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Discarica di Bussi, sentenza storica: chi inquina paga

Il Consiglio di Stato condanna Edison alla bonifica, ora deve muoversi il ministero dell'ambiente. Guarda tutti i commenti




PESCARA. Chi inquina paga. Il Consiglio di Stato ha definitivamente sancito che la multinazionale dell'energia Edison, in quanto responsabile dell'inquinamento ambientale, deve provvedere alla bonifica dei due siti più inquinati della cosiddetta discarica dei veleni di Bussi sul Tirino . Si chiarisce così il contenzioso più importante che ha visto la Edison contro Provincia di Pescara (difesa dall'avvocato Matteo Di Tonno del Foro di Bologna)), Comune di Bussi, il Ministero dell'Ambiente e la Regione Abruzzo, questi ultimi due difesi dall'avvocatura di Stato, rappresentata da Cristina Gerardis, ex direttore generale dell'ente regionale abruzzese.

La sentenza è stata pubblicata oggi e prevede un intervento milionario, in particolare nelle aree 2A e 2B: dalla partita rimane fuori la discarica Tremonti che si trova sotto i viadotti autostradali. Ora i circa 50 milioni relativi al bando pubblico per la bonifica dei siti 2A e 2B e della stessa Tremonti assegnato dall'allora commissario per emergenza, il compianto Adriano Goio, fermo da anni, possono essere utilizzati per altre aree inquinate.

I COMMENTI.

CRISTINA GERARDIS (avvocato dello Stato): «Spero che dopo questa sentenza, che ha definito con mirabile chiarezza ogni questione, non si debba più sentire, in alcuna sede giudiziaria, come "scusa" per non intervenire sulle aree contaminate di Bussi, che all'epoca dei fatti era lecito seppellire rifiuti pericolosi sotto terra o buttarli a tonnellate nei fiumi; o che la Montedison (oggi Edison) non è responsabile per avere negli anni ceduto ad altri l'azienda, con complesse operazioni societarie».

MATTEO DI TONNO (legale della Provincia di Pescara): «La sentenza, credo storica, riconosce in maniera cristallina la responsabilità della Edison che ora è chiamata ad un intervento di risanamento integrale, come difensore dell'ente provinciale pescarese sottolineo la piena soddisfazione nell'aver visto riconosciuta la bontà del poderoso lavoro amministrativo che ha reso giustizia al territorio e all'intera regione Abruzzo».

STEFANIA PEZZOPANE (Gruppo Pd alla Camera): «E' una sentenza storica, che pone fine a qualunque dubbio. Le responsabilità sono state finalmente accertate, Edison ha purtroppo inquinato quelle zone, ed Edison deve provvedere a bonificarle, pulirle, ripristinarle com erano precedentemente. Una sentenza attesa da tanti abruzzesi, che ci auguriamo possa servire da esempio per tutti coloro che non rispettano il territorio e la natura. Dobbiamo avere cura di queste nostre terre, il miglioramento e la salvezza della Terra passano anche da queste battaglie».

SALVATORE LAGATTA (sindaco di Bussi): «Ora il Ministero firmi subito il contratto con la società che si è aggiudicata la gara per la bonifica delle due discariche della Montedison: se prima poteva esserci il pericolo di una rivalsa della Edison, ora con questa sentenza tutto viene a cadere. Quindi il Ministero dell'Ambiente faccia il contratto e si parta con i lavori».

FILOMENA RICCI (delegato Wwf Abruzzo): «Adesso almeno la zona 2A e 2B sarà risanata senza incidere sui fondi pubblici, cioè di tutti i cittadini, e lo Stato potrà impegnare in altro modo, sempre a favore di questo territorio martoriato, quel che rimane dei 50 milioni a suo tempo stanziati. Cogliamo l’occasione per rimarcare, ancora una volta, come sia necessaria anche una indagine epidemiologica più approfondita, come richiesto dallo stesso studio Sentieri: i cittadini hanno diritto di conoscere la realtà sino in fondo e senza aspettare altre decine di anni».

MAURIZIO ACERBO (segretario nazionale Rifondazione Comunista - Sinistra Europea) e CORRADO DI SANTE (segretario Federazione di Pescara): «La sentenza del Consiglio di Stato è un fatto storico. Ora il Ministero non ha più scuse per tergiversare rispetto alla firma del contratto con la ditta che deve effettuare la bonifica. Sono due anni che il Ministero rinvia con la scusa del contenzioso di Edison. Siano subito affidati i lavori e poi si mandi il conto a Edison. Ora evitiamo trucchi a favore di Edison da parte della politica: è noto che la società vorrebbe fare un suo piano di tombamento per ridurre costi. Il territorio ha pagato un prezzo già salatissimo all'irresponsabilità sociale delle imprese e all'ignavia della politica.

AUGUSTO DE SANCTIS (Forum H2O): «Da anni, prima con lettere inviate a tutti gli enti e poi con dichiarazioni messe a verbale ad ogni conferenza dei servizi al ministero, avevamo evidenziato la necessità di procedere dal punto di vista amministrativo, affiancando il procedimento penale che purtroppo ha scontato l'esistenza di termini di prescrizioni troppo brevi, attuando quanto peraltro previsto dal testo Unico dell'Ambiente. Chiedevamo, cioè, l'emanazione dell'ordinanza da parte della provincia per l'individuazione del responsabile della contaminazione e della doverosa bonifica in ossequio al principio comunitario "chi inquina paga"».

