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La fusione del permafrost dietro la fuoriuscita di carburante nell’Artico: è una bomba a orologeria

















Il grave disastro ambientale che sta colpendo in questi giorni la Russia sta facendo emergere un problema che oggi ancora di più non va sottovalutato. La fusione del permafrost infatti non solo sta liberando virus e batteri, ma potrebbe essere alla base della fuoriuscita di petrolio nell’Artico.

I cambiamenti climatici e lo scioglimento dei ghiacci potrebbero provocare più danni di quanto ipotizzato finora. E la “marea” rossa che sta inquinando il fiume russo Ambarnaya ne è la conferma.

Il 29 maggio, 21.000 tonnellate di petrolio e carburanti sono state versati da un serbatoio presso lo stabilimento della Norilsk Nickel. Secondo le prime ipotesi, del tutto verosimili avanzate dalla Norilsk Nickel, lo scioglimento dei ghiacci dovuto ai cambiamenti climatici avrebbe favorito il cedimento dei pilastri che avevano resistito per decenni.
Scioglimento del permafrost: pericolo per il rilascio di carbonio

Lo scioglimento del permafrost dunque è una vera e propria bomba a orologeria che minaccia la salute e l’ambiente e rischia di accelerare il riscaldamento globale. Il permafrost è il erreno ghiacciato che si trova principalmente nell’emisfero settentrionale, nell’Artico, dove copre circa un quarto della terra esposta. Essi generalmente ha migliaia di anni e copre un’ampia fascia tra il circolo polare artico e le foreste boreali, dall’Alaska alla Russia, fino al Canada. Può variare in profondità da pochi metri fino a centinaia.

Secondo gli scienziati, nel permafrost sono sepolte circa 1,7 trilioni di tonnellate di carbonio sotto forma di materia organica congelata: i resti di piante marce e animali morti da lungo tempo intrappolati nei sedimenti e successivamente coperti da lastre di ghiaccio. I suoli permafrost contengono circa il doppio di carbonio, principalmente sotto forma di metano e CO2, rispetto all’atmosfera terrestre.

Per questo lo scioglimento può essere ulteriormente pericoloso. Di fatto, contribuisce ad accelerare il riscaldamento globale. Quando il permafrost si scioglie, infatti, la materia si riscalda e si decompone, rilasciando infine il carbonio e contribuendo al riscaldamento globale. Un circolo vizioso molto pericoloso.

Secondo un rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) rilasciato a settembre 2019, gran parte del permafrost potrebbe sciogliersi entro il 2100 se l’inquinamento legato alle emissioni di carbonio continuerà senza sosta, rilasciando una bomba al carbonio di gas serra.
Scioglimento del permafrost: agenti patogeni congelati

Lo scongelamento del permafrost minaccia anche di liberare batteri e virusa lungo intrappolati nel ghiaccio e potenzialmente in grado di diffondere nuove malattie. Purtroppo è già accaduto.

Nel 2016 un bambino è morto nell’estremo nord della Siberia in Russia a causa della diffusione di antrace che secondo gli scienziati sembrava provenire dai resti di renne infette sepolte 70 anni prima ma ritornate alla luce per via dello scioglimento del permafrost.

Nel 2014 gli scienziati hanno rianimato un virus gigante ma innocuo, soprannominato Pithovirus sibericum, che era stato rinchiuso nel permafrost siberiano per oltre 30.000 anni.

Un disgelo del permafrost potrebbe essere un vantaggio per le industrie petrolifere e minerarie, fornendo l’accesso a riserve precedentemente difficili da raggiungere nell’Artico. Ma i danni potrebbero essere incalcolabili. Come dimostra l’ultimo disastro ambientale in corso in Russia, lo scioglimento del permafrost potrebbe rappresentare anche una seria e costosa minaccia per le infrastrutture, rischiando di provocare frane e danni a edifici, strade e oleodotti.
Gli ultimi aggiornamenti dalla Russia

La Norilsk Nickel il 5 giugno ha fatto sapere che al momento la diffusione del petrolio e dei carburanti è sotto controllo. Lo sversamento è localizzato e con l’installazione dei dispositivi di contenimento non si sta diffondendo ulteriormente.


