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Il Salvagente, la rivista segnala la presenza di Pfas nei piatti e nei bicchieri usati nelle scuole

 














Le stoviglie compostabili con cui sono serviti i pasti nelle mense scolastiche sono piene di Pfas? E possono cedere questi composti tossici alle pietanze? Sono gli interrogativi che pone il mensile Il Salvagente nell’ultima indagine di copertina. La questione è iniziata a febbraio con l’invio all’Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare), di 11 campioni di stoviglie compostabili (sette piatti, due bicchieri, due coperchi/coperture dei lunch box usati per i pranzi a scuola). A titolo di confronto la redazione ha inviato anche un piatto acquistato in negozio romano. La rivista voleva stabilire se contenessero fluoro, possibile indicatore della presenza di Pfas. I campioni provenivano da diverse scuole, da Roma a Milano. I risultati delle analisi non sono stati tranquillizzanti. Dei 2 bicchieri analizzati, uno aveva quantità di fluoro paria 470 ppm (parti per milione) e il secondo un livello non rilevabile (sotto i 200 ppm). Per i piatti il risultato è stato ben peggiore: in tutti è stato rilevato fluoro, anche quattro volte più alto. Il livello massimo è stato di 2.030 ppm (parti per milione).

Questa concentrazione riferisce la rivista “è complessa da ritenere puramente incidentale” spiega Alberto Ritieni, docente di Chimica degli alimenti alla facoltà di Farmacia dell’Università Federico II. Una delle ipotesi è che i piatti possano essere stati fabbricati con sostanze compatibili con i Pfas (per-fluoro-alchili) per conferirgli una forte capacità di impermeabilizzazione da oli e grassi, tanto più necessaria per stoviglie compostabili e non in plastica, che altrimenti non sarebbero in grado di resistere ai liquidi e alle pietanze umide e calde. Il rischio per la salute di questa presenza, però, è oramai chiaro e innegabile: la Iarc (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) ha definito i Pfas come potenziali cancerogeni (Pfoa, Gruppo 2B), e interferenti endocrini (ormonali). E c’è chi è già intervenuto: la Danimarca, per esempio, ne ha proibito l’uso in imballaggi e nei materiali a contatto con gli alimenti in carta e cartone.


Un prodotto “compostabile 100%” potrebbe contenere sostanze chimiche indistruttibili che trasformate in compost-terriccio tornerebbero nella catena alimentare attraverso l’agricoltura

L’Italia invece ancora non ha fatto alcun passo. C’è da sperare che dopo i sospetti sollevati dal test del Salvagente, le aziende e le nostre autorità sanitarie intervengano, tanto per verificare se si tratta della presenza di Pfas e se c’è il rischio di cessione agli alimenti, quanto per seguire la via danese di un divieto che sembra urgente, visti i pericoli per la fascia più debole della popolazione. L’alternativa, come dimostrano le nostre analisi, c’è già oggi se è vero che in un bicchiere non sono state trovate tracce sospette. “Gli effetti sull’ambiente per la presenza di fluoro in un contenitore compostabile devono essere compresi non solo per quanto riguarda la salute, attraverso il contatto con il cibo e le bevande ingerite, ma anche per quanto concerne l’ambiente”.

Il destino di questi piatti “usa e getta” è lo stesso in tutto il Belpaese: vengono conferiti nei siti di compostaggio. Basti pensare che solo a Roma su 150mila pranzi scolastici al giorno oltre 40mila sono fatti con “usa e getta”. Eco allora che un prodotto simbolo dell’economia circolare, il “compostabile 100%” potrebbe contenere sostanze chimiche indistruttibili che trasformate in compost-terriccio tornerebbero nella catena alimentare attraverso l’agricoltura. Pietro Paris è il responsabile sezione Sostanze pericolose dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, che dichiara: “Posso ipotizzare a livello teorico, che composti per-fluoro-alchilici possano essere usati in tali piatti per conferire alla superficie proprietà quali l’idrorepellenza. In questo caso – che andrebbe approfondito con ulteriori test – troverei tuttavia una forte contraddizione tra la dichiarata biodegradabilità degli articoli e l’uso di sostanze altamente persistenti, che seppure in concentrazioni basse, sarebbero chiaramente incompatibili in prodotti biodegradabili”.

