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Se disperse anche le buste biodegradabili inquinano: individuati effetti tossici sulle piante

Assobioplastiche: «Sono prodotti che forniscono soluzioni a specifici problemi, pensati per essere gestiti nel circuito del compostaggio industriale. Non sono la soluzione all’abbandono dei prodotti in mare o in altri ambienti, e nessuno ha mai tentato di accreditarle come tali»

Non basta sostituire la plastica tradizionale con altri prodotti. Lardicci (Università di Pisa): «Importante informare adeguatamente sulla necessità di smaltire correttamente questi materiali»





Per risolvere i danni provocati dall’inquinamento da plastica non basta limitarsi a sostituire le buste tradizionali (come anche altri imballaggi o prodotti monouso) con quelle biodegradabili, perché anche queste ultime provocano danni se disperse nell’ambiente – e non solo a quello marino come ormai ampiamente documentato (si veda ad esempio qui, qui, qui e qui), ma anche a quello terrestre. È la conclusione cui è giunto un team di ricercatori dell’Università di Pisa, che ha pubblicato sulla rivista scientifica “Ecological indicators” uno studio incentrato sulle tradizionali shopper non-biodegradabili realizzate con polietilene ad alta densità (Hdpe) e quelle di nuova generazione, biodegradabili e compostabili, realizzate con una miscela di polimeri a base di amido.

I ricercatori hanno esaminato in particolare gli effetti fitotossici del lisciviato, ossia della soluzione acquosa che si forma in seguito all’esposizione delle buste agli agenti atmosferici e alle precipitazioni; da quanto è emerso, entrambe le tipologie di shopper rilasciano in acqua sostanze chimiche fitotossiche che interferiscono nella germinazione dei semi, con la differenza che i lisciviati da buste non-biodegradabili agiscono prevalentemente sulla parte aerea delle piante mentre quelli delle buste compostabili sulla radice.

«Nella maggior parte degli studi condotti finora sull’impatto della plastica sull’ambiente, gli effetti delle macro-plastiche sulle piante superiori sono stati ignorati – spiega il professore Claudio Lardicci dell’Ateneo pisano, che l’anno scorso aveva condotto uno studio sugli impatti delle buste biodegradabili in ambiente marino – La nostra ricerca ha invece dimostrato che la dispersione delle buste, sia non-biodegradabili che compostabili, nell’ambiente può rappresentare una seria minaccia, dato che anche una semplice pioggia può causare la dispersione di sostanze fitotossiche nel terreno».

Il gruppo Novamont, leader nello sviluppo e nella produzione di bioplastiche, parla però di «dati fuorvianti» in quanto le metodologie adottate dall’Università di Pisa per arrivare a queste conclusioni sarebbero «non validate. Sono esperimenti una tantum – argomentano da Novamont – di cui non è stata determinata la sensibilità, la riproducibilità, l’affidabilità e soprattutto non è dato il quadro di riferimento, necessario per interpretare i risultati». Anche Assobioplastiche parla di «singolare approccio al metodo scientifico», e afferma che sarebbe interessante che il gruppo di ricerca pisano applicasse le stesse metodologie di ricerca adottate per indagare gli effetti causati sull’ambiente da altri «elementi e sostanze naturali (ad es., lignina, cellulosa, scarti organici etc.)».

Sta di fatto che la stessa Novamont sottolinea coma la normalità per la gestione delle buste biodegradabili, una volta diventate rifiuti, consista nell’essere avviate a compostaggio e non certo disperse nell’ambiente. «Le bioplastiche – ribadisce al proposito Marco Versari, presidente di Assobioplastiche – sono prodotti che forniscono soluzioni a specifici problemi, pensati per essere gestiti nel circuito del compostaggio industriale. Non sono la soluzione all’abbandono dei prodotti in mare o in altri ambienti, e nessuno ha mai tentato di accreditarle come tali»

