Il Salvagente ha inviato una lettera aperta ai ministri della Salute e dell’Istruzione per “Evitare che nei piatti dei nostri figli finiscano i
Visualizzazione post con etichetta #MinisteroSalute. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta #MinisteroSalute. Mostra tutti i post
Pfas nei piatti e nei bicchieri usati nelle mense scolastiche. L’appello della rivista Il Salvagente per sostituirli
Il Salvagente ha inviato una lettera aperta ai ministri della Salute e dell’Istruzione per “Evitare che nei piatti dei nostri figli finiscano i
La guerra del combustibile dai rifiuti. I comitati del no scrivono anche al Papa
Dopo la sentenza del Tar che ha riconfermato la validità del decreto del 2013 si organizzano le associazioni contrarie all’uso del Combustibile solido secondario


Dopo la sentenza del Tar Lazio, 60 comitati di tutt’Italia contrari all’uso del combustibile solido secondario si organizzano e scrivono lettere aperte al ministro dell'Ambiente, Sergio Costa, al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e otto di questi comitati si sono rivolti perfino al Papa Francesco. Chiedono che venga annullato il decreto che nel 2013 ne aveva definito le modalità d’uso.
Il decreto del 2013
Nel 2013 il ministro dell’Ambiente (era Corrado Clini) emanò un decreto applicativo per determinare gli standard di produzione e utilizzo del combustibile solido secondario (Css) in linea con il resto d’Europa. Il Css deve essere ottenuto da rifiuti selezionati, come carta e plastica, privi di componenti pericolose, e può essere utilizzato in sostituzione di combustibili più inquinanti come carbone o pet coke da petrolio in impianti come cementifici e centrali elettriche, a patto che le emissioni non siano quelle permissive consentite ai combustibili fossili negli impianti industriali bensì quelle molto rigorose imposte alla combustione di rifiuti.
La sentenza del Tar
Circa 180 cittadini della val d’Arda (Piacenza) insieme con alcune associazioni avevano fatto ricorso al Tar contro la Regione Emilia-Romagna per l’autorizzazione concessa in base al decreto al cementificio Buzzi Unicem di Vernasca. Il Tar ha invece dato ragione al cementificio e alla Regione, bocciando in modo netto la posizione dei comitati piacentini, per esempio rigettando la definizione estensiva di principio di precauzione. Secondo i giudici amministrativi, l’impatto sulla salute umana è documentato dagli atti e “non è contraddetto con argomenti specifici di segno contrario”. Le contestazioni sull’aumento del traffico di camion per alimentare il forno di cementeria riguarderebbero “6/8 mezzi al giorno nell’ipotesi estrema, ritenendola pienamente sostenibile dal punto di vista dell’ambientale e della salute”. Secondo i giudici l’accusa che il combustibile solido secondario avrebbe prodotto emissioni peggiori rispetto al pet coke è stata smentita dall’andamento delle emissioni: le “conseguenti variazioni negative”, dicono i magistrati, “sono smentiti dal rilievo effettuato a processo avviato”.
La lettera aperta di 60 comitati
Per questo motivo, 60 comitati hanno mandato una lettera aperta al ministro dell'Ambiente, Sergio Costa, e per conoscenza a quello della Salute, Roberto Speranza.
I comitati sottoscrittori sono di ogni tipo e tra i promotori vi sono gli attivissimi comitati di Gubbio, quelli di Monselice e ovviamente quelli di Piacenza, ma la lettera è stata sottoscritta anche da altre associazioni. Qualche nome: Acqua Bene Comune di Pistoia, Antipuzza di Assisi, Basta Nocività in Val d’Arda, Coppula Tisa, Giustizia per Taranto, Gubbio Salute Ambiente, Isde, Lasciateci Respirare, Legamjonici, Legge Rifiuti Zero, Mamme contro l’Inceneritore, Mamme Libere per la Tutela dei Figli, Mamme No Pfas, Medicina Democratica, Movimento Sconforto Generale, No Antenna, Obiettivo Periferia, Rete Mamme da Nord a Sud, Salute Pubblica, Stop Solvay, Stop Veleni, Umbria Rifiuti Zero, Wwf Perugia, Wwf Salento, Zero Waste Lazio.
Che cosa dicono
Nella lunga e dettagliata lettera, 16 pagine di cui la metà di testo e la metà di firme, si chiede di abrogare il decreto del ministero dell'Ambiente n° 22 del 14 febbraio 2013 e di scongiurare l’approvazione di qualunque altro provvedimento per l’incenerimento e il coincenerimento di rifiuti e loro derivati.
A parere dei comitati, “la combustione di Css nei cementifici non è affatto un contributo alla gestione dei rifiuti e non può configurarsi come la “chiusura del ciclo”. Essa non rappresenta neanche una soluzione migliorativa riguardo all'inquinamento da CO2 prodotto dagli impianti di produzione del cemento, alimentati purtroppo con combustibili derivati per lo più dagli scarti del petrolio, perché più economici rispetto ad altri. Sostituire con i CSS una quota di pet-coke, il peggiore tra i combustibili fossili (a sua volta, in ultima analisi, un “rifiuto”), anche se il più utilizzato nei cementifici, potrebbe ridurre alcuni inquinanti gassosi, come gli ossidi di azoto, ma questa riduzione non è affatto significativa”.
Oltre alle emissioni, andrebbe considerato l’inglobamento delle ceneri prodotte dalla combustione dei rifiuti nel prodotto finale, “vale a dire quel cemento che ritroviamo poi nelle nostre case, scuole, ospedali e strade”.
Chi usa questo combustibile
Sono più di 20 le cementerie italiane autorizzate a sostituire il pet coke con Css e, secondo l’industria del cemento, il nostro Paese è arretrato rispetto agli altri dell’Unione europea: il tasso di sostituzione calorica con combustibili di recupero è oggi al 20,7%, mentre in Germania i combustibili derivati dai rifiuti rappresentano due terzi dei consumi. È un contributo a ridurre la pressione dei rifiuti nelle discariche. Secondo Federbeton, usare questi combustibili alternativo “nel solco dell’economia circolare e dell’impegno alla mitigazione dei cambiamenti climatici” è necessario “un intervento da parte della politica a favore del superamento della sindrome Nimby (acronimo di Not in my back yard), così come la semplificazione dei processi autorizzativi, di durata incerta, che scoraggiano le aziende dal porre in essere investimenti, anche economicamente onerosi, senza alcuna ragionevole certezza sugli esiti dei procedimenti”.
fonte: www.e-gazette.it
Il decreto del 2013
Nel 2013 il ministro dell’Ambiente (era Corrado Clini) emanò un decreto applicativo per determinare gli standard di produzione e utilizzo del combustibile solido secondario (Css) in linea con il resto d’Europa. Il Css deve essere ottenuto da rifiuti selezionati, come carta e plastica, privi di componenti pericolose, e può essere utilizzato in sostituzione di combustibili più inquinanti come carbone o pet coke da petrolio in impianti come cementifici e centrali elettriche, a patto che le emissioni non siano quelle permissive consentite ai combustibili fossili negli impianti industriali bensì quelle molto rigorose imposte alla combustione di rifiuti.
La sentenza del Tar
Circa 180 cittadini della val d’Arda (Piacenza) insieme con alcune associazioni avevano fatto ricorso al Tar contro la Regione Emilia-Romagna per l’autorizzazione concessa in base al decreto al cementificio Buzzi Unicem di Vernasca. Il Tar ha invece dato ragione al cementificio e alla Regione, bocciando in modo netto la posizione dei comitati piacentini, per esempio rigettando la definizione estensiva di principio di precauzione. Secondo i giudici amministrativi, l’impatto sulla salute umana è documentato dagli atti e “non è contraddetto con argomenti specifici di segno contrario”. Le contestazioni sull’aumento del traffico di camion per alimentare il forno di cementeria riguarderebbero “6/8 mezzi al giorno nell’ipotesi estrema, ritenendola pienamente sostenibile dal punto di vista dell’ambientale e della salute”. Secondo i giudici l’accusa che il combustibile solido secondario avrebbe prodotto emissioni peggiori rispetto al pet coke è stata smentita dall’andamento delle emissioni: le “conseguenti variazioni negative”, dicono i magistrati, “sono smentiti dal rilievo effettuato a processo avviato”.