“Il nostro compito ora è lavorare e rimuovere questi prodotti petroliferi ”, ha detto il ministro delle Emergenze Yevgeny Zinichev.

Dal canto suo, la società ha portato dei serbatoi in grado di contenere un volume totale di 16 mila tonnellate, che consentiranno di raccogliere tutto il carburante penentrato nel sistema idrico. Inoltre, sono state preparate strutture di stoccaggio per oltre 100 mila tonnellate di suolo. E’ in corso la bonifica su un’area di circa 6mila metri quadrati.

Pulire l’area non sarà facile e l’incidente danneggerà probabilmente il permafrost a lungo termine. Il carburante infatti abbassa il punto di congelamento dell’acqua, ciò potrebbe accelerare ulteriormente lo scongelamento.

Ripulire i danni della fuoriuscita costerà alla compagnia almeno 10 miliardi di rubli, pari a circa 130 milioni di euro.

Nonostante i rapporti non sempre idilliaci, Anche gli Usa hanno offerto il proprio aiuto alla Russia. Il segretario di Stato americano Mike Pompeo sabato ha twittato che, nonostante i disaccordi del suo paese con la Russia, l’amministrazione Trump è pront a fornire supporto.

fonte: www.greenme.it

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I finanziamenti mancati per i Paesi più colpiti dai cambiamenti climatici

I Paesi riuniti alla COP25 di Madrid hanno rimandato decisioni importanti sui meccanismi di “loss and damage”, ovvero i danni e le perdite causati dagli eventi estremi legati ai cambiamenti climatici. “La nostra gente sta già soffrendo”, denuncia il rappresentante dei Paesi in via di sviluppo di fronte all’inazione dei principali responsabili delle emissioni di gas climalteranti

© Nikolas Noonan - Unsplash


La conferenza Onu sui cambiamenti climatici (COP25) non sarà ricordata come l’occasione in cui i Paesi industrializzati avranno fatto un decisivo passo avanti verso il Sud del mondo, soprattutto per quanto riguarda le risorse economiche da mettere a disposizione per contrastare gli effetti del clima che sta cambiando.
Oltre all’assenza di reali nuove ambizioni di riduzione di emissioni di CO₂ e al mancato accordo sull’articolo 6 dell’Accordo di Parigi che deve regolare il nuovo mercato di carbonio, i Paesi riuniti a Madrid hanno rimandato alcune decisioni importanti sui meccanismi di “loss and damage”, ossia sui i danni e le perdite causati dai cambiamenti climatici. Come gli impatti di eventi meteorologici estremi o di quelli a lenta insorgenza, causati per esempio dell’innalzamento del livello del mare.

“La nostra gente sta già soffrendo per gli effetti del cambiamento climatico. Le nostre comunità in tutto il mondo sono devastate. Le emissioni globali devono essere drasticamente e urgentemente ridotte per limitare ulteriori impatti, e il sostegno finanziario deve aumentare in modo che i nostri Paesi possano affrontare meglio il cambiamento climatico e i suoi impatti”, ha commentato Sonam P. Wangdi, a capo del gruppo dei “Paesi meno sviluppati” (LDC), alla fine della sessione conclusiva della COP25.
A Madrid era programmata la revisione periodica dei meccanismi. Creati nel 2013 durante la COP16 di Varsavia proprio con lo scopo di supportare i Paesi in via di sviluppo, ogni cinque anni devono essere revisionati e aggiornati. In vista di questo appuntamento, a Madrid quei hanno chiesto che, oltre alle conoscenze, alle competenze e alle tecnologie per gestire i rischi, i Paesi sviluppati garantiscano fondi specifici dedicati solo alle perdite e ai danni, da aggiungere a quelli già previsti per il clima.

“In passato i Paesi del gruppo LDC hanno provato durante i negoziati a inserire nel testo ufficiale dei meccanismi le parole responsabilità e compensazione (liability and compensation, ndr) nella speranza di ottenere un riconoscimento legale e ufficiale del loro diritto a ottenere risarcimenti dai Paesi sviluppati, maggiormente responsabili dei cambiamenti climatici”, spiega Elisa Calliari, ricercatrice presso la London’s Global University. “Ormai non c’è possibilità che queste parole siano inserite nel testo, per questo i Paesi in via di sviluppo stanno tentando vie diverse per assicurarsi il risarcimento che chiedono”. Ma anche alla COP di Madrid il gruppo dei Paesi vulnerabili non è riuscito a ottenere risultati concreti.

