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Rapporto Wwf: 39 milioni di nuovi posti di lavoro se i governi la smettono con i sussidi dannosi per l’ambiente

Riorientare questa spesa verso pratiche sostenibili ridurrà l'impatto sulla biodiversità e aiuterebbe a passare a un'economia nature-positive




In vista dell’Open-Ended Working Group (OEWG-3) che si terrà dal 23 agosto al 3 settembre e che preparerà la ...

Siamo saliti in montagna

Il libro di Luca Mercalli, Salire in montagna. Prendere quota per sfuggire al riscaldamento globale, si può leggere prima di tutto come atto di amore per la montagna. Oppure per ragionare di clima o, più semplicemente, per misurarsi con l’impresa di recuperare una casa in qualche angolo delle Alpi o dell’Appennino, mettendo in pratica scelte di risparmio energetico. O ancora, per saperne di più, magari in quanto amministratore o amministratrice locale, su come facilitare la protezione del paesaggio e dell’ambiente. Abbiamo chiesto a uno dei massimi esperti in Italia di economia ambientale, Alberto Castagnola, di leggere l’ultimo libro di uno dei più bravi meteorologi e divulgatori sui temi ambientali, Luca Mercalli 



La nuova fatica letteraria – Salire in montagna. Prendere quota per sfuggire al riscaldamento globale (Einaudi) – di Luca Mercalli, tra i più preparati dei nostri ambientalisti, ha una forma antica, il diario personale su un arco di tre anni, ma si rivela subito essere qualcosa di più, una specie di manuale familiare per reagire ai meccanismi di danno ambientale e per assumere un ruolo attivo che consenta di sfuggire, almeno in parte, a un futuro non certo piacevole. 



Lo scienziato ha certamente scelto un periodo particolarmente significativo della sua vita, ma poi hanno dato libero spazio al suo spirito montanaro, alle sue conoscenze geologiche e meteorologiche, alle sue molteplici letture, alla sua visione di un mondo alternativo che stenta molto ad emergere. In ogni pagina del libro si possono incontrare descrizioni di paesaggi, analisi climatiche, ricordi dettagliati di eventi storici, tante citazioni di testi letterari e di brani di musica classica, e insieme proposte di interventi pubblici e di politiche nazionali diretti a proteggere e a migliorare la vita sulle montagne più alte. È quindi molto difficile, direi praticamente impossibile, fare sintesi e selezionare argomenti: in questa armonica mescolanza sta il fascino del volume e spetta ad ogni potenziale lettore affrontare la sfida di una affascinante scoperta. Il recensore può solo indicare percorsi, segnalare attrattive particolari, invidiare una esistenza così vitale e multiforme.

Il motivo di fondo che sostiene tutto il libro è apparentemente la ricerca, l’acquisto e la ristrutturazione di una casa del 1700, semi distrutta dal tempo ma collocata molto più in alto rispetto alla sua attuale abitazione. È collocata a Vazon, nelle vicinanze di Oulx, in Valle di Susa. La spinta per questa scelta, oltre all’amore per le montagne condiviso con la moglie, viene subito indicata nella necessità per tutti di abitare, nei prossimi anni, in fasce climatiche che risentano meno del progredire del riscaldamento climatico. La scelta di acquisto si rivela subito molto costosa, volendo salvaguardare la struttura originale e adottare metodi di ricostruzione molto rispettosi del manufatto e dell’ambiente circostante, e in un primo momento porta alla dolorosa decisione di rinunciare all’acquisto. Ma poi la bellezza della struttura e del monte che la ospita hanno il sopravvento sulla pura razionalità della disponibilità di denaro.

Comincia così un frenetico periodo di progetti, contatti con architetti e artigiani, preventivi e piani di lavoro (il definitivo comprende 47 allegati tecnici!), che occupa oltre un anno ma che permette anche all’autore di sperimentare di persona tutti gli ostacoli che le burocrazie e i regolamenti frappongono ai tentati di recupero e restauro di preziosi edifici antichi, perché in realtà sono stati concepiti per favorire i nuovi edifici moderni, basati sul cemento, ma che non tengono in alcun conto il rispetto dell’ambiente sociale e del contesto naturale. Anche la fase dell’inizio dei lavori, che occuperanno più del secondo anno, si presenta subito difficile, perché gli artigiani e gli operai più esperti e che sanno applicare le regole antiche, sono in realtà difficilmente reperibili e chiedono continuamente di rispettare i loro tempi. Verso la fine del libro, però, comincia la fase più bella, perché marito e moglie salgono continuamente per vivere le parti già rese abitabili e anche se non tutti gli impianti (luce, acqua, riscaldamento) sono già completamente operativi, cominciano a godersi tramonti favolosi, l’evolversi delle stagioni, e la possibilità di arrivare alla nuova casa anche durante i periodi invernali, lasciando l’auto a qualche chilometro di distanza e percorrendoli con ciaspole e scarponi chiodati, con le provviste sulle spalle. Si moltiplicano quindi le descrizioni dei fenomeni naturali, goduti profondamente e accompagnati da ogni genere di spiegazione scientifica e climatica. Negli ultimi mesi, poi, aumentano i viaggi e le escursioni che, partendo dalla nuova casa, portano gli amanti della montagna in nuove valli e su nuove cime delle Alpi Cozie.

Nel libro diario vi è poi un secondo filone di informazioni che attrae il lettore, relativo a eventi di portata storica e ad approfondimenti culturali che fanno emergere molti altri aspetti della vita sulle montagne. Vi sono inserti che descrivono le guerre che hanno marchiato certe località montane in epoca romana e negli ultimi secoli, episodi di lotte partigiane contro gli eserciti invasori, ma anche due pagine stupende di una storia delle stufe, che spiega le loro scelte tecnologiche e una durissima analisi degli effetti dannosi di vari manifestazioni sportive di alto livello, che hanno comportato spese ingenti, mentre gli impianti costruiti per ogni occasione sono in larga parte abbandonati.

