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Sull’uso della parola degrowth

Un interessante articolo su Nature Communications di due noti economisti internazionali, Lorenz T. Keyber e Manfred Lenzer, per la prima volta parla esplicitamente di scenari di decrescita a proposito della necessità di seguire nuovi percorsi per ridurre il riscaldamento globale. Tuttavia non possiamo farci ingannare dall’uso della parola “degrowth”, avverte Alberto Castagnola: non siamo di fronte a un’articolata riflessione sulle strade da percorrere per smettere di creare il capitalismo


Tratta da Tratta da unsplash.com

Due noti economisti, Lorenz T. Keyber e Manfred Lenzer, specializzati nella elaborazione di modelli, hanno di recente pubblicato su Nature Communications (12, articolo numero 2676, 2021) un saggio molto ampio e impegnativo, intitolato “Gli scenari di decrescita relativi a 1,5 gradi suggeriscono la necessità di seguire nuovi percorsi di mitigazione” (1.5 °C degrowth scenarios suggest the need for new mitigation pathways). Il loro testo fa riferimento ad un notissimo rapporto dell’IPCC, il Comitato Intergovernativo per il Cambiamento Climatico, intitolato “Riscaldamento globale di 1,5 gradi centigradi” e messo in circolazione circa due anni fa, quindi prima dei ritardi negli incontri del Comitato dovuti alla pandemia ancora in corso. Quel documento aveva un compito ben preciso, cioè difendere in modo scientifico e ben documentato la necessità assoluta di non superare il grado e mezzo di aumento della temperatura del pianeta nei prossimi anni. Questo limite per molto tempo era stato indicato in 2 gradi durante diverse Conferenze delle Parti, cioè gli incontri assembleari dell’IPCC, a causa dell’opposizione di molti dei paesi maggiori inquinatori che pretendevano di avere margini più ampi prima di essere costretti a ridurre le produzioni più dannose.

A seguito di quel conflitto interno, l’ultimo documento emesso dal Comitato indicava ancora il limite dei 2 gradi, ma aggiungeva “e se possibile degli 1,5 gradi” e subito dopo usciva il rapporto sopra indicato, a difesa del limite inferiore, considerato evidentemente dagli scienziati vitale per gli equilibri del pianeta. Una sintesi ampia e molto dettagliata di questo rapporto si trova in italiano nel sito dell’IPCC per l’Italia, nella forma di “Sommario per i Decisori Politici”.

I due economisti già nelle prime righe del saggio formulano una accusa molto precisa: “Gli scenari dell’IPCC si basano su delle combinazioni di emissioni negative e oggetto di controversie e su dei cambiamenti tecnologici senza precedenti, mentre si presume una continua crescita del prodotto interno lordo”. I due economisti hanno infatti scoperto che gli autori del rapporto si sono dimenticati di prendere in considerazione lo scenario della decrescita, poiché il prodotto dell’economia non può che diminuire a causa degli interventi sulle attività produttive volti a mitigare i loro effetti negativi sul clima. Come si può ben comprendere, si tratta di un’accusa non trascurabile, in quanto riduce di molto l’attendibilità scientifica delle migliaia di scienziati che lavorano per l’IPCC.

Dopo questa premessa, i due autori avviano una analisi molto approfondita di tutti i 222 modelli utilizzati dai redattori del rapporto, ed evidenziano il fatto che in nessuno di essi si è tenuto conto di queste riduzioni che incidono molto sulle attività economiche e sulla vita sociale di tutti i paesi coinvolti. Inoltre, non contenti, elaborano una serie di modelli, basati su una gamma di ipotesi alternative, che evidenziano ogni volto una varietà di effetti sulle società e sulle strutture produttive. Questi loro modelli sembrano essere molto semplificati (ad esempio sono elaborati in riferimento alla sola energia da carburanti), mentre invece moltiplicano le combinazioni di fattori presi in considerazione.

L’autore del presente articolo non entra minimamente nel merito del prezioso saggio, oltre che per totale incapacità scientifica, non avendo alcuna competenza in materia di modelli, anche perché è interessato solo ad un ‘aspetto molto particolare, cioè all’uso della parola “degrowth”, traducibile con “decrescita” dall’italiano all’inglese, ma che forse non rappresenta un effettivo riferimento ai tanti significati contenuti nel pensiero della decrescita nel nostro paese.

