo 55.

Secondo le otto associazioni, la presenza diffusa di Pfas negli imballaggi alimentari monouso è molto preoccupante per diversi motivi. In primo luogo, perché ogni giorno si crea un volume gigantesco di rifiuti contaminati da queste sostanze persistenti. Sostanze che possono poi contaminare le falde acquifere e, di conseguenza, la catena alimentare. Inoltre, alcuni studi hanno dimostrato la capacità dei Pfas di migrare dai contenitori al cibo, da cui arrivano direttamente alle persone, esponendole a rischi per la salute.

“È il momento che l’Unione europea agisca e vieti immediatamente e in maniera permanente l’intera classe dei Pfas negli imballaggi alimentari, per proteggere in primo luogo i consumatori. – ha dichiarato Jitka Strakova, autrice dello studio e consigliera scientifica di Arnika e della Rete internazionale per l’eliminazione degli inquinanti (Ipen) – È chiaramente non essenziale l’uso di sostanze chimiche altamente tossiche e persistenti, che pongono un tale rischio per la salute e l’ambiente, in imballaggi alimentari monouso, specialmente quando esistono alternative più sicure”

fonte: www.ilfattoalimentare.it




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Innovazione e sostenibilità nel settore del packaging alimentare

I risultati parziali del progetto europeo MyPack



MyPack “Best markets for the exploitation of innovative sustainable food packaging solutions” è un progetto quadriennale iniziato il 1 novembre 2017 e finanziato dal programma Horizon 2020 (Grant Agreement Number 774265). In virtù delle difficoltà causate dalla pandemia in corso, il progetto ha beneficiato di una proroga della scadenza, e si concluderà dopo l’estate.

L’obiettivo di MyPack è quello di sostenere l’introduzione sul mercato di imballaggi innovativi al fine di ridurre sia i rifiuti alimentari e di imballaggio che la loro influenza negativa sull’ambiente. Nei 27 paesi europei, ogni anno vengono prodotti 89 milioni di tonnellate di rifiuti alimentari, il che significa che gli europei buttano via il 20% del cibo che acquistano. Al progetto prende parte un partenariato composto da Istituzioni accademiche, scientifiche e partners industriali, comprese piccole e medie imprese, da 5 Paesi Europei (Francia, Germania, Italia, Grecia, e Paesi Bassi), più la Svizzera.

Le tecnologie MyPack intendono sviluppare, e sfruttare a livello industriale, applicazioni commerciali di imballaggi compostabili/biodegradabili, imballaggi da risorse rinnovabili come PLA e PEF, tecnologie di imballaggio attivo e intelligente.

L’obiettivo conclusivo delle tecnologie MyPack è quello di estendere la qualità dei prodotti alimentari, migliorando così la sicurezza alimentare, oltre a ridurre i rifiuti alimentari e l’impronta ambientale del materiale da imballaggio. Il progetto MyPack sta sviluppando alcune linee guida generali per selezionare il miglior mercato per le tecnologie innovative messe a punto nel settore del packaging e per garantire uno sviluppo commerciale, attraverso (a) una migliore efficienza ambientale (impatto diretto degli imballaggi, impatto degli scarti alimentari, riciclaggio ottimizzato mediante compostaggio dei materiali di confezionamento, salute dei consumatori), (b) migliore accettabilità da parte dei consumatori, e (c) fattibilità industriale. Una prima linea guida generale è già stata realizzata, e, dopo un’attenta revisione da parte del consorzio dei partner, è stata pubblicata sul portale del progetto, nella sezione “Deliverables”.

Tra le 7 tecnologie individuate nel progetto, la TEC4 (Microtechnologic insertion conferring breathing properties) ha finora presentato le migliori prospettive di sviluppo commerciale. La tecnologia proposta, partendo dal know-how per lo sviluppo di un brevetto per un dispositivo in grado di controllare gli scambi gassosi tra l’interno e l’esterno di una confezione per prodotti alimentari solidi o liquidi (BlowDevice), mira allo sviluppo di un innovativo film traspirante dotato di una particolare microtecnologia.