fonte: www.ilsalvagente.it


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Come ridurre lo spreco alimentare nelle mense: cambiando la forma dei piatti

 

Gli americani sprecano circa il 31% del cibo acquistato in supermercati e negozi, e consumato in ristoranti e mense: una quantità enorme, con impatto ambientale molto rilevante, e che da tempo si cerca di ridurre. L’Università dell’Illinois di Urbana-Champaign, una delle più impegnate sul fronte alimentare da molti punti di vista, nel 2016 ha lanciato una campagna educazionale nelle sue residenze per studenti che, però, non ha portato ai risultati sperati. Uno studio di quello stesso anno, peraltro, aveva fatto emergere che per ogni pasto si sprecavano 93,5 grammi di cibo, per un totale – nelle sei mense presenti – di 6.747 chilogrammi buttati ogni settimana, una quantità impressionante. Inoltre aveva dimostrato come il costo complessivo dello spreco, sia ambientale che economico, degli alimenti sprecati fosse superiore a quello del cibo mangiato (perché anche smaltire costa, e consuma risorse).


Per questo le ricercatrici dei Dipartimenti di Economia agricola e del consumo (ACE) e di Scienze alimentari e nutrizione umana hanno pensato a un approccio diverso, che puntasse sulla quantità di cibo mangiata in mensa, spesso eccessiva e, di conseguenza, in parte sprecata. E, per diminuire le porzioni, questa volta hanno modificato la forma dei piatti, che da tonda è diventata ovale, con una minore superficie disponibile per il cibo.

Cambiare la forma dei piatti usati nelle mense può contribuire a ridurre lo spreco alimentare

Come hanno poi raccontato su Resources, Conservation and Recycling hanno utilizzato due mense self service in modalità all you can eat del campus per un test in condizioni reali, e hanno proposto lo stesso menu mettendo a disposizione piatti tondi, come al solito, oppure ovali. Dopo che gli avventori avevano deciso liberamente, li hanno avvicinati a uno a uno e hanno chiesto loro di fotografare il piatto scelto, pesarlo e rispondere a qualche domanda.

Alla fine hanno raccolto più di 1.200 osservazioni e dimostrato che chi aveva optato per il piatto ovale ha scelto (318 grammi, in media, contro 359,9), consumato (280,5 contro 302,9 grammi) e sprecato (37,5 contro 57 grammi) molto di meno: l’11,8%, contro il 15,8% rispetto a chi si è orientato sul piatto classico, anche quando si prendeva un bis. Tradotto in peso, chi aveva il piatto ovale per ogni piatto ha sprecato circa 20 grammi di cibo in meno: può sembrare poco, ma moltiplicato per migliaia di piatti serviti ogni giorno può fare una differenza rilevante.

Offrire meno cibo con questo espediente, anche se comporta una spesa iniziale per il cambio dei piatti, può aiutare a ridurre lo spreco e a mangiare di meno. Se poi – concludono gli autori – a ciò si aggiungono campagne educazionali, l’effetto può essere ancora più marcato, e forse durevole.

fonte: www.ilfattoalimentare.it


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Campagne contro lo spreco alimentare: non tutte funzionano. Apporre manifesti e richiami al buon senso non basta





