ANTONIO BLASIOLI (presidente della Commissione regionale d'Inchiesta sulla discarica dei veleni): «Una sentenza storica per l'Abruzzo e per quei territori che finalmente dopo anni di attesa possono sperare nel futuro».

SARA MARCOZZI (componente commisione d'inchiesta): «Adesso che non esistono più incertezze, non c'è più nessun motivo per aspettare. Chi ha sbagliato deve pagare fino in fondo, a cominciare dall'urgenza di dare il via alle bonifiche il più in fretta possibile. I cittadini di Bussi e dell'intera Val Pescara aspettano giustizia. Hanno già pagato un prezzo troppo alto in questi anni, e il ripristino dello stato naturale dell'ambiente, adesso che sappiamo con chiarezza chi ha la responsabilità dei lavori, non ha più motivo di essere ulteriormente rimandato per rimpalli di responsabilità».

ANTONIO DI MARCO (ex presidente della Provincia di Pescara): «La pronuncia del Consiglio di Stato è un’immensa soddisfazione perché va a certificare l’ottimo lavoro condotto grazie alla consulenza legale strategica dell'avvocato Matteo Di Tonno, alle responsabilità assunte con la firma dell'ordinanza da parte dell'avvocato Carlo Pirozzolo, già segretario generale della Provincia di Pescara con specifica funzione per quanto riguardava l'ambiente, alle indagini condotte dalla Polizia Provinciale guidata dal comandante Giulio Honorati, che hanno portato all’individuazione di Edison quale soggetto inquinatore. E questa sentenza sarà fondamentale anche per le sorti del sito ex Montecatini di Piano d'Orta, perché anche questo sito è stato oggetto di una specifica ordinanza della Provincia di Pescara».

fonte: https://www.ilcentro.it

"End of waste, l’emendamento rischia di diventare una legge incostituzionale" - Amendola sul Fatto Quotidiano

L'ex magistrato Gianfranco Amendola, esperto di normativa ambientale, lancia l’allarme sul provvedimento del governo sul proprio blog del Fatto Quotidiano




















Tanta fatica per arrivarci e adesso l’emendamento End of Waste rischia di rivelarsi incostituzionale. L’allarme arriva da un super esperto del settore, l'ex magistrato Gianfranco Amendola che si è occupato per anni di normativa ambientale. Sul proprio blog sul Fatto Quotidiano Amendola ricostruisce sinteticamente tutte le ultime tappe legislative della lunga vicenda e sull’ultimo provvedimento del governo scrive: “lo Stato viene messo da parte con ruolo solo secondario e nominale per eventuali controlli a campione nell’ambito di un complicato e lungo iter burocratico. E si delega tutto nuovamente alle regioni. Ignorando totalmente il dettato costituzionale, giustamente richiamato dal Consiglio di Stato, secondo cui la competenza per la tutela ambientale in tema di rifiuti spetta solo allo Stato”.
Riportiamo i passaggi principali dell'articolo: “La Ue prevede alcune condizioni in base alle quali decretare la fine-rifiuto, ma ne demanda l’applicazione o a regolamenti comunitari o, in loro assenza, ad atti degli Stati membri – spiega - L’Italia sin dal 2010 ha stabilito che, in assenza di regolamenti comunitari di esecuzione, dovessero essere emanati dal Ministero dell’Ambiente appositi decreti applicativi per singole e specifiche categorie di rifiuti; e che in loro attesa fossero utilizzati alcuni vecchi decreti ministeriali emanati a proposito del recupero semplificato di rifiuti. Ma il Ministero se ne è dimenticato…
invece di fare il suo dovere e affrettarsi a fare i decreti che gli competevano, nel 2016 si è inventato una bella circolare per dire che su Eow decidono le regioni e non lo Stato; di modo che, in assenza di criteri nazionali, ogni regione può decidere sue condizioni e suoi criteri per decretare la cessazione di un rifiuto. Ovviamente con il rischio di gravi pericoli per l’ambiente e di notevoli distorsioni economiche”.
“Il Veneto, tuttavia, aveva ritenuto (giustamente) che la legge valesse più di una circolare, ma il Tar veneto gli diede torto. Si arrivava così al Consiglio di Stato che nel febbraio 2018 con una bella sentenza annullava il Tar… È del tutto evidente che, laddove si consentisse a ogni singola Regione, di definire, in assenza di normativa Ue, cosa è da intendersi o meno come rifiuto, ne risulterebbe vulnerata la ripartizione costituzionale delle competenze tra Stato e Regioni…”
“Riscoppiava il panico. Ci riprovava, a giugno 2019, con un articolo del cosiddetto decreto sblocca cantieri che in realtà non diceva niente di nuovo e aumentava la confusione. Tanto che lo stesso ministro Sergio Costa, di fronte alla Commissione ecomafia, il 12 settembre 2019 riconosceva che questa modifica “non può ritenersi risolutiva di tutte le esigenze del settore”.
“E così arriviamo ai giorni nostri quando, in commissione ambiente, si è raggiunto, con ampia condivisione, un compromesso per cui, in assenza di regolamentazione generale della Ue o dello Stato, possono decidere le Regioni rifacendosi ai criteri comunitari. Lo Stato ha un potere di controllo, a campione, su queste autorizzazioni regionali che devono comunque essere pubblicate in un apposito archivio.