La lettera aperta di 60 comitati
Per questo motivo, 60 comitati hanno mandato una lettera aperta al ministro dell'Ambiente, Sergio Costa, e per conoscenza a quello della Salute, Roberto Speranza.
I comitati sottoscrittori sono di ogni tipo e tra i promotori vi sono gli attivissimi comitati di Gubbio, quelli di Monselice e ovviamente quelli di Piacenza, ma la lettera è stata sottoscritta anche da altre associazioni. Qualche nome: Acqua Bene Comune di Pistoia, Antipuzza di Assisi, Basta Nocività in Val d’Arda, Coppula Tisa, Giustizia per Taranto, Gubbio Salute Ambiente, Isde, Lasciateci Respirare, Legamjonici, Legge Rifiuti Zero, Mamme contro l’Inceneritore, Mamme Libere per la Tutela dei Figli, Mamme No Pfas, Medicina Democratica, Movimento Sconforto Generale, No Antenna, Obiettivo Periferia, Rete Mamme da Nord a Sud, Salute Pubblica, Stop Solvay, Stop Veleni, Umbria Rifiuti Zero, Wwf Perugia, Wwf Salento, Zero Waste Lazio.
Che cosa dicono
Nella lunga e dettagliata lettera, 16 pagine di cui la metà di testo e la metà di firme, si chiede di abrogare il decreto del ministero dell'Ambiente n° 22 del 14 febbraio 2013 e di scongiurare l’approvazione di qualunque altro provvedimento per l’incenerimento e il coincenerimento di rifiuti e loro derivati.
A parere dei comitati, “la combustione di Css nei cementifici non è affatto un contributo alla gestione dei rifiuti e non può configurarsi come la “chiusura del ciclo”. Essa non rappresenta neanche una soluzione migliorativa riguardo all'inquinamento da CO2 prodotto dagli impianti di produzione del cemento, alimentati purtroppo con combustibili derivati per lo più dagli scarti del petrolio, perché più economici rispetto ad altri. Sostituire con i CSS una quota di pet-coke, il peggiore tra i combustibili fossili (a sua volta, in ultima analisi, un “rifiuto”), anche se il più utilizzato nei cementifici, potrebbe ridurre alcuni inquinanti gassosi, come gli ossidi di azoto, ma questa riduzione non è affatto significativa”.
Oltre alle emissioni, andrebbe considerato l’inglobamento delle ceneri prodotte dalla combustione dei rifiuti nel prodotto finale, “vale a dire quel cemento che ritroviamo poi nelle nostre case, scuole, ospedali e strade”.
Chi usa questo combustibile
Sono più di 20 le cementerie italiane autorizzate a sostituire il pet coke con Css e, secondo l’industria del cemento, il nostro Paese è arretrato rispetto agli altri dell’Unione europea: il tasso di sostituzione calorica con combustibili di recupero è oggi al 20,7%, mentre in Germania i combustibili derivati dai rifiuti rappresentano due terzi dei consumi. È un contributo a ridurre la pressione dei rifiuti nelle discariche. Secondo Federbeton, usare questi combustibili alternativo “nel solco dell’economia circolare e dell’impegno alla mitigazione dei cambiamenti climatici” è necessario “un intervento da parte della politica a favore del superamento della sindrome Nimby (acronimo di Not in my back yard), così come la semplificazione dei processi autorizzativi, di durata incerta, che scoraggiano le aziende dal porre in essere investimenti, anche economicamente onerosi, senza alcuna ragionevole certezza sugli esiti dei procedimenti”.
fonte: www.e-gazette.it
#RifiutiZeroUmbria - Sostienici nelle nostre iniziative, anche con un piccolo contributo su questo IBAN IT 44 Q 03599 01899 050188531897. Grazie!
=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria
Labels:
#Ambiente,
#ChiusuraDelCicloRifiuti,
#CSS,
#Ecologia,
#Incenerimento,
#MinisteroSalute,
#PapaFrancesco,
#Rifiuti,
#SergioCosta_min,
#SergioMattarella,
#Tar
Stoviglie in bar e ristoranti ai tempi del Coronavirus. Ministro Speranza: il lavaggio con acqua calda e detergente di quelle riutilizzabili assicura un’adeguata sicurezza biologica
Importante affermazione del ministro della Salute durante un'audizione in Commissione Ecomafie sulla gestione dei rifiuti collegata all'emergenza COVID-19

La Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati (Commissione Ecomafie) ha audito il Ministro della Salute Roberto Speranza sulla gestione dei rifiuti collegata all'emergenza COVID-19.
Il Ministro, riconoscendo il ruolo della Commissione come importante articolazione del Parlamento, ha fornito informazioni in merito ai rifiuti sanitari e ai rifiuti derivanti dall’uso di guanti e mascherine. L’audito ha dichiarato che questi ultimi sono destinati ad aumentare e, nell’ottica di un bilanciamento tra i valori costituzionali di tutela della salute e dell’ambiente, ha dichiarato che è necessario mettere in campo misure per limitare l’impatto derivante dal ricorso diffuso e massivo a tali dispositivi.
Per quanto riguarda il riuso delle mascherine di comunità, adatte alla protezione individuale nella vita quotidiana, l’audito ha riferito che questo è possibile, attenendosi alle indicazioni fornite dal produttore anche sul numero di lavaggi. Rispetto invece alle mascherine chirurgiche, il Ministro ha spiegato che al momento non sono disponibili test sulle caratteristiche di prodotti monouso ricondizionati. Relativamente alle mascherine FFP2 ed FFP3, l’audito ha riferito che un loro ricondizionamento porta con sé numerose criticità, soprattutto di natura biologica e meccanica, oltre che di sicurezza degli operatori addetti alla sanificazione dei dispositivi, al momento non risolte. Secondo quanto riferito, sono in corso numerosi studi sul loro possibile ricondizionamento.
Sul tema dell’uso diffuso di stoviglie usa e getta da parte delle attività di ristorazione per una percezione di maggiore sicurezza, il Ministro ha riferito che il lavaggio con acqua calda e detergente di quelle riutilizzabili assicura un’adeguata sicurezza biologica. L’audito ha riferito che è possibile attuare una campagna di sensibilizzazione delle attività di ristorazione in favore dell’uso di stoviglie riutilizzabili.
Per quanto riguarda il trattamento dei rifiuti sanitari prodotti dagli ospedali tramite la tecnica della sterilizzazione in situ, l’audito ha riferito che sul tema è in corso una ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità.
«Ringrazio il Ministro Speranza per la disponibilità e la sensibilità dimostrata verso i temi ambientali. Ritengo necessario un bilanciamento tra esigenze sanitarie e problematiche ambientali. È fondamentale che la ripresa proceda di pari passo con misure che frenino la proliferazione dei rifiuti, in primo luogo promuovendo ove possibile il riuso delle mascherine e l'uso di stoviglie riutilizzabili nelle attività di ristorazione, in considerazione delle adeguate garanzie di sicurezza offerte. Anche sull’uso dei guanti può essere fatta una riflessione, per evitare utilizzi non necessari. Su questi aspetti la Commissione proseguirà anche il dialogo avviato con l’Istituto Superiore di Sanità», dichiara il Presidente della Commissione Ecomafie Stefano Vignaroli.
fonte: www.ecodallecitta.it
#RifiutiZeroUmbria - #DONA IL #TUO 5 X 1000 A CRURZ - Cod.Fis. 94157660542
=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria

La Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati (Commissione Ecomafie) ha audito il Ministro della Salute Roberto Speranza sulla gestione dei rifiuti collegata all'emergenza COVID-19.
Il Ministro, riconoscendo il ruolo della Commissione come importante articolazione del Parlamento, ha fornito informazioni in merito ai rifiuti sanitari e ai rifiuti derivanti dall’uso di guanti e mascherine. L’audito ha dichiarato che questi ultimi sono destinati ad aumentare e, nell’ottica di un bilanciamento tra i valori costituzionali di tutela della salute e dell’ambiente, ha dichiarato che è necessario mettere in campo misure per limitare l’impatto derivante dal ricorso diffuso e massivo a tali dispositivi.