Per ridurre lo spreco alimentare nei luoghi come le mense scolastiche dove ci si può servire senza limitazioni (all you can eat) non basta apporre manifesti e richiami al buon senso. Campagne basate solo su questi mezzi possono contribuire ad aumentare la consapevolezza e quindi a migliorare leggermente il comportamento, ma non incidono realmente sullo spreco.
Lo dimostra uno studio condotto dai ricercatori dell’Università dell’Illinois di Urbana-Champaign, che hanno pubblicato su Resources, Conservation and Recycling quanto osservato in due mense locali che servono circa 10.000 studenti universitari l’una, durante il semestre autunnale del 2016. Nessuno dei ragazzi sapeva di essere osservato, e tutti si sono trovati davanti manifesti contro lo spreco alimentare posizionati nelle sale,  attaccati alle colonne e all’entrata dei locali. Anche sui tovaglioli erano riportati  messaggi specifici.  Per poter avere un campione di controllo in altri locali-mensa del tutto simili non era stato apposto alcun messaggio
Nel frattempo, gli esperti di comportamento e alimentazione verificavano quanto veniva scelto dai buffet e quanto poi veniva sprecato. Il risultato è stato deludente. Se prima dell’esperimento ogni studente buttava via  in media 88 grammi di cibo per ogni pasto; dopo la campagna lo spreco era diminuito di pochi grammi, arrivando a 84 circa.
Valutato su una settimana, il risparmio medio di cibo in una mensa del genere potrebbe arrivare a 34 kg di cibo, ma resta il fatto che per avere un effetto realmente incisivo bisognerebbe fare molto di più, e che la qualità dell’azione dipende anche molto dal tipo di alimenti buttati o meno. Per esempio – suggeriscono gli autori – bisognerebbe stabilire porzioni obbligate ed evitare il più possibile i prezzi bassi a fronte di consumo illimitato di cibo, e trattare le calorie pregiate in modo diverso da quelle vuote o di bassa qualità.
fonte: www.ilfattoalimentare.it

Via il monouso dalle mense: più salute, più ambiente, più soldi

Le plastiche usa e getta possono rilasciare interferenti endocrini nei cibi, e danneggiare la fertilità.