Se irresponsabilmente gettate nell’ambiente, infatti, anche le buste biodegradabili possono continuare a far danni. Da qui «l’importanza di informare adeguatamente sulla necessità di smaltire correttamente questi materiali, considerato anche che la produzione di buste compostabili è destinata a crescere in futuro e di conseguenza anche il rischio abbandonarle nell’ambiente», come sottolinea anche Lardicci. L’unico modo per risolvere alla radice il problema dell’inquinamento da rifiuti, infatti, non è quello di sostituire un materiale con un altro, ma evitare di gettarli in giro: per una loro adeguata gestione è necessaria dunque una robusta campagna di informazione e comunicazione alla cittadinanza, oltre all’implementazione sul territorio di un’adeguata presenza di impianti industriali per la selezione, avvio a recupero e/o smaltimento dei rifiuti raccolti.

fonte: www.greenreport.it

Sacchetti compostabili, parere del Consiglio di Stato: 'Si possono portare anche da casa'

La legge stabilisce che le buste hanno un valore e “non possono essere sottratte alla logica del mercato”. Proprio in virtù di questo, perché vietare ai consumatori di comprare i sacchetti da un'altra parte e portarli al supermercato?



I sacchetti biodegradabili si possono portare da casa e utilizzare all'interno del supermercato o dell'alimentari dove si acquistano la frutta e la verdura. Nessun obbligo di usare esclusivamente i sacchetti del negozio (e quindi di comprarli insieme al cibo stesso). Questo è ciò che ha scritto il Consiglio di Stato nel parere richiesto dal Ministero della Salute, spiegando che la legge stabilisce che le buste hanno un valore e “non possono essere sottratte alla logica del mercato”. In sostanza vanno per forza vendute; un'imposizione da cui nacque la grande polemica nazional popolare degli scorsi mesi. Ma proprio sulla base di ciò, il CDS dice perché vietare ai consumatori di comprare i sacchetti da un'altra parte e portarli al supermercato?  Non solo, il CdS ammette anche la possibilità che il consumatore si procuri autonomamente e usi, al posto delle borse ultraleggere in bioplastica, contenitori alternativi che siano idonei a contenere la frutta e la verdura acquistati. 

Ecco il testo del Consiglio di Stato:

QuesitiCiò premesso, il Ministero della salute indirizza a questo Consiglio i seguenti quesiti: a) se sia possibile per i consumatori utilizzare nei soli reparti di vendita a libero servizio (frutta e verdura) sacchetti monouso nuovi dagli stessi acquistati al di fuori degli esercizi commerciali, conformi alla normativa sui materiali a contatto con gli alimenti; b) in caso di risposta positiva, se gli operatori del settore alimentare siano obbligati e a quali condizioni a consentirne l’uso nei propri esercizi commerciali. 
Tra le considerazioni n premessaQuanto all’aspetto legato all’irrinunciabile tutela della sicurezza dei prodotti alimentari destinati ad essere immessi in commercio, giova inoltre brevemente rammentare quanto segue. L’art. 17, comma I del regolamento (CE) 178/2002 affida agli operatori del settore alimentare il compito di garantire che nelle imprese da essi controllate gli alimenti soddisfino le disposizioni della legislazione alimentare inerenti alle loro attività in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione e verificare che tali disposizioni siano soddisfatte. In base all’art. 1 del regolamento (CE) 852/2004 è necessario garantire la sicurezza degli alimenti lungo tutta la catena alimentare, a cominciare dalla produzione primaria. L’art. 4 prevede che gli operatori del settore alimentare che eseguono qualsivoglia fase della produzione, della trasformazione e della distribuzione di alimenti rispettino i requisiti generali in materia d’igiene di cui all’allegato II e ogni requisito specifico previsto dal regolamento (CE) 853/2004. A tal fine, il capitolo IX, relativo ai requisiti applicabili ai prodotti alimentari, prevede, tra l’altro, che “in tutte le fasi di produzione, trasformazione e distribuzione gli alimenti devono essere protetti da qualsiasi forma di contaminazione atta a renderli inadatti al consumo umano, nocivi per la salute o contaminati in modo tale da non poter  essere ragionevolmente consumati in tali condizioni”. Inoltre, per quel che rileva in questa sede, il capitolo X sui requisiti applicabili al confezionamento e all’imballaggio dispone che “i materiali di cui sono composti il confezionamento e l’imballaggio non devono costituire una fonte di contaminazione; i materiali di confezionamento devono essere immagazzinati in modo tale da non essere esposti a un rischio di contaminazione”. Rileva, inoltre, il già citato d. m. Sanità 21 marzo 1973 (recante “Disciplina igienica degli imballaggi, recipienti, utensili, destinati a venire in contatto con le sostanze alimentari o con sostanze d'uso personale”) che vieta l’impiego, per la preparazione di oggetti in materia plastica destinati a venire in contatto con alimenti, di materie plastiche di scarto e di oggetti di materiale plastico già utilizzati. 
Risposte ai quesitiTenuto conto delle considerazioni svolte in premessa, prima di rispondere ai quesiti proposti è opportuno precisare che: la risposta agli stessi deve essere rispettosa dello scopo che il legislatore si è prefisso, attraverso l’introduzione della misura che prevede la necessaria onerosità delle borse di plastica in materiale ultraleggero; non solo, la risposta da dare ai due quesiti, che risultano tra loro connessi, deve essere altresì coerente con lo strumento che il legislatore ha voluto utilizzare per il raggiungimento di tale scopo; infine, non possono non trascurarsi le già accennate  implicazioni in tema di sicurezza dei prodotti e la connessa imprescindibile responsabilità dell’esercizio commerciale. Quanto al primo aspetto, giova evidenziare che la disposizione che ha dato luogo ai quesiti è chiaramente volta alla limitazione della diffusione delle borse in plastica, quali agenti, come noto, gravemente inquinanti dell’ambiente. Nel più ampio contesto normativo volto a combattere l’inquinamento derivante dai prodotti plastici, si inserisce anche la previsione della necessaria commercializzazione a pagamento delle buste di plastica in materiale ultraleggero, che dunque non possono essere cedute a titolo gratuito al consumatore finale, nemmeno se fungono da imballaggio della merce sfusa venduta all’interno dell’esercizio commerciale, come frutta e verdura. La necessaria onerosità della borsa risponde alla finalità di sensibilizzare il consumatore relativamente all’utilizzo della borsa in materiale plastico, in quanto prodotto inquinante, inducendolo a farne un uso oculato e parsimonioso, potendo oltretutto la stessa essere riutilizzata in ambito domestico per le finalità più varie. In altri termini, il legislatore, per perseguire lo scopo di limitare la diffusione indiscriminata delle borse in discorso, piuttosto che introdurre una norma di ..