Durante questo loro lavoro, molto faticoso, indubbiamente complesso, ma anche molto accurato e scientificamente corretto, i due economisti si sono anche convinti che sarebbe molto utile tenere conto delle riduzioni dei livelli di produzione e di reddito determinate dalle misure di mitigazione e di adeguamento, perché aprirebbero la strada a ulteriori interventi di questo tipo, ad esempio a politiche come la intensificazione delle forme alternative di energia (quelle di per se non dannose per l’ambiente) e comunque a scelte industriali veramente attente ad evitare danni all’ambiente, sia riducendo l’uso di certe materie prime, sia evitando inquinamenti derivanti da processi produttivi, sia influendo positivamente su scelte dei consumatori realmente alternative.

Nella discussione finale sui risultati ottenuti dai molteplici modelli da loro elaborati, i due economisti si preoccupano molto di mostrare i limiti dell’approccio da essi adottato, ulteriore dimostrazione della loro correttezza ed elevata professionalità. Le loro indicazioni sono quindi ancora più interessanti in quanto viste in una ottica molto critica. La prima affermazione è di particolare rilievo: “I risultati indicano che il percorso con la decrescita mostra i più bassi livelli di rischio per la fattibilità e la sostenibilità, quando vengono messi a confronto con i percorsi adottati nel Rapporto SR1,5 dell’IPCC utilizzando i nostri indicatori di rischio sociale e tecnologico”. In sostanza, i controlli effettuati dai due economisti mettono in luce le conseguenze negative il troppo peso attribuito alla tecnologia oggi dominante da parte degli scienziati dell’IPCC.

Successivamente, viene sottolineato che i modelli utilizzati dai due ricercatori prendono in considerazione solo l’anidride carbonica e non tengono conto della presenza tra gli inquinanti dell’atmosfera del CH3, cioè del metano e del N2O, cioè del diossido di ozono, “per i quali le mitigazioni tecnologiche sono più problematiche di quelle per l’anidride carbonica”. E concludono affermando che “Includere tutti questi fattori dovrebbe aumentare in misura sostanziale le difficoltà delle mitigazioni. Ognuno di questi aumenti rafforza in misura rilevante l’opportunità di prendere in considerazione gli scenari di decrescita, poiché diventa ancora più rischioso l’affidarsi soltanto alla tecnologia per conseguire livelli più alti di mitigazione” E ancora,”quindi, integrando la tecnologia con delle riduzioni della domanda in una prospettiva spinta più avanti nel tempo attraverso il cambiamento sociale, diventa ancora più necessario se vogliamo che il grado e mezzo rimanga un obiettivo possibile da raggiungere”.

Segue una affermazione molto importante, anche se ancora mantenuta nell’ambito della modellistica: “Pertanto è necessario disporre di una gamma di scenari molto più ampia della nostra, se si vuole arrivare a delineare un quadro più completo della fattibilità. Tuttavia, noi continuiamo ad affermare che tale ricerca dovrebbe prendere esplicitamente in considerazione degli scenari di decrescita, ad esempio con le caratteristiche dello “Scenario di trasformazione Sociale” di Kuhnhem e altri, oppure quelle dello Scenario SSPO proposto dalla Otero e altri. Ancora più esplicita e inequivocabile l’affermazione successiva: “Specie in vista di una fattibilità socio-politica, noi siamo convinti che la mancata esplorazione di questi scenari oggi conduce solo a una profezia che si autorealizza: con una ricerca che in maniera soggettiva giudica fin dall’inizio tali scenari come non realizzabili, essi rimangono margina nei discorsi pubblici e quindi inibiscono il cambiamento sociale, e quindi lasciando che essi appaiano ancora meno fattibili agli scienziati e così via. Come affermano McCollum e altri (1) e Pye e altri, (2) chi elabora i modelli si deve assumere la responsabilità collettiva di valutare l’intero spettro delle possibilità future, ivi compresi scenari comunemente considerati politicamente improbabili”.

I due economisti hanno quindi una visione molta seria del loro lavoro e marcano una distanza molto forte dal folto gruppo di scienziati, oltre 2.500, che sono a disposizione dell’IPCC. E infatti continuano ad evidenziare i limiti del loro lavoro e affermano ancora una volta che secondo le loro conoscenze, non esiste alcuno studio approfondito che esamini i motivi che hanno condotto ad omettere degli scenari di decrescita nei 222 modelli costruiti per l’IPCC.