Inquinano in modi non del tutto noti, e – non da ultimo – sono un grave spreco di denaro pubblico.
Perché fare lo sforzo di dotare scuole e ospedali di una lavastoviglie, e inserire negli appalti pubblici la clausola di servire le pietanze delle mense di scuole e ospedali nella ceramica, vetro e acciaio?
C’è un enorme risparmio di denaro pubblico. Marco Storchi, Direttore Servizi alla persona del Policlinico S. Orsola di Bologna, che ha introdotto i piatti in ceramica nel 2015, ha calcolato che solo riorganizzare la mensa, eliminando i piatti di plastica, e reintroducendo la ceramica e la lavastoviglie, si è ottenuto un risparmio che varia dai 60 ai 70mila euro in un anno. Solo per un ospedale.
Inoltre, con la ceramica c’è la sicurezza di un materiale sano, che non rilascia sostanze chimiche con le alte temperature; c’è la certezza di ridurre l’inquinamento da microplastiche, un dramma che ha ulteriori risvolti negativi per la salute pubblica. E poi si limita lo spreco di materie prime, la produzione e le relative emissioni di carta e plastica, il loro trasporto, mentre si riduce ovviamente anche la produzione e lo smaltimento di rifiuti.
Ci sono inoltre altri aspetti da non sottovalutare, che potremmo chiamare psicologici ed educativi: nelle scuole montessoriane – paradossalmente più diffuse all’estero che in Italia– il piatto in ceramica e il bicchiere di vetro si usano per responsabilizzare il bambino, aiutarlo a conoscere e capire il mondo che lo circonda sin dall’asilo nido, accrescere la sua autostima e renderlo autonomo. In più, usare un piatto lavabile educa le prossime generazioni al riuso, al rispetto dell’ambiente, allontanandole dalla cultura dell’usa-e-getta. Negli ospedali, il piatto in ceramica è una coccola, dà una sensazione di “casa” e di “bello” al paziente.
Eppure, ad oggi, nidi, primarie, elementari e ospedali hanno quasi sempre (pochissime le eccezioni, tipo Parma e altre piccole realtà) piatti e posate monouso, a volte in materiali compostabili, più spesso in plastica.
Serve un altro motivo per preferire la ceramica? E’ già successo – ed è successo a Roma – che piatti e bicchieri di plastica distribuiti nelle mense scolastiche fossero di qualità talmente scadente da sciogliersi completamente davanti agli occhi dei bambini.
Mentre si attende che tutto questo venga valutato a livello centrale – come ha fatto la Francia, che ha bandito l’usa e getta entro il 2020 – o imposto dall’alto anche a noi (L’Unione europea sta pensando di dimezzare entro il 2030 il consumo di plastica usa e getta) piccoli passi avanti li facciamo grazie ad amministrazioni e fornitori virtuosi. Tra gli ultimi c’è Poggibonsi, che si prepara a diffondere ovunque l’uso dei piatti di ceramica e bicchieri di vetro. La novità è stata introdotta nel servizio di mensa scolastica nell’ambito degli investimenti a cura di Cir Food, come previsto nel capitolato di gara. La spesa è ridicola rispetto ai vantaggi e comprende anche il rinnovo delle cucine del Comune (in totale 260mila euro) che saranno ripagati in breve tempo dal risparmio sull’acquisto di usa e getta (e comunque i costi sono per la ditta appaltante, come da accordi col Comune).
E poi c’è chi si è rifiutato di cambiare, di assecondare la “tentazione” di semplificare le cose, ma solo all’apparenza. Il Comune di Parma ha sempre mantenuto la “vecchia” tradizione delle mense scolastiche con piatti in ceramica, e oggi ne gode le conseguenze, anche di immagine. L’assessora Ines Seletti, alla Scuola e al Servizio di Integrazione Scolastica, è recentemente stata intervistata da Rai3, per un servizio che – come il nostro – ha potuto sottolineare l’attenzione ambientalista della giunta pizzarottiana, che non solo è uno dei più grandi Comuni a scegliere il riuso nelle mense scolastiche, allargandola agli ospedali, ma vi ha anche portato l’acqua in caraffa. Qualcosa che, di nuovo, permette ampi risparmi economici e ambientali e che è anche preferibile per la salute. L’acqua del rubinetto è generalmente più controllata di quella in bottiglia, accusata recentemente di nascondere microplastiche al suo interno. “Abbiamo assunto allo scopo una tecnologa – mi spiega l’assessora Seletti – che decide i tempi di sedimentazione dell’acqua e i controlli necessari, che mette in atto l’Asl come minimo una volta al mese”. Controlli serratissimi: ad esempio a Milano, dove pure si serve acqua in caraffa nelle scuole (ma piatti, posate e bicchieri sono interamente monouso), i controlli non sono previsti dall’amministrazione comunale. E’ la ditta che fornisce i pasti – Milano Ristorazione – a controllare sua sponte, ma solo una, due volte l’anno, l’acqua che eroga ai bambini.