L’obiettivo finale è quello di controllare/adattare l’atmosfera gassosa all’interno della confezione regolando gli scambi gassosi nel tempo, in funzione delle caratteristiche del prodotto confezionato, sfruttando le variazioni di pressione prodotte dall’impianto di refrigerazione utilizzato per la frigoconservazione.

Le attività di ricerca e sviluppo, effettuate nel laboratorio “MacLab1” dell’Università degli Studi della Basilicata, hanno quindi consentito la caratterizzazione del comportamento del dispositivo innovativo in differenti applicazioni su prodotti ortofrutticoli (insalate pronte per il consumo, rucola, fragole, ciliegie, uva da tavola). Le prossime fasi del progetto prevedono il trasferimento tecnologico dell’innovazione alle aziende produttrici di insalate pronte e altri prodotti ortofrutticoli, che si sono già interessate all’utilizzo del brevetto e del know-how relativo al confezionamento in atmosfera modificata dei prodotti ortofrutticoli.

Inoltre, di recente, l’innovazione è stata menzionata sul portale europeo Innovation Radar, nato con l’intento di mostrare ai cittadini europei i numerosi ed eccellenti progressi tecnologici e scientifici realizzati dai ricercatori e da innovatori in tutta Europa.

fonte: www.rinnovabili.it


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Acido polilattico: arriva la nuova plastica da fonti rinnovabili per gli imballaggi alimentari





La sostituzione di materiali d’imballaggio derivanti dal petrolio con materiali ecosostenibili (da fonti rinnovabili, biodegradabili, compostabili) è un tema di grande attualità, che sta suscitando molto interesse nel settore del confezionamento alimentare. Per ottenere risultati tangibili è però necessario un forte lavoro di squadra. Lo dimostra il progetto Ecopacklab che, coinvolgendo ricercatori di varie discipline, (tecnologi alimentari, microbiologi, ingegneri esperti di materiali e macchine alimentari, tutti provenienti dall’università di Bologna) e avvalendosi della collaborazione di aziende produttrici di macchine per imballaggio, nonché di Barilla per quel che riguarda i processi dell’industria alimentare, è riuscita a mettere a punto un materiale del tutto innovativo, a base di acido polilattico.
Il nuovo materiale non solo è biodegradabile ma è anche in grado di garantire una maggiore shelf-life di alcuni alimenti, prevenendone l’ossidazione e la proliferazione di microrganismi, pur in assenza (o con un contenuto ridotto) di conservanti.
Un materiale “arricchito”, avente come base l’ormai noto Pla (acido polilattico, un polimero che si ricava dalla fermentazione dei composti a base di zucchero e amidi delle piante), su cui sono stati applicati strati diversi per conferire caratteristiche aggiuntive. La funzione antiossidante è svolta da un composto attivo, l’acido ascorbico, mentre per l’azione antimicrobica è stato selezionato un enzima che si chiama lisozima. Il film viene prodotto evitando, tra l’altro, l’uso di collanti sintetici: per l’applicazione vengono usate tecnologie avanzate di trattamento a plasma freddo.





Confezioni flessibili, realizzate con questa innovativa pellicola a base di acido polilattico, sono già state valutate a contatto con diverse tipologie di alimenti

Confezioni flessibili, realizzate con questa innovativa pellicola, sono già state valutate a contatto con diverse tipologie di alimenti (dall’olio ai condimenti come il pesto genovese fresco, fino a una bevanda a base di frutta e latte di riso) e in tutti i casi la proliferazione dei microrganismi ha subito un notevole rallentamento durante la conservazione dei prodotti. Lo stesso risultato si è avuto riguardo l’ossidazione. Un risultato notevole se si considera che il Pla, in assenza di strati aggiuntivi, presenta tipicamente una modesta capacità barriera nei confronti dell’ossigeno, responsabile del processo di ossidazione.

fonte: www.ilfattoalimentare.it


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Nasce la filiera italiana del packaging alimentare compostabile

Novamont, SunChemical, Ticinoplast e UTECO fanno squadro per offrire una soluzione integrata per l’imballaggio flessibile degli alimenti, che sia biodegradabile e made in Italy











Dalla collaborazione tra Novamont, SunChemical Group, Ticinoplast e Uteco Group, – filiera di eccellenze industriali e tecnologiche tutta italiana – nasce un nuovo concetto di imballaggio alimentare, che risponde alla crescente domanda di packaging a minor impatto ambientale e che per prestazioni e caratteristiche non ha confronti sul mercato mondiale.