Si arriva così al punto fondamentale che ha motivato la scrittura del presente articolo. Sempre nelle valutazioni finali, i due economisti affermano che una società della decrescita dovrebbe funzionare in modo molto diverso in confronto alla società attuale:

“Quindi i parametri e le strutture dei modelli basati sul passato potrebbero non essere più validi. Inoltre sarebbe necessario riconoscere che il prodotto interno lordo è un indicatore inadeguato del benessere di una società, almeno nei paesi più ricchi. Invece, il punto focale dovrebbe essere orientato direttamente verso la soddisfazione di bisogni umani multi-dimensionali (3). Tutto ciò è particolarmente importante dato che molte proposte di decrescita comprendono un rafforzamento del lavoro non monetizzato, ad esempio come il lavoro di cura e l’impegno in senso comunitario, nonché una demercificazione dell’economia e delle attività orientate verso la condivisione, il dono e il bene comune”.

È indubbio che i due economisti siano informati su alcuni elementi essenziali di una società completamente alternativa al sistema economico dominante, però ho la sensazione che le loro conoscenze non siano particolarmente approfondite e che manchi una scelta decisamente orientata verso un cambiamento radicale (da effettuare oltretutto in tempi piuttosto rapidi). La mia sensazione si basa su alcuni elementi, che vorrei sottoporre al lettore affinché possa giudicare. In primo luogo, i testi citati sono pochi (vedi nota 3), tre di Kallis, e mancano i testi base del pensiero della decrescita (da Ivan Illich a Georgescu Roegen e Serge Latouche, solo per fare qualche nome) che descrivono in tutta la loro portata e profondità i mutamenti radicali che caratterizzano l’alternativa al sistema capitalistico. In secondo luogo, i due ricercatori esprimono la necessità di tener presenti, in eventuali successivi studi, una pluralità di visioni economiche per conseguire un quadro più completo della realtà socio-economica, ad esempio l’economia postKeynesiana, quella ecologica e quella di tipo Marxista, tra loro molto diverse. Infine, i due economisti ritornano al loro campo di specializzazione e citano le modifiche che si potrebbero apportare ai sistemi adottati dall’IPCC, trascurando il fatto essenziale che tutta l’impostazione di questo Comitato internazionale mira soltanto ad apportare mitigazioni e adeguamenti ai sistemi economici esistenti, in una ottica di pura sostenibilità che non tiene di fatto conto della drammaticità dei fenomeni ambientali indotti dalle attività umane. Cosa suggeriscono i due economisti: “Promettenti sviluppi in questa direzione sono messi in evidenza nella rete dei modelli IAM di MEDEAS, che mette in connessione approfondimenti economici nella biofisica con la dinamica dei sistemi e le analisi input-output. Un altro esempio recente è costituito dal modello EUROGREEN, che combina economia post Keynesiana ed ecologica in un coerente quadro di sistemi dinamici stock e flussi, con lo scopo di valutare le conseguenze sociali ed ecologiche di scenari di decrescita nazionali e di crescita verde”.

Anche nel titolo del saggio si parlava di “suggerire la necessità di seguire nuovi percorsi di mitigazione”, una delle parole chiave per comprendere l’effettivo ruolo dell’IPCC, che pur rappresentando in apparenza un grandioso tentativo di tutti gli Stati di collaborare nella soluzione dei problemi climatici, in realtà è chiaramente la sede di un ulteriore tentativo di mantenere intatte le logiche del sistema economico dominante.

In conclusione, mi sembra che non possiamo farci ingannare dall’uso della parola “degrowth”, traducendola con “decrescita”, come se per la prima volta fossimo in presenza di una accettazione in una importante sede internazionale del pensiero della decrescita. Viceversa, possiamo tentare di trarre una qualche utilità dalla lettura di questo corposo saggio. Sarebbe di estrema importanza che economisti come Keyberg e Lenzen concentrassero i loro sforzi analitici sulla transizione dall’economia dominante a quella descritta dal pensiero della decrescita, evidenziando percorsi di trasformazione, connessioni tra i passi successivi e tempi di realizzazione (imposti dalla crisi climatica). Pur con delle inevitabili imperfezioni e limitazioni, costituirebbe uno strumento di azione e uno stimolo al dibattito politico tra le forze in campo, di cui l’intera umanità ha urgente bisogno.

Nei pochi mesi che ci separano dalla prossima Conferenza delle Parti dell’IPCC e dall’apparizione di nuovi rapporti dei loro scienziati, non dovremo mai trascurare i dati relativi al dissesto del pianeta e al rischio della “sesta estinzione di massa”.