Nell’ultima versione del testo non c’è alcun riferimento a nuovi fondi per “loss and damage” che devono provenire dai Paesi più industrializzati. “Il testo invita debolmente -continua Calliari- il Fondo verde per il clima a fornire le risorse economiche”. Questo fondo è stato creato durante i negoziati del 2010 per aiutare economicamente i Paesi vulnerabili ad attuare azioni di mitigazione (riduzione di emissioni inquinanti) e di adattamento ai cambiamenti del clima. Le perdite e i danni provocati da eventi legati ai cambiamenti climatici non fanno esplicitamente parte delle finalità del fondo. E per i Paesi in via di sviluppo le risorse previste non sono sufficienti a finanziare tre diversi tipi di azioni: mitigazione, adattamento, perdite e danni. Tanto più che finora sono confluiti nel fondo solo 9,8 miliardi di euro dei 100 previsti ogni anno a partire dal 2020.
Secondo Climate Action Network (CAN), una rete di più di mille associazioni che si occupano di giustizia climatica, trarre le risorse dal fondo verde significa ridurre i finanziamenti destinati a mitigazione e adattamento. Inoltre i Paesi vulnerabili denunciano che le lunghe e difficoltose procedure per accedere al fondo verde per il clima non sono adatte ad ottenere nel breve tempo le risorse per affrontare gli impatti di eventi improvvisi come tornadi, tempeste o inondazioni. Il testo finale così prevede l’istituzione di un gruppo di esperti, entro la fine del 2020, che dia assistenza tecnica ai Paesi vulnerabili anche per la parte finanziaria dei meccanismi. Non si tratta di una reale novità però: “Un gruppo di esperti dedicato al tema dei finanziamenti era già previsto nei meccanismi, semplicemente non era stato ancora realizzato”, chiarisce Elisa Calliari. Nuovo invece è il Santiago Network, una rete di organizzazioni, esperti ed enti competenti istituito su richiesta del Gruppo “G77+Cina” (il gruppo più grande di nazioni in via di sviluppo, con la partecipazione della Cina) con il compito di “prevenire, minimizzare e affrontare le perdite e i danni associati agli effetti negativi dei cambiamenti climatici”. Per Calliari, però, “non è ancora chiaro cosa questo network farà nello specifico”.

Nelle negoziazioni sul tema dei meccanismi di Varsavia (altra espressione per indicare i meccanismi di “loss and damage”) ha giocato un ruolo fondamentale l’opposizione degli Stati Uniti. Da sempre il Paese guidato oggi da Donald Trump si è opposto a riconoscere i danni e le perdite provocati dai cambiamenti climatici come responsabilità dei Paesi ricchi. Durante le ultime negoziazioni, però, gli USA hanno tentato di spostare la gestione dei meccanismi di Varsavia (WIM) sotto l’Accordo di Parigi, da cui usciranno entro un anno, per sottrarlo dalle competenze della COP di cui invece continueranno a far parte. Lo ha denunciato anche il rappresentante di Tuvalu, Ian Fry, durante la sessione conclusiva della COP25: “Nel corso delle consultazioni delle ultime due settimane, una parte ha insistito affinché il WIM operi esclusivamente nel quadro dell’Accordo di Parigi. Ironicamente o strategicamente, questa parte non sarà più parte dell’Accordo tra 12 mesi. Questo significa che (gli USA, ndr) se ne laverà le mani rispetto a qualsiasi azione per assistere i Paesi colpiti dagli impatti dei cambiamenti climatici”. Il diplomatico dell’isola del Pacifico ha definito l’atteggiamento degli USA una farsa e insieme una tragedia per i Paesi in via di sviluppo.
“II passaggio di fase cui andiamo incontro richiederebbe solidarietà e cooperazione a scala globale -ha commentato a Madrid Francesco Paniè, attivista dell’associazione italiana Terra! Onlus-. Ma, mentre il Pianeta brucia, i Paesi industrializzati continuano a difendere sterili rendite di posizione. Un atteggiamento inaccettabile perché l’attuale situazione climatica mondiale richiede azioni concrete nell’immediato”.