Ne consegue, che La risposta da dare ai due quesiti proposti non può prescindere dal fatto che il legislatore ha elevato le borse in plastica ultraleggere utilizzate per la frutta e verdura all’interno degli esercizi commerciali a prodotto che “deve” essere compravenduto. In questa ottica, la borsa, per legge, è un bene avente un valore autonomo ed indipendente da quello della merce che è destinata a contenere. Ciò è confermato dal fatto che la norma (cfr. comma 5, cit.), oltre a prevederne l’onerosità, ha stabilito che “il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino”, in modo da risultare separato da quello della merce, così da distinguere il valore dei due beni (contenitore e contenuto). Alla luce delle considerazioni che precedono, deve assumersi che l’utilizzo e la circolazione delle borse oggetto del presente parere – in quanto beni autonomamente commerciabili – non possono essere sottratte alla logica del mercatoPer tale ragione, non sembra consentito escludere la facoltà del loro acquisto all’esterno dell’esercizio commerciale nel quale saranno poi utilizzate, in quanto, per l’appunto, considerate di per sé un prodotto autonomamente acquistabile, avente un valore indipendente da quello delle merci che sono destinate a contenere. In questa prospettiva, è dunque coerente con lo strumento scelto dal legislatore la possibilità per i consumatori di utilizzare sacchetti dagli stessi reperiti al di fuori degli esercizi commerciali nei quali sono destinati ad essere utilizzati. Secondo la medesima prospettiva, di conseguenza, non pare possibile che gli operatori del settore alimentare possano impedire tale facoltà (salve le precisazione che seguiranno circa il necessario controllo dei sacchetti per verificarne l’idoneità e la conformità normativa). A tale conclusione si giunge anche ponendo l’attenzione sul fatto che la necessaria onerosità della busta in plastica, quanto meno indirettamente, vuole anche incentivare l’utilizzo di materiali alternativi alla plastica, meno inquinanti, quale in primo luogo la carta. Ne deriva, che deve certamente ammettersi la possibilità di  utilizzare – in luogo delle borse ultraleggere messe a disposizioni, a pagamento, nell’esercizio commerciale – contenitori alternativi alle buste in plastica, comunque idonei a contenere alimenti quale frutta e verdura, autonomamente reperiti dal consumatore; non potendosi inoltre escludere, alla luce della normativa vigente, che per talune tipologie di prodotto uno specifico contenitore non sia neppure necessario. Una diversa interpretazione tradirebbe lo spirito stesso della norma, che è quello di limitare l’uso di borse in plastica. In analogia con tale conclusione, di conseguenza, al fine di scongiurare differenziazioni che, allo stato, non trovano giustificazione in alcuna norma, deve concludersi che l’esercizio commerciale deve permettere anche l’uso di borse in plastica leggere autonomamente introdotte dal consumatore nel punto vendita. Come anticipato, la corretta risposta ai quesiti implica la necessità di coniugare le conclusioni appena esposte con l’esigenza di tutela della sicurezza ed igiene degli alimenti, al cui presidio è in primo luogo chiamata l’impresa di distribuzione, la cui responsabilità permane, indipendente dalla risposta ai quesiti in esame. Al riguardo, deve infatti sottolinearsi che non ogni involucro risulta idoneo all’imballaggio degli alimenti. Invero, il legislatore detta regole relative ai materiali che possono venire a contatto diretto con alimenti o bevande, allo