Note
McCollum D.L e altri, Energy modellers should explore extremes more systematically in Scenarios, Nat. Energy 5 104-107 (2020)
Pye e altri, Modellin net-zero emissions energy systemes requires a change in approach, Clim. Policy, 21, 222-231 (2020)

3. Kallis G. e altri, Research on degrowth, Annu. Rev. Eviron. Resour. 43,291-316

(2018)

Kallis G. In defence of degrowth, Ecol. Econ. 70 873-880 2011

Hickel J. E Kallis G. Is gren growth possible? New political economy, 25

469-486 2020

Hickel J. It is possible to achieve a good lif for all within planetaries boundaries?

Third World 40 18-35 2019

Hickel J. Degrowth: a theory of radical abundance, Real World Economics

Revue, 54-68 2019

Jewell J. E Cherp A., On the political feasibility of climate change mitigation

pathways: is it too late to keep warming below 1,5 C ? Wires Climate

Change 11 e621 2020

fonte: comune-info.net



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Cosa ci vorrà perché il mondo sia libero dai rifiuti?

 

La combustione di combustibili fossili ha ricevuto la maggior parte dell'attenzione nel dibattito sul cambiamento climatico, che ha portato a progressi vitali. La transizione in rapida evoluzione all'energia solare ed eolica è estremamente importante. Ma circa due terzi delle emissioni di gas serra provengono dai processi lineari di estrazione, estrazione, produzione e smaltimento dei prodotti di consumo.


Il sistema lineare dispendioso ed ecologicamente catastrofico è stato sviluppato nel 20 ° secolo specificamente per arricchire le aziende che hanno sgranato i loro profitti estraendo più risorse naturali - petrolio per produrre plastica, minerale per metallo e legno per carta - senza essere ritenute responsabili del danno ambientale hanno causato. Hanno anche incrementato i profitti, a grandi spese del pubblico, producendo prodotti non per una longevità ottimale, ma con l'obiettivo che diventassero presto obsoleti o fossero cestinati dopo un singolo utilizzo. Ciò, a sua volta, ha costretto l'estrazione aggiuntiva di risorse naturali per ogni nuovo prodotto fabbricato. Come rivelerò più ampiamente nel primo capitolo, l'idea che i prodotti e il loro imballaggio debbano essere gettati via con noncuranza dopo un utilizzo piuttosto che riparati, riutilizzati, o riciclato è stato impiantato nella coscienza pubblica attraverso campagne pubblicitarie. Così era il fascino di "scambiare" con nuovi prodotti prima che fosse necessario sostituirli. All'insaputa dei contribuenti, le aziende responsabili di ciò sono state in grado di ridurre queste spese su di noi; molti dei peggiori trasgressori, come gli estrattori di combustibili fossili, hanno insidiosamente fatto pressioni e guadagnato centinaia di miliardi di dollari in sussidi federali. Il pubblico ha inconsapevolmente pagato miliardi di dollari delle tasse per sovvenzionare lo sviluppo e la crescita delle industrie che hanno beneficiato dell'economia del prendere-fare-sprecare.come gli estrattori di combustibili fossili, hanno insidiosamente fatto pressioni e guadagnato centinaia di miliardi di dollari in sussidi federali. Il pubblico ha inconsapevolmente pagato miliardi di dollari delle tasse per sovvenzionare lo sviluppo e la crescita delle industrie che hanno beneficiato dell'economia del prendere-fare-sprecare. come gli estrattori di combustibili fossili, hanno insidiosamente fatto pressioni e guadagnato centinaia di miliardi di dollari in sussidi federali. Il pubblico ha inconsapevolmente pagato miliardi di dollari delle tasse per sovvenzionare lo sviluppo e la crescita delle industrie che hanno beneficiato dell'economia del prendere-fare-sprecare.

Non c'è motivo per cui dovremmo continuamente pagare una tariffa per l'estrazione di una risorsa naturale ogni volta che utilizziamo un prodotto o per il suo smaltimento dopo averlo utilizzato. Negli ultimi 75 anni siamo stati indotti a pagare costi inutili, mentre la terra, l'aria e l'acqua che possediamo collettivamente sono state spogliate.