Per quanto riguarda il riuso delle mascherine di comunità, adatte alla protezione individuale nella vita quotidiana, l’audito ha riferito che questo è possibile, attenendosi alle indicazioni fornite dal produttore anche sul numero di lavaggi. Rispetto invece alle mascherine chirurgiche, il Ministro ha spiegato che al momento non sono disponibili test sulle caratteristiche di prodotti monouso ricondizionati. Relativamente alle mascherine FFP2 ed FFP3, l’audito ha riferito che un loro ricondizionamento porta con sé numerose criticità, soprattutto di natura biologica e meccanica, oltre che di sicurezza degli operatori addetti alla sanificazione dei dispositivi, al momento non risolte. Secondo quanto riferito, sono in corso numerosi studi sul loro possibile ricondizionamento.
Sul tema dell’uso diffuso di stoviglie usa e getta da parte delle attività di ristorazione per una percezione di maggiore sicurezza, il Ministro ha riferito che il lavaggio con acqua calda e detergente di quelle riutilizzabili assicura un’adeguata sicurezza biologica. L’audito ha riferito che è possibile attuare una campagna di sensibilizzazione delle attività di ristorazione in favore dell’uso di stoviglie riutilizzabili.
Per quanto riguarda il trattamento dei rifiuti sanitari prodotti dagli ospedali tramite la tecnica della sterilizzazione in situ, l’audito ha riferito che sul tema è in corso una ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità.
«Ringrazio il Ministro Speranza per la disponibilità e la sensibilità dimostrata verso i temi ambientali. Ritengo necessario un bilanciamento tra esigenze sanitarie e problematiche ambientali. È fondamentale che la ripresa proceda di pari passo con misure che frenino la proliferazione dei rifiuti, in primo luogo promuovendo ove possibile il riuso delle mascherine e l'uso di stoviglie riutilizzabili nelle attività di ristorazione, in considerazione delle adeguate garanzie di sicurezza offerte. Anche sull’uso dei guanti può essere fatta una riflessione, per evitare utilizzi non necessari. Su questi aspetti la Commissione proseguirà anche il dialogo avviato con l’Istituto Superiore di Sanità», dichiara il Presidente della Commissione Ecomafie Stefano Vignaroli.
fonte: www.ecodallecitta.it
#RifiutiZeroUmbria - #DONA IL #TUO 5 X 1000 A CRURZ - Cod.Fis. 94157660542
=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria
Labels:
#Ambiente,
#CommissioneEcomafie,
#Covid19,
#GestioneRifiuti,
#MinisteroSalute,
#RaccoltaDifferenziata,
#RifiutiSanitari,
#StoviglieRiutilizzabili
Dall’Istituto Superiore di Sanità : Color Glass S.p.a. Azienda Insalubre di Prima Classe
Apprendiamo dalla
stampa che la vicenda Color Glass si arricchisce di ulteriori particolari.
Questa volta è
addirittura l’Istituto Superiore di Sanità che esprime il proprio parere, su richiesta del Ministero della
Salute, circa la classificazione dell’azienda Color Glass Spa che opera a
Trestina quale industria insalubre di prima classe.
Giorno dopo giorno
vengono infatti alla luce documenti e pareri ufficiali che smentiscono
puntualmente l’atteggiamento di alcuni politici e amministartori, che,
ostinatamente, insieme ad Arpa e
Usl, si impegnano a cercare cavilli e
scappatoie, per sostenere il rilascio di favorevoli autorizzazioni, relegando in secondo piano le grida di
preoccupazione, per la propria salute, della popolazione di Trestina e
Calzolaro.
Abbiamo promosso
convegni scientifici, partecipato a commissioni consiliari, assemblee e
Consigli Comunali, per tentare di far capire l’esasperazione in cui vivono le
persone della zona Sud, ma, purtroppo, il solito rimpallo politico/amministrativo
ha finora sempre prevalso, nonostante le preoccupanti stime di mortalità per
cancro che in Altotevere esigerebbero tutt’altro trattamento.
Seppure la
legislazione Nazionale ed Europea sia ormai chiaramente orientata alla tutela
della salute e dell’ambiente e sostenga con forza quel famoso “principio di
precauzione”, nella nostra disgraziata
realtà sembra che tali norme non siano applicabili.
Prendiamo atto
quotidianamente di pareri di agenzie ed enti pubblici, che, formulati in
maniera acquiescente e funzionale, tendono a favorire il rilascio di
autorizzazioni a dir poco discutibili, dove mancano procedimenti fondamentali
quali ad esempio la valutazione di impatto ambientale.
A questo punto
servono azioni più efficaci e, visto che
la politica non riesce a risolvere i problemi, allora è necessario che
intervenga la Magistratura.
Il Comitato Salute
Ambiente Calzolaro Trestina Altotevere Sud non ha alcuna intenzione di mollare,
anzi, con rinnovata convinzione e fortissima determinazione, continuerà la propria azione a tutela della
salute e dell’Ambiente del proprio comprensorio.
NON CI FERMEREMO
COMITATO SALUTE
AMBIENTE CALZOLARO-TRESTINA ALTOTEVERE
SUD
Sentieri, dove senza bonifiche i Siti d’interesse nazionale (e regionale) uccidono
Il quinto rapporto promosso dal ministero della Salute è dedicato a 45 tra Sin e Sir, dove in 8 anni sono stati individuati 12mila morti in eccesso, di cui oltre 5mila per tumori maligni: sempre più urgenti bonifiche e migliore comunicazione ambientale
Il programma di sorveglianza epidemiologica nei siti contaminati finanziato dal ministero della Salute ha partorito ieri il V rapporto Sentieri, prendendo in esame 45 Siti di interesse per le bonifiche – di cui 38 d’interesse nazionale (Sin) e 7 riclassificati come d’interesse regionale (Sir) – e mettendo purtroppo in evidenza dati da emergenza sanitaria oltre che ambientale. Nel periodo 2006-2013 per l’insieme dei 45 siti sono stati stimati infatti 5.267 decessi in eccesso per tutte le cause negli uomini (+4%) e 6.725 nelle donne (+5%); di questi, 3.375 decessi per tutti i tumori maligni in eccesso negli uomini (+3%), e 1.910 nelle donne (+2%).
Per quanto riguarda invece l’incidenza tumorale globale – ovvero quanti nuovi casi di tumore vengono diagnosticati – è stato stimato un eccesso di 1.220 casi negli uomini e 1.425 nelle donne. Prendendo in considerazione nella popolazione generale le patologie di interesse a priori, ed esaminando l’insieme dei 45 siti studiati, si osserva che gli eccessi più frequenti per i diversi esiti studiati sono relativi ai tumori maligni della pleura/mesoteliomi maligni, tumore maligno del polmone, malattie dell’apparato respiratorio, tumori maligni del colon retto e dello stomaco. Tali eccessi, variamente combinati per patologia, esito, genere, si osservano in 35 siti, le cui fonti di esposizione ambientale più ricorrenti sono rappresentate da impianti chimici, aree portuali, impianti petrolchimici e/o raffinerie, amianto.
Una situazione drammatica che Sentieri è chiamato a studiare e documentare, ma non a risolvere. Per questo servirebbe concludere effettivamente le bonifiche nei Sin e Sir, spesso noti e perimetrati da decenni ma ancora liberi di inquinare. Solo poche settimane fa è stata direttamente l’Ispra – l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale – a fare il punto della situazione durante un’audizione parlamentare per la commissione Ecomafie, e i numeri testimoniano lo stallo di sempre.
Ad oggi in Italia ci sono 41 Sin, per una superficie totale a terra di 171.268 ettari e a mare di 77.733 ettari, e sul totale della superficie terrestre dei Sin (esclusi 6 siti con caratteristiche peculiari) gli interventi di bonifica o messa in sicurezza si sono concluse per appena il 15% dei suoli e il 12% delle acque sotterranee. Rinunciando così non solo a un’imprescindibile riduzione dei fattori d’inquinamento locali, ma anche a una preziosa occasione di sviluppo sostenibile. Come già documentato su queste pagine secondo le stime fornite da Confindustria per concludere le bonifiche sarebbero necessari investimenti pari a circa 10 miliardi di euro, mentre finora lo Stato ha stanziato risorse «nell’ordine di milioni di euro». Eppure investendo nelle bonifiche dei Sin questi 10 miliardi di euro Confindustria stima che il livello della produzione aumenterebbe di oltre il doppio, innescando 200.000 posti di lavoro in più e ripagandosi in gran parte da solo: tra imposte dirette, indirette e maggiori contributi sociali allo Stato rientrerebbero 4,7 miliardi di euro, oltre all’inestimabile valore di un ambiente finalmente sano.