Si può individuare, inoltre, un terzo livello di interesse che occupa diverse pagine e una apposita appendice. Si parte da una esperienza molto concreta, cioè dal tentativo di Mercalli di guadagnarsi la qualifica di Casa Clima per la sua nuova abitazione, ma ciò comporta una invasione di tecnici esterni che effettuano una molteplicità di test relativi alla tenuta della casa rispetto ai venti e alle infiltrazioni d’acqua e di fumo. Per ben due volte spuntano fuori spifferi e perdite, e il titolo viene conferito solo dopo il terzo test, cioè dopo aver effettuato numerose modifiche agli infissi e alle tubature. Ma questa esperienza conferma l’opinione di Mercalli che si debba adottare una politica edilizia specifica per tutte le aree abitate di montagna, per salvaguardare le preesistenze senza deturpare il paesaggio e per conservare atmosfere e tradizioni senza arrecare disagi ad abitanti e visitatori. Il libro sarebbe quindi di grande utilità anche per enti locali e regionali e per i legislatori nazionali.

Infine, una nota personale. Mi sono innamorato dell’economia a ventitré anni, dopo una università insulsa, mentre il mio profondo amore per il mare risale a molti anni prima e il mio impegno per l’ambiente è sempre filtrato dalle conoscenze economiche. Mercalli invece sembra aver realizzato una fusione profonda tra la sua figura di scienziato e di attivista esperto e il suo amore profondo per la montagna: oggi interrompe i suoi soggiorni nel paradiso delle cime più alte solo per tenere un corso o intervenire a un convegno. Guarderò ormai con occhi diversi i suoi testi base che ho tante volte letto e utilizzato, inserendoli in tramonti invernali indimenticabili.

fonte: comune-info.net

 

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Cosa ci vorrà perché il mondo sia libero dai rifiuti?

 

La combustione di combustibili fossili ha ricevuto la maggior parte dell'attenzione nel dibattito sul cambiamento climatico, che ha portato a progressi vitali. La transizione in rapida evoluzione all'energia solare ed eolica è estremamente importante. Ma circa due terzi delle emissioni di gas serra provengono dai processi lineari di estrazione, estrazione, produzione e smaltimento dei prodotti di consumo.


Il sistema lineare dispendioso ed ecologicamente catastrofico è stato sviluppato nel 20 ° secolo specificamente per arricchire le aziende che hanno sgranato i loro profitti estraendo più risorse naturali - petrolio per produrre plastica, minerale per metallo e legno per carta - senza essere ritenute responsabili del danno ambientale hanno causato. Hanno anche incrementato i profitti, a grandi spese del pubblico, producendo prodotti non per una longevità ottimale, ma con l'obiettivo che diventassero presto obsoleti o fossero cestinati dopo un singolo utilizzo. Ciò, a sua volta, ha costretto l'estrazione aggiuntiva di risorse naturali per ogni nuovo prodotto fabbricato. Come rivelerò più ampiamente nel primo capitolo, l'idea che i prodotti e il loro imballaggio debbano essere gettati via con noncuranza dopo un utilizzo piuttosto che riparati, riutilizzati, o riciclato è stato impiantato nella coscienza pubblica attraverso campagne pubblicitarie. Così era il fascino di "scambiare" con nuovi prodotti prima che fosse necessario sostituirli. All'insaputa dei contribuenti, le aziende responsabili di ciò sono state in grado di ridurre queste spese su di noi; molti dei peggiori trasgressori, come gli estrattori di combustibili fossili, hanno insidiosamente fatto pressioni e guadagnato centinaia di miliardi di dollari in sussidi federali. Il pubblico ha inconsapevolmente pagato miliardi di dollari delle tasse per sovvenzionare lo sviluppo e la crescita delle industrie che hanno beneficiato dell'economia del prendere-fare-sprecare.come gli estrattori di combustibili fossili, hanno insidiosamente fatto pressioni e guadagnato centinaia di miliardi di dollari in sussidi federali. Il pubblico ha inconsapevolmente pagato miliardi di dollari delle tasse per sovvenzionare lo sviluppo e la crescita delle industrie che hanno beneficiato dell'economia del prendere-fare-sprecare. come gli estrattori di combustibili fossili, hanno insidiosamente fatto pressioni e guadagnato centinaia di miliardi di dollari in sussidi federali. Il pubblico ha inconsapevolmente pagato miliardi di dollari delle tasse per sovvenzionare lo sviluppo e la crescita delle industrie che hanno beneficiato dell'economia del prendere-fare-sprecare.

Non c'è motivo per cui dovremmo continuamente pagare una tariffa per l'estrazione di una risorsa naturale ogni volta che utilizziamo un prodotto o per il suo smaltimento dopo averlo utilizzato. Negli ultimi 75 anni siamo stati indotti a pagare costi inutili, mentre la terra, l'aria e l'acqua che possediamo collettivamente sono state spogliate.

Il danno arrecato al pianeta e alle nostre società sta diventando sorprendentemente chiaro. Il cambiamento climatico sta progredendo ancora più rapidamente del previsto. Siccità più frequenti e gravi stanno contribuendo a incendi boschivi sempre più devastanti. Le imponenti esplosioni non solo rilasciano enormi volumi di carbonio nell'atmosfera, ma riducono anche drasticamente il volume di carbonio che le foreste decimate estraggono dall'aria e distruggono le case di centinaia di migliaia di persone ogni anno. Le foreste pluviali, che sono i più potenti estrattori di carbonio, si stanno esaurendo al ritmo di circa 31.000 miglia quadrate all'anno. La ricerca mostra che sia l'ondata di caldo record che ha colpito l'Europa nell'estate del 2020 sia le piogge torrenziali della tempesta tropicale Imelda, che ha causato gravi inondazioni in Texas a settembre, sono state intensificate dai cambiamenti climatici. Le Nazioni Unite stimano che la scarsità d'acqua legata al clima affliggerà i due terzi della popolazione mondiale entro il 2025.