Insomma, lo Stato viene messo da parte con ruolo solo secondario e nominale per eventuali controlli a campione nell’ambito di un complicato e lungo iter burocratico. E si delega tutto nuovamente alle regioni. Ignorando totalmente il dettato costituzionale, giustamente richiamato dal Consiglio di Stato, secondo cui la competenza per la tutela ambientale in tema di rifiuti spetta solo allo Stato”.

Rifiuti, dopo la sentenza della Corte Ue lo stallo sull’End of waste potrebbero sbloccarlo le Regioni?

L’economia circolare italiana è al palo, ma secondo la Fondazione per lo sviluppo sostenibile la nuova direttiva 2018/851/UE riconosce «anche alle Regioni la competenza a rilasciare l’autorizzazione EoW caso per caso, applicando condizioni e criteri europei, in assenza di provvedimenti nazionali o europei»


















La situazione sul fronte dell’End of waste – ovvero quello delle normative necessarie per stabilire le condizioni alle quali un rifiuto è trasformato nuovamente in un normale bene economico, non più assoggettato alle rigorose disposizioni della normativa sui rifiuti  –, centrale per il concreto progresso dell’economia circolare italiana, si fa sempre più complicata dopo che la Corte di giustizia europea ha emesso nei giorni scorsi la sentenza C-60/18 (qui tutti i documenti, ndr).
Prendendo le mosse da una domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tallinna Ringkonnakohus (Estonia) sull’articolo 6, paragrafo 4, della direttiva europea 2008/98 in materia di rifiuti, la Corte di giustizia Ue afferma che tale norma è da interpretarsi nel senso che «non osta a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, in forza della quale, qualora non sia stato definito alcun criterio a livello dell’Unione europea per la determinazione della cessazione della qualifica di rifiuto per quanto riguarda un tipo di rifiuti determinato, la cessazione di tale qualifica dipende dalla sussistenza per tale tipo di rifiuti di criteri di portata generale stabiliti mediante un atto giuridico nazionale»; al contempo, il suddetto articolo 6 «non consente a un detentore di rifiuti, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, di esigere l’accertamento della cessazione della qualifica di rifiuto da parte dell’autorità competente dello Stato membro o da parte di un giudice di tale Stato membro».
Questa interpretazione porterebbe ad affermare, come sintetizza il Sole 24 Ore, che la “mancanza di criteri Ue o nazionali «per uno specifico tipo di rifiuti» pregiudica la possibilità di qualsiasi autorizzazione, concessa caso per caso dalla competente autorità locale o il successivo riconoscimento da parte di un giudice nazionale […] Una decisione che, di fatto, rischia di avere un impatto molto duro, decretando la fine del recupero per tutti quei rifiuti che sono privi di adeguate norme tecniche: sono infatti pochissimi i settori che oggi possono contare su un supporto normativo di questo tipo”.
Si prospetta dunque all’orizzonte un’ulteriore involuzione della normativa a supporto dell’economia circolare italiana, già fortemente provata dalla nota  sentenza del 28 febbraio 2018 n. 1229 emessa dal Consiglio di Stato, la quale ha stabilito che spetta allo Stato, e non alle Regioni, individuare i casi e le condizioni in cui un rifiuto può essere considerato “end of waste”, al termine di un processo di recupero; visto però che lo Stato a distanza di oltre un anno non ha compiuto alcun progresso su questo fronte, nonostante le dure proteste di ambientalisti e imprenditori di settore, ancora oggi lo stallo è totale, tanto da lasciar presagire – oltre a un’involuzione dal punto di vista industriale – problemi anche nella raccolta e gestione dei rifiuti.
Una possibile via di fuga dall’impasse, in attesa dei decreti nazionali sull’End of waste, potrebbe consentire nel consentire alla Regioni di intervenire sulla questione, come proposto nelle settimane scorse dal presidente di Unicircular, Andrea Fluttero, anche alla luce della nuova sentenza della Corte di giustizia europea? Secondo la Fondazione per lo sviluppo sostenibile, presieduta dall’ex ministro dell’Ambiente Edo Ronchi, sì:  «È sufficiente osservare che la Corte europea ha deciso sulla base del vecchio articolo 6, della direttiva del 2008, non avendo potuto ancora tener conto della sua nuova formulazione derivante dalla direttiva 2018/851/UE».