scopo di garantire che detti materiali siano adeguati e non rendano insicuri gli alimenti. Per quel che rileva in questa sede, attualmente, la disciplina essenziale è contenuta nel regolamento (CE) 1935/2004 che stabilisce i requisiti generali e specifici per materiali e oggetti destinati ad entrare in contatto con gli alimenti. Il criterio generale è che i materiali o gli oggetti destinati a venire a contatto, direttamente o indirettamente, con i prodotti alimentari devono essere sufficientemente inerti da escludere il trasferimento di sostanze ai prodotti alimentari in quantità tali da mettere in pericolo la salute umana o da comportare una modifica inaccettabile della composizione dei prodotti alimentari o un deterioramento delle loro caratteristiche. Più nello specifico, in riferimento ai materiali plastici, ai fini del presente parere, N. 00263/2018 AFFARE deve ribadirsi il necessario rispetto: del regolamento (UE) 1895/2005 sulla restrizione dell’uso di alcuni derivati epossidici in materiali e oggetti destinati a entrare in contatto con prodotti alimentari; del regolamento (CE) 282/2008 sugli oggetti in plastica riciclata destinati al contatto con gli alimenti; del regolamento (CE) 450/2009 sui materiali attivi destinati al contatto con gli alimenti. Alla luce delle considerazioni che precedono, il corretto contemperamento dei due interessi sottesi alle questioni all’attenzione della Commissione, porta a ritenere che, laddove il consumatore non intenda acquistare il sacchetto ultraleggero commercializzato dall’esercizio commerciale per l’acquisto di frutta e verdura sfusa, possa utilizzare sacchetti in plastica autonomamente reperiti solo se comunque idonei a preservare l’integrità della merce e rispondenti alla caratteristiche di legge. In tal caso, richiamando le considerazioni già svolte, non sembra possibile per l’esercizio commerciale vietare tale facoltà.
Quest’ultimo assunto non si pone in contrasto con il quadro normativo ricordato in premessa, dal quale si evince la pacifica sussistenza della responsabilità dell’impresa rispetto all’integrità e sicurezza dei prodotti che sono venduti all’interno dell’esercizio commerciale. Al riguardo, in questa sede ci si limita a ricordare che l’operatore del settore alimentare deve sempre e comunque garantire che gli alimenti soddisfino le disposizioni della legislazione alimentare inerenti alle loro attività in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione, nonché verificare che tali disposizioni siano soddisfatte, dovendosi riconoscere la responsabilità del distributore di alimenti a prescindere dalla sua partecipazione o meno al confezionamento (art. 17 del regolamento 178/2002). Pertanto, a scanso di equivoci, deve precisarsi che, quanto meno in astratto, la responsabilità dell’impresa di distribuzione non possa venire automaticamente meno nel caso in cui un danno o un pregiudizio sia stato cagionato dalla condotta del consumatore o, per quanto rileva in questa sede, per il tramite dell’inidoneità di un involucro dallo stesso introdotto nell’esercizio commerciale. Infatti, deve ribadirsi che, proprio in ragione dell’irrinunciabile esigenza di preservare l’integrità degli alimenti posti in vendita, sull’esercizio commerciale, in base alle norme già citate, grava comunque un obbligo di controllo su tutti i fattori potenzialmente pregiudizievoli per la sicurezza dei prodotti compravenduti all’interno del punto vendita, tra cui, evidentemente, anche sugli eventuali sacchetti che il consumatore intende utilizzare. 