Per molte comunità in tutto il mondo, gli effetti sono già stati devastanti e sono stati avvertiti in modo sproporzionato nelle aree più povere e dalle popolazioni indigene. Come ha rivelato la quarta valutazione nazionale del clima, emessa dal governo federale degli Stati Uniti, le persone che vivono nei quartieri più poveri del paese subiscono la maggiore esposizione sia all'inquinamento che ai danni alla proprietà a causa di eventi meteorologici estremi. Le fabbriche che emettono tossine sono concentrate vicino ai quartieri poveri. Ad esempio, Fortune ha riferito che nella sezione West Louisville di Louisville, Kentucky, che è al primo posto per scarsa qualità dell'aria nelle città americane di medie dimensioni, l'80% della popolazione è nera e l'aria è contaminata da 56 strutture che vomitano tossine. I residenti di West Louisville vivono in media 12.5 anni in meno rispetto ai residenti bianchi dei quartieri ricchi della città.

Per quanto riguarda i popoli indigeni, le Nazioni Unite hanno riferito sugli effetti ad ampio raggio dell'incombente carenza d'acqua dovuta allo scioglimento dei ghiacciai nell'Himalaya; siccità e punire la deforestazione nelle aree dell'Amazzonia popolate da gruppi indigeni; l'esaurimento di renne, caribù, foche e pesci da cui fanno affidamento le popolazioni artiche e l'espansione delle dune di sabbia e la siccità che colpiscono l'allevamento di bovini e capre nel bacino africano del Kalahari.

Non c'è niente di efficiente nel cestinare circa 42 libbre di prodotti elettronici all'anno per americano, quando così tanti di quegli articoli potrebbero essere rinnovati e rivenduti.

Tuttavia, anche se le prove della devastazione sono aumentate, il degrado delle risorse è aumentato negli ultimi dieci anni. Un terzo del suolo terrestre è già scomparso e se gli attuali tassi di esaurimento continuano, il pianeta si esaurirà tra 60 anni. Il tasso di estinzione delle specie sta accelerando, con circa il 20% degli animali terrestri uccisi dal 1900, il 40% delle specie di anfibi e 1 milione di specie ora minacciate di estinzione. Come ha rivelato un flusso costante di foto orribili di balene, delfini e tartarughe marine che vengono trascinati sulla riva con lo stomaco pieno zeppo di plastica, i nostri oceani sono devastati dai rifiuti di plastica. Avendo scoperto che la plastica si scompone in microunità, i ricercatori hanno scoperto che si sono fatti strada in ogni angolo del pianeta e anche nella nostra acqua potabile. Come ha affermato il presidente della Piattaforma intergovernativa di politica scientifica delle Nazioni Unite sulla biodiversità e i servizi ecosistemici in merito a una valutazione allarmante della biodiversità globale del 2020, "Stiamo erodendo le fondamenta stesse delle nostre economie, dei mezzi di sussistenza, della sicurezza alimentare, della salute e della qualità della vita in tutto il mondo".

Di fronte a prove inequivocabili del danno che hanno causato, molte delle società di combustibili fossili, minerarie e manifatturiere, nonché la maggior parte dei grandi proprietari di discariche, hanno combattuto furiosamente contro tutte le misure di riparazione. Ho avuto una visione in prima fila a Recyclebank ea New York City della subdola con cui hanno diffuso bugie e ostacolato il cambiamento. Ho visto come i progressi nell'espansione e nel miglioramento del riciclaggio e nella riduzione dell'uso di materiali degradanti per l'ambiente siano stati ostacolati. Quando il sindaco Michael Bloomberg e io abbiamo proposto di vietare il polistirolo, ad esempio, siamo stati attaccati con una campagna di disinformazione. Nel bel mezzo della crisi del COVID-19, la coalizione pro-plastica ha spudoratamente promosso l'affermazione del tutto infondata che i sacchetti riutilizzabili avrebbero diffuso il virus, approfittando di quella che vedevano come un'opportunità per ribaltare i divieti dei sacchetti di plastica.(La copertura della stampa di questo problema può essere ricondotta a un comunicato stampa del gruppo di lobbying chiamato inganno l'American Progressive Bag Alliance.)

I sostenitori del sistema "prendi-fai-rifiuti" hanno caratterizzato l'economia lineare come il mercato libero ottimamente efficiente. Ma non c'è niente di efficiente nel fatto che circa il 90% della plastica, prodotta con l'uso di una grande quantità di energia, finisce per ammuffire lentamente nelle discariche, quando gran parte di essa potrebbe essere riciclata. (Come vedremo, molte grandi aziende chiedono a gran voce di comprarlo.) Non c'è niente di efficiente nel cestinare circa 42 libbre di prodotti elettronici - la parte in più rapida crescita del flusso di rifiuti - per ogni americano ogni anno, quando così tanti di quelli gli articoli potrebbero essere rinnovati e rivenduti. Non c'è niente di efficiente nel 40 percento del cibo acquistato dagli americani che va sprecato, gran parte di esso viene scaricato quando è ancora buono da mangiare.

fonte: www.greenbiz.com/


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Gli impatti ambientali dell’attività mineraria raccontati dall’Ispra

L'audizione in Commissione Ecomafia ha permesso ai ricercatori dell'Istituto Superiore per la protezione e la ricerca ambientale di fare chiarezza su un tema poco affrontato. In Italia dal 1870 ad oggi sono stati in attività 3.015 siti minerari, interessando tutte le Regioni, 93 province e 889 Comuni





Si è tenuta nei giorni scorsi in Commissione Ecomafia alla Camera dei deputati un’audizione sugli impatti ambientali dell’attività mineraria alla quale ha partecipato il direttore generale dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), Alessandro Bratti, e l’esperto Fiorenzo Fumanti, del dipartimento per il Servizio geologico d’Italia dell’ISPRA.

L’obiettivo era quello di fornire un quadro completo degli impatti ambientali dell’attività mineraria, di cui spesso si sono presi in considerazione gli aspetti economici più di quelli ecologici. Per capire come questo è stato monitorato – e soprattutto gestito – fino ad oggi.

Secondo le evidenze mostrate nel rapporto, il grande problema per l’ambiente è rappresentato dai siti abbandonati e dalle discariche minerarie. I dati ci dicono infatti che “le criticità ambientali sono connesse all’operatività delle miniere, ma ancor più alle centinaia di siti minerari abbandonati”.