Condividendo i rispettivi know-how tecnologici, Novamont, SunChemical,Ticinoplast e Uteco Group hanno messo a punto una soluzione che combina la biodegradabilità, compostabilità dei materiali (biopolimeri, inchiostri, adesivi, prodotti barriera e substrati) a tecniche di estrusione, stampa e laminazione prime al mondo. Il film flessibile così ottenuto è ottimale per imballaggi alimentari avendo caratteristiche tecniche analoghe alle soluzioni attualmente adottate ma potendo – terminato l’uso – essere destinato alla raccolta della frazione umida ed essere avviato al successivo compostaggio industriale.

Il film flessibile in bioplastica Mater-Bi di Novamont, estruso con tecnologia Ticinoplast, viene trattato con lacca barriera Aerbloc Enhance/SunChemical, stampato con inchiostri all’acqua Aqualam/SunChemical e laminato utilizzando un adesivo senza solvente compostabile SunLam/SunChemical tramite tecnologia di stampa e laminazione di Uteco Group.

Si tratta di una soluzione che abilita la realizzazione di un ampio ventaglio di strutture laminate, adottabili per la realizzazione di molte tipologie imballaggi per alimenti su molteplici linee di confezionamento automatico, orizzontali e verticali, nonché varie buste preformate.

Concetti come riciclabilità ed ecodesign – anche grazie agli stimoli di un consumatore sempre più orientato a indirizzare le proprie scelte di acquisto e consumo verso prodotti confezionati con packaging meno ingombranti e più sostenibili – stanno modificando significativamente il settore dell’imballaggio e la vera sfida oggi è rendere semplice l’adozione di queste soluzioni.

“Grazie alla nostra filiera, operatori del comparto del packaging e brand owner possono disporre di un “one-stop-shop” in cui ottenere la soluzione completa, a misura delle esigenze di ciascuno, senza dover spendere tempo ed energie nel selezionare singoli fornitori dei vari componenti necessari alla realizzazione della specifica soluzione”, dichiara Aldo Peretti, presidente di Uteco Group.

“Alle aziende è oggi richiesto uno sforzo congiunto che permetta di realizzare, lungo tutta la filiera e in tempi brevi, soluzioni sostenibili per il packaging alimentare. In tale ottica, il contributo di innovazione che ciascun partner ha portato su materie prime, tecnologie di trasformazione, macchine da stampa, inchiostri, adesivi e coating è stato un elemento indispensabile per il successo dell’iniziativa” dice Fabio Deflorian, amministratore delegato di SunChemical Group Italia

“In questo particolare momento in cui la spinta verso la sostenibilità è molto forte, la collaborazione tra più aziende diventa elemento fondamentale per consentire di accelerare notevolmente il processo di innovazione tecnologica, portando alla realizzazioni di soluzioni adatte ad un imballaggio alimentare nel rispetto dell’ambiente”, commenta Paolo Rossi, amministratore delegato di Ticinoplast.

fonte: www.rinnovabili.it


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Indagine della BEI sul Clima: il 94% degli italiani intende smettere di utilizzare le bottiglie di plastica e il 66% lo ha già fatto

La Banca europea per gli investimenti (BEI) ha lanciato la seconda edizione dell’Indagine sul Clima, condotta in partenariato con la BVA. L’indagine è un indicatore di come i cittadini percepiscono il fenomeno dei cambiamenti climatici nell’Unione europea, negli Stati Uniti d’America e in Cina
