Al riguardo, giova ricordare che il più importante obbligo del titolare dell’impresa alimentare, la cui inosservanza può essere fonte anche di responsabilità penale, consiste nell’analisi di pericoli e punti critici di controllo, così come previsto dall’art. 5 regolamento 852/2004 il cui 1° comma stabilisce, per l’appunto, che “Gli operatori del settore alimentare predispongono, attuano e mantengono una o più procedure permanenti, basate sui principi del sistema HACCP”. L’omessa osservanza durante tutta la catena alimentare delle regole cautelari, a cominciare dall’adozione del “piano di autocontrollo”, passando poi per l’integrale rispetto delle indicazioni ivi contenute, costituisce dunque un profilo di colpa degli operatori del settore alimentare. Ne consegue che ciascun esercizio commerciale sarà dunque tenuto, secondo le modalità dallo stesso ritenute più appropriate, alla verifica dell’idoneità e della conformità a legge dei sacchetti utilizzati dal consumatore, siano essi messi a disposizione dell’esercizio commerciale stesso, siano essi introdotti nei locali autonomamente dal consumatore. Alla luce delle considerazioni che precedono, deve concludersi che il necessario ed imprescindibile rispetto della normativa in tema di igiene e sicurezza alimentare comporta che l’esercizio commerciale, in quanto soggetto che deve garantire l’integrità dei prodotti ceduti dallo stesso, possa vietare l’utilizzo di contenitori autonomamente reperiti dal consumatore solo se non conformi alla normativa di volta in volta applicabile per ciascuna tipologia di merce, o comunque in concreto non idonei a venire in contatto con gli alimenti. Infine, a monte dei quesiti proposti, la Commissione non può esimersi dall’osservare che le restrizioni relative alle borse ultraleggere non paiono imposte dalla direttiva citata. Invero, il paragrafo 1-bis dell’articolo 4 della direttiva 2015/720 si rivolge alle sole borse di plastica in materiale leggero; mentre, il successivo paragrafo 1-ter consente (non obbliga) agli Stati membri di adottare misure, tra cui strumenti economici e obiettivi di riduzione nazionali, in ordine a qualsiasi tipo di borse di plastica, indipendentemente dal loro spessore. P.Q.M. Nei sensi esposti nella motivazione è il parere della Commissione speciale. 