Tanti siti e poca attenzione

In Italia dal 1870 ad oggi sono stati in attività 3.015 siti minerari, interessando tutte le Regioni, 93 province e 889 Comuni. Nel 2018, a fronte di 120 concessioni di miniera ancora in vigore, 69 risultavano realmente in produzione, soprattutto in Sardegna, Piemonte e Toscana.

Le miniere attualmente operanti sul territorio nazionale sono solo di minerali non metalliferi, la cui estrazione è meno impattante rispetto a quelli metalliferi. Tali siti sono soggetti ai controlli di polizia mineraria effettuati dalle Regioni, avvalendosi delle Arpa competenti relativamente ai controlli ambientali.

Riguardo ai siti oggi non più produttivi invece, il rapporto spiega che gran parte di essi sono stati gestiti con “scarsa attenzione alla prevenzione e al contenimento dell’impatto ambientale”. Nello specifico, spiega Fumanti, sono abbandonati “elevati quantitativi di metalli pesanti e sostanze tossiche sono contenuti nei bacini di decantazione dei fanghi di laveria, impianti in cui il materiale estratto veniva frantumato, macinato e flottato in acqua: tali bacini costituiscono potenziali sorgenti di danno ambientale per il possibile rilascio dei fanghi contaminati a causa di perdite o crollo delle strutture di contenimento”.

Ecco perché, secondo l’Ispra, i bacini di decantazione devono essere messi subito in sicurezza ed essere oggetto di continuo controllo. E qui c’è il secondo problema.
Chi se ne occupa?

Come ricorda lo stesso Fumanti infatti, “nel 2012 la proprietà delle miniere è stata trasferita dallo Stato alle Regioni, già competenti dal 1998 per la gestione amministrativa dei permessi di ricerca e le concessioni di coltivazione”. Questi cambiamenti, secondo quanto riferito, “essendo avvenuti in assenza di un quadro normativo aggiornato e di indirizzo delle attività, hanno generato sia sistemi di pianificazione, autorizzazione e controllo diversificati che sistemi di raccolta e gestione delle informazioni eterogenei”.

Da questo dipende l’abbandono di ingenti quantitativi di scarti minerari. E il forte impatto ambientale al quale occorre porre rimedio. I dati parlano chiaro: con il decreto legislativo117/2008 l’Italia ha recepito l’apposita direttiva europea relativa alla gestione dei rifiuti delle industrie estrattive e istituito l’Inventario nazionale delle strutture di deposito dei rifiuti estrattivi, gestito da Ispra. E nel 2017, “erano presenti in Italia 321 strutture di deposito con rischio ecologico-sanitario da medio-alto ad alto”. È il momento di intervenire.

fonte: economiacircolare.com


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Sussidi ambientalmente dannosi, quanti aiuti diamo ancora alle fossili?

Tra finanziamenti diretti e incentivi fiscali, l’Italia fornisce ancora 35,7 miliardi di euro a settori e strumenti deleteri per l’ambiente e il clima. E il taglio dei SAD, annunciato dal Governo, prende tempo




La strada italiana della transizione ecologica ha ancora troppi ostacoli lungo il suo corso. Uno di questi è rappresentato dai cosiddetti sussidi ambientalmente dannosi (SAD). Di cosa si stratta? Di incentivi destinati a vari settori dell’economica nazionale, e finalizzati a ridurre il costo di utilizzo delle fonti fossili o dello sfruttamento di risorse naturali. A partire dal 2019 sono arrivate le prime promesse di riduzione dei SAD, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare… e, purtroppo, anche una pandemia. Ed è così che il taglio che si sarebbe dovuto concretizzare nell’ultima legge di bilancio si è trasformato in un momento di analisi. Il provvedimento non tocca materialmente i sussidi ambientalmente dannosi ma istituisce una Commissione interministeriale per lo studio di tale intervento.

Questo ritardo nell’azione preoccupa Legambiente che presenta oggi il suo rapporto 2020 “Stop sussidi alle fonti fossili e ambientalmente dannosi”. “Non esiste scusa legata al Covid che tenga – dichiara Edoardo Zanchini, vicepresidente dell’associazione – […] l’emergenza climatica sta diventando sempre più grave: ogni euro non più regalato a chi inquina può liberare investimenti in innovazione ambientale ma anche per far uscire il Paese dalla crisi economica e sociale”.

Ma di quanti euro stiamo effettivamente parlando? Secondo il rapporto la cifra complessiva è di ben 35,7 miliardi di euro, di cui oltre 21,8 miliardi sotto forma di incentivi diretti e circa 13,8 miliardi in forma indiretta (es. sconti sulle tasse). Alcune di queste misure hanno una storia antiche, altre sono decisamente più recenti. È il caso del capacity market. Il meccanismo prevede una remunerazione per gli impianti impegnati a garantire una determinata capacità di produzione, in relazione ad eventuali picchi di domanda; in altre parole, le grandi centrali elettriche vengono pagate per la loro disponibilità a produrre energia in caso di necessità. O, in alternativa, i grandi consumatori possono essere essere ricompensati per la disponibilità a ridurre i consumi. Nel sistema rientrano anche le rinnovabili, ma gli impianti numero uno di questo mercato sono ovviamente le centrali a gas.

“Non tutto è cancellabile dall’oggi al domani – commenta Katiuscia Eroe, responsabile energia di Legambiente – ma è certo che serve intervenire, partendo dai finanziamenti più assurdi, inquinanti, a premio di rendite contro l’ambiente. I sussidi dannosi sono un macigno sulla possibilità di spingere una innovazione diffusa, nell’interesse del Paese; sono risorse sottratte a investimenti di cui c’è enorme bisogno per uscire dalla crisi: potrebbero andare a ospedali, scuole, ricerca, investimenti nella green economy e nella riduzione delle diseguaglianze”. 

