Il clima e le regioni. Il confronto vede in testa la Campania, ultimo il Veneto
Primo rapporto sulle bonifiche dei siti regionali
Qual è lo stato delle bonifiche in Italia sui siti di competenza regionale? Quanti sono in Italia e per quanti si è concluso l’iter di bonifica? Esistono buone pratiche?
Frutto del lavoro compiuto dalla Rete nazionale di Snpa, il 4 marzo è stato presentato il primo rapporto su ““Lo stato delle bonifiche dei siti contaminati in Italia: i dati regionali“.
Il rapporto, frutto dell’attività del SNPA e delle Regioni e Province Autonome, fornisce un quadro delle informazioni oggi esistenti e l’analisi dei dati disponibili.
Illustra e analizza i dati del 2020 relativi al numero e alle superfici interessate da procedimenti di bonifica regionali al 31.12.2019.
I dati raccolti sono relativi ai procedimenti di bonifica regionali la cui competenza è in capo alle Regioni o a enti territoriali da esse delegate, sono esclusi i procedimenti relativi ai Siti di Interesse Nazionale (SIN) di competenza del MATTM (ora MiTE).




I dati sono disponibili per tutte le regioni /province autonome d’Italia con livello di dettaglio fino al singolo comune e consentono di descrivere l’iter del procedimento e lo stato della contaminazione per i procedimenti in corso e per quelli conclusi.
Il numero totale di procedimenti è pari a 34.479 di cui 16.265 in corso e 17.862 conclusi.
La superficie interessata dai procedimenti di bonifica è nota solo per una parte di essi (67%), è pari a 75.277 ettari (753 kmq) e rappresenta lo 0,25 % della superficie del territorio italiano; di questi 46.532 ettari sono relativi a procedimenti in corso e 28.745 ettari sono relativi a procedimenti conclusi.
Nella seconda parte del rapporto sono disponibili per ciascuna Regione/Provincia Autonoma, una serie di elaborazioni dei dati in forma tabellare e grafica.

https://www.snpambiente.it/wp-content/uploads/2021/03/rapporto-bonifiche-siti-compresso.pdf
Le slide illustrate durante l’evento di presentazione del rapporto
Fabio Pascarella (ISPRA) – Introduzione ai lavori e inquadramento dello stato dell’arte
Federico Araneo (ISPRA) – Il primo rapporto ISPRA sulle bonifiche dei siti contaminati regionali
Reiner Baritz (Agenzia Europea dell’Ambiente – EEA) – Management of contaminated sites in Europe
Eugenia Bartolucci (ISPRA) – Lo stato delle bonifiche in Italia: verso un database nazionale
Andrea Merri (ARPA Lombardia) – La banca dati dei siti contaminati in Regione Lombardia: stato dell’arte e sviluppi in corso
Manrico Marzocchini (ARPA Marche) – L’approccio del sistema informativo sui siti contaminati della Regione Marche: un punto di svolta
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Gli impatti ambientali dell’attività mineraria raccontati dall’Ispra

Si è tenuta nei giorni scorsi in Commissione Ecomafia alla Camera dei deputati un’audizione sugli impatti ambientali dell’attività mineraria alla quale ha partecipato il direttore generale dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), Alessandro Bratti, e l’esperto Fiorenzo Fumanti, del dipartimento per il Servizio geologico d’Italia dell’ISPRA.
L’obiettivo era quello di fornire un quadro completo degli impatti ambientali dell’attività mineraria, di cui spesso si sono presi in considerazione gli aspetti economici più di quelli ecologici. Per capire come questo è stato monitorato – e soprattutto gestito – fino ad oggi.
Secondo le evidenze mostrate nel rapporto, il grande problema per l’ambiente è rappresentato dai siti abbandonati e dalle discariche minerarie. I dati ci dicono infatti che “le criticità ambientali sono connesse all’operatività delle miniere, ma ancor più alle centinaia di siti minerari abbandonati”.
Tanti siti e poca attenzione
In Italia dal 1870 ad oggi sono stati in attività 3.015 siti minerari, interessando tutte le Regioni, 93 province e 889 Comuni. Nel 2018, a fronte di 120 concessioni di miniera ancora in vigore, 69 risultavano realmente in produzione, soprattutto in Sardegna, Piemonte e Toscana.