Sono passati ormai tre anni dalla pubblicazione dello studio confindustriale, ma nonostante il cambio Governo le bonifiche sono rimaste come sempre al palo, alimentando un giustificato clima di crescente sfiducia sul territorio. È in questo difficile contesto che s’inserisce anche il capitolo della comunicazione, affrontato con dovizia di dettagli anche all’interno dello studio Sentieri, che ne sottolinea l’importanza capitale: «Occorre mettere in opera piani di comunicazione con la popolazione residente nei siti, fornendo indicazioni operative per evitare, o quanto meno mitigare, le circostanze di esposizione, e contribuire a rafforzare la rete di relazioni tra istituzioni e cittadini residenti, anche per quanto attiene ai processi decisionali che riguardano l’interconnessione ambiente e salute». Perché senza consapevolezza è assai difficile che possa maturare una qualsiasi forma di sviluppo sostenibile.
fonte: www.greenreport.it
Inquinamento nuoce a fertilità giovani: i test nella Terra dei Fuochi
Qual è il rapporto tra inquinamento e salute riproduttiva? È questa la domanda a cui vuole rispondere un progetto coordinato dall’Asl di Salerno e patrocinato dal Ministero della Salute. Il programma si chiama Fast, sigla per indicare Fertilità, Ambiente e STili di vita.
Si tratta di una linea del progetto più ampio EcoFoodFertility, che mira a prendere in considerazione 450 ragazzi che vivono in tre aree dell’Italia a elevato impatto ambientale. In particolare 150 di loro sono residenti nei Comuni a nord di Napoli che rientrano a pieno titolo nella cosiddetta Terra dei Fuochi. L’uroandrologo salernitano Luigi Montanaro, referente scientifico del programma, ha spiegato:
Diversi studi hanno provato che a tassi di mortalità e incidenza di patologie metabolico-degenerative è legata una cattiva qualità dello sperma che diventa un importante indicatore della pressione giocata dalle matrici ambientali su persone che vivono in zone soggette ad inquinamento. Il progetto EcoFoodFertility ha già dei dati solidi in Campania e si riferisce a ragazzi tra i 18 i 40 anni residenti in diverse aree di campionamento.
L’inquinamento avrebbe degli effetti sulla fertilità che non sarebbero affatto da sottovalutare. Ecco perché bisognerebbe controbilanciare gli effetti sulla salute attraverso l’adozione di una sana alimentazione e di un corretto stile di vita, come fanno notare gli esperti che si sono espressi sull’argomento.
La fertilità può essere considerata un indicatore importante della salute, per questo si è deciso di condurre uno studio apposito per avere a disposizione nuovi modelli di valutazione dell’impatto ambientale sul benessere degli individui. I ragazzi, dopo essere stati selezionati, saranno sottoposti a delle visite andrologiche e nutrizionali e riceveranno delle specifiche informazioni sul tema.
I ricercatori li sottoporranno a esami del sangue, delle urine, dei capelli e del liquido seminale, per verificare il numero e la morfologia degli spermatozoi. Metà dei soggetti seguirà un intervento nutrizionale, consumando alimenti privi di pesticidi. Dopo quattro mesi si procederà a una valutazione degli effetti.
fonte: www.greenstyle.it
La lotta allo spreco alimentare nelle mense di scuole, ospedali e aziende. Le linee guida del Ministero della salute Dgisan
Lo spreco alimentare è un problema con importanti risvolti sociali e ambientali, per questo va affrontato lungo l’intero “ciclo di vita” del cibo, dai campi alla tavola. Il problema interessa soprattutto le mense (comprese quelle scolastiche e ospedaliere), che secondo alcune stime sarebbero responsabili del 14% di tutto il cibo sprecato nell’Unione europea. Per questo motivo la Direzione generale per l’igiene e la sicurezza degli alimenti e della nutrizione (Dgisan) del Ministero della salute ha redatto delle linee guida rivolte ad aziende ed enti che operano nella ristorazione collettiva per prevenire e ridurre lo spreco.
La questione è particolarmente problematica nella ristorazione ospedaliera, che solo in Italia somministra 269 milioni di pasti l’anno, un terzo dei quali (31,2%) viene sprecato. Il paradosso è che troppo spesso lo stato nutrizionale dei pazienti peggiora durante il ricovero, anche se le cause non riguardano solo la qualità del pasto. Il motivo di tanto spreco è da ricercare nella diffusa mancanza di attenzione verso le caratteristiche organolettiche e nutrizionali dei piatti e nelle diverse esigenze cliniche e terapeutiche dei pazienti.
Per questa ragione il Dgisan consiglia di migliorare la pianificazione dei pasti, ottimizzando l’acquisto di una giusta quantità di materie prime grazie al contributo di una procedura di prenotazione individuale, semplificata e flessibile, oltre a progettare menu per i pazienti che seguono determinate diete con un numero ridotto di scelte e porzioni differenti. È necessario anche formare il personale di cucina e di reparto su come ridurre gli sprechi, e sensibilizzare i pazienti e i familiari.
Anche nelle mense scolastiche viene gettata via una quantità significativa di cibo perfettamente commestibile. Secondo l’audizione Oricon il 12,6% dei pasti non viene consumato, il picco maggiore si raggiunge con i contorni (22%), quindi con la verdura. Il problema è che nelle scuole non esiste un rilevamento sistematico dello spreco. Il monitoraggio è importante e secondo le linee guida va implementato anche con il coinvolgimento degli studenti, attraverso momenti di educazione e sensibilizzazione, accanto a percorsi di formazione per gli insegnanti.

Secondo il Ministero della salute, sarebbe auspicabile avvicinare il più possibile i centri cottura alle scuole servite, anche se negli ultimi anni la tendenza è stata quella di chiudere le cucine nei singoli edifici delegando la produzione dei pasti a cucine centralizzate in grado di servire più scuole. Si consiglia anche di inserire una seconda razione di frutta e utilizzare gli avanzi giornalieri di frutta, pane e budini del pranzo per preparare la merenda del giorno dopo, oppure di darli ai ragazzi per portarli a casa. Sarebbe necessario anche rendere i locali mensa più accoglienti e adeguati al consumo dei pasti.
Le mense aziendali, invece, tendono ad avere la percentuale minore di spreco di cibo (solo il 2-3%), proprio perché sono gestite da ditte esterne che hanno interesse a ridurre i costi. Si registra comunque un aumento degli sprechi laddove il pasto è totalmente gratuito, e la cosa non sorprende.
Per quanti riguarda la ristorazione aziendale, il Dgisan raccomanda di migliorare la programmazione degli acquisti delle materie prime e di utilizzare tutti gli strumenti possibili (come gli abbattitori) per ridurre le eccedenze della cucina. È importante promuovere la collaborazione tra cuochi e dietisti per elaborare menu equilibrati, ma allo stesso tempo appetibili, promuovere il riuso degli avanzi e prevedere la possibilità di realizzare porzioni con dimensioni differenti per assecondare le esigenze dei commensali.
Quando non si riesce a evitare lo spreco sarebbe opportuno favorire una sinergia tra i gestori delle mense, i servizi sociali dei comuni e gli enti di volontariato per distribuire i pasti avanzati. Per il cibo che invece resta nel piatto, invece, il destino è quello del compostaggio.
fonte: www.ilfattoalimentare.it
Labels:
#Ambiente,
#LottaAgliSprechi,
#Mense,
#MenseScolastiche,
#MinisteroSalute,
#PastiOspedalieri,
#PrevenzioneRifiuti,
#SprechiAlimentari
Sacchetti compostabili, parere del Consiglio di Stato: 'Si possono portare anche da casa'
La legge stabilisce che le buste hanno un valore e “non possono essere sottratte alla logica del mercato”. Proprio in virtù di questo, perché vietare ai consumatori di comprare i sacchetti da un'altra parte e portarli al supermercato?