«Ricordando che l’ordinamento italiano attribuisce alle Regioni la competenza di autorizzare il trattamento dei rifiuti e che il caso per caso può essere esercitato solo dall’autorità dotata di questa competenza – spiega Stefano Leoni, dalla Fondazione –  non si può che giungere alla conclusione che il recepimento del nuovo articolo 6, riportando correttamente il testo della direttiva del 2018, riconosca anche alle Regioni la competenza a rilasciare l’autorizzazione End of waste caso per caso, applicando condizioni e criteri europei, in assenza di provvedimenti nazionali o europei».

fonte: www.greenreport.it

Recupero materie da pannolini e pannoloni, varato il regolamento End of Waste

Il Consiglio di Stato ha espresso parere favorevole sullo Schema di Regolamento che stabilisce i criteri in base ai quali i materiali derivanti dai prodotti assorbenti per la persona (PAP) da rifiuti possono essere trasformati e qualificati come prodotti dopo un trattamento specifico


















Arriva una novità importante sul fronte dell’end of wasteIl Consiglio di Stato ha espresso parere favorevole sullo Schema di Regolamento che stabilisce i criteri in base ai quali i materiali derivanti dai prodotti assorbenti per la persona (PAP) da rifiuti possono essere trasformati e qualificati come prodotti dopo un trattamento specifico. Per i giudici di Palazzo Spada, riuniti in sede consultiva, nello Schema di Regolamento “end of waste” sui PAP sussistono le condizioni e i requisiti individuati dall'art. 184-ter del D.Lgs. n. 152/2006, che disciplina la cessazione della qualifica di rifiuto e la classificazione di un materiale ottenuto dal trattamento e dal recupero come prodotto da immettere nuovamente nel processo produttivo.
Stiamo parlando soprattutto di pannolini, pannoloni e assorbenti i cui materiali – se provenienti da raccolte urbane differenziate dedicate e da scarti di produzione - dopo un trattamento specifico possono rientrare nel ciclo produttivo valorizzando un materiale nell’ottica dell’economia circolare.
Il parere favorevole è una boccata d’ossigeno in un clima piuttosto soffocante. La sentenza del Consiglio di Stato del 28 febbraio scorso aveva infatti aperto un vuoto normativo in merito all'end of waste, affidando al Ministero dell'Ambiente (e non più alle Regioni) il compito di fissare i criteri specifici sulla cessazione della qualifica di rifiuto e la conseguente classificazione come prodotti e materie da riutilizzare e bloccando di fatto il mercato del recupero di rifiuti. Sembrava che la Legge di Bilancio potesse sistemare tutto ma la decisione è slittata e a quanto si apprende il Governo Lega-5Stelle sta ancora discutendo senza aver trovato una soluzione condivisa. 
In attesa di novità, ecco intanto questo Schema di Regolamento, su cui peraltro a maggio del 2018 il Consiglio di Stato si era già espresso con un parere interlocutorio in cui chiedeva al Ministero dell’Ambiente di fornire alcuni chiarimenti che sono stati successivamente inviati, permettendo ai giudici della Sezione Consultiva per gli Atti Normativi di pronunciarsi esprimendo parere favorevole.
 Nel parere si mette in evidenza che lo Schema recepisce i criteri dell’art. 184-ter  avendo il Ministero verificato:
-  l’esistenza di un mercato dei tre materiali cellulosa, Sap e miscela di plastiche eterogenee a base di poliolefine, recuperati a seguito di trattamento specifico;
- la dimostrazione, attraverso test di laboratorio e industriali, che i materiali di riciclo dei PAP hanno prestazioni analoghe alle materie prime.
Inoltre nello Schema sono state integrate le osservazioni provenienti da ISS e ISPRA in merito all’assenza di impatti sulla salute e l’ambiente, in particolare sul divieto di utilizzare i rifiuti in questione per realizzare imballaggi alimentari (Allegato 5).
Come precisato dal Ministero dell’Ambiente e come si legge nel testo del parere “lo schema di regolamento proposto per la cessazione della qualifica di rifiuto dei materiali recuperati dai PAP" è il primo in Europa che stabilisce i criteri specifici per la “cessazione della qualifica di rifiuto” e non risultano esperienze analoghe negli altri Paesi dell’Unione europea”. Proprio perché si tratta di un prototipo a livello europeo, il Consiglio di Stato, contrariamente a quanto previsto dal Ministero, ribadisce la necessità di prevedere misure e strumenti per monitorare l’applicazione del Regolamento e attivare interventi correttivi.
Lo Schema di Regolamento sarà notificato alla Commissione Europea e potrà essere adottato dopo il periodo di stand still
Tiziana Giacalone

Dal Consiglio Di Stato La Parola “Fine” Sulle Pretese Di Agri Flor Per La Variante Urbanistica!


















Una sentenza precisa, autorevole, netta, definitiva, e naturalmente inappellabile quella della Quarta Sezione del Consiglio di Stato n. 584 dell’11 ottobre 2018: in un solo colpo smentisce Agriflor circa la pretesa che l’approvazione dell’autorizzazione a suo tempo (chissà come!) ottenuta costituisca variante allo strumento urbanistico, pretesa che faceva leva sull’art. 208 del d.lgs. 52/2006 (l’ultimo degli appigli, pur legati ad esili cavilli), perché ribadisce con fermezza che “tale ipotesi va ritenuta di stretta interpretazione”, come si legge in una precedente sentenza dello stesso Consiglio di Stato (emessa dalla sezione Quinta l’11 dicembre 2015 con il n. 5658), ma per di più sembra quasi ammonire l’azienda quando spiega che, proprio perché “di stretta interpretazione”, quella ipotesi è “non estensibile a casi diversi rispetto a quelli ivi contemplati relativi alla sola autorizzazione unica per i nuovi impianti di smaltimento e di recupero rifiuti (non anche per la modifica di quelli già esistenti sottoposti al diverso regime autorizzatorio di cui all’art. 29 quater D.lgs. 152/2006)”. Stupisce anzi come i ricorrenti abbiano fatto leva sul D.lgs. del 2006 (interpretandolo ovviamente a proprio favore) ma non si siano accorti (o lo abbiano ignorato!) del successivo d.lgs. e della prima sentenza del Consiglio di Stato… Ci si chiede: ma come si poteva sperare che il Consiglio di Stato ignorasse o non tenesse presenti le sue stesse sentenze? O è arroganza o è malafede, ci sembra!