La Banca europea per gli investimenti (BEI) ha lanciato la seconda edizione dell’Indagine sul Clima, condotta in partenariato con la BVA, una società di consulenza specializzata in ricerche di mercato. L’indagine è un indicatore di come i cittadini percepiscono il fenomeno dei cambiamenti climatici nell’Unione europea, negli Stati Uniti d’America e in Cina. La seconda serie di risultati fa luce sulle azioni che i singoli cittadini contano di fare per contrastare i cambiamenti climatici.
Paragonati al resto d’Europa, gli italiani dicono nel complesso di essere disposti a fare di più per adeguare il loro stile di vita nel segno della prevenzione ai cambiamenti climatici. L’indagine valuta le seguenti quattro categorie di azioni:
Prodotti alimentari. La sostenibilità in materia alimentare è al centro dell’impegno dei cittadini italiani. Il 93% cerca attivamente di comprare più prodotti locali e stagionali e il 48% lo fa già sistematicamente. Gli italiani si dicono anche pronti a modificare la loro alimentazione: il 73% ha ridotto il consumo di carne rossa. Vi è in ogni caso una discrepanza tra le fasce di età più giovani e quelle più anziane: rispetto ai più giovani, gli italiani più anziani si impegnano di più ad acquistare unicamente prodotti alimentari locali. 
Rifiuti. Il 97% degli italiani non usa più prodotti in plastica, o almeno ne ha ridotto il consumo. Più in particolare, il 94% degli italiani dice di avere l’intenzione di smettere di comprare le bottiglie di plastica, il 96% ha intenzione di comprare meno prodotti imballati con la plastica. Le donne, rispetto agli uomini, sembrano essere più propense a limitare il consumo della plastica: il 65% delle italiane dice di aver smesso di utilizzare i sacchetti di plastica per la spesa rispetto al 55% degli uomini.
Trasporti. Quando si tratta di optare per mezzi di trasporto più ecocompatibili, il 69% degli italiani dice di scegliere di camminare oppure di prendere la bicicletta per gli spostamenti giornalieri. Solo il 54% sceglie di usare i trasporti pubblici, percentuale che è inferiore alla media europea (64%). 
Vacanze. Il 77% degli italiani dice di trovarsi d’accordo con l’idea di fare meno viaggi in aereo per combattere i cambiamenti climatici, percentuale che è superiore di due punti rispetto alla media europea (75%). Per il 30% degli italiani si tratta già di una pratica consueta.  Analogamente, l’86% dei cittadini italiani dice che opterebbe per il treno, invece dell’aereo, per delle percorrenze pari o inferiori a cinque ore.  
Abitazione. Il 38% degli italiani dice di aver ridotto l’uso dei condizionatori, come pratica rispettosa dell’ambiente, mentre coloro che si dicono disposti a non accenderli più nell’anno nuovo raggiungono il 75%, ovvero una percentuale quasi doppia. Inoltre, il 60% della popolazione intende passare a un fornitore di energia verde, mentre il 22% sostiene di averlo già fatto. 
Marchi e società. Il 79% dei giovani italiani tra i 15 e i 29 anni dice di aver partecipato, o parteciperà, a manifestazioni a favore del clima, cifra che scende al 69% per la fascia di età compresa tra i 30 e i 64 anni. Inoltre, il 54% degli italiani intende investire in fondi verdi, e l’11% dice di averlo già fatto.
Anche i cittadini di altre parti del mondo si dimostrano disposti ad agire fattivamente contro i cambiamenti climatici nel 2020. Sul tema del ridurre il consumo della plastica il consenso è chiaro: l’81% degli americani, il 93% degli europei e il 98% dei cinesi dicono di aver l’intenzione di comprare meno prodotti di plastica. In ogni caso, per quanto riguarda l’abitazione, gli atteggiamenti non sono uniformi: oltre il 94% degli intervistati cinesi intende passare a un fornitore di energia verde, mentre solo il 70% degli europei e il 64% degli americani ha in conto di farlo. Un andamento analogo emerge nella propensione a investire in fondi verdi: oltre l’86% della popolazione in Cina è ben disposta a farlo nel 2020, mentre quella degli Stati Uniti lo è per il 56% e quella europea per il 52%. 
La Vicepresidente della BEI Emma Navarro, responsabile dell’azione per il clima e dell’ambiente, ha affermato: Mi entusiasma vedere quanto i cittadini europei si impegnino nella nostra lotta comune contro i cambiamenti climatici. Le azioni individuali positive per il clima creano quelle tendenze economiche e sociali nelle nostre società che saranno d’aiuto nel risolvere la problematica dei cambiamenti climatici. La Banca europea per gli investimenti è decisamente impegnata a fornire i mezzi che consentono ai cittadini di portare avanti questa lotta che è la realizzazione di un futuro più sostenibile. Rincuora vedere come le persone si facciano paladine di questa causa e la rendano parte integrante della loro vita: in questa lotta ce la faremo solo se decidiamo di batterci insieme.” 