Le miniere attualmente operanti sul territorio nazionale sono solo di minerali non metalliferi, la cui estrazione è meno impattante rispetto a quelli metalliferi. Tali siti sono soggetti ai controlli di polizia mineraria effettuati dalle Regioni, avvalendosi delle Arpa competenti relativamente ai controlli ambientali.
Riguardo ai siti oggi non più produttivi invece, il rapporto spiega che gran parte di essi sono stati gestiti con “scarsa attenzione alla prevenzione e al contenimento dell’impatto ambientale”. Nello specifico, spiega Fumanti, sono abbandonati “elevati quantitativi di metalli pesanti e sostanze tossiche sono contenuti nei bacini di decantazione dei fanghi di laveria, impianti in cui il materiale estratto veniva frantumato, macinato e flottato in acqua: tali bacini costituiscono potenziali sorgenti di danno ambientale per il possibile rilascio dei fanghi contaminati a causa di perdite o crollo delle strutture di contenimento”.
Ecco perché, secondo l’Ispra, i bacini di decantazione devono essere messi subito in sicurezza ed essere oggetto di continuo controllo. E qui c’è il secondo problema.
Chi se ne occupa?
Come ricorda lo stesso Fumanti infatti, “nel 2012 la proprietà delle miniere è stata trasferita dallo Stato alle Regioni, già competenti dal 1998 per la gestione amministrativa dei permessi di ricerca e le concessioni di coltivazione”. Questi cambiamenti, secondo quanto riferito, “essendo avvenuti in assenza di un quadro normativo aggiornato e di indirizzo delle attività, hanno generato sia sistemi di pianificazione, autorizzazione e controllo diversificati che sistemi di raccolta e gestione delle informazioni eterogenei”.
Da questo dipende l’abbandono di ingenti quantitativi di scarti minerari. E il forte impatto ambientale al quale occorre porre rimedio. I dati parlano chiaro: con il decreto legislativo117/2008 l’Italia ha recepito l’apposita direttiva europea relativa alla gestione dei rifiuti delle industrie estrattive e istituito l’Inventario nazionale delle strutture di deposito dei rifiuti estrattivi, gestito da Ispra. E nel 2017, “erano presenti in Italia 321 strutture di deposito con rischio ecologico-sanitario da medio-alto ad alto”. È il momento di intervenire.
fonte: economiacircolare.com
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Rifiuti Urbani: E' caos nei centri di raccolta
fonte: www.ricicla.tv
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Desertificazione: Sicilia, Molise e Basilicata le regioni più colpite in Italia
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Rifiuti, Costa: "lo stato si faccia garante della gestione"
"End of waste, l’emendamento rischia di diventare una legge incostituzionale" - Amendola sul Fatto Quotidiano
Tanta fatica per arrivarci e adesso l’emendamento End of Waste rischia di rivelarsi incostituzionale. L’allarme arriva da un super esperto del settore, l'ex magistrato Gianfranco Amendola che si è occupato per anni di normativa ambientale. Sul proprio blog sul Fatto Quotidiano Amendola ricostruisce sinteticamente tutte le ultime tappe legislative della lunga vicenda e sull’ultimo provvedimento del governo scrive: “lo Stato viene messo da parte con ruolo solo secondario e nominale per eventuali controlli a campione nell’ambito di un complicato e lungo iter burocratico. E si delega tutto nuovamente alle regioni. Ignorando totalmente il dettato costituzionale, giustamente richiamato dal Consiglio di Stato, secondo cui la competenza per la tutela ambientale in tema di rifiuti spetta solo allo Stato”.
Rifiuti, dopo la sentenza della Corte Ue lo stallo sull’End of waste potrebbero sbloccarlo le Regioni?
La situazione sul fronte dell’End of waste – ovvero quello delle normative necessarie per stabilire le condizioni alle quali un rifiuto è trasformato nuovamente in un normale bene economico, non più assoggettato alle rigorose disposizioni della normativa sui rifiuti –, centrale per il concreto progresso dell’economia circolare italiana, si fa sempre più complicata dopo che la Corte di giustizia europea ha emesso nei giorni scorsi la sentenza C-60/18 (qui tutti i documenti, ndr).