Ma la sentenza, in verità, costituisce per noi tutti (si vuol dire la cittadinanza intera!) una duplice buona notizia e vittoria: non solo testimonia che Agriflor è ormai alla frutta visto che tenta di aggrapparsi anche all’impossibile, ma dimostra anche, e finalmente, che non c’è verso: Agriflor opera in condizioni di assoluta incompatibilità urbanistica-ambientale e deve chiudere i battenti!

COMITATO SPONTANEO “ANTIPUZZA”

DI VILLA PITIGNANO, PONTE FELCINO, BOSCO E RAMAZZANO

Sacchetti compostabili, parere del Consiglio di Stato: 'Si possono portare anche da casa'

La legge stabilisce che le buste hanno un valore e “non possono essere sottratte alla logica del mercato”. Proprio in virtù di questo, perché vietare ai consumatori di comprare i sacchetti da un'altra parte e portarli al supermercato?



I sacchetti biodegradabili si possono portare da casa e utilizzare all'interno del supermercato o dell'alimentari dove si acquistano la frutta e la verdura. Nessun obbligo di usare esclusivamente i sacchetti del negozio (e quindi di comprarli insieme al cibo stesso). Questo è ciò che ha scritto il Consiglio di Stato nel parere richiesto dal Ministero della Salute, spiegando che la legge stabilisce che le buste hanno un valore e “non possono essere sottratte alla logica del mercato”. In sostanza vanno per forza vendute; un'imposizione da cui nacque la grande polemica nazional popolare degli scorsi mesi. Ma proprio sulla base di ciò, il CDS dice perché vietare ai consumatori di comprare i sacchetti da un'altra parte e portarli al supermercato?  Non solo, il CdS ammette anche la possibilità che il consumatore si procuri autonomamente e usi, al posto delle borse ultraleggere in bioplastica, contenitori alternativi che siano idonei a contenere la frutta e la verdura acquistati. 

Ecco il testo del Consiglio di Stato:

QuesitiCiò premesso, il Ministero della salute indirizza a questo Consiglio i seguenti quesiti: a) se sia possibile per i consumatori utilizzare nei soli reparti di vendita a libero servizio (frutta e verdura) sacchetti monouso nuovi dagli stessi acquistati al di fuori degli esercizi commerciali, conformi alla normativa sui materiali a contatto con gli alimenti; b) in caso di risposta positiva, se gli operatori del settore alimentare siano obbligati e a quali condizioni a consentirne l’uso nei propri esercizi commerciali. 
Tra le considerazioni n premessaQuanto all’aspetto legato all’irrinunciabile tutela della sicurezza dei prodotti alimentari destinati ad essere immessi in commercio, giova inoltre brevemente rammentare quanto segue. L’art. 17, comma I del regolamento (CE) 178/2002 affida agli operatori del settore alimentare il compito di garantire che nelle imprese da essi controllate gli alimenti soddisfino le disposizioni della legislazione alimentare inerenti alle loro attività in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione e verificare che tali disposizioni siano soddisfatte. In base all’art. 1 del regolamento (CE) 852/2004 è necessario garantire la sicurezza degli alimenti lungo tutta la catena alimentare, a cominciare dalla produzione primaria. L’art. 4 prevede che gli operatori del settore alimentare che eseguono qualsivoglia fase della produzione, della trasformazione e della distribuzione di alimenti rispettino i requisiti generali in materia d’igiene di cui all’allegato II e ogni requisito specifico previsto dal regolamento (CE) 853/2004. A tal fine, il capitolo IX, relativo ai requisiti applicabili ai prodotti alimentari, prevede, tra l’altro, che “in tutte le fasi di produzione, trasformazione e distribuzione gli alimenti devono essere protetti da qualsiasi forma di contaminazione atta a renderli inadatti al consumo umano, nocivi per la salute o contaminati in modo tale da non poter  essere ragionevolmente consumati in tali condizioni”. Inoltre, per quel che rileva in questa sede, il capitolo X sui requisiti applicabili al confezionamento e all’imballaggio dispone che “i materiali di cui sono composti il confezionamento e l’imballaggio non devono costituire una fonte di contaminazione; i materiali di confezionamento devono essere immagazzinati in modo tale da non essere esposti a un rischio di contaminazione”. Rileva, inoltre, il già citato d. m. Sanità 21 marzo 1973 (recante “Disciplina igienica degli imballaggi, recipienti, utensili, destinati a venire in contatto con le sostanze alimentari o con sostanze d'uso personale”) che vieta l’impiego, per la preparazione di oggetti in materia plastica destinati a venire in contatto con alimenti, di materie plastiche di scarto e di oggetti di materiale plastico già utilizzati. 
Risposte ai quesitiTenuto conto delle considerazioni svolte in premessa, prima di rispondere ai quesiti proposti è opportuno precisare che: la risposta agli stessi deve essere rispettosa dello scopo che il legislatore si è prefisso, attraverso l’introduzione della misura che prevede la necessaria onerosità delle borse di plastica in materiale ultraleggero; non solo, la risposta da dare ai due quesiti, che risultano tra loro connessi, deve essere altresì coerente con lo strumento che il legislatore ha voluto utilizzare per il raggiungimento di tale scopo; infine, non possono non trascurarsi le già accennate  implicazioni in tema di sicurezza dei prodotti e la connessa imprescindibile responsabilità dell’esercizio commerciale. Quanto al primo aspetto, giova evidenziare che la disposizione che ha dato luogo ai quesiti è chiaramente volta alla limitazione della diffusione delle borse in plastica, quali agenti, come noto, gravemente inquinanti dell’ambiente. Nel più ampio contesto normativo volto a combattere l’inquinamento derivante dai prodotti plastici, si inserisce anche la previsione della necessaria commercializzazione a pagamento delle buste di plastica in materiale ultraleggero, che dunque non possono essere cedute a titolo gratuito al consumatore finale, nemmeno se fungono da imballaggio della merce sfusa venduta all’interno dell’esercizio commerciale, come frutta e verdura. La necessaria onerosità della borsa risponde alla finalità di sensibilizzare il consumatore relativamente all’utilizzo della borsa in materiale plastico, in quanto prodotto inquinante, inducendolo a farne un uso oculato e parsimonioso, potendo oltretutto la stessa essere riutilizzata in ambito domestico per le finalità più varie. In altri termini, il legislatore, per perseguire lo scopo di limitare la diffusione indiscriminata delle borse in discorso, piuttosto che introdurre una norma di ..