Nude food, no agli imballaggi per tutelare l’ambiente

Una crescente attenzione dei consumatori verso un uso responsabile degli imballaggi e una generale moderazione dell’uso delle plastiche e degli altri materiali di imballo sta di fatto modificando i comportamenti e le proposte delle aziende produttrici e distributrici.

Prodotti imballati (Nude food, no agli imballaggi per tutelare l’ambiente)
Prodotti imballati

Se da un lato l’attenzione ambientalista rappresenta uno dei grandi temi etici generazionali su cui si imposta l’attenzione dell’opinione pubblica e dei nuovi consumatori, dall’altro c’è la necessità di una spinta verso una modificazione del paradigma con cui è stata percepita sino a tempi recenti la qualità del prodotto, che passava per una sua comunicazione ridondante, un involucro fortemente materico atto a proteggere oltremodo il prodotto, e lo snaturarsi del concetto di comfort food, che spinto a livelli estremi ha portato a generare aberrazioni quali frutti pelati e porzionati per poi essere riconfezionati in packaging plastici, negando in modo pedestre secoli di evoluzione e selezione che ha invece condotto a frutti perfetti, protetti dalle loro scorze e naturalmente porzionati, pronti ad un consumo sostenibile. 

Un caso emblematico è quello degli agrumi, facilmente pelabili anche a mani nude, già porzionati in spicchi pronti al consumo, fatto, questo, magnificamente descritto già da Bruno Munari nel 1963 nel suo libro “Good Design”.

Fortunatamente per tutti, a far argine a questa deriva di etichette e imballi ha pensato la cultura dominante del consumatore attuale, che in contrasto con la tendenza descritta percepisce sempre più la qualità quando questa si esprime in modo naturale, meno “lavorato” o “manipolato”, e quando il prodotto mette in mostra senza timore l’imperfezione dettata dalla sua qualità naturale.

Sulla scia di tale tendenza, rafforzata anche da un’attenzione normativa crescente, nel limitare i fattori inquinanti e l’indiscriminato uso delle plastiche e di altri materiali da imballo, vanno diffondendosi movimenti come il “Nude food”, che promuove la rimozione totale degli imballi dagli alimenti affinché questi possano essere distribuiti e acquistati, appunto, “nudi”. Prendono vita così, in modo sempre più frequente, supermercati che propongono la vendita di prodotti sfusi, diverse aziende reintroducono il “vuoto a rendere”, prassi commerciale ormai quasi totalmente estinta, che trova una nuova vita e dignità, apprezzata dal pubblico e virtuosa per l’ambiente, e non ultimo l’utilizzo di sistemi alternativi di etichettatura.

Poiché se, da una parte, l’eliminazione di ogni superfetazione, che vuole riportare il prodotto alla sua semplicità e nudità, può essere del tutto condivisibile e realizza un principio virtuoso oltre che per l’ambiente anche per l’economicità del prodotto, che diminuisce i costi che eccedono la sua produzione, come nel caso dei prodotti vegetali, dall’altra permangono le esigenze delle aziende produttrici (oltre che indicate dalla norma) di tracciabilità e comunicazione ai consumatori sia per ragioni sanitarie che commerciali e di marketing.

(Nude food, no agli imballaggi per tutelare l’ambiente)

Nude food

A tale scopo cresce l’applicazione di strumenti digitali che minimizzano le dimensioni e la complessità delle etichette, rimandando ad apposite app la possibilità di comunicare al consumatore molte più informazioni e in modo molto meno restrittivo, tutti i messaggi che l’azienda definisce utili, oltre agli inderogabili obblighi di legge, questo attraverso strumenti di realtà aumentata o di semplici Qr code.