I sacchetti biodegradabili si possono portare da casa e utilizzare all'interno del supermercato o dell'alimentari dove si acquistano la frutta e la verdura. Nessun obbligo di usare esclusivamente i sacchetti del negozio (e quindi di comprarli insieme al cibo stesso). Questo è ciò che ha scritto il Consiglio di Stato nel parere richiesto dal Ministero della Salute, spiegando che la legge stabilisce che le buste hanno un valore e “non possono essere sottratte alla logica del mercato”. In sostanza vanno per forza vendute; un'imposizione da cui nacque la grande polemica nazional popolare degli scorsi mesi. Ma proprio sulla base di ciò, il CDS dice perché vietare ai consumatori di comprare i sacchetti da un'altra parte e portarli al supermercato? Non solo, il CdS ammette anche la possibilità che il consumatore si procuri autonomamente e usi, al posto delle borse ultraleggere in bioplastica, contenitori alternativi che siano idonei a contenere la frutta e la verdura acquistati.
Ecco il testo del Consiglio di Stato:
QuesitiCiò premesso, il Ministero della salute indirizza a questo Consiglio i seguenti quesiti: a) se sia possibile per i consumatori utilizzare nei soli reparti di vendita a libero servizio (frutta e verdura) sacchetti monouso nuovi dagli stessi acquistati al di fuori degli esercizi commerciali, conformi alla normativa sui materiali a contatto con gli alimenti; b) in caso di risposta positiva, se gli operatori del settore alimentare siano obbligati e a quali condizioni a consentirne l’uso nei propri esercizi commerciali.
Ecco il testo del Consiglio di Stato:
QuesitiCiò premesso, il Ministero della salute indirizza a questo Consiglio i seguenti quesiti: a) se sia possibile per i consumatori utilizzare nei soli reparti di vendita a libero servizio (frutta e verdura) sacchetti monouso nuovi dagli stessi acquistati al di fuori degli esercizi commerciali, conformi alla normativa sui materiali a contatto con gli alimenti; b) in caso di risposta positiva, se gli operatori del settore alimentare siano obbligati e a quali condizioni a consentirne l’uso nei propri esercizi commerciali.
Tra le considerazioni n premessaQuanto all’aspetto legato all’irrinunciabile tutela della sicurezza dei prodotti alimentari destinati ad essere immessi in commercio, giova inoltre brevemente rammentare quanto segue. L’art. 17, comma I del regolamento (CE) 178/2002 affida agli operatori del settore alimentare il compito di garantire che nelle imprese da essi controllate gli alimenti soddisfino le disposizioni della legislazione alimentare inerenti alle loro attività in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione e verificare che tali disposizioni siano soddisfatte. In base all’art. 1 del regolamento (CE) 852/2004 è necessario garantire la sicurezza degli alimenti lungo tutta la catena alimentare, a cominciare dalla produzione primaria. L’art. 4 prevede che gli operatori del settore alimentare che eseguono qualsivoglia fase della produzione, della trasformazione e della distribuzione di alimenti rispettino i requisiti generali in materia d’igiene di cui all’allegato II e ogni requisito specifico previsto dal regolamento (CE) 853/2004. A tal fine, il capitolo IX, relativo ai requisiti applicabili ai prodotti alimentari, prevede, tra l’altro, che “in tutte le fasi di produzione, trasformazione e distribuzione gli alimenti devono essere protetti da qualsiasi forma di contaminazione atta a renderli inadatti al consumo umano, nocivi per la salute o contaminati in modo tale da non poter essere ragionevolmente consumati in tali condizioni”. Inoltre, per quel che rileva in questa sede, il capitolo X sui requisiti applicabili al confezionamento e all’imballaggio dispone che “i materiali di cui sono composti il confezionamento e l’imballaggio non devono costituire una fonte di contaminazione; i materiali di confezionamento devono essere immagazzinati in modo tale da non essere esposti a un rischio di contaminazione”. Rileva, inoltre, il già citato d. m. Sanità 21 marzo 1973 (recante “Disciplina igienica degli imballaggi, recipienti, utensili, destinati a venire in contatto con le sostanze alimentari o con sostanze d'uso personale”) che vieta l’impiego, per la preparazione di oggetti in materia plastica destinati a venire in contatto con alimenti, di materie plastiche di scarto e di oggetti di materiale plastico già utilizzati.
Risposte ai quesitiTenuto conto delle considerazioni svolte in premessa, prima di rispondere ai quesiti proposti è opportuno precisare che: la risposta agli stessi deve essere rispettosa dello scopo che il legislatore si è prefisso, attraverso l’introduzione della misura che prevede la necessaria onerosità delle borse di plastica in materiale ultraleggero; non solo, la risposta da dare ai due quesiti, che risultano tra loro connessi, deve essere altresì coerente con lo strumento che il legislatore ha voluto utilizzare per il raggiungimento di tale scopo; infine, non possono non trascurarsi le già accennate implicazioni in tema di sicurezza dei prodotti e la connessa imprescindibile responsabilità dell’esercizio commerciale. Quanto al primo aspetto, giova evidenziare che la disposizione che ha dato luogo ai quesiti è chiaramente volta alla limitazione della diffusione delle borse in plastica, quali agenti, come noto, gravemente inquinanti dell’ambiente. Nel più ampio contesto normativo volto a combattere l’inquinamento derivante dai prodotti plastici, si inserisce anche la previsione della necessaria commercializzazione a pagamento delle buste di plastica in materiale ultraleggero, che dunque non possono essere cedute a titolo gratuito al consumatore finale, nemmeno se fungono da imballaggio della merce sfusa venduta all’interno dell’esercizio commerciale, come frutta e verdura. La necessaria onerosità della borsa risponde alla finalità di sensibilizzare il consumatore relativamente all’utilizzo della borsa in materiale plastico, in quanto prodotto inquinante, inducendolo a farne un uso oculato e parsimonioso, potendo oltretutto la stessa essere riutilizzata in ambito domestico per le finalità più varie. In altri termini, il legislatore, per perseguire lo scopo di limitare la diffusione indiscriminata delle borse in discorso, piuttosto che introdurre una norma di ..