Il danno arrecato al pianeta e alle nostre società sta diventando sorprendentemente chiaro. Il cambiamento climatico sta progredendo ancora più rapidamente del previsto. Siccità più frequenti e gravi stanno contribuendo a incendi boschivi sempre più devastanti. Le imponenti esplosioni non solo rilasciano enormi volumi di carbonio nell'atmosfera, ma riducono anche drasticamente il volume di carbonio che le foreste decimate estraggono dall'aria e distruggono le case di centinaia di migliaia di persone ogni anno. Le foreste pluviali, che sono i più potenti estrattori di carbonio, si stanno esaurendo al ritmo di circa 31.000 miglia quadrate all'anno. La ricerca mostra che sia l'ondata di caldo record che ha colpito l'Europa nell'estate del 2020 sia le piogge torrenziali della tempesta tropicale Imelda, che ha causato gravi inondazioni in Texas a settembre, sono state intensificate dai cambiamenti climatici. Le Nazioni Unite stimano che la scarsità d'acqua legata al clima affliggerà i due terzi della popolazione mondiale entro il 2025.

Per molte comunità in tutto il mondo, gli effetti sono già stati devastanti e sono stati avvertiti in modo sproporzionato nelle aree più povere e dalle popolazioni indigene. Come ha rivelato la quarta valutazione nazionale del clima, emessa dal governo federale degli Stati Uniti, le persone che vivono nei quartieri più poveri del paese subiscono la maggiore esposizione sia all'inquinamento che ai danni alla proprietà a causa di eventi meteorologici estremi. Le fabbriche che emettono tossine sono concentrate vicino ai quartieri poveri. Ad esempio, Fortune ha riferito che nella sezione West Louisville di Louisville, Kentucky, che è al primo posto per scarsa qualità dell'aria nelle città americane di medie dimensioni, l'80% della popolazione è nera e l'aria è contaminata da 56 strutture che vomitano tossine. I residenti di West Louisville vivono in media 12.5 anni in meno rispetto ai residenti bianchi dei quartieri ricchi della città.

Per quanto riguarda i popoli indigeni, le Nazioni Unite hanno riferito sugli effetti ad ampio raggio dell'incombente carenza d'acqua dovuta allo scioglimento dei ghiacciai nell'Himalaya; siccità e punire la deforestazione nelle aree dell'Amazzonia popolate da gruppi indigeni; l'esaurimento di renne, caribù, foche e pesci da cui fanno affidamento le popolazioni artiche e l'espansione delle dune di sabbia e la siccità che colpiscono l'allevamento di bovini e capre nel bacino africano del Kalahari.

Non c'è niente di efficiente nel cestinare circa 42 libbre di prodotti elettronici all'anno per americano, quando così tanti di quegli articoli potrebbero essere rinnovati e rivenduti.

Tuttavia, anche se le prove della devastazione sono aumentate, il degrado delle risorse è aumentato negli ultimi dieci anni. Un terzo del suolo terrestre è già scomparso e se gli attuali tassi di esaurimento continuano, il pianeta si esaurirà tra 60 anni. Il tasso di estinzione delle specie sta accelerando, con circa il 20% degli animali terrestri uccisi dal 1900, il 40% delle specie di anfibi e 1 milione di specie ora minacciate di estinzione. Come ha rivelato un flusso costante di foto orribili di balene, delfini e tartarughe marine che vengono trascinati sulla riva con lo stomaco pieno zeppo di plastica, i nostri oceani sono devastati dai rifiuti di plastica. Avendo scoperto che la plastica si scompone in microunità, i ricercatori hanno scoperto che si sono fatti strada in ogni angolo del pianeta e anche nella nostra acqua potabile. Come ha affermato il presidente della Piattaforma intergovernativa di politica scientifica delle Nazioni Unite sulla biodiversità e i servizi ecosistemici in merito a una valutazione allarmante della biodiversità globale del 2020, "Stiamo erodendo le fondamenta stesse delle nostre economie, dei mezzi di sussistenza, della sicurezza alimentare, della salute e della qualità della vita in tutto il mondo".

Di fronte a prove inequivocabili del danno che hanno causato, molte delle società di combustibili fossili, minerarie e manifatturiere, nonché la maggior parte dei grandi proprietari di discariche, hanno combattuto furiosamente contro tutte le misure di riparazione. Ho avuto una visione in prima fila a Recyclebank ea New York City della subdola con cui hanno diffuso bugie e ostacolato il cambiamento. Ho visto come i progressi nell'espansione e nel miglioramento del riciclaggio e nella riduzione dell'uso di materiali degradanti per l'ambiente siano stati ostacolati. Quando il sindaco Michael Bloomberg e io abbiamo proposto di vietare il polistirolo, ad esempio, siamo stati attaccati con una campagna di disinformazione. Nel bel mezzo della crisi del COVID-19, la coalizione pro-plastica ha spudoratamente promosso l'affermazione del tutto infondata che i sacchetti riutilizzabili avrebbero diffuso il virus, approfittando di quella che vedevano come un'opportunità per ribaltare i divieti dei sacchetti di plastica.(La copertura della stampa di questo problema può essere ricondotta a un comunicato stampa del gruppo di lobbying chiamato inganno l'American Progressive Bag Alliance.)