Settore energia

Sono 15 i miliardi di euro destinati, nel 2019, a sussidiare il settore energetico fossile del nostro Paese; che diventano 15,8 miliardi per il 2020. Ventisei incentivi diversi, di cui almeno 14 potrebbero essere eliminati subito, per un valore pari a 8,6 miliardi di euro. In particolare, le trivellazioni ricevono indirettamente 576,54 milioni di euro, dovuti all’inadeguatezza di royalties e canoni. I contributi a centrali fossili e impianti sono costati, nel 2019, ai contribuenti italiani, 1.316,4 milioni di euro. Al Capacity Market vanno 180 milioni di euro (dati 2020), mentre il CIP6 continua a ricevere 682 milioni all’anno. I prestiti e le garanzie pubbliche (CDP e SACE) per operazioni a sostegno di investimenti nell’Oil&Gas ammontano a 3.756 milioni di euro. Senza dimenticare gli incentivi assegnati alla ricerca su carbone, gas e petrolio.

Settore trasporto

Il settore è sussidiato complessivamente per 16,2 miliardi di euro. Di cui 5.154 milioni di euro per il differente trattamento fiscale tra benzina e gasolio e 3.757 milioni di euro per quello tra metano, gpl e benzina; l’esenzione dell’accisa sui carburanti per la navigazione aerea ammonta a 1.807,3 milioni di euro; 1.587,5 milioni vanno al rimborso delle accise sul gasolio per trasporti, 400 milioni sussidiano l’olio di palme nei biocarburanti.

Settore agricoltura

Alla PAC vanno sussidi per 2.117,47 milioni di euro. Le esenzioni e riduzioni ai prodotti energetici ammontano a 939,2 milioni. Tra i sussidi indiretti, la SACE eroga prestiti e garanzie per 155,6 milioni per un impianto di fertilizzanti in Russia.

Settore edilizia

Il credito d’imposta per l’acquisto di beni strumentali, generalmente associati a elevati consumi energetici ed emissioni, vale 617 milioni di euro. L’esenzione dell’IMU per nuovi fabbricati ammonta a 38,3 milioni di euro, sussidiando il consumo di suolo anziché incentivare le ristrutturazioni.

Settore canoni e concessioni

L’inadeguatezza di concessioni e canoni equivale a un sussidio di 509 milioni, tra acque minerali (262), demanio marittimo (150) e cave (97).

fonte: www.rinnovabili.it


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Erbicidi, Bayer al centro di nuove azioni legali. Sotto accusa il Dicamba di BASF

Bayer e BASF rischiano di essere travolte da una nuova ondata di cause legali. Già impegnata sul fronte del Roundup e della contaminazione da PCB, la multinazionale tedesca rischia un assedio che potrebbe costarle molto caro

















Il giganti tedeschi Bayer e BASF sono alle prese con una nuova ondata di azioni legali intraprese da più parti negli Stati Uniti. Al centro delle cause ci sarebbe il Dicamba, erbicida “ereditato” da Monsanto e ritenuto responsabile della distruzione di diverse colture. 
L’attenzione dei giudici – che sabato hanno imposto una sanzione per danni ambientali di 265 milioni di dollari a causa della distruzione di un’intera coltura di peschi – si concentra in particolare su Bayer, già “impegnata” sul fronte del Roundup, diserbante dannoso e potenzialmente cancerogeno.
Al momento, non è chiaro in che modo saranno ripartite le rispettive responsabilità: nell’aprile del 2018, la compatriota BASF, produttrice dell’erbicida a base di Dicamba per l’uso su semenze geneticamente modificateaveva infatti firmato un accordo per acquisire da Bayer ulteriori business e asset nel settore della protezione delle colture. In ogni caso, al di là delle sanzioni e dei risarcimenti milionari a cui le aziende rischiano di andare incontro, i crescenti problemi legali sono costati a Bayer un calo del 3,3% nelle azioni, con conseguente perdita per il CEO Werner Baumann del voto di fiducia degli azionisti. 
  
Attualmente Bayer si trova infatti impegnata sotto diversi fronti: da una parte ci sono ancora i 10 miliardi di dollari “sospesi” per il caso Roundup, da un’altra le accuse di aver nascosto i rischi per la sicurezza connessi al suo dispositivo anticoncezionale Essure e, da un’altra ancora, le migliaia di azioni legali già intraprese da diverse città americane che accusavano Monsanto di aver contaminato i corsi d’acqua con PCB tossici. 
A tutto questo, andranno nei prossimi mesi a sommarsi anche le nuove cause legali riguardanti la dannosità del Dicamba. La decisione di sabato di imporre 250 milioni di dollari di multai oltre ai 15 per risarcire l’agricoltore Bill Bader potrebbe infatti incoraggiare altri coltivatori dell’Arkansas e dell’Illinois ad intraprendere simili azioni legali. 
Le aziende si sono difese affermando che dei danni alle colture sarebbero responsabili gli agricoltori, colpevoli d’aver applicato la sostanza chimica in modo errato sia in fatto di procedure che di formulazioni. Bayer ha promesso un ricorso, ma, come dichiarato da uno degli avvocati di Bader, il verdetto dei giudici sembrerebbe in ogni caso inviare un messaggio molto chiaro: “Non esiste un gigante tanto grande dal potersi sottrarre alla legge”. 

fonte: www.rinnovabili.it

L’inceneritore che volle bruciarsi da se’

























Abbiamo più volte parlato dell’inceneritore ACCAM di Busto Arsizio per diversi motivi, in particolare perché al centro di una campagna delle associazioni locali che era riuscita qualche anno fa a convincere una quota sufficiente dei “proprietari” (i Comuni) a procedere al suo spegnimento entro una data “decente” (prima dicembre 2017 poi dicembre 2019).
Anche il Piano regionale rifiuti della Lombardia lo aveva messo tra gli “eliminabili” per la sua intrinseca obsolescenza.
Questa iniziativa è stata resa vana dal successivo Consiglio di Amministrazione che è riuscito a ribaltare la situazione e “allungare” la vita al 2027 (e forse più ….).https://www.medicinademocratica.org/wp/?p=7335