Ne consegue, che La risposta da dare ai due quesiti proposti non può prescindere dal fatto che il legislatore ha elevato le borse in plastica ultraleggere utilizzate per la frutta e verdura all’interno degli esercizi commerciali a prodotto che “deve” essere compravenduto. In questa ottica, la borsa, per legge, è un bene avente un valore autonomo ed indipendente da quello della merce che è destinata a contenere. Ciò è confermato dal fatto che la norma (cfr. comma 5, cit.), oltre a prevederne l’onerosità, ha stabilito che “il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino”, in modo da risultare separato da quello della merce, così da distinguere il valore dei due beni (contenitore e contenuto). Alla luce delle considerazioni che precedono, deve assumersi che l’utilizzo e la circolazione delle borse oggetto del presente parere – in quanto beni autonomamente commerciabili – non possono essere sottratte alla logica del mercato. Per tale ragione, non sembra consentito escludere la facoltà del loro acquisto all’esterno dell’esercizio commerciale nel quale saranno poi utilizzate, in quanto, per l’appunto, considerate di per sé un prodotto autonomamente acquistabile, avente un valore indipendente da quello delle merci che sono destinate a contenere. In questa prospettiva, è dunque coerente con lo strumento scelto dal legislatore la possibilità per i consumatori di utilizzare sacchetti dagli stessi reperiti al di fuori degli esercizi commerciali nei quali sono destinati ad essere utilizzati. Secondo la medesima prospettiva, di conseguenza, non pare possibile che gli operatori del settore alimentare possano impedire tale facoltà (salve le precisazione che seguiranno circa il necessario controllo dei sacchetti per verificarne l’idoneità e la conformità normativa). A tale conclusione si giunge anche ponendo l’attenzione sul fatto che la necessaria onerosità della busta in plastica, quanto meno indirettamente, vuole anche incentivare l’utilizzo di materiali alternativi alla plastica, meno inquinanti, quale in primo luogo la carta. Ne deriva, che deve certamente ammettersi la possibilità di utilizzare – in luogo delle borse ultraleggere messe a disposizioni, a pagamento, nell’esercizio commerciale – contenitori alternativi alle buste in plastica, comunque idonei a contenere alimenti quale frutta e verdura, autonomamente reperiti dal consumatore; non potendosi inoltre escludere, alla luce della normativa vigente, che per talune tipologie di prodotto uno specifico contenitore non sia neppure necessario. Una diversa interpretazione tradirebbe lo spirito stesso della norma, che è quello di limitare l’uso di borse in plastica. In analogia con tale conclusione, di conseguenza, al fine di scongiurare differenziazioni che, allo stato, non trovano giustificazione in alcuna norma, deve concludersi che l’esercizio commerciale deve permettere anche l’uso di borse in plastica leggere autonomamente introdotte dal consumatore nel punto vendita. Come anticipato, la corretta risposta ai quesiti implica la necessità di coniugare le conclusioni appena esposte con l’esigenza di tutela della sicurezza ed igiene degli alimenti, al cui presidio è in primo luogo chiamata l’impresa di distribuzione, la cui responsabilità permane, indipendente dalla risposta ai quesiti in esame. Al riguardo, deve infatti sottolinearsi che non ogni involucro risulta idoneo all’imballaggio degli alimenti. Invero, il legislatore detta regole relative ai materiali che possono venire a contatto diretto con alimenti o bevande, allo scopo di garantire che detti materiali siano adeguati e non rendano insicuri gli alimenti. Per quel che rileva in questa sede, attualmente, la disciplina essenziale è contenuta nel regolamento (CE) 1935/2004 che stabilisce i requisiti generali e specifici per materiali e oggetti destinati ad entrare in contatto con gli alimenti. Il criterio generale è che i materiali o gli oggetti destinati a venire a contatto, direttamente o indirettamente, con i prodotti alimentari devono essere sufficientemente inerti da escludere il trasferimento di sostanze ai prodotti alimentari in quantità tali da mettere in pericolo la salute umana o da comportare una modifica inaccettabile della composizione dei prodotti alimentari o un deterioramento delle loro caratteristiche. Più nello specifico, in riferimento ai materiali plastici, ai fini del presente parere, N. 00263/2018 AFFARE deve ribadirsi il necessario rispetto: del regolamento (UE) 1895/2005 sulla restrizione dell’uso di alcuni derivati epossidici in materiali e oggetti destinati a entrare in contatto con prodotti alimentari; del regolamento (CE) 282/2008 sugli oggetti in plastica riciclata destinati al contatto con gli alimenti; del regolamento (CE) 450/2009 sui materiali attivi destinati al contatto con gli alimenti. Alla luce delle considerazioni che precedono, il corretto contemperamento dei due interessi sottesi alle questioni all’attenzione della Commissione, porta a ritenere che, laddove il consumatore non intenda acquistare il sacchetto ultraleggero commercializzato dall’esercizio commerciale per l’acquisto di frutta e verdura sfusa, possa utilizzare sacchetti in plastica autonomamente reperiti solo se comunque idonei a preservare l’integrità della merce e rispondenti alla caratteristiche di legge. In tal caso, richiamando le considerazioni già svolte, non sembra possibile per l’esercizio commerciale vietare tale facoltà.
Quest’ultimo assunto non si pone in contrasto con il quadro normativo ricordato in premessa, dal quale si evince la pacifica sussistenza della responsabilità dell’impresa rispetto all’integrità e sicurezza dei prodotti che sono venduti all’interno dell’esercizio commerciale. Al riguardo, in questa sede ci si limita a ricordare che l’operatore del settore alimentare deve sempre e comunque garantire che gli alimenti soddisfino le disposizioni della legislazione alimentare inerenti alle loro attività in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione, nonché verificare che tali disposizioni siano soddisfatte, dovendosi riconoscere la responsabilità del distributore di alimenti a prescindere dalla sua partecipazione o meno al confezionamento (art. 17 del regolamento 178/2002). Pertanto, a scanso di equivoci, deve precisarsi che, quanto meno in astratto, la responsabilità dell’impresa di distribuzione non possa venire automaticamente meno nel caso in cui un danno o un pregiudizio sia stato cagionato dalla condotta del consumatore o, per quanto rileva in questa sede, per il tramite dell’inidoneità di un involucro dallo stesso introdotto nell’esercizio commerciale. Infatti, deve ribadirsi che, proprio in ragione dell’irrinunciabile esigenza di preservare l’integrità degli alimenti posti in vendita, sull’esercizio commerciale, in base alle norme già citate, grava comunque un obbligo di controllo su tutti i fattori potenzialmente pregiudizievoli per la sicurezza dei prodotti compravenduti all’interno del punto vendita, tra cui, evidentemente, anche sugli eventuali sacchetti che il consumatore intende utilizzare.
Al riguardo, giova ricordare che il più importante obbligo del titolare dell’impresa alimentare, la cui inosservanza può essere fonte anche di responsabilità penale, consiste nell’analisi di pericoli e punti critici di controllo, così come previsto dall’art. 5 regolamento 852/2004 il cui 1° comma stabilisce, per l’appunto, che “Gli operatori del settore alimentare predispongono, attuano e mantengono una o più procedure permanenti, basate sui principi del sistema HACCP”. L’omessa osservanza durante tutta la catena alimentare delle regole cautelari, a cominciare dall’adozione del “piano di autocontrollo”, passando poi per l’integrale rispetto delle indicazioni ivi contenute, costituisce dunque un profilo di colpa degli operatori del settore alimentare. Ne consegue che ciascun esercizio commerciale sarà dunque tenuto, secondo le modalità dallo stesso ritenute più appropriate, alla verifica dell’idoneità e della conformità a legge dei sacchetti utilizzati dal consumatore, siano essi messi a disposizione dell’esercizio commerciale stesso, siano essi introdotti nei locali autonomamente dal consumatore. Alla luce delle considerazioni che precedono, deve concludersi che il necessario ed imprescindibile rispetto della normativa in tema di igiene e sicurezza alimentare comporta che l’esercizio commerciale, in quanto soggetto che deve garantire l’integrità dei prodotti ceduti dallo stesso, possa vietare l’utilizzo di contenitori autonomamente reperiti dal consumatore solo se non conformi alla normativa di volta in volta applicabile per ciascuna tipologia di merce, o comunque in concreto non idonei a venire in contatto con gli alimenti. Infine, a monte dei quesiti proposti, la Commissione non può esimersi dall’osservare che le restrizioni relative alle borse ultraleggere non paiono imposte dalla direttiva citata. Invero, il paragrafo 1-bis dell’articolo 4 della direttiva 2015/720 si rivolge alle sole borse di plastica in materiale leggero; mentre, il successivo paragrafo 1-ter consente (non obbliga) agli Stati membri di adottare misure, tra cui strumenti economici e obiettivi di riduzione nazionali, in ordine a qualsiasi tipo di borse di plastica, indipendentemente dal loro spessore. P.Q.M. Nei sensi esposti nella motivazione è il parere della Commissione speciale.