“Abbiamo a Parma un procedimento preciso – mi spiega Annalisa Fortini, la tecnologa comunale, esperta in scienze e tecnologie alimentari. L’acqua viene raccolta dal rubinetto dopo averla lasciata scorrere per almeno 5 minuti. Poi deve evaporare almeno 15 minuti, meglio mezz’ora, che è il tempo di evaporazione del cloro. Il procedimento segue il capitolato d’appalto, e comprende anche regole come quella di svitare il frangiflutto, il piccolo filtro all’estremità del rubinetto, e lavarlo ogni giorno, perché è lì che più spesso si annidano le impurità, il calcare e i batteri. Tra le altre norme, bisogna far scorrere di più l’acqua dopo la chiusura delle scuole, controllarla ogni mese, su ogni scuola, con l’analisi di circa 15 parametri fisici, chimici e microbiologi. Se ci sono anomalie, viene sospesa l’erogazione in caraffa, si contatta la asl e si rifanno le analisi, si incrociano i risultati e si capisce se il problema è a valle o a monte. Questo in teoria, finora non ne abbiamo mai avuta la necessità, viste le regole preventive”.
Tornando alla questione piatti in ceramica, Fortini ci conferma che la soluzione è migliore anche dal punto di vista della salute. “C’è un range di temperature all’interno del quale usare piatti e posate di plastica, ammesso che si tratti di materiale a norma, non crea problemi di contaminazione del cibo. Al di fuori di queste temperature esiste un rischio che la plastica rilasci sostanze dannose“.
Oltre alle scuole, Parma ha portato piatti e posate di ceramica anche nel proprio ospedale. Ma ci sono ancora altri programmi a favore dell’ambiente e dell’economia. “Ad esempio abbiamo programmi per insegnare alle classi un uso corretto del cibo e l’abitudine a non sprecare”, ci dice Seletti. Caso più unico che raro, a Parma poi i bambini si servono da soli: decidono la quantità in base all’appetito, imparano l’autogestione ai fini anti-spreco e imparano come si impiatta con cura. “Inoltre il cibo in avanzo è dato alle mense dei poveri e all’emporio solidale, che potremmo chiamare il supermercato per non abbienti. Abbiamo programmi in partenza a settembre per imparare poi cosa è bene mangiare per stare in salute, mentre un equipe di genitori – che seguono un corso di preparazione apposito – fa sopralluoghi nelle mense per valutare scarti e freschezza del cibo. Il menù è totalmente bilanciato tra cereali e proteine vegetali. Per questo la qualità del nostro menù scolastico e ospedaliero ha un’ottima posizione nei ranking nazionali. Abbiamo un bando molto restrittivo, che prevede solo biologico e km zero, e siamo contro la logica di altre città che valutano solo la spesa economica quando scelgono la ditta che produce e distribuisce il cibo nelle mense. I nostri pasti ci costano 6.90 euro l’uno: una cifra che parla da sola rispetto a una media per le altre città che punta al ribasso e si attesta sui 3.5 euro a pasto mediamente”.
Qualità, e qualità che ripaga, nel breve e nel lungo periodo. L’Europa vuole ridurre entro il 2030 il monouso perché ogni anno sono 25 milioni le tonnellate di rifiuti che produciamo, solo noi europei, mentre ne ricicliamo appena il 30% (14% a livello mondiale). La Francia ha già organizzato il bando dell’usa-e.getta, il Regno Unito ha posto una tassa sui bicchieri monouso per disincentivarli, e si riscoprono servizi come il lattaio a domicilio che consegna in vetro e ritira i vuoti a perdere. Sistema che la Germania da tempo usa anche per festival e sagre: niente monouso ma vuoto a rendere.
“Si sa che le plastiche possono essere interferenti endocrini – ha spiegato a Rai3 Maurizio Simmaco, docente di Biologia Molecolare all’Università Sapienza di Roma, parlando proprio del caso-Parma – possono liberare sostanze che alterano i segnali alle cellule e il funzionamento di alcuni enzimi. Inoltre le plastiche disperse nell’ambiente si diffondono come microplastiche, inquinano le falde entrano nella catena alimentare e si accumulano nell’organismo. Non si conosce del tutto il loro effetto, ma è ben noto per esempio il danno alla fertilità maschile e femminile. Ci sono tanti studi in merito, e tutti arrivano alla stessa conclusione: è difficile capire quanta plastica viene rilasciata dai contenitori in plastica agli alimenti che contengono: non sappiamo quanto fa male, ma per un principio di cautela conviene considerarla qualcosa a rischio”.
fonte: http://www.peopleforplanet.it/