Parte di questo Consiglio di Amministrazione a partire dal Presidente, nel corso del 2019, è sotto processo (alcuni hanno già patteggiato) nell’ambito degli “incarichi” dispensati da Nino Caianello (indagine “mensa dei poveri”) – referente di Forza Italia in provincia di Varese. https://www.medicinademocratica.org/wp/?p=8155 
Nell’ambito degli imputati anche la società di consulenza che aveva giustificato tecnicamente la possibilità (e l’opportunità) di proseguire l’attività nonostante i disavanzi accumulati nel tempo (per sanarli si prevede l’incremento della quantità dei rifiuti estendendo l’area di conferimento).
Non è la prima volta che l’impianto è sotto processo, il precedente più importante si è verificato nel 2005 (“operazione Grisù”) che vide l’arresto del direttore dell’impianto per lo smaltimento di rifiuti non autorizzati.
Anche dal punto di vista ambientale l’impianto (il primo inceneritore nel sito è stato realizzato nel 1972, l’impianto attuale è in esercizio dall’agosto 2000) nonostante innumerevoli interventi di “adeguamento” non ha mai dato grande prova di sé.
Bene, oggi l’inceneritore ACCAM ha tentato “l’autodafé”, di bruciare sé stesso, secondo quanto riportato dalla stampa locale alle 2.30 di oggi si è sviluppato un grave incendio (sette squadre dei Vigili del Fuoco per domarlo in due ore) si è sviluppato nell’area turbine (dove il vapore prodotto dall’incenerimento viene trasformato in energia elettrica) probabilmente dovuto a una fuoriuscita di olio idraulico che poi si è innescato.
Un guasto con possibile causa connessa alla manutenzione, analogamente ad un evento di circa 10 anni fa, in cui entrambi i forni si erano bloccati a poche ore l’uno dall’altro per rotture nel circuito di raffreddamento.
Guarda caso la turbina non è tra i “punti critici” per i quali vige un obbligo di controllo periodico stabilito esplicitamente nella Autorizzazione Integrata Ambientale (del 2015 con successive modifiche) nonostante che siano applicabili all’impianto (allora) le migliori tecnologie disponibili per i grandi impianti di combustione (oltreché – recentemente – la decisione UE sugli inceneritori) https://www.medicinademocratica.org/wp/?p=8918
L’impianto è attualmente fermo ma viene “garantita” l’accensione a breve ….. non è che (almeno !) prima di riaccenderlo sia opportuna una verifica completa (a partire dalle prescrizioni di AIA) ??
Per noi è un motivo in più per confermare la necessità del suo spegnimento.
fonte: https://www.medicinademocratica.org

I finanziamenti mancati per i Paesi più colpiti dai cambiamenti climatici

I Paesi riuniti alla COP25 di Madrid hanno rimandato decisioni importanti sui meccanismi di “loss and damage”, ovvero i danni e le perdite causati dagli eventi estremi legati ai cambiamenti climatici. “La nostra gente sta già soffrendo”, denuncia il rappresentante dei Paesi in via di sviluppo di fronte all’inazione dei principali responsabili delle emissioni di gas climalteranti

© Nikolas Noonan - Unsplash


La conferenza Onu sui cambiamenti climatici (COP25) non sarà ricordata come l’occasione in cui i Paesi industrializzati avranno fatto un decisivo passo avanti verso il Sud del mondo, soprattutto per quanto riguarda le risorse economiche da mettere a disposizione per contrastare gli effetti del clima che sta cambiando.
Oltre all’assenza di reali nuove ambizioni di riduzione di emissioni di CO₂ e al mancato accordo sull’articolo 6 dell’Accordo di Parigi che deve regolare il nuovo mercato di carbonio, i Paesi riuniti a Madrid hanno rimandato alcune decisioni importanti sui meccanismi di “loss and damage”, ossia sui i danni e le perdite causati dai cambiamenti climatici. Come gli impatti di eventi meteorologici estremi o di quelli a lenta insorgenza, causati per esempio dell’innalzamento del livello del mare.

“La nostra gente sta già soffrendo per gli effetti del cambiamento climatico. Le nostre comunità in tutto il mondo sono devastate. Le emissioni globali devono essere drasticamente e urgentemente ridotte per limitare ulteriori impatti, e il sostegno finanziario deve aumentare in modo che i nostri Paesi possano affrontare meglio il cambiamento climatico e i suoi impatti”, ha commentato Sonam P. Wangdi, a capo del gruppo dei “Paesi meno sviluppati” (LDC), alla fine della sessione conclusiva della COP25.
A Madrid era programmata la revisione periodica dei meccanismi. Creati nel 2013 durante la COP16 di Varsavia proprio con lo scopo di supportare i Paesi in via di sviluppo, ogni cinque anni devono essere revisionati e aggiornati. In vista di questo appuntamento, a Madrid quei hanno chiesto che, oltre alle conoscenze, alle competenze e alle tecnologie per gestire i rischi, i Paesi sviluppati garantiscano fondi specifici dedicati solo alle perdite e ai danni, da aggiungere a quelli già previsti per il clima.

“In passato i Paesi del gruppo LDC hanno provato durante i negoziati a inserire nel testo ufficiale dei meccanismi le parole responsabilità e compensazione (liability and compensation, ndr) nella speranza di ottenere un riconoscimento legale e ufficiale del loro diritto a ottenere risarcimenti dai Paesi sviluppati, maggiormente responsabili dei cambiamenti climatici”, spiega Elisa Calliari, ricercatrice presso la London’s Global University. “Ormai non c’è possibilità che queste parole siano inserite nel testo, per questo i Paesi in via di sviluppo stanno tentando vie diverse per assicurarsi il risarcimento che chiedono”. Ma anche alla COP di Madrid il gruppo dei Paesi vulnerabili non è riuscito a ottenere risultati concreti.