Ne consegue, che La risposta da dare ai due quesiti proposti non può prescindere dal fatto che il legislatore ha elevato le borse in plastica ultraleggere utilizzate per la frutta e verdura all’interno degli esercizi commerciali a prodotto che “deve” essere compravenduto. In questa ottica, la borsa, per legge, è un bene avente un valore autonomo ed indipendente da quello della merce che è destinata a contenere. Ciò è confermato dal fatto che la norma (cfr. comma 5, cit.), oltre a prevederne l’onerosità, ha stabilito che “il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino”, in modo da risultare separato da quello della merce, così da distinguere il valore dei due beni (contenitore e contenuto). Alla luce delle considerazioni che precedono, deve assumersi che l’utilizzo e la circolazione delle borse oggetto del presente parere – in quanto beni autonomamente commerciabili – non possono essere sottratte alla logica del mercato. Per tale ragione, non sembra consentito escludere la facoltà del loro acquisto all’esterno dell’esercizio commerciale nel quale saranno poi utilizzate, in quanto, per l’appunto, considerate di per sé un prodotto autonomamente acquistabile, avente un valore indipendente da quello delle merci che sono destinate a contenere. In questa prospettiva, è dunque coerente con lo strumento scelto dal legislatore la possibilità per i consumatori di utilizzare sacchetti dagli stessi reperiti al di fuori degli esercizi commerciali nei quali sono destinati ad essere utilizzati. Secondo la medesima prospettiva, di conseguenza, non pare possibile che gli operatori del settore alimentare possano impedire tale facoltà (salve le precisazione che seguiranno circa il necessario controllo dei sacchetti per verificarne l’idoneità e la conformità normativa). A tale conclusione si giunge anche ponendo l’attenzione sul fatto che la necessaria onerosità della busta in plastica, quanto meno indirettamente, vuole anche incentivare l’utilizzo di materiali alternativi alla plastica, meno inquinanti, quale in primo luogo la carta. Ne deriva, che deve certamente ammettersi la possibilità di utilizzare – in luogo delle borse ultraleggere messe a disposizioni, a pagamento, nell’esercizio commerciale – contenitori alternativi alle buste in plastica, comunque idonei a contenere alimenti quale frutta e verdura, autonomamente reperiti dal consumatore; non potendosi inoltre escludere, alla luce della normativa vigente, che per talune tipologie di prodotto uno specifico contenitore non sia neppure necessario. Una diversa interpretazione tradirebbe lo spirito stesso della norma, che è quello di limitare l’uso di borse in plastica. In analogia con tale conclusione, di conseguenza, al fine di scongiurare differenziazioni che, allo stato, non trovano giustificazione in alcuna norma, deve concludersi che l’esercizio commerciale deve permettere anche l’uso di borse in plastica leggere autonomamente introdotte dal consumatore nel punto vendita. Come anticipato, la corretta risposta ai quesiti implica la necessità di coniugare le conclusioni appena esposte con l’esigenza di tutela della sicurezza ed igiene degli alimenti, al cui presidio è in primo luogo chiamata l’impresa di distribuzione, la cui responsabilità permane, indipendente dalla risposta ai quesiti in esame. Al riguardo, deve infatti sottolinearsi che non ogni involucro risulta idoneo all’imballaggio degli alimenti. Invero, il legislatore detta regole relative ai materiali che possono venire a contatto diretto con alimenti o bevande, allo scopo di garantire che detti materiali siano adeguati e non rendano insicuri gli alimenti. Per quel che rileva in questa sede, attualmente, la disciplina essenziale è contenuta nel regolamento (CE) 1935/2004 che stabilisce i requisiti generali e specifici per materiali e oggetti destinati ad entrare in contatto con gli alimenti. Il criterio generale è che i materiali o gli oggetti destinati a venire a contatto, direttamente o indirettamente, con i prodotti alimentari devono essere sufficientemente inerti da escludere il trasferimento di sostanze ai prodotti alimentari in quantità tali da mettere in pericolo la salute umana o da comportare una modifica inaccettabile della composizione dei prodotti alimentari o un deterioramento delle loro caratteristiche. Più nello specifico, in riferimento ai materiali plastici, ai fini del presente parere, N. 00263/2018 AFFARE deve ribadirsi il necessario rispetto: del regolamento (UE) 1895/2005 sulla restrizione dell’uso di alcuni derivati epossidici in materiali e oggetti destinati a entrare in contatto con prodotti alimentari; del regolamento (CE) 282/2008 sugli oggetti in plastica riciclata destinati al contatto con gli alimenti; del regolamento (CE) 450/2009 sui materiali attivi destinati al contatto con gli alimenti. Alla luce delle considerazioni che precedono, il corretto contemperamento dei due interessi sottesi alle questioni all’attenzione della Commissione, porta a ritenere che, laddove il consumatore non intenda acquistare il sacchetto ultraleggero commercializzato dall’esercizio commerciale per l’acquisto di frutta e verdura sfusa, possa utilizzare sacchetti in plastica autonomamente reperiti solo se comunque idonei a preservare l’integrità della merce e rispondenti alla caratteristiche di legge. In tal caso, richiamando le considerazioni già svolte, non sembra possibile per l’esercizio commerciale vietare tale facoltà.
Quest’ultimo assunto non si pone in contrasto con il quadro normativo ricordato in premessa, dal quale si evince la pacifica sussistenza della responsabilità dell’impresa rispetto all’integrità e sicurezza dei prodotti che sono venduti all’interno dell’esercizio commerciale. Al riguardo, in questa sede ci si limita a ricordare che l’operatore del settore alimentare deve sempre e comunque garantire che gli alimenti soddisfino le disposizioni della legislazione alimentare inerenti alle loro attività in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione, nonché verificare che tali disposizioni siano soddisfatte, dovendosi riconoscere la responsabilità del distributore di alimenti a prescindere dalla sua partecipazione o meno al confezionamento (art. 17 del regolamento 178/2002). Pertanto, a scanso di equivoci, deve precisarsi che, quanto meno in astratto, la responsabilità dell’impresa di distribuzione non possa venire automaticamente meno nel caso in cui un danno o un pregiudizio sia stato cagionato dalla condotta del consumatore o, per quanto rileva in questa sede, per il tramite dell’inidoneità di un involucro dallo stesso introdotto nell’esercizio commerciale. Infatti, deve ribadirsi che, proprio in ragione dell’irrinunciabile esigenza di preservare l’integrità degli alimenti posti in vendita, sull’esercizio commerciale, in base alle norme già citate, grava comunque un obbligo di controllo su tutti i fattori potenzialmente pregiudizievoli per la sicurezza dei prodotti compravenduti all’interno del punto vendita, tra cui, evidentemente, anche sugli eventuali sacchetti che il consumatore intende utilizzare.
Al riguardo, giova ricordare che il più importante obbligo del titolare dell’impresa alimentare, la cui inosservanza può essere fonte anche di responsabilità penale, consiste nell’analisi di pericoli e punti critici di controllo, così come previsto dall’art. 5 regolamento 852/2004 il cui 1° comma stabilisce, per l’appunto, che “Gli operatori del settore alimentare predispongono, attuano e mantengono una o più procedure permanenti, basate sui principi del sistema HACCP”. L’omessa osservanza durante tutta la catena alimentare delle regole cautelari, a cominciare dall’adozione del “piano di autocontrollo”, passando poi per l’integrale rispetto delle indicazioni ivi contenute, costituisce dunque un profilo di colpa degli operatori del settore alimentare. Ne consegue che ciascun esercizio commerciale sarà dunque tenuto, secondo le modalità dallo stesso ritenute più appropriate, alla verifica dell’idoneità e della conformità a legge dei sacchetti utilizzati dal consumatore, siano essi messi a disposizione dell’esercizio commerciale stesso, siano essi introdotti nei locali autonomamente dal consumatore. Alla luce delle considerazioni che precedono, deve concludersi che il necessario ed imprescindibile rispetto della normativa in tema di igiene e sicurezza alimentare comporta che l’esercizio commerciale, in quanto soggetto che deve garantire l’integrità dei prodotti ceduti dallo stesso, possa vietare l’utilizzo di contenitori autonomamente reperiti dal consumatore solo se non conformi alla normativa di volta in volta applicabile per ciascuna tipologia di merce, o comunque in concreto non idonei a venire in contatto con gli alimenti. Infine, a monte dei quesiti proposti, la Commissione non può esimersi dall’osservare che le restrizioni relative alle borse ultraleggere non paiono imposte dalla direttiva citata. Invero, il paragrafo 1-bis dell’articolo 4 della direttiva 2015/720 si rivolge alle sole borse di plastica in materiale leggero; mentre, il successivo paragrafo 1-ter consente (non obbliga) agli Stati membri di adottare misure, tra cui strumenti economici e obiettivi di riduzione nazionali, in ordine a qualsiasi tipo di borse di plastica, indipendentemente dal loro spessore. P.Q.M. Nei sensi esposti nella motivazione è il parere della Commissione speciale.
fonte: www.ecodallecitta.it
Sacchetti ultraleggeri: scelte giuste, modalità sbagliate. Il Ministro dell’Ambiente può superare le polemiche di questi giorni in poche ore
COMUNICATO STAMPA
Rileviamo anzitutto con soddisfazione come il tema abbia scalato le classifiche degli interessi dell’opinione pubblica. Anche se il dibattito ha sofferto di alcune distorsioni sul merito della Legge e sui suoi effetti, l’attenzione generatasi ha consentito, per una volta, di mettere il tema ambientale e quelli collegati in cima all’agenda politica, stimolando riflessioni da parte dell’opinione pubblica sul problema della plastica, dei danni da essa provocati, della sua prevenzione e delle alternative. Riconosciamo che la Legge intendesse costituire una estensione ai sacchetti ultraleggeri delle previsioni già a suo tempo adottate, e con successo, per gli shopper, allo scopo di:
- estendere i principi di riduzione del ricorso alla plastica tradizionale ad altri ambiti, contigui, di intervento;
- evitare fenomeni di elusione delle precedenti disposizioni, quali l’uso come shopper dei sacchetti in plastica tradizionale, codificati come “per uso interno”, allo scopo di aggirare il divieto sugli shopper od eluderne il costo;
- conseguire uniformità di approccio su tutti i sacchetti, ed evitare la contaminazione dei flussi avviati a compostaggio, fenomeno determinato proprio dalla confusione spesso ingenerata nell’utente, tra shopper e sacchetti ultraleggeri.