La lotta allo spreco alimentare nelle mense di scuole, ospedali e aziende. Le linee guida del Ministero della salute Dgisan



















Lo spreco alimentare è un problema con importanti risvolti sociali e ambientali, per questo va affrontato lungo l’intero “ciclo di vita” del cibo, dai campi alla tavola. Il problema interessa soprattutto le mense (comprese quelle scolastiche e ospedaliere), che secondo alcune stime sarebbero responsabili del 14% di tutto il cibo sprecato nell’Unione europea. Per questo motivo la Direzione generale per l’igiene e la sicurezza degli alimenti e della nutrizione (Dgisan) del Ministero della salute ha redatto delle linee guida rivolte ad aziende ed enti che operano nella ristorazione collettiva per prevenire e ridurre lo spreco.
La questione è particolarmente problematica nella ristorazione ospedaliera, che solo in Italia somministra 269 milioni di pasti l’anno, un terzo dei quali (31,2%) viene sprecato. Il paradosso è che troppo spesso lo stato nutrizionale dei pazienti peggiora durante il ricovero, anche se le cause non riguardano solo la qualità del pasto. Il motivo di tanto spreco è da ricercare nella diffusa mancanza di attenzione verso le caratteristiche organolettiche e nutrizionali dei piatti e nelle diverse esigenze cliniche e terapeutiche dei pazienti.
Per questa ragione il Dgisan consiglia di migliorare la pianificazione dei pasti, ottimizzando l’acquisto di una giusta quantità di materie prime grazie al contributo di una procedura di prenotazione individuale, semplificata e flessibile, oltre a progettare menu per i pazienti che seguono determinate diete con un numero ridotto di scelte e porzioni differenti. È necessario anche formare il personale di cucina e di reparto su come ridurre gli sprechi, e sensibilizzare i pazienti e i familiari. 
Anche nelle mense scolastiche viene gettata via una quantità significativa di cibo perfettamente commestibile. Secondo l’audizione Oricon il 12,6% dei pasti non viene consumato, il picco maggiore si raggiunge con i contorni (22%), quindi con la verdura. Il problema è che nelle scuole non esiste un rilevamento sistematico dello spreco. Il monitoraggio è importante e secondo le linee guida va implementato anche con il coinvolgimento degli studenti, attraverso momenti di educazione e sensibilizzazione, accanto a percorsi di formazione per gli insegnanti.

mensa scuola
Secondo l’audizione Oricon, nelle mense scolastiche viene gettato in media il 12% dei pasti

Secondo il Ministero della salute, sarebbe auspicabile avvicinare il più possibile i centri cottura alle scuole servite, anche se negli ultimi anni la tendenza è stata quella di chiudere le cucine nei singoli edifici delegando la produzione dei pasti a cucine centralizzate in grado di servire più scuole. Si consiglia anche di inserire una seconda razione di frutta e utilizzare gli avanzi giornalieri di frutta, pane e budini del pranzo per preparare la merenda del giorno dopo, oppure di darli ai ragazzi per portarli a casa. Sarebbe necessario anche rendere i locali mensa più accoglienti e adeguati al consumo dei pasti.
Le mense aziendali, invece, tendono ad avere la percentuale minore di spreco di cibo (solo il 2-3%), proprio perché sono gestite da ditte esterne che hanno interesse a ridurre i costi. Si registra comunque un aumento degli sprechi laddove il pasto è totalmente gratuito, e la cosa non sorprende.
Per quanti riguarda la ristorazione aziendale, il Dgisan raccomanda di migliorare la programmazione degli acquisti delle materie prime e di utilizzare tutti gli strumenti possibili (come gli abbattitori) per ridurre le eccedenze della cucina. È importante promuovere la collaborazione tra cuochi e dietisti per elaborare menu equilibrati, ma allo stesso tempo appetibili, promuovere il riuso degli avanzi e prevedere la possibilità di realizzare porzioni con dimensioni differenti per assecondare le esigenze dei commensali.
Quando non si riesce a evitare lo spreco sarebbe opportuno  favorire una sinergia tra i gestori delle mense, i servizi sociali dei comuni e gli enti di volontariato per distribuire i pasti avanzati. Per il cibo che invece resta nel piatto, invece, il destino è quello del compostaggio.
fonte: www.ilfattoalimentare.it