Prendendo le mosse da una domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tallinna Ringkonnakohus (Estonia) sull’articolo 6, paragrafo 4, della direttiva europea 2008/98 in materia di rifiuti, la Corte di giustizia Ue afferma che tale norma è da interpretarsi nel senso che «non osta a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, in forza della quale, qualora non sia stato definito alcun criterio a livello dell’Unione europea per la determinazione della cessazione della qualifica di rifiuto per quanto riguarda un tipo di rifiuti determinato, la cessazione di tale qualifica dipende dalla sussistenza per tale tipo di rifiuti di criteri di portata generale stabiliti mediante un atto giuridico nazionale»; al contempo, il suddetto articolo 6 «non consente a un detentore di rifiuti, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, di esigere l’accertamento della cessazione della qualifica di rifiuto da parte dell’autorità competente dello Stato membro o da parte di un giudice di tale Stato membro».
Questa interpretazione porterebbe ad affermare, come sintetizza il Sole 24 Ore, che la “mancanza di criteri Ue o nazionali «per uno specifico tipo di rifiuti» pregiudica la possibilità di qualsiasi autorizzazione, concessa caso per caso dalla competente autorità locale o il successivo riconoscimento da parte di un giudice nazionale […] Una decisione che, di fatto, rischia di avere un impatto molto duro, decretando la fine del recupero per tutti quei rifiuti che sono privi di adeguate norme tecniche: sono infatti pochissimi i settori che oggi possono contare su un supporto normativo di questo tipo”.
Si prospetta dunque all’orizzonte un’ulteriore involuzione della normativa a supporto dell’economia circolare italiana, già fortemente provata dalla nota sentenza del 28 febbraio 2018 n. 1229 emessa dal Consiglio di Stato, la quale ha stabilito che spetta allo Stato, e non alle Regioni, individuare i casi e le condizioni in cui un rifiuto può essere considerato “end of waste”, al termine di un processo di recupero; visto però che lo Stato a distanza di oltre un anno non ha compiuto alcun progresso su questo fronte, nonostante le dure proteste di ambientalisti e imprenditori di settore, ancora oggi lo stallo è totale, tanto da lasciar presagire – oltre a un’involuzione dal punto di vista industriale – problemi anche nella raccolta e gestione dei rifiuti.
Una possibile via di fuga dall’impasse, in attesa dei decreti nazionali sull’End of waste, potrebbe consentire nel consentire alla Regioni di intervenire sulla questione, come proposto nelle settimane scorse dal presidente di Unicircular, Andrea Fluttero, anche alla luce della nuova sentenza della Corte di giustizia europea? Secondo la Fondazione per lo sviluppo sostenibile, presieduta dall’ex ministro dell’Ambiente Edo Ronchi, sì: «È sufficiente osservare che la Corte europea ha deciso sulla base del vecchio articolo 6, della direttiva del 2008, non avendo potuto ancora tener conto della sua nuova formulazione derivante dalla direttiva 2018/851/UE».
«Ricordando che l’ordinamento italiano attribuisce alle Regioni la competenza di autorizzare il trattamento dei rifiuti e che il caso per caso può essere esercitato solo dall’autorità dotata di questa competenza – spiega Stefano Leoni, dalla Fondazione – non si può che giungere alla conclusione che il recepimento del nuovo articolo 6, riportando correttamente il testo della direttiva del 2018, riconosca anche alle Regioni la competenza a rilasciare l’autorizzazione End of waste caso per caso, applicando condizioni e criteri europei, in assenza di provvedimenti nazionali o europei».
fonte: www.greenreport.it
Serve un decreto legge per sbloccare una situazione critica del riciclo dei rifiuti
Meno rifiuti, ma tassa più salata
TG3
Rifiuti: le Regioni chiedono di poter decidere sull’End of Waste
“6. Per ciascuna tipologia di rifiuto, fino alla data di entrata in vigore del relativo decreto di cui al comma 2, i criteri specifici di cui al comma 1 possono essere stabiliti dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e Bolzano per il singolo caso, nel rispetto delle condizioni ivi indicate, tramite autorizzazioni rilasciate ai sensi degli articoli 208, 209 e 211, nonché ai sensi del titolo l/l-bis della parte seconda del decreto legislativo n. 152 del 2006. Restano ferme le autorizzazioni già rilasciate, alla data di entrata in vigore della presente disposizione, ai sensi degli articoli 208, 209, 211, nonché ai sensi del titolo l/l-bis della parte seconda del decreto legislativo n.152 del 2006, ove conformi alle condizioni di cui al comma 1”.
fonte: www.rinnovabili.it