fonte: www.ecodallecitta.it





Buste biodegradabili e a pagamento, supermercato di Sirolo batte tutti

















Buste biodegradabili e a pagamento, supermercato di Sirolo batte tutti e ne pensa una più del diavolo.

L'ha pensata una più del diavolo il "Si con Te" di Sirolo. Da oggi infatti esporrà cestini in alternativa dei sacchetti a pagamento biodegradabili, come da nuova normativa nazionale. I cestini potranno essere portati fino alle casse dove il cliente potrà provvedere ad mettere nelle buste proprie perlomeno la frutta e verdura. E il prezzo e relativa etichetta affissa anche in un post it messo a disposizione.

L'ondata di polemica sulla recente introduzione ha messo infatti in allarme molti esercenti, soprattutto quelli più piccoli. La fantasia di alcuni clienti anche nell'anconetano inoltre non ha avuto limiti: da chi suggeriva di etichettare la frutta senza imbustarla nei sacchetti a disposizione a chi proponeva di non comprare più frutta e verdura, soprattutto nei supermercati, o comunque l'invito stare un mese senza servirsi di prodotto che necessitano di essere imbustati.

Dal 1 gennaio 2018 infatti è entrato in vigore l’obbligo di usare i sacchetti biodegradabili a pagamento, per pesare e prezzare le merci sfuse. L’art. 9-bis della legge di conversione 123/2017 il cosidetto Decreto Mezzogiorno approvato lo scorso agosto, prevede infatti che non possano essere distribuite a titolo gratuito e il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dalla scontrino o fattura di acquisto delle merci o dei prodotti”. Nei supermercati dunque e in tutte le altre attività commerciali che usano questi sacchetti come ad esempio fruttivendoli, alimentari, ma anche farmacie o panetterie...ecc non potranno continuare ad usare il tradizionale sacchetto di plastica che andrà sostituito con quello biodegradabile con un contenuto minimo di materia prima rinnovabile non inferiore al 40%.

Ma ciò che più turba alcuni italiani, così come alcuni anconetani (alcuni si dichiarano infatti a favore del biodegradabile e contro i sacchetti di plastica, inquinanti e pericolosi per l'ambiente, soprattutto per i mari come denotano anche studi universitari sulla presenza di microplastiche presenti anche nel mar adriatico ndr) è che a pagare quel sacchetto saranno proprio loro, i cittadini. Questo prezzo si stima che oscillerà da 0,1 a 0,5 centesimi circa e per gli esercenti furbetti, ovvero quelli che non rispetteranno la nuova legge, continuando ad offrire buste di plastica, è prevista una sanzione da €. 2.500 ad 25.000 euro. Sanzione che aumenta a 100.000 se la violazione del divieto riguarda ingenti quantitativi di borse di plastica o un valore di queste ultime superiore al 10% del fatturato del trasgressore.

fonte: https://www.vivereancona.it

Dall’Indonesia gli imballaggi biodegradabili a base di alghe

Durano 2 anni, si sciolgono in acqua e sono commestibili. L’Indonesia parte dalle alghe per scrivere il futuro degli imballaggi biodegradabili


















La polemica di questi giorni sui sacchetti biodegradabili per imbustare i prodotti alimentari freschi negli esercizi commerciali rischia di concentrarsi tutta sull’equità del prezzo e poco sul vero problema della plastica: l’inquinamento. Secondo la Plastic Pollution Coalition, circa il 33% della mole prodotta annualmente è utilizzato una sola volta e poi gettato, il che contribuisce a un immensa contaminazione globale. Di fronte a una simile distorsione, che abbraccia l’economia e la società, una delle soluzioni per ridurre l’inquinamento è utilizzare materiali più ecologici, ricavati da risorse rinnovabili.
Da qui è partita Evoware, una azienda indonesiana che ha trovato il modo di produrre imballaggi biodegradabili con le alghe marine, capaci di resistere per un massimo di due anni ma solubili in acqua calda e totalmente commestibili.

 

Secondo Evoware, sviluppare il settore degli imballaggi a base di alghe in Indonesia può essere strategico per diversi motivi: innanzitutto, la nazione è il secondo fornitore di plastica al mondo attraverso gli oceani. Dall’isola, circa il imballaggi biodegradabili90% dei rifiuti plastici finisce in mare, mancano un’industria e una cultura del riciclo. Il 70% di questi rifiuti proviene da imballaggi per alimenti e bevande. Un altro motivo per cui spingere sulle alghe può rivelarsi una prima risposta è lo stato dei produttori locali. Pur essendo il primo paese al mondo nella coltivazione delle alghe, il settore produttivo è estremamente povero, le famiglie che ci lavorano soffrono di malnutrizione e di altre difficoltà legate alla scarsità di mezzi.
Dalle alghe, tuttavia, si possono creare imballaggi resistenti e durevoli, spiegano da Evoware: i prodotti dell’azienda sono disponibili in due varietà: uno biodegradabile, che può essere utilizzato per il confezionamento di saponi e altri articoli non edibili, e uno biodegradabile e commestibile, da utilizzare come involucro alimentare, ad esempio per imbustare il tè o qualsiasi altro prodotto fresco. L’imballaggio commestibile, quasi insapore e inodore, si dissolve in acqua tiepida ed è considerato nutriente, in quanto contiene fibre, vitamine e minerali. Può essere personalizzato per avere uno specifico gusto, colore o logo impresso sulla pellicola, è stampabile e termosaldabile, conforme agli standard HACCP.

fonte: www.rinnovabili.it