La decisione sulla gestione del WIM è stata rimandata alla prossima COP, segnando una parziale vittoria per gli Stati Uniti che si sono anche assicurati che non ci siano ulteriori finanziamenti per i danni e per le perdite. “Si può dire che le negoziazioni sull’aspetto economico legato ai danni e alle perdite siano iniziati sostanzialmente con questa COP, per questo era molto difficile aspettarsi risultati migliori. I lavori su questo punto erano troppo indietro -conclude Calliari-. Quello fatto a Madrid è il primo vero passo verso negoziazioni che che avverranno solo da qui ai prossimi anni”.

fonte: https://altreconomia.it

Fukushima allo sbando: ennesima perdita di liquidi radioattivi

I liquidi fuoriusciti hanno un livello di radioattività di 590mila becquerel: ha ceduto una delle cisterne di stoccaggio che – come le altre – è tenuta insieme da semplici bulloni


Fukushima allo sbando: ennesima perdita di liquidi radioattivi

Nuova perdita di acqua radioattiva dal reattore numero 1 della centrale nucleare di Fukushima, e questa volta la colpa è di un bullone. La fuoriuscita si è verificata ieri, quando 32 litri di liquidi contaminati sono filtrati fuori da una delle cisterne di stoccaggio. L’incidente quindi non riguarda, come spesso è accaduto in passato, il reattore in sé. Riguarda invece quella che doveva essere una delle soluzioni al problema, cioè quei contenitori al cui interno vengono sversate le acque contaminate provenienti dal reattore, proprio per evitare che si disperdano nell’ambiente.
Come è potuto accadere? A quanto pare, la Tokyo Electric Power Co. (Tepco) responsabile dell’impianto nucleare continua a usare cisterne imbullonate, meno sicure di quelle a pareti saldate perché possono per l’appunto dar luogo a fuoriuscite come quella avvenuta ieri. Il motivo di questa scelta rende bene l’idea dell’entità della catastrofe ambientale che è avvenuta a Fukushima e che è tutt’ora in corso, anche se lontano dai riflettori. Infatti la Tepco sceglie cisterne imbullonate – più semplici e veloci da assemblare – per il semplice fatto che non c’è il tempo materiale di produrre abbastanza cisterne saldate: non saprebbe dove stoccare l’acqua contaminata. I liquidi contaminati usciti dalla cisterna hanno un livello di radioattività pari a 590mila becquerel al litro e consistono principalmente in acqua già trattata per la rimozione di stronzio e altre sostanze nocive.

Fukushima allo sbando: ennesima perdita di liquidi radioattivi 
È solo l’ultimo di una lunga serie di incidenti avvenuti a Fukushima in questi ultimi anni. Il più recente aveva riguardato il noto muro di ghiaccio, ovvero quella barriera protettiva fortemente voluta da Tepco che avrebbe dovuto impedire alle acque contaminate del reattore di filtrare nel terreno e unirsi alla falda, o di arrivare direttamente in mare. Precauzione inutile, visto che all’inizio di settembre è bastato un tifone per aprire le prime crepe nella barriera ghiacciata.
Le operazioni di decommissioning restano quindi in alto mare, nonostante i quasi 5 miliardi di dollari già spesi dal governo giapponese e le continue rassicurazioni della Tepco. Oggi, la radiazione presso l’impianto di Fukushima è ancora 35 volte superiore ai limiti annui. Più di 8 mila lavoratori operano presso l’impianto, per rimuovere detriti, costruire serbatoi, posare tubazioni e smontare parti della centrale. Gran parte del lavoro risiede nel pompaggio costante dell’acqua di un torrente nei reattori distrutti e altamente irradiati, per raffreddarli. L’acqua contaminata viene poi pompata fuori dall’impianto e stoccata in cisterne come quella da cui proviene la fuoriuscita di ieri, che continuano ad aumentare intorno a Fukushima.

fonte: www.rinnovabili.it