Altro sistema che prende sempre maggior piede è l’utilizzo di laser per l’incisione di messaggi, note e loghi sul prodotto stesso, con il vantaggio di non aver alcun ulteriore materiale a contatto con l’alimento, il cui impiego oltre ad avere un costo dovrà essere costantemente verificato. Storicamente l’uso della tecnologia di marchiatura a caldo è sempre stato impiegato nelle aziende lattiero-casearie per la marchiatura della crosta dei formaggi o di alcuni salumi. Con l’impiego del laser però si ha un aumento più che sensibile della precisione del messaggio, che può quindi sostituire in toto un’etichetta cartacea sui prodotti la cui superficie consenta un’incisione visibile.

La richiesta di un consumo più responsabile offre quindi nuove aperture di mercato e la possibilità di sviluppo di nuove tecniche comunicative, un “mercato nel mercato”, terreno fertile per innovazioni e startup destinate a crescere rapidamente e imporsi in un sistema altrimenti stanco e saturo.


fonte: https://www.italiaatavola.net

Rinunciare alla plastica facendo spesa

A Bolzano A Bolzano un negozio di generi alimentari senza imballaggi


















A Bolzano un negozio di generi alimentari intende dare, nel suo piccolo, un concreto contributo alla tutela dell'ambiente, rinunciando agli imballaggi inutili.
Novo Bio e Sfuso è stato inaugurato un anno e mezzo fa in centro a Bolzano. Dalla pasta ai cereali, dai legumi agli aromi, tutto viene venduto rigorosamente sfuso.
"Ridurre la plastica è diventata una necessità per salvare il pianeta", è convinto il titolare Stefan Zanotti. E i primi passi si possono compiere anche tra gli scaffali di un negozio. "Fanno la spesa da noi studenti e anziani, naturalmente le mamme con bambini sono particolarmente sensibili a questa tematica", aggiunge Zanotti. "Il nostro sogno è che presto in Italia ci siano tanti negozi che vendono lo sfuso". Un problema è ancora rappresentato dalla difficoltà di reperire la merce. "Per questo piccolo negozio abbiamo ben 70 fornitori. Viste queste difficoltà abbiamo iniziato noi stessi a rifornire altri negozi in Italia", conclude Zanotti.

fonte: www.ansa.it

“Scaffali in allerta”: il primo libro in Italia che racconta cosa succede quando un prodotto pericoloso per la salute viene ritirato dalla vendita
























Il libro “Scaffali in allerta” pubblicato da Ilfattoalimentare.it racconta cosa succede quando un prodotto non è adatto alla vendita e viene ritirato dal mercato. Il volume descrive i retroscena e i misteri di un’operazione che si ripete più di mille volte l’anno, all’insaputa della maggior parte dei consumatori.
Ogni anno in Italia le catene dei supermercati ritirano dagli scaffali almeno 1.000 prodotti alimentari. Nel 20% circa dei casi si tratta di cibo che può nuocere alla salute, e per questo le autorità sanitarie fanno scattare l’allerta. La questione riguarda confezioni firmate da grandi imprese come Barilla, Coca-Cola, Mars…, da catene di supermercati che commercializzano migliaia di prodotti con il loro marchio (Esselunga, Coop, Carrefour, Auchan, Conad, Lidl, Eurospin…), e anche piccole e medie imprese.
Molti operatori del settore hanno cercato per anni di minimizzare questa realtà, e il Ministero della salute ha fatto poco per impedirlo. L’assenza di una cabina di regia in grado di gestire le allerta alimentari ha creato e continua a creare molta confusione tra i consumatori. Il Fatto Alimentare da sempre segue con attenzione il problema, e ogni anno segnala circa 60 prodotti richiamati dal mercato. Si tratta solo di una parte rispetto al numero reale che resta però sconosciuto. “Scaffali in allerta” descrive le criticità di un sistema che funziona male, le normative europee e italiane e riporta una decina di casi di allerta poco conosciuti ma emblematici.
I lettori che hanno fatto una donazione riceveranno in omaggio il libro “Scaffali in allerta”, scrivendo in redazione all’indirizzo ilfattoalimentare@ilfattoalimentare.it
Scaffali in allerta” di Roberto la Pira – 169 pagine – Editore: Il Fatto Alimentare – maggio 2017

fonte: http://www.ilfattoalimentare.it