Ne consegue, che La risposta da dare ai due quesiti proposti non può prescindere dal fatto che il legislatore ha elevato le borse in plastica ultraleggere utilizzate per la frutta e verdura all’interno degli esercizi commerciali a prodotto che “deve” essere compravenduto. In questa ottica, la borsa, per legge, è un bene avente un valore autonomo ed indipendente da quello della merce che è destinata a contenere. Ciò è confermato dal fatto che la norma (cfr. comma 5, cit.), oltre a prevederne l’onerosità, ha stabilito che “il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino”, in modo da risultare separato da quello della merce, così da distinguere il valore dei due beni (contenitore e contenuto). Alla luce delle considerazioni che precedono, deve assumersi che l’utilizzo e la circolazione delle borse oggetto del presente parere – in quanto beni autonomamente commerciabili – non possono essere sottratte alla logica del mercatoPer tale ragione, non sembra consentito escludere la facoltà del loro acquisto all’esterno dell’esercizio commerciale nel quale saranno poi utilizzate, in quanto, per l’appunto, considerate di per sé un prodotto autonomamente acquistabile, avente un valore indipendente da quello delle merci che sono destinate a contenere. In questa prospettiva, è dunque coerente con lo strumento scelto dal legislatore la possibilità per i consumatori di utilizzare sacchetti dagli stessi reperiti al di fuori degli esercizi commerciali nei quali sono destinati ad essere utilizzati. Secondo la medesima prospettiva, di conseguenza, non pare possibile che gli operatori del settore alimentare possano impedire tale facoltà (salve le precisazione che seguiranno circa il necessario controllo dei sacchetti per verificarne l’idoneità e la conformità normativa). A tale conclusione si giunge anche ponendo l’attenzione sul fatto che la necessaria onerosità della busta in plastica, quanto meno indirettamente, vuole anche incentivare l’utilizzo di materiali alternativi alla plastica, meno inquinanti, quale in primo luogo la carta. Ne deriva, che deve certamente ammettersi la possibilità di  utilizzare – in luogo delle borse ultraleggere messe a disposizioni, a pagamento, nell’esercizio commerciale – contenitori alternativi alle buste in plastica, comunque idonei a contenere alimenti quale frutta e verdura, autonomamente reperiti dal consumatore; non potendosi inoltre escludere, alla luce della normativa vigente, che per talune tipologie di prodotto uno specifico contenitore non sia neppure necessario. Una diversa interpretazione tradirebbe lo spirito stesso della norma, che è quello di limitare l’uso di borse in plastica. In analogia con tale conclusione, di conseguenza, al fine di scongiurare differenziazioni che, allo stato, non trovano giustificazione in alcuna norma, deve concludersi che l’esercizio commerciale deve permettere anche l’uso di borse in plastica leggere autonomamente introdotte dal consumatore nel punto vendita. Come anticipato, la corretta risposta ai quesiti implica la necessità di coniugare le conclusioni appena esposte con l’esigenza di tutela della sicurezza ed igiene degli alimenti, al cui presidio è in primo luogo chiamata l’impresa di distribuzione, la cui responsabilità permane, indipendente dalla risposta ai quesiti in esame. Al riguardo, deve infatti sottolinearsi che non ogni involucro risulta idoneo all’imballaggio degli alimenti. Invero, il legislatore detta regole relative ai materiali che possono venire a contatto diretto con alimenti o bevande, allo scopo di garantire che detti materiali siano adeguati e non rendano insicuri gli alimenti. Per quel che rileva in questa sede, attualmente, la disciplina essenziale è contenuta nel regolamento (CE) 1935/2004 che stabilisce i requisiti generali e specifici per materiali e oggetti destinati ad entrare in contatto con gli alimenti. Il criterio generale è che i materiali o gli oggetti destinati a venire a contatto, direttamente o indirettamente, con i prodotti alimentari devono essere sufficientemente inerti da escludere il trasferimento di sostanze ai prodotti alimentari in quantità tali da mettere in pericolo la salute umana o da comportare una modifica inaccettabile della composizione dei prodotti alimentari o un deterioramento delle loro caratteristiche. Più nello specifico, in riferimento ai materiali plastici, ai fini del presente parere, N. 00263/2018 AFFARE deve ribadirsi il necessario rispetto: del regolamento (UE) 1895/2005 sulla restrizione dell’uso di alcuni derivati epossidici in materiali e oggetti destinati a entrare in contatto con prodotti alimentari; del regolamento (CE) 282/2008 sugli oggetti in plastica riciclata destinati al contatto con gli alimenti; del regolamento (CE) 450/2009 sui materiali attivi destinati al contatto con gli alimenti. Alla luce delle considerazioni che precedono, il corretto contemperamento dei due interessi sottesi alle questioni all’attenzione della Commissione, porta a ritenere che, laddove il consumatore non intenda acquistare il sacchetto ultraleggero commercializzato dall’esercizio commerciale per l’acquisto di frutta e verdura sfusa, possa utilizzare sacchetti in plastica autonomamente reperiti solo se comunque idonei a preservare l’integrità della merce e rispondenti alla caratteristiche di legge. In tal caso, richiamando le considerazioni già svolte, non sembra possibile per l’esercizio commerciale vietare tale facoltà.
Quest’ultimo assunto non si pone in contrasto con il quadro normativo ricordato in premessa, dal quale si evince la pacifica sussistenza della responsabilità dell’impresa rispetto all’integrità e sicurezza dei prodotti che sono venduti all’interno dell’esercizio commerciale. Al riguardo, in questa sede ci si limita a ricordare che l’operatore del settore alimentare deve sempre e comunque garantire che gli alimenti soddisfino le disposizioni della legislazione alimentare inerenti alle loro attività in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione, nonché verificare che tali disposizioni siano soddisfatte, dovendosi riconoscere la responsabilità del distributore di alimenti a prescindere dalla sua partecipazione o meno al confezionamento (art. 17 del regolamento 178/2002). Pertanto, a scanso di equivoci, deve precisarsi che, quanto meno in astratto, la responsabilità dell’impresa di distribuzione non possa venire automaticamente meno nel caso in cui un danno o un pregiudizio sia stato cagionato dalla condotta del consumatore o, per quanto rileva in questa sede, per il tramite dell’inidoneità di un involucro dallo stesso introdotto nell’esercizio commerciale. Infatti, deve ribadirsi che, proprio in ragione dell’irrinunciabile esigenza di preservare l’integrità degli alimenti posti in vendita, sull’esercizio commerciale, in base alle norme già citate, grava comunque un obbligo di controllo su tutti i fattori potenzialmente pregiudizievoli per la sicurezza dei prodotti compravenduti all’interno del punto vendita, tra cui, evidentemente, anche sugli eventuali sacchetti che il consumatore intende utilizzare. 