I sostenitori del sistema "prendi-fai-rifiuti" hanno caratterizzato l'economia lineare come il mercato libero ottimamente efficiente. Ma non c'è niente di efficiente nel fatto che circa il 90% della plastica, prodotta con l'uso di una grande quantità di energia, finisce per ammuffire lentamente nelle discariche, quando gran parte di essa potrebbe essere riciclata. (Come vedremo, molte grandi aziende chiedono a gran voce di comprarlo.) Non c'è niente di efficiente nel cestinare circa 42 libbre di prodotti elettronici - la parte in più rapida crescita del flusso di rifiuti - per ogni americano ogni anno, quando così tanti di quelli gli articoli potrebbero essere rinnovati e rivenduti. Non c'è niente di efficiente nel 40 percento del cibo acquistato dagli americani che va sprecato, gran parte di esso viene scaricato quando è ancora buono da mangiare.

fonte: www.greenbiz.com/


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Economia circolare e Covid-19

La Fondazione Ellen MacArthur, da molti anni impegnata nell'affermare la necessità di una transizione verso un'economia circolare, ha di recente pubblicato un report su economia circolare e Covid 19 dove fornisce spunti per uscire dalla crisi pandemica rimodulando l'economia da lineare in circolare



La Pandemia e i diversi lock-down hanno rivelato quanto il nostro sistema sia esposto a rischi, dando avvio ad una delle più gravi crisi economiche in quasi un secolo. Ora, è stato messo a disposizione molto denaro per ripartire e i governi dovranno impegnarsi per dare avvio ad una nuova epoca di sviluppo, dove l'economia circolare giocherà un ruolo fondamentale. La Fondazione Ellen MacArthur, da molti anni impegnata nell’affermazione dell’economica circolare, ha individuato 5 settori chiave su cui investire:

edilizia e costruzioni

imballaggi in plastica

mobilità

tessile e moda

agricoltura e produzione di cibo.

Il mondo è di fronte ad una crisi senza uguali che mette in luce il respiro corto del nostro attuale sistema. In pochissimi mesi la Pandemia ha interrotto i movimenti di milioni di persone, impattando sul lavoro e sulla vita, distruggendo catene produttive e costringendo l’economia a fermarsi.

Tutto questo ha evidenziato la nostra scarsa capacità di contenere ed adattarci ai rischi sistemici legati ad una pandemia in un mondo altamente interconnesso e basato su flussi globali rapidi e senza frontiere per persone, merci e informazioni. Ancora più importante, la pandemia ha messo in luce i limiti del nostro sistema economico basato sul modello lineare, che estrae risorse e crea rifiuti per produrre beni, creando degrado ambientale, cambiamento del clima, perdita di biodiversità e varie altre forme di inquinamento.

La Fondazione Ellen MacArthur ritiene che per uscire dalla crisi post pandemica sia necessario indirizzare gli investimenti nei cinque settori chiave sopra richiamati, che si mostrano più pronti a cogliere la sfida dell'economia circolare e in grado di rispondere sia agli obiettivi di resilienza e rigenerazione a breve e a lungo termine sia del settore pubblico che privato.

La Fondazione prevede, nel sua pubblicazione, per ogni investimento in circolarità due diversi piani:
il primo si sviluppa nell'ottimizzare l'uso di risorse, materiali e nutrienti
il secondo presenta il modo per garantire che i materiali e le sostanze nutritive possano essere rimesse in circolare per mantenere il loro valore, come richiesto dall’economia rigenerativa.

Insieme, le due opportunità rendono il sistema efficace, fornendo valore aggiunto alle imprese, riducendo l'esposizione alla volatilità dei prezzi delle risorse e agli shock dell'offerta e migliorano, al tempo stesso, l'accesso della società civile a prodotti e servizi di alta qualità, convenienti e sicuri.

La Fondazione sottolinea come la transizione all’economia circolare non rappresenti solo un vantaggio economico ma anche ambientale, infatti, il sistema circolