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Il Salvagente, la rivista segnala la presenza di Pfas nei piatti e nei bicchieri usati nelle scuole

 














Le stoviglie compostabili con cui sono serviti i pasti nelle mense scolastiche sono piene di Pfas? E possono cedere questi composti tossici alle pietanze? Sono gli interrogativi che pone il mensile Il Salvagente nell’ultima indagine di copertina. La questione è iniziata a febbraio con l’invio all’Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare), di 11 campioni di stoviglie compostabili (sette piatti, due bicchieri, due coperchi/coperture dei lunch box usati per i pranzi a scuola). A titolo di confronto la redazione ha inviato anche un piatto acquistato in negozio romano. La rivista voleva stabilire se contenessero fluoro, possibile indicatore della presenza di Pfas. I campioni provenivano da diverse scuole, da Roma a Milano. I risultati delle analisi non sono stati tranquillizzanti. Dei 2 bicchieri analizzati, uno aveva quantità di fluoro paria 470 ppm (parti per milione) e il secondo un livello non rilevabile (sotto i 200 ppm). Per i piatti il risultato è stato ben peggiore: in tutti è stato rilevato fluoro, anche quattro volte più alto. Il livello massimo è stato di 2.030 ppm (parti per milione).

Questa concentrazione riferisce la rivista “è complessa da ritenere puramente incidentale” spiega Alberto Ritieni, docente di Chimica degli alimenti alla facoltà di Farmacia dell’Università Federico II. Una delle ipotesi è che i piatti possano essere stati fabbricati con sostanze compatibili con i Pfas (per-fluoro-alchili) per conferirgli una forte capacità di impermeabilizzazione da oli e grassi, tanto più necessaria per stoviglie compostabili e non in plastica, che altrimenti non sarebbero in grado di resistere ai liquidi e alle pietanze umide e calde. Il rischio per la salute di questa presenza, però, è oramai chiaro e innegabile: la Iarc (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) ha definito i Pfas come potenziali cancerogeni (Pfoa, Gruppo 2B), e interferenti endocrini (ormonali). E c’è chi è già intervenuto: la Danimarca, per esempio, ne ha proibito l’uso in imballaggi e nei materiali a contatto con gli alimenti in carta e cartone.


Un prodotto “compostabile 100%” potrebbe contenere sostanze chimiche indistruttibili che trasformate in compost-terriccio tornerebbero nella catena alimentare attraverso l’agricoltura

L’Italia invece ancora non ha fatto alcun passo. C’è da sperare che dopo i sospetti sollevati dal test del Salvagente, le aziende e le nostre autorità sanitarie intervengano, tanto per verificare se si tratta della presenza di Pfas e se c’è il rischio di cessione agli alimenti, quanto per seguire la via danese di un divieto che sembra urgente, visti i pericoli per la fascia più debole della popolazione. L’alternativa, come dimostrano le nostre analisi, c’è già oggi se è vero che in un bicchiere non sono state trovate tracce sospette. “Gli effetti sull’ambiente per la presenza di fluoro in un contenitore compostabile devono essere compresi non solo per quanto riguarda la salute, attraverso il contatto con il cibo e le bevande ingerite, ma anche per quanto concerne l’ambiente”.

Il destino di questi piatti “usa e getta” è lo stesso in tutto il Belpaese: vengono conferiti nei siti di compostaggio. Basti pensare che solo a Roma su 150mila pranzi scolastici al giorno oltre 40mila sono fatti con “usa e getta”. Eco allora che un prodotto simbolo dell’economia circolare, il “compostabile 100%” potrebbe contenere sostanze chimiche indistruttibili che trasformate in compost-terriccio tornerebbero nella catena alimentare attraverso l’agricoltura. Pietro Paris è il responsabile sezione Sostanze pericolose dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, che dichiara: “Posso ipotizzare a livello teorico, che composti per-fluoro-alchilici possano essere usati in tali piatti per conferire alla superficie proprietà quali l’idrorepellenza. In questo caso – che andrebbe approfondito con ulteriori test – troverei tuttavia una forte contraddizione tra la dichiarata biodegradabilità degli articoli e l’uso di sostanze altamente persistenti, che seppure in concentrazioni basse, sarebbero chiaramente incompatibili in prodotti biodegradabili”.

fonte: www.ilsalvagente.it


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Elementi metodologici per una valutazione del rischio associato all’esposizione a contaminanti multipli, con particolare riferimento alla popolazione residente in aree di particolare rilevanza ambientale

 











Il report descrive la sintesi dei principali criteri metodologici utilizzati per la valutazione del rischio associato all’esposizione a contaminanti multipli o esposizione cumulativa. L’obiettivo del documento è quello di esaminare la consistenza tecnico-scientifica delle metodologie disponibili per la valutazione del rischio associato all’esposizione a contaminanti multipli, gli aspetti quantitativi della reale esposizione e, soprattutto, la concreta applicabilità di tali procedure nella realtà operativa. Tale esigenza conoscitiva preliminare, nasce sia dalla consapevolezza che tali attività necessitano di un continuo aggiornamento tecnico-scientifico che di metodologie sperimentate, ma anche dalla necessità di accogliere la richiesta, proveniente dal territorio di una maggiore conoscenza e informazione sulla relazione tra fattori di esposizione ambientali e potenziali rischi per la salute, soprattutto nelle are di particolare rilevanza ambientale che possono richiedere valutazioni specifiche.

Delibera del Consiglio SNPA. Seduta del 09.05.2019. Doc. n. 55/19

https://www.snpambiente.it/wp-content/uploads/2021/04/Elem_metod_rischio_cumulativo.pdf


fonte: www.snpambiente.it


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Fukushima: ancora contaminato l'85% dell’area speciale di decontaminazione

 

A quasi dieci anni di distanza dall'incidente nucleare di Fukushima Daiichi, Greenpeace ha pubblicato due rapporti che evidenziano la complessa eredità del terremoto e dello tsunami dell'11 marzo 2011. Nel primo rapporto, "Fukushima 2011-2020", vengono descritti i livelli di radiazione nelle città di Iitate e Namie, nella prefettura di Fukushima. I risultati delle prime indagini mostrano che gli sforzi di decontaminazione sono stati limitati e che l'85% dell'Area Speciale di Decontaminazione è ancora contaminata. Il secondo rapporto, "Decommissioning of the Fukushima Daiichi Nuclear Power Station From Plan-A to Plan-B Now, fromPlan-B to Plan-C", analizza l'attuale piano ufficiale di smantellamento in 30-40 anni. Un programma deludente e senza prospettive di successo.

«I governi che si sono succeduti negli ultimi dieci anni, soprattutto quelli guidati dal primo ministro Shinzo Abe, hanno cercato di ingannare il popolo giapponese, mistificando l'efficacia del programma di decontaminazione e ignorando i rischi radiologici», ha commentato Shaun Burnie, Senior Nuclear Specialist di Greenpeace East Asia. «Allo stesso tempo, continuano a sostenere che il sito di Fukushima Daiichi può essere riportato allo stato originario di cosiddetto "greenfield" entro la metà del secolo. Il decennio di inganni da parte del governo e della TEPCO deve finire. Un nuovo piano di smantellamento è inevitabile, non possiamo perdere altro tempo e continuare a negare la realtà», conclude Burnie.
Il primo team di esperti in radiazioni di Greenpeace è arrivato nella prefettura di Fukushima il 26 marzo 2011. Negli ultimi 10 anni, ha condotto 32 indagini sulle conseguenze radiologiche del disastro, l'ultima nel novembre 2020. In sintesi, i risultati del rapporto Fukushima 2011-2020 mostrano che:
-la maggior parte degli 840 chilometri quadrati della Special Decontamination Area (SDA), per cui il governo è responsabile della decontaminazione, rimane contaminata da cesio radioattivo.
-l'analisi dei dati dello stesso governo confermano che nella SDA è stato decontaminato in media solo il 15%.
-è indefinito il quadro temporale entro cui il livello obiettivo di decontaminazione a lungo termine del governo giapponese - di 0,23 microsievert per ora (μSv/h) - sarà raggiunto in molte aree. I cittadini saranno comunque esposti per decenni a radiazioni superiori al massimo raccomandato di 1 millisievert all'anno.
Nelle aree in cui gli ordini di evacuazione sono stati revocati nel 2017, in particolare a Namie e Iitate, i livelli di radiazione rimangono al di sopra dei limiti di sicurezza, potenzialmente esponendo la popolazione a un maggiore rischio di cancro. Fino al 2018, decine di migliaia di lavoratori sono state impiegate nella decontaminazione nella SDA. Come documentato da Greenpeace, i lavoratori - la maggior parte dei quali sono subappaltatori mal pagati - sono stati esposti a rischi ingiustificati di radiazioni per un programma di decontaminazione limitato e inefficace

Dal rapporto "Decommissioning of the Fukushima Daiichi Nuclear Power Station From Plan-A to Plan-B Now, from Plan-B to Plan-C", inoltre, emerge che:
-Non ci sono piani credibili per il recupero delle centinaia di tonnellate di detriti di combustibile nucleare che rimangono all'interno e sotto i tre contenitori a pressione del reattore;
-La contaminazione dell'acqua usata per il raffreddamento dei reattori, delle acque sotterranee e di quelle successivamente accumulate nei serbatoi, continuerà ad aumentare nel futuro, a meno che non si adotti un nuovo approccio;
-Tutto il materiale nucleare contaminato dovrebbe rimanere sul sito a tempo indeterminato. Se i detriti di combustibile nucleare verranno recuperati, anch'essi dovrebbero rimanere sul posto. Fukushima Daiichi è già e dovrebbe rimanere un sito di stoccaggio di rifiuti nucleari a lungo termine;
Il piano attuale è irraggiungibile nell'arco di tempo di 30-40 anni definito dall'attuale tabella di marcia. È inoltre impossibile da realizzare se l'obiettivo è il ritorno allo status di greenfield.

Greenpeace raccomanda un fondamentale ripensamento nell'approccio e un nuovo piano per lo smantellamento del sito di Fukushima Daiichi, inclusa una revisione dei tempi di rimozione del combustibile fuso a 50-100 anni o più, con la costruzione di edifici di contenimento sicuri per il lungo termine. Una volta rinforzato, il sistema di contenimento primario (il vessel) dovrebbe essere usato come barriera primaria. Il corpo del reattore dovrebbe diventare una barriera secondaria per il medio-lungo termine, mentre si lavora allo sviluppo della tecnologia robotica che potrebbe operare senza esporre il personale ad alti rischi.
Infine per prevenire l'ulteriore aumento di contaminazione radioattiva delle acque, il raffreddamento dei detriti di combustibile nucleare dovrebbe passare dall'acqua al raffreddamento ad aria, e il sito di Fukushima Daiichi dovrebbe essere isolato dalle acque sotterranee - diventando una "dry island" - con la costruzione di un profondo fossato.

fonte: www.greencity.it


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Microplastiche e biberon: un neonato è esposto in media a un milione e mezzo di particelle al giorno, rivela uno studio

 

I biberon e gli altri contenitori in plastica utilizzati per dare ai neonati latte, tisane e succhi, e per conservare alimenti per bambini possono rilasciare molte microplastiche, soprattutto se vengono scaldati. Tuttavia, anche se è molto difficile evitare del tutto di utilizzarli, esistono accorgimenti per minimizzare il rischio, che andrebbero messi in pratica più spesso, perché degli effetti diretti delle microplastiche su un organismo in sviluppo si sa ancora troppo poco.


A quantificare il rilascio di microplastiche di polipropilene, il polimero più usato per questi scopi, è uno studio appena pubblicato su Nature Food dagli esperti del Trinity College di Dublino, che hanno anche stilato una serie di raccomandazioni semplici ma efficaci.

Innanzitutto le cifre: gli autori hanno analizzato dieci tipi di biberon di polipropilene tra i più diffusi a livello internazionale, che rappresentano il 68% del mercato. Se si applica un protocollo di somministrazioni tipico per un bambino di 12 mesi, si vede che in media un biberon (ma anche un contenitore per alimenti) può rilasciare fino a 16 trilioni di particelle per litro, e la quantità dipende dalla temperatura. La relazione è lineare: via via che si passa da 25 a 95°C si va infatti da 0,6 a 55 milioni di microplastiche per litro.

Se poi si prendono in considerazione l’allattamento medio così come è raccomandato dalle linee guida internazionali (come quelle dell’Oms) e le modalità di preparazione consigliate, emerge che in 48 paesi ogni neonato è esposto, mediamente, a più di un milione e mezzo di microplastiche al giorno (1,58), e che le aree dove la situazione è più critica sono Oceania, Nord America ed Europa, con valori medi pari, rispettivamente, a 2,10, 2,28 e 2,61 milioni di microparticelle al giorno. 


Secondo lo studio, un neonato è esposto in media a un milione e mezzo di microplastiche al giorno provenienti da biberon e contenitori per alimenti

La temperatura, però, fa una grande differenza: quando l’acqua per preparare il latte è portata a 70°C direttamente nel contenitore, come raccomandato, vengono rilasciate anche 16,2 milioni di microplastiche per litro, e se i gradi arrivano a 95 le particelle per litro possono essere 55 milioni. Al contrario, a temperatura ambiente (25°C) le microplastiche sono in media 600 mila, ma questa temperatura è molto al di sotto di quanto raccomandato per la sterilizzazione e la preparazione del latte.

Come se ne esce? Innanzitutto – rispondono i ricercatori – seguendo scrupolosamente le linee guida più affidabili, che raccomandano sempre di non scaldare liquidi direttamente nel biberon, ma a parte, in contenitori di acciaio o comunque non di plastica. Poi si possono travasare nel biberon (che dovrebbe sempre essere di plastica di qualità) solo una volta pronti e raffreddati alla giusta temperatura, senza agitarli energicamente.

Un altro aspetto da considerare è quello del tipo di riscaldamento: bisogna sempre evitare il microonde. Allo stesso modo, mai riscaldare una seconda volta il latte o un alimento avanzato ma vanno buttati a fine pasto, soprattutto se sono stati nella plastica. Sarebbe poi opportuno non mescolare con troppa forza quando il latte o la pappa sono in contenitori di plastica (se necessario, meglio farlo altrove, e poi travasare). 


I ricercatori raccomandano di riscaldare i liquidi e gli alimenti in contenitori di materiali diversi dalla plastica per ridurre la quantità di microplastiche rilasciate

Tutte le precauzioni hanno una motivazione comune: mentre si sa abbastanza dell’effetto delle microplastiche provenienti dalla catena alimentare, per esempio dai pesci, poco o nulla per il momento è stato fatto per controllare che cosa succede all’organismo quando arrivano con il cibo direttamente dal contenitore, soprattutto quando si tratta di neonati, e quando ciò accade ogni giorno e più volte al giorno. Applicare il principio di precauzione è quindi importante.

Tra gli autori c’erano anche bioingegneri e chimici, i quali hanno dato che essendo poco realistico pensare alla sparizione della plastica dalla vita dei neonati, sarebbe utile trovare materiali a minore rilascio di microplastiche e sistemi di filtrazione dei liquidi per trattenerle, evitando che arrivino al bambino.

fonte: www.ilfattoalimentare.it


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Pesticidi nelle acque. Se ne trovano in 3 punti su 4, con percentuali in crescita. I valori sono al di sotto dei limiti










Le sostanze chimiche inquinano le nostre acque, ce lo ricorda il rapporto “H2O – La chimica che inquina l’acqua” da poco pubblicato dall’associazione ambientalista Legambiente. Nell’articolo di Simonetta Lombardo, pubblicato sul sito Cambia la terra, che riproponiamo, si analizzano i dati dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra).
Aumenta la diffusione della contaminazione di pesticidi nelle acque superficiali e profonde. Nel 2018 sono stati trovati residui di pesticidi nel 77% dei punti di campionamento delle acque superficiali e nel 36% di quelle sotterranee. In altre parole, in oltre tre punti di campionamento su quattro dei fiumi e dei laghi del nostro Paese si registra presenza di pesticidi derivanti soprattutto dall’uso agricolo. È un trend in ascesa: nelle indagini precedenti, relative al 2016, la presenza di pesticidi si rilevava nel 67% dei punti delle acque superficiali e nel 33% di quelle sotterranee.
È quanto emerge dai dati riportati nell’Annuario dell’Ispra, presentato all’inizio di giugno, mentre è in via di pubblicazione il report completo sui pesticidi nelle acque elaborato dalla stessa istituzione. “I dati evidenziano una presenza diffusa della contaminazione da pesticidi. Questo dipende anche dal fatto che i controlli sono migliorati sia in termini di copertura territoriale, sia in termini di sostanze cercate. È ragionevole ipotizzare che con il miglioramento delle indagini, specialmente in certe regioni del centro-sud del Paese, verrà alla luce una contaminazione finora non rilevata”, anticipa Pietro Paris, responsabile della sezione sostanze pericolose dell’Ispra e coordinatore del Rapporto nazionale sui pesticidi nelle acque. “Nella maggior parte dei casi le concentrazioni sono basse e inferiori ai limiti stabiliti dalle norme ambientali. Tuttavia, tenendo conto delle lacune conoscitive, è importante evidenziare anche la presenza a basse concentrazioni di queste sostanze, che sono generalmente prodotte artificialmente e non presenti naturalmente nell’ambiente”.
Non si tratta di affermazioni tranquillizzanti. La legislazione europea in materia di pesticidi è tra le più avanzate del mondo; di fatto, però, il monitoraggio dimostra che la normativa da sola non è sufficiente a prevenire lo stato di contaminazione delle acque. Ci sono diverse ragioni. In primo luogo gli studi e le previsioni fatte nella fase di autorizzazione delle sostanze non sempre si dimostrano adeguati a rappresentare quello che viene chiamato il destino delle sostanze nell’ambiente. D’altro canto, una delle norme che più dovrebbe essere efficace nel controllare l’impatto dei pesticidi (la direttiva sull’uso sostenibile) stenta ad essere calata sul territorio. Come riconosciuto dalla stessa Commissione europea: “È necessario che gli Stati membri adottino tutte le necessarie misure appropriate per promuovere e incentivare una difesa fitosanitaria a basso apporto di pesticidi, privilegiando ogniqualvolta possibile i metodi non chimici”.
“I limiti per i pesticidi nelle acque potabili nascono più di 20 anni fa, con la direttiva 98/83/CE attualmente in fase di revisione: 0,1 microgrammi/litro per una singola sostanza e 0,5 microgrammi/litro per il totale delle sostanze nelle acque”, spiega Paris. “Questi valori all’epoca rappresentavano la capacità analitica dei laboratori, e la volontà del legislatore era chiara: ’per quello che riusciamo a controllare, non ci devono essere pesticidi nelle acque destinate al consumo umano.’ Dietro tali limiti non c’era, infatti, una valutazione tossicologica particolare, quanto una volontà di cautela di fronte ai rischi di sostanze progettate per uccidere organismi che vengono reputati dannosi alle attività umane. Ma i meccanismi fondamentali della vita sono simili per tutti gli organismi, e nemmeno l’uomo è al riparo dagli effetti negativi dei pesticidi”.
I limiti fissati, quindi, sono sostanzialmente convenzionali, ma non è affatto detto che tutelino sempre la salute umana. Le sostanze mutagene, quelle cancerogene, quelle tossiche per la riproduzione, non hanno generalmente limiti di sicurezza (sono definite sostanze “senza soglia”), perché la loro tossicità è provata anche in presenza di dosi bassissime. Lo stesso accade per certe sostanze di particolare rilevanza ambientale, quali le sostanze persistenti, bioaccumulabili e tossiche (Pbt), per gli inquinanti organici persistenti (Pop), che rimangono nell’ambiente e si possono trovare anche a grande distanza dalle zone di utilizzo, fino nelle aree polari.
Molte delle sostanze indicate nella convenzione di Stoccolma sui Pop sono pesticidi, la cui pericolosità, purtroppo, è stata riconosciuta solo a posteriori, dopo anni di utilizzo massiccio. “C’è poi da aggiungere – aggiunge Paris – che molto spesso nei campioni di monitoraggio si trova un cocktail di sostanze di cui non si conosce l’effetto complessivo, che può essere di tipo additivo ma anche sinergico, cioè molto superiore a quello determinato dalle singole sostanze. Come riconosciuto dagli organi scientifici della stessa Commissione Europea, una delle lacune maggiori nella valutazione del rischio delle sostanze chimiche è che non viene considerato l’effetto delle miscele di sostanze che si possono formare nell’ambiente, di cui generalmente non si conosce neanche la composizione.  “Solo per fare un esempio, se ci sono sostanze che nel corpo umano vanno a colpire il fegato, un organo che ha una funzione disintossicante, l’introduzione di una seconda sostanza tossica potrebbe avere un effetto molto più alto”, aggiunge il responsabile Ispra.
Sembrerebbe una situazione di rischio da cui è difficile uscire. “La verità è che l’utilizzo dei pesticidi si basa su un compromesso molto fragile, perché si tratta di sostanze pericolose intenzionalmente rilasciate nell’ambiente. In Italia se ne utilizzano circa 130 mila tonnellate ogni anno, non possiamo stupirci di trovarne nei corpi idrici, come anche in altre matrici ambientali. Ci sono sostanze tossiche anche a concentrazioni estremamente basse, come nel caso degli insetticidi neonicotinoidi, ad esempio, l’Imidacloprid ha una tossicità anche a millesimi di microgrammo/litro. Lo sversamento di una quantità modesta può distruggere l’ecosistema di un corso d’acqua”, rileva Paris. Gli insetticidi neonicotinoidi sono considerati tra le principali cause della perdita di biodiversità. Recentemente sono stati banditi in Europa, ma per anni se ne è fatto un uso massiccio, che avrà ripercussioni ancora a lungo.
In realtà, sulla questione dei limiti dei pesticidi nelle acque potabili e della continua ascesa dei record negativi su questo fronte sembra di fatto esserci una convergenza di diversi interessi abbassare l’attenzione pubblica e la stessa azione dei legislatori. A cominciare da un dossier patrocinato dall’associazione SETA-Scienza e tecnologie per l’agricoltura che chiede ai decisori politici di alzare i limiti dei pesticidi nelle acque, perché non si riesce a rispettarli.
“I limiti delle acque potabili, peraltro confermati anche nella proposta di revisione normativa in corso, hanno un razionale basato sul principio di precauzione e la loro validità non dovrebbe essere messa in discussione. Sarebbe da irresponsabili. Non si ha piena consapevolezza dei rischi tossicologici e ambientali di queste sostanze, della loro reale persistenza nell’ambiente, non è ancora adeguatamente noto lo stato della contaminazione. Ancora oggi troviamo sostanze bandite da anni, l’esempio più noto è quello dell’atrazina, vietata 30 anni fa e ancora largamente presente nelle acque in particolare nella Pianura Padana”.
Simonetta  Lombardo, articolo pubblicato sul sito Cambia la terra

fonte: www.ilfattoalimentare.it


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I venti possono portar lontano l’inquinamento da PFAS

Una nuova ricerca ha studiato l’inquinamento da PFAS, scoprendo che viene trasportato dai venti anche a 50 km dalla fonte di contaminazione




L’inquinamento da PFAS e i rischi ad esso connessi tornano nuovamente sotto i riflettori del mondo scientifico. Un nuovo studio (testo in inglese), condotto dall’Ohio State University e dal Research Triangle Park, negli USA, ha scoperto infatti che questi composti chimici si disperdono molto più facilmente di quanto si pensasse in passato.

I PFAS (o sostanze perfluoroalchiliche) sono una famiglia di molecole organiche usate fin dagli anni ’50 in numerosissime applicazioni industriali e prodotti di largo consumo. Si va dai detergenti agli insetticidi, dalle vernici all’abbigliamento, dalle schiume antincendio ai rivestimenti dei contenitori alimentari. Il loro impiego si è diffuso a tal punto da riuscire a contaminare qualsiasi ecosistema, persino i ghiacci artici. E a causa della loro eccezionale stabilità chimica, queste sostanze possono persistere nell’ambiente per lunghi periodi di tempo. A risentirne sono soprattutto gli organismi viventi, uomo compreso. Se ingeriti, infatti, i PFAS non vengono metabolizzati dall’organismo, ma si accumulano negli organi, provocando alterazioni importanti.

Le molecole più utilizzate e studiate di questa famiglia sono l’acido perfluoroottanoico (PFOA) e l’acido perfluoroottansolfonico (PFOS), ma negli ultimi anni l’industria sta introducendo come alternative nuovi PFAS con minori probabilità di bioaccumulo. Uno di questi è l’HFPO-DA o “acido 2,3,3,3-tetrafluoro-2-(eptafluoropropossi)-propanoico”, di cui attualmente, però, poco si conosce in termini di tossicità e impatto ambientale.

Alcuni dati in più arrivano oggi dal nuovo studio statunitense. Il team di scienziati voleva valutare l’impatto ambientale su ampia scala di un impianto di produzione di fluoropolimeri a Parkersburg, in West Virginia. Una scelta non casuale dal momento che, nel 2013, la struttura in questione ha sostituito il PFOA (utilizzato per oltre 60 anni nella sintesi dei fluoropolimeri) con l’HFPO-DA. Il gruppo ha indagato anche la dispersione ambientale del nuovo acido, per la quale ad oggi sono disponibili pochissime informazioni.

Per farlo sono stati raccolti campioni di acqua superficiale, acqua potabile e terreno sia in prossimità che lontano dall’impianto. L’analisi ha mostrato come i composti inquinanti si siano dispersi nelle acque superficiali e nel suolo fino a circa 50 km dalla struttura. Ma c’è di più. Un ruolo chiave nella dispersione, infatti, è stato svolto dal trasporto atmosferico: i venti hanno diffuso lontano dall’impianto l’inquinamento da PFAS. Questi risultati indicano come gli inquinanti potrebbero arrecare danno anche in aree non sottoposte ai controlli richiesti.

Per monitorare al meglio l’estensione dell’inquinamento da PFAS, il gruppo di ricerca ritiene fondamentale aumentare le zone di monitoraggio, sia del suolo, sia delle acque.

fonte: www.rinnovabili.it


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Panini avvolti nell’alluminio, e sicurezza alimentare. Ecco i risultati ottenuti in laboratorio da Assomet



















Qualche tempo fa alcune affermazioni del viceministro Pierpaolo Sileri secondo cui l’alluminio usato per avvolgere panini potesse nascondere insidie (successivamente meglio precisate e contestualizzate) avevano preoccupato un po’ tutti i consumatori. È infatti difficile trovare qualcuno che, almeno una volta nella vita, non abbia preparato un pranzo al sacco prima di un pic-nic, di una gita fuori porta, di una passeggiata in montagna utilizzando proprio questo metodo di protezione.
Le parole di Sileri  furono anche riprese dalla trasmissione “Striscia la notizia”  che le utilizzò per condire un servizio già di per sé poco chiaro, instillando dubbi ancora sulla reale sicurezza nell’utilizzare il materiale in cucina.
Ma quanto metallo migra veramente in un panino avvolto nella pellicola di alluminio per alcune ore?  Si tratta di una domanda a cui finora nessuno era stato in grado di dare risposta, a causa della mancanza di dati sperimentali (pubblici) a disposizione.
In un’ottica di trasparenza verso il consumatore, un gruppo di aziende specializzato nella trasformazione dell’alluminio, ha deciso di avviare una simulazione in laboratorio e di pubblicare i dati in un comunicato rilasciato da Assomet  (Associazione nazionale industrie metalli non ferrosi).


Il comunicato rilasciato da Assomet  (Associazione nazionale industrie metalli non ferrosi).

La prova ha riguardato panini imbottiti con 4 tipologie di salumi (prosciutto crudo, mortadella, salame e pancetta) che sono stati avvolti in una pellicola di alluminio per otto ore a temperatura ambiente. Successivamente è stata valutata la quantità di alluminio migrata nei panini in questo lasso di tempo, che rappresenta una normale circostanza in cui si imbatte il consumatore.
Per porsi nelle peggiori condizioni prevedibili, mantenendo allo stesso tempo un approccio scientifico e, per quanto possibile, riproducibile, le prove sono state condotte accentuando la zona di contatto tra salume ed alluminio (ovvero quella potenzialmente più critica nei confronti del metallo). A tal proposito i panini (comuni rosette che troviamo nei panifici) sono stati preparati facendo debordare i salumi di circa 2 centimetri dal  contorno del panino.
Il confronto è avvenuto misurando  la quantità di alluminio già presente nell’alimento prima del contatto con la pellicola. I risultati hanno mostrato una migrazione molto limitata. Parliamo di valori inferiori a 0,005 milligrammi di alluminio per chilogrammo di alimento (5 microgrammi per chilogrammo) per  la pancetta (che ha ottenuto il risultato migliore). Per la mortadella si è arrivati a e pari a 0,039 mg/kg , ed è il salume con il risultato peggiore). Nei panini imbottiti con salame e prosciutto crudo, la migrazione di alluminio è stata rispettivamente di 0,013 e 0,011 mg/kg.


Mai usare l’alluminio a contatto con alimenti fortemente acidi o salati

Considerando la dose tollerabile settimanale (Twi) stabilita dall’Efsa (pari a 1 mg/kg), il valore più alto ottenuto dal panino alla mortadella, dimostra che per raggiungere la metà di questo limite, un adulto  di circa 60 kg dovrebbe mangiare in una settimana oltre 7.600 panini avvolti nell’alluminio mentre un bambino di 20 kg circa 2500.
Ma i numeri si fanno ancora più importanti  considerando gli altri salumi coinvolti. Si va dai 23 mila panini al salame, agli oltre 27 mila farciti con prosciutto crudo fino ai 60 mila imbottiti con pancetta.
Si tratta di numeri che non si raggiungono mai e che dimostrano come le quantità di alluminio migrate siano infinitesimali. Se l’utilità di questo studio sperimentale è importante, non vanno tuttavia perse di vista le raccomandazioni che la legge stabilisce per tutelare il consumatore. Non bisogna mai usare l’alluminio a contatto con alimenti fortemente acidi o salati e per conservare cibo a temperatura ambiente per tempi superiori alle 24 ore (tranne in alcuni casi specifici).
fonte: www.ilfattoalimentare.it

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Erbicidi, Bayer al centro di nuove azioni legali. Sotto accusa il Dicamba di BASF

Bayer e BASF rischiano di essere travolte da una nuova ondata di cause legali. Già impegnata sul fronte del Roundup e della contaminazione da PCB, la multinazionale tedesca rischia un assedio che potrebbe costarle molto caro

















Il giganti tedeschi Bayer e BASF sono alle prese con una nuova ondata di azioni legali intraprese da più parti negli Stati Uniti. Al centro delle cause ci sarebbe il Dicamba, erbicida “ereditato” da Monsanto e ritenuto responsabile della distruzione di diverse colture. 
L’attenzione dei giudici – che sabato hanno imposto una sanzione per danni ambientali di 265 milioni di dollari a causa della distruzione di un’intera coltura di peschi – si concentra in particolare su Bayer, già “impegnata” sul fronte del Roundup, diserbante dannoso e potenzialmente cancerogeno.
Al momento, non è chiaro in che modo saranno ripartite le rispettive responsabilità: nell’aprile del 2018, la compatriota BASF, produttrice dell’erbicida a base di Dicamba per l’uso su semenze geneticamente modificateaveva infatti firmato un accordo per acquisire da Bayer ulteriori business e asset nel settore della protezione delle colture. In ogni caso, al di là delle sanzioni e dei risarcimenti milionari a cui le aziende rischiano di andare incontro, i crescenti problemi legali sono costati a Bayer un calo del 3,3% nelle azioni, con conseguente perdita per il CEO Werner Baumann del voto di fiducia degli azionisti. 
  
Attualmente Bayer si trova infatti impegnata sotto diversi fronti: da una parte ci sono ancora i 10 miliardi di dollari “sospesi” per il caso Roundup, da un’altra le accuse di aver nascosto i rischi per la sicurezza connessi al suo dispositivo anticoncezionale Essure e, da un’altra ancora, le migliaia di azioni legali già intraprese da diverse città americane che accusavano Monsanto di aver contaminato i corsi d’acqua con PCB tossici. 
A tutto questo, andranno nei prossimi mesi a sommarsi anche le nuove cause legali riguardanti la dannosità del Dicamba. La decisione di sabato di imporre 250 milioni di dollari di multai oltre ai 15 per risarcire l’agricoltore Bill Bader potrebbe infatti incoraggiare altri coltivatori dell’Arkansas e dell’Illinois ad intraprendere simili azioni legali. 
Le aziende si sono difese affermando che dei danni alle colture sarebbero responsabili gli agricoltori, colpevoli d’aver applicato la sostanza chimica in modo errato sia in fatto di procedure che di formulazioni. Bayer ha promesso un ricorso, ma, come dichiarato da uno degli avvocati di Bader, il verdetto dei giudici sembrerebbe in ogni caso inviare un messaggio molto chiaro: “Non esiste un gigante tanto grande dal potersi sottrarre alla legge”. 

fonte: www.rinnovabili.it

Alluminio: un materiale che presenta dei rischi se non utilizzato correttamente. Come tutelare i consumatori?

















Monitorare la presenza e il rilascio di alluminio da materiali a contatto, informare e comunicare a cittadini ed aziende i rischi associati ad un uso improprio di articoli in alluminio, definire limiti di migrazione per questo metallo, oggi assenti, a livello europeo.
Questi gli obbiettivi del Comitato nazionale per la sicurezza alimentare (Cnsa), espressi attraverso il parere del 30 Gennaio 2019 sull’“Esposizione del consumatore all’alluminio derivante dal contatto alimentare”.
Dopo il parere emesso nel 2017 dallo stesso Cnsa in cui si suggeriva di adottare particolari precauzioni per prevenire la contaminazione degli alimenti e delle bevande, nuovi studi sperimentali condotti dal Laboratorio nazionale di riferimento dell’ISS hanno confermato che è necessario rafforzare l’attenzione sul tema alluminio per fasce della popolazione particolarmente vulnerabili come i bambini, gli anziani sopra i 65 anni, le donne in gravidanza e persone con funzionalità renale compromessa.
In particolare, il nuovo studio ipotizza che per bambini (da 1 fino a 9 anni di età) vi sarebbe una significativa probabilità di superamento della soglia di assunzione settimanale tollerabile (Twi fissata da Efsa in 1 mg per ogni chilogrammo di peso corporeo per settimana (1 mg/Kg/pc per settimana). Questi soggetti sarebbero infatti maggiormente esposti all’alluminio contenuto negli alimenti.
Fasce di età superiori sarebbero meno esposte a rischi sia per le diverse abitudini alimentari sia per il minore rapporto consumo di cibo/peso corporeo. A tal proposito il Cnsa ricorda che, oltre ad essere più esposti, i bambini sono una fascia biologicamente più suscettibile agli effetti neurotossici dell’alluminio.
In questo conto va tuttavia valutato un aspetto importante: in media, la maggior parte della popolazione, in particolare adolescenti e adulti, già assume fino alla metà del limite settimanale tollerabile di 1 mg di alluminio per kg di peso corporeo attraverso il cibo. Se si considera anche il contributo di cosmetici o materiali a contatto con alimenti, questo valore soglia può essere chiaramente superato.
L’alluminio è un metallo leggero che si presenta come il terzo elemento più comune nella crosta terrestre ed è contenuto anche in prodotti di consumo come deodoranti antitraspiranti, dentifrici, rossetti creme solari, nonché nei farmaci.
Interferendo con diversi processi biologici (stress ossidativo cellulare, metabolismo del calcio, etc.) può indurre effetti tossici in diversi organi e sistemi: il tessuto nervoso è il bersaglio più vulnerabile; ha biodisponibilità orale molto bassa nei soggetti sani anche se, per contro, la dose assorbita ha una certa capacità di bioaccumulo.
Poiché l’escrezione avviene essenzialmente tramite il rene, la tossicità dell’alluminio è nettamente maggiore nei soggetti con funzionalità renale immatura o diminuita (bambini piccoli, anziani, nefropatici).
In ambito alimentare è usato per la realizzazione di imballaggi e recipienti destinati a venire in contatto con gli alimenti, come pentole, film per avvolgere, vaschette monouso, caffettiere.
Considerato che il rilascio di alluminio dai materiali a contatto è condizionato dalle modalità di uso e da altri fattori combinati, quali il tempo di conservazione, la temperatura e la composizione dell’alimento, la contaminazione del cibo per fenomeni di migrazione da utensili o imballaggi è la fonte più prevenibile.
Ma da cosa dipende il livello di migrazione quando l’alluminio si trova a contatto con il cibo?
Le analisi sperimentali ISS rafforzano i dati secondo cui sono determinanti, oltre al tipo di alimento posto a contatto con l’alluminio, anche i condimenti: quelli di tipo acido, come il succo di limone, aumentano i livelli di migrazione. Ma le variabili sono veramente numerose: tempo di contatto, temperatura, stato fisico dell’alimento e composizione. In particolare, l’alluminio migra in quantità più elevate in matrici acquose, acide o salate specialmente se a contatto per tempi prolungati e temperature elevate.
AlluminioLo stato fisico dell’alimento (solido o liquido) è determinante: nel caso di cibi liquidi vi è un maggiore interscambio tra la matrice liquida e la superficie solida dal contenitore. In cibi secchi come le spezie, privi di umidità e salinità, non vi è alcun livello di migrazione.
Non a caso la legge italiana attuale prescrive che siano presenti indicazioni precise in relazione agli usi consentiti; secondo il Decreto Ministeriale n°76, i MOCA realizzati in alluminio devono riportare in etichetta le seguenti istruzioni:
a) non idoneo al contatto con alimenti fortemente acidi  o fortemente salati;
b) destinato al contatto con alimenti a temperature refrigerate;
c) destinato al contatto con alimenti a temperature non refrigerate per tempi non superiori alle 24 ore;
d) alimenti a basso potere estrattivo** possono essere conservati a temperatura ambiente anche per tempi superiori alle 24 ore.
**alimenti a basso potere estrattivo indicati nel decreto: Prodotti di cacao e cioccolato, Caffè, Spezie ed erbe infusionali, Zucchero, Cereali e prodotti derivati, Paste alimentari non fresche, Prodotti della panetteria, Legumi secchi e prodotti derivati, Frutta secca, Funghi secchi, Ortaggi essiccati, Prodotti della confetteria, Prodotti da forno fini a condizione che la farcitura non sia a diretto contatto con l’alluminio.
Istruzioni per l’uso corretto dei MOCA dovrebbero entrare a far parte dei manuali aziendali di corretta prassi igienica (sistema HACCP)
L’auspicio è che la recente valutazione espressa sul tema, accompagnata tra l’altro da una campagna informativa del Ministero della Salute, porti i consumatori ad un uso corretto e consapevole dell’alluminio.
Un materiale che di per sé non comporta danni alla salute, ma il cui utilizzo non corretto può essere rischioso.
Un’ulteriore opportunità risiede nel fatto che istruzioni circa l’uso corretto dei MOCA possano entrare a far parte dei manuali aziendali di corretta prassi igienica (sistema Haccp).
Esistono tuttavia situazioni in cui è necessario usare materiali diversi dall’alluminio (come riporta il Cnsa nel suo parere 2019) ed in particolare quelle già contemplate dal decreto italiano n°76: la cottura, la trasformazione e la conservazione di alimenti fortemente acidi o fortemente salati e più in generale il mantenimento di cibo a temperatura non refrigerate (o di congelamento) per tempi superiori alle 24 ore.
L’alluminio è infatti solubile sotto l’influenza di acidi o sale. Per questo motivo, i comuni imballaggi che troviamo sugli scaffali come lattine per bevande, coperchi per yogurt e contenitori in alluminio per il succo di frutta sono dotati di rivestimenti che impediscono il trasferimento di ioni di alluminio. Importante ricordare che un uso corretto dell’alluminio da parte di tutti, consumatori e operatori del settore alimentare, tutela la salute.
fonte: www.ilfattoalimentare.it