Al riguardo, giova ricordare che il più importante obbligo del titolare dell’impresa alimentare, la cui inosservanza può essere fonte anche di responsabilità penale, consiste nell’analisi di pericoli e punti critici di controllo, così come previsto dall’art. 5 regolamento 852/2004 il cui 1° comma stabilisce, per l’appunto, che “Gli operatori del settore alimentare predispongono, attuano e mantengono una o più procedure permanenti, basate sui principi del sistema HACCP”. L’omessa osservanza durante tutta la catena alimentare delle regole cautelari, a cominciare dall’adozione del “piano di autocontrollo”, passando poi per l’integrale rispetto delle indicazioni ivi contenute, costituisce dunque un profilo di colpa degli operatori del settore alimentare. Ne consegue che ciascun esercizio commerciale sarà dunque tenuto, secondo le modalità dallo stesso ritenute più appropriate, alla verifica dell’idoneità e della conformità a legge dei sacchetti utilizzati dal consumatore, siano essi messi a disposizione dell’esercizio commerciale stesso, siano essi introdotti nei locali autonomamente dal consumatore. Alla luce delle considerazioni che precedono, deve concludersi che il necessario ed imprescindibile rispetto della normativa in tema di igiene e sicurezza alimentare comporta che l’esercizio commerciale, in quanto soggetto che deve garantire l’integrità dei prodotti ceduti dallo stesso, possa vietare l’utilizzo di contenitori autonomamente reperiti dal consumatore solo se non conformi alla normativa di volta in volta applicabile per ciascuna tipologia di merce, o comunque in concreto non idonei a venire in contatto con gli alimenti. Infine, a monte dei quesiti proposti, la Commissione non può esimersi dall’osservare che le restrizioni relative alle borse ultraleggere non paiono imposte dalla direttiva citata. Invero, il paragrafo 1-bis dell’articolo 4 della direttiva 2015/720 si rivolge alle sole borse di plastica in materiale leggero; mentre, il successivo paragrafo 1-ter consente (non obbliga) agli Stati membri di adottare misure, tra cui strumenti economici e obiettivi di riduzione nazionali, in ordine a qualsiasi tipo di borse di plastica, indipendentemente dal loro spessore. P.Q.M. Nei sensi esposti nella motivazione è il parere della Commissione speciale. 