Come tale, l’intenzione di partenza della Legge, ossia superare l’uso della plastica tradizionale nei sacchetti ultraleggeri per asporto dei generi alimentari, è condivisa e va nella direzione di mettere anche in questo caso (come nel caso degli shopper, in cui l’iniziativa italiana ha poi stimolato l’adozione di disposizioni analoghe da altri Paesi e della Direttiva europea in merito) l’Italia alla testa di un fronte di eliminazione progressiva delle buste in plastica. Ricordiamo che gli shopper di plastica costituiscono uno degli elementi più soggetti a dispersione nell’ambiente con conseguenti danni agli ecosistemi e alle catene alimentari.
Nell’ambito di questa strategia, siamo a favore del rendere evidente il prezzo dell’ultraleggero, cosi come già nel caso degli shopper, proprio per disincentivarne il prelievo, ma è altrettanto evidente, e per noi fondamentale, che una strategia di disincentivazione deve mettere a disposizione l’alternativa, che sia ambientalmente preferibile e dunque economicamente incentivata: anche in questo caso, l’alternativa è la borsa (“sporta”) riutilizzabile. Una alternativa pratica, conveniente, ambientalmente sostenibile, che rispetta la gerarchia del riuso come opzione preferibile ed immediatamente adottabile, almeno nel caso di generi alimentari (come è il caso in genere per l’ortofrutta) che non creano, a differenza di carni, pesci, e prodotti caseari molli, problemi di imbrattamento e sgocciolamento.
È qui che è intervenuto l’errore (fondamentale, a nostro avviso) commesso dal Ministero, ossia la lettera alla Grande Distribuzione (GDO) in cui si dichiara che le borse riutilizzabili non possono essere impiegate; rileviamo per inciso che nella Legge, di questo divieto non vi è traccia.
Purtroppo, ed inevitabilmente, questo errore, oltre a determinare un allontanamento dalle finalità stesse della Legge, ha fatto avvertire l’uso del sacchetto biodegradabile come imposizione e balzello, distorcendo il dibattito e deviandolo dal merito ambientale della strategia (superamento della plastica tradizionale) a quello economico: l’imposizione del prezzo esplicito del sacchetto, che doveva funzionare da incentivo all’adozione della alternativa ambientalmente preferibile, nel momento in cui viene impedita tale alternativa, è stato percepito come una vessazione.
Sono a nostro avviso irricevibili le motivazioni di carattere sanitario addotte nella comunicazione del Ministero alla GDO, e nella più recente nota del Ministero della Sanità, di cui abbiamo avuto notizia dai media, se solo si pensa a tutta la filiera di produzione, raccolta, trasporto, distribuzione della ortofrutta: una filiera in cui non è certo il prelievo finale dallo scaffale il momento più delicato. Né possono essere additati come irresponsabili tutti gli altri Paesi dell’Unione Europea (Paesi certo non meno attenti del nostro ai temi della sicurezza alimentare) in cui le borse riutilizzabili sono consentite, ed addirittura promosse, senza incorrere in procedure di infrazione.
Chiediamo dunque al Ministro di tornare, in forma coordinata con gli altri Ministeri, alle previsioni della Legge, revocando la lettera alla GDO. Se, si procederà in questo modo sarà possibile garantire un vantaggio ambientale, economico e sociale per tutti, consumatori ed esercenti.
Chiediamo contestualmente al Ministero e agli altri soggetti interessati di sviluppare una campagna di informazione sul destino preferenziale dei sacchetti ultraleggeri, laddove acquistati dal consumatore al posto della borsa riutilizzabile. Tale campagna dovrebbe superare molta della confusione che avvertiamo nel dibattito in corso ed andrebbe focalizzata sui comportamenti virtuosi (es. apposizione delle etichette adesive sui manici, onde poterle asportare senza danno al resto del sacchetto) finalizzati a fare reimpiegare successivamente i sacchetti per la raccolta differenziata dell’organico.
Zero Waste Italy
http://www.zerowasteitaly.org
Labels:
#Ambiente,
#Bioshopper,
#ComunicazioneAmbientale,
#GDO,
#MinisteroAmbiente,
#MinisteroSalute,
#PagamentoSacchetti,
#SacchettiMonouso,
#ZeroWasteItaly
Discariche e tumori: firma la petizione per ottenere screening gratuiti ( #ScreeningTumori)
Discariche e tumori. Non solo Terra dei Fuochi in Campania, ma anche più di 200 zone a rischio da Nord a Sud d'Italia,
tra discariche bonificate e zone non ancora risanate. 149 discariche e
73 siti non bonificati, senza considerare i siti di stoccaggio illegali
difficili da mettere in calcolo: numeri da capogiro che riguardano ben 7 milioni di italiani, tutti in serio pericolo di salute.
È per questo che Simona Cocozza, regista
filmaker, e Vittoria Iacovella, giornalista di La7 (autrici del
reportage di Rai News “Ritorno a Terzigno 2010-2017”, video sotto),
hanno lanciato una petizione per chiedere al ministro della Salute Beatrice Lorenzin l’introduzione di screening gratuiti contro i tumori “per i cittadini che vivono nel raggio di 10 km da una discarica o sito da bonificare”. E a pochi giorni dal lancio su change.org, sono già più di 30mila i sostenitori.
“Un progetto nazionale specifico - si legge nella petizione - che venga diffuso e imposto a tutte le regioni italiane con l’inserimento dello screening nel novero dei “livelli essenziali di assistenza” in base a quanto previsto dall’art.117, c.2 lettera m della Costituzione, vista la diffusione nazionale, la gravità del fenomeno e l’inerzia delle regioni rispetto all’attivazione di iniziative a riguardo. Le chiediamo che i dati relativi a questo progetto, della durata di almeno 5 anni, siano resi pubblici e trasparenti (fondi messi a disposizione, stato del lavoro di ogni regione, dati scientifici man mano che vengono raccolti ed elaborati, nomi e dichiarazioni di assenza di conflitto di interessi di relatori e periti)”.
Perché è necessario un intervento? Perché chi vive in queste aree “rispetto
a chi abita in zone più ‘sane’, ha il 50% di possibilità in più di
ammalarsi di diversi tipi di tumore e il 30% in più di avere un tumore
al seno. “Molte di queste persone sono ragazze e ragazzi giovanissimi, e
per la loro fascia d’età lo Stato non prevede uno screening gratuito,
quindi scopriranno la loro malattia troppo tardi per porvi rimedio”.
“Sono milioni – si spiega nella petizione - i cittadini che potrebbero essere salvati e maggiormente tutelati, se solo lo Stato garantisse loro degli screening gratuiti mirati, sulla base del fatto che questi 7 milioni di persone vivono a pochi chilometri da una discarica o da un sito ancora da bonificare. Studi scientifici e dati locali ci dicono che il rischio di ammalarsi di tumore è più del doppio se si vive accanto a una discarica, ma non esistono dati nazionali e tantomeno provvedimenti specifici. È gravissimo. Il Ministero dell’Ambiente si è posto come obbiettivo la chiusura di tutte le discariche italiane, perché riconosce che sono causa di avvelenamento del Paese, ma se chiediamo una statistica delle zone e popolazioni a rischio non c’è. È mancata la possibilità o la volontà di informare gli Italiani?”
Come recuperare vite? Solo con la prevenzione,
che potrà essere più rapida ed efficace solo se si estende a tutte le
fasce a rischio a titolo gratuito. Solo così si potrà porre rimedio alla
“dissennata gestione dei rifiuti che è stata operata, per decenni, in questo Paese”.
Firmate qui la petizione per screening gratuiti per chi vive, a rischio tumore, nei pressi di una discarica.
fonte: www.greenme.it
Iscriviti a:
Post (Atom)