Nell’ultima versione del testo non c’è alcun riferimento a nuovi fondi per “loss and damage” che devono provenire dai Paesi più industrializzati. “Il testo invita debolmente -continua Calliari- il Fondo verde per il clima a fornire le risorse economiche”. Questo fondo è stato creato durante i negoziati del 2010 per aiutare economicamente i Paesi vulnerabili ad attuare azioni di mitigazione (riduzione di emissioni inquinanti) e di adattamento ai cambiamenti del clima. Le perdite e i danni provocati da eventi legati ai cambiamenti climatici non fanno esplicitamente parte delle finalità del fondo. E per i Paesi in via di sviluppo le risorse previste non sono sufficienti a finanziare tre diversi tipi di azioni: mitigazione, adattamento, perdite e danni. Tanto più che finora sono confluiti nel fondo solo 9,8 miliardi di euro dei 100 previsti ogni anno a partire dal 2020.
Secondo Climate Action Network (CAN), una rete di più di mille associazioni che si occupano di giustizia climatica, trarre le risorse dal fondo verde significa ridurre i finanziamenti destinati a mitigazione e adattamento. Inoltre i Paesi vulnerabili denunciano che le lunghe e difficoltose procedure per accedere al fondo verde per il clima non sono adatte ad ottenere nel breve tempo le risorse per affrontare gli impatti di eventi improvvisi come tornadi, tempeste o inondazioni. Il testo finale così prevede l’istituzione di un gruppo di esperti, entro la fine del 2020, che dia assistenza tecnica ai Paesi vulnerabili anche per la parte finanziaria dei meccanismi. Non si tratta di una reale novità però: “Un gruppo di esperti dedicato al tema dei finanziamenti era già previsto nei meccanismi, semplicemente non era stato ancora realizzato”, chiarisce Elisa Calliari. Nuovo invece è il Santiago Network, una rete di organizzazioni, esperti ed enti competenti istituito su richiesta del Gruppo “G77+Cina” (il gruppo più grande di nazioni in via di sviluppo, con la partecipazione della Cina) con il compito di “prevenire, minimizzare e affrontare le perdite e i danni associati agli effetti negativi dei cambiamenti climatici”. Per Calliari, però, “non è ancora chiaro cosa questo network farà nello specifico”.

Nelle negoziazioni sul tema dei meccanismi di Varsavia (altra espressione per indicare i meccanismi di “loss and damage”) ha giocato un ruolo fondamentale l’opposizione degli Stati Uniti. Da sempre il Paese guidato oggi da Donald Trump si è opposto a riconoscere i danni e le perdite provocati dai cambiamenti climatici come responsabilità dei Paesi ricchi. Durante le ultime negoziazioni, però, gli USA hanno tentato di spostare la gestione dei meccanismi di Varsavia (WIM) sotto l’Accordo di Parigi, da cui usciranno entro un anno, per sottrarlo dalle competenze della COP di cui invece continueranno a far parte. Lo ha denunciato anche il rappresentante di Tuvalu, Ian Fry, durante la sessione conclusiva della COP25: “Nel corso delle consultazioni delle ultime due settimane, una parte ha insistito affinché il WIM operi esclusivamente nel quadro dell’Accordo di Parigi. Ironicamente o strategicamente, questa parte non sarà più parte dell’Accordo tra 12 mesi. Questo significa che (gli USA, ndr) se ne laverà le mani rispetto a qualsiasi azione per assistere i Paesi colpiti dagli impatti dei cambiamenti climatici”. Il diplomatico dell’isola del Pacifico ha definito l’atteggiamento degli USA una farsa e insieme una tragedia per i Paesi in via di sviluppo.
“II passaggio di fase cui andiamo incontro richiederebbe solidarietà e cooperazione a scala globale -ha commentato a Madrid Francesco Paniè, attivista dell’associazione italiana Terra! Onlus-. Ma, mentre il Pianeta brucia, i Paesi industrializzati continuano a difendere sterili rendite di posizione. Un atteggiamento inaccettabile perché l’attuale situazione climatica mondiale richiede azioni concrete nell’immediato”.

La decisione sulla gestione del WIM è stata rimandata alla prossima COP, segnando una parziale vittoria per gli Stati Uniti che si sono anche assicurati che non ci siano ulteriori finanziamenti per i danni e per le perdite. “Si può dire che le negoziazioni sull’aspetto economico legato ai danni e alle perdite siano iniziati sostanzialmente con questa COP, per questo era molto difficile aspettarsi risultati migliori. I lavori su questo punto erano troppo indietro -conclude Calliari-. Quello fatto a Madrid è il primo vero passo verso negoziazioni che che avverranno solo da qui ai prossimi anni”.

fonte: https://altreconomia.it

Rapporto ISPRA sul Danno Ambientale: 30 ferite aperte per l’Italia

L’Istituto presenta alla Camera dei Deputati, il primo Rapporto sul Danno ambientale. Le aree più a rischio sono le acque sotterranee, i laghi e i fiumi

















L’Istituto Superiore per la Prevenzione e la Ricerca Ambientale (Ispra) ha presentato oggi alla Camera dei Deputati il primo Rapporto sul Danno ambientale (2017-2018).
Il documento accerta gravi danni in 30 aree del Paese: ad essere interessate sono soprattutto le acque sotterranee (32%), i laghi e i fiumi (23%), i terreni (19%), l’atmosfera e l’assetto morfologico (13%). Le attività che potenzialmente possono portare a danno ambientale sono risultate essere soprattutto quelle svolte dagli impianti di depurazione e di gestione dei rifiuti, dai cantieri edili e di realizzazione delle infrastrutture e dagli impianti industriali. Dei 30 casi in cui è stato accertato un grave danno o minaccia ambientale, 22 hanno portato all’apertura di procedimenti giudiziari (penali e civili) e 8 extra-giudiziari. In 10 di questi  – spiega l’ISPRA fornendo le informazioni su località, danni provocati all’ambiente circostante, lavori di riparazione da eseguire e, laddove disponibili, i costi dell’operazione – il Ministero dell’ambiente si è già costituito parte civile o ha attivato il relativo iter.
Nel dettaglio, i 10 casi di cui sopra fanno riferimento alle discariche di Chiaiano e Casal di Principe in Campania, a quelle di Malagrotta e Anagni nel Lazio, a quella di Bellolampo in Sicilia, alle emissioni della Tirreno Power a Vado Ligure e Quiliano e all’interramento di fanghi e degli scarti di lavorazione a Rende, in provincia di Cosenza.
In generale, i casi segnalati all’Istituto dal Ministero dell’ambiente nel biennio 2017-2018 sono stati 200, con l’avvio di 161 attività istruttorie di valutazione del danno ambientale (verifiche operate sul territorio da SNPA): con 29 istruttorie aperte, la Sicilia svetta come prima regione in Italia, seguita da Campania (20), Lombardia (14) e Puglia (13).

A dare una definizione comune di danno ambientale in Europa – ricorda l’ISPRA – è intervenuta la direttiva europea del 2004 (2004/35/CE) che ha introdotto una disciplina unica in tema di responsabilità e riparazione. L’Italia ha pienamente introdotto nella propria normativa il principio di danno ambientale e ad oggi risulta essere il paese che dichiara più casi in Europa. Restano, tuttavia, da affrontare alcuni importanti temi, come ad esempio stabilire i criteri per definire la procedura amministrativa, la copertura assicurativa del danno, i criteri di accertamento e quelli di riparazione.

fonte: www.rinnovabili.it

Perché Shell e le altre compagnie fossili sono il “motore del disastro climatico”

Non bastano minuscoli investimenti in sostenibilità a far diventare le aziende delll'oil&gas una speranza di cambiamento e una parte della soluzione climatica
















Qualche mese fa un editoriale di Gianni Silvestrini ricordava un documento della Shell, “Sky Scenario”, in cui si ipotizzava di raggiungere una neutralità dei flussi di carbonio entro il 2070 in modo da non superare l’incremento di 2 °C.
A parte il ruolo in forte crescita del solare in grado di coprire un terzo di tutta la domanda di energia, gli attori protagonisti di questo ipotetico processo di decarbonizzazione  sarebbero 10mila impianti per il sequestro della CO2.
Insomma, è un po’ quello che da almeno un paio di decenni fanno le grandi compagnie petrolifere: prenderci in giro. Ci fanno sapere che loro puntano ad un pianeta con meno CO2, ma che alle fonti fossili non si può rinunciare.
Proprio una ventina di anni fa una dichiarazione di un Ceo di un grande gruppo petrolifero stimava, citando un report aziendale, che le rinnovabili avrebbero coperto il 50% del fabbisogno al 2050.
All’epoca si trattava di una quota rivoluzionaria, insperata, e tanti ambientalisti si eccitarono per la novità che veniva da un acerrimo “avversario”. Ma una volta visti con attenzione i dati dello scenario a 50 anni, si notava che in termini assoluti l’offerta di energia da fonti fossili sarebbe rimasta pressoché immutata, vista anche una correlata stima della relativa domanda in forte crescita.
Lo stesso fa Shell con il suo più recente scenario (ma anche BP con il suo ultimo Outlook): pensano di usare tecnologie per il sequestro della CO2 e continuano ad estrarre combustibili fossili, e danno allo stesso tempo segnali che il cambiamento è in atto, con etiche dichiarazioni di sostenibilità e annunciando nei loro studi che le rinnovabili avranno un peso sempre più importante. Purtroppo il denominatore (il consumo di energia) è sempre più grande e, allora, il loro business non ne viene intaccato più di tanto (un bel segnale anche per i loro azionisti).
Chi continua a dare loro credito non tiene conto del fatto che per questi giochini di cifre non c’è più tempo e continuare a investire in fonti fossili, come in effetti sta avvenendo e avverrà nei prossimi anni secondo i piani di molte compagnie, accelererà tutti gli elementi e le variabili destabilizzanti del clima del pianeta.
La Shell due mesi fa ha annunciato la creazione di un fondo di 300 milioni di dollari per investimenti in ecosistemi naturali nei prossimi tre anni. Lo scopo è “sostenere la transizione per un futuro a basso contenuto di carbonio”. Così c’è scritto.
George Monbiot, un famoso giornalista ambientale del Guardian, nel suo blog ha spiegato come la compagnia petrolifera intenda compensare, di fatto, un pochino di gas ad effetto serra prodotto dall’estrazione di petrolio e gas nei suoi pozzi.
Nonostante l’entusiasmo di molti ambientalisti per questo presunto cambiamento di Shell, il giornalista ha puntualizzato intanto che questa cifra spalmata in tre anni è un trascurabile investimento di una società che ha un reddito annuale pari a 24 miliardi di dollari e che nell’abstract dell’ultimo bilancio non compaiono nemmeno i fondi relativi agli investimenti in fonti rinnovabili (così come nell’anno precedente), forse solo perché non rilevanti nel bilancio.
Ma, ricorda Monbiot, nel 2018 la Shell nel comparto oil&gas ci ha messo ben 25 miliardi di dollari.
Tutto denaro che include anche le esplorazioni per nuove riserve nelle acque profonde del Golfo del Messico e a largo del Brasile e della Mauritania, per non parlare del suo ruolo nelle sabbie bituminose del Canada per produrre petrolio sintetico e della sua attività futura nel fracking e nelle tecnologie per la liquefazione del gas naturale. Ma, respiro di sollievo, ha abbandonato le esplorazioni nell’Artico.
Insomma, ecco la transizione in salsa Shell.
Non può bastare una minuscola compensazione nella protezione delle risorse naturali o uscire con comunicati e dichiarazioni con consigli “green” ridicoli per i consumatori (“d’estate non mettete la cravatta così potete abbassare di alzare di un grado i condizionatori” oppure “non mangiate le fragole in inverno per vengono dall’altra parte del pianeta e incidono sulle emissioni dei trasporti”). Non può bastare così poco per dimenticare i danni ambientali, economici e sociali creati da queste multinazionali a livello locale e globale.
Come afferma Monbiot e gli scienziati del clima dobbiamo subito lasciare le fossili sotto terra e proteggere i nostri  ecosistemi. Ma “l’età delle compensazioni è finita”.
Un messaggio per chi si ostina ancora a vedere in ogni barlume di sostenibilità promesso da queste aziende fossili una speranza di cambiamento, e farle diventare una parte della soluzione climatica.
Per il momento, e non siamo smentiti dai fatti, condividiamo quanto scrive George Monbiot: “la Shell (come le altre big oil&gas, aggiungiamo) non sono nostre amiche, ma il motore della distruzione planetaria”.
fonte: https://www.qualenergia.it/