fonte: www.ecodallecitta.it





Rifiuti, l’economia circolare italiana a rischio blocco per una sentenza del Consiglio di Stato

«Si rischiano conseguenze molto gravi per l’igiene pubblica, la salvaguardia dell’ambiente e per la stessa sopravvivenza di molte imprese del settore. Bloccare le attività legali poi non fa che creare più spazio ai traffici illeciti dei rifiuti»





















Non spetta alle Regioni individuare i criteri che consentono ai materiali prodotti dal riciclo di non essere più considerati rifiuti, ma “materia prima secondaria” (ossia in prodotti e materiali commercializzabili e utilizzabili al posto delle materie prime vergini, estratte dalla natura): è quanto afferma il Consiglio di Stato con la sentenza n.1229 del 28 febbraio, che oggi ha fatto scattare l’allarme dell’Unicircular, l’Unione delle imprese dell’economia circolare. «È l’ennesima situazione paradossale che le imprese impegnate nella gestione dei rifiuti si trovano a subire», commenta il presidente Unicircular Andrea Fluttero, che si è appellato al ministero dell’Ambiente perché vengano scongiurate nuove situazioni emergenziali in tutta Italia connesse alla gestione dei rifiuti.
Andiamo con ordine: secondo quanto indicato dalla sentenza, le Regioni non potranno più stabilire con autorizzazione ordinaria quando il riciclo può dirsi completato, in quanto il potere di determinare la cessazione della qualifica di rifiuto (End of waste) compete in prima battuta all’Europa e in seconda allo Stato, ma non anche alle Regioni o enti delegati (come le Province). Che c’è dunque di male, in linea di principio, se a stabilire i criteri End of waste è lo Stato italiano – con criteri dunque omogenei sul territorio – anziché le singole Regioni? Nulla, apparentemente. Il problema è quando dalla teoria si passa alla pratica.
Ad oggi infatti (se si escludono i regolamenti comunitari finora emanati sui rottami di vetro e metalli e il decreto nazionale sul CSS-combustibile) tale potere regolamentare non è stato esercitato, ricordano da Unicircular, e i tempi tecnici perché questo accada non sono brevi. Nel frattempo però, il decreto 5 febbraio 1998 sul recupero in procedura semplificata non offre una copertura sufficiente alle imprese che operano nei settori del riciclo, perché norma ormai superata, sia come standard tecnici che come applicazioni, e in quanto riguarda solo determinate tipologie di rifiuti, nonché determinate capacità operative e attività. Questo il motivo per cui larga parte delle caratteristiche delle materie prime secondarie ottenute dai rifiuti sono state definite dalle Regioni all’interno di provvedimenti autorizzativi degli impianti. Una strada che adesso sembra bloccata dal Consiglio di Stato, come per primo ha denunciato il Sole 24 Ore e confermato oggi Unicircular.
Secondo l’Unione delle imprese di settore l’impossibilità per gli impianti di riciclo di trasformare i flussi di rifiuti non ancora regolamentati in “End of waste” limiterà drasticamente gli sbocchi di mercato per quanto riciclato, provocando il blocco dei ritiri di migliaia di tonnellate di rifiuti da parte degli stessi impianti. Si tratta di centinaia gli impianti che ad oggi riciclano rifiuti grazie ai criteri EoW stabiliti nei provvedimenti autorizzativi dalle autorità locali, che ora potrebbero non rinnovarli o addirittura revocarli in autotutela, causando il blocco delle relative attività: l’ennesima dimostrazione di come il primo ostacolo nel reale sviluppo dell’economia circolare italiana sia la mancanza di un’adeguata regia istituzionale, accompagnata da quella «normativa ottusa e miope» additata non solo dalle imprese di settore ma anche da associazioni ambientaliste come Legambiente.
«Il principio sancito dalla sentenza, nella sua generalizzazione – conclude Fluttero – porta alla drastica riduzione del riciclo ed è contrario al concetto di economia circolare e alla gerarchia europea sui rifiuti. Si rischiano conseguenze molto gravi per l’igiene pubblica, la salvaguardia dell’ambiente e per la stessa sopravvivenza di molte imprese del settore. Bloccare le attività legali poi non fa che creare più spazio ai traffici illeciti dei rifiuti. Abbiamo chiesto con urgenza agli uffici del ministero dell’Ambiente un confronto per cercare soluzioni a questa preoccupante situazione».

fonte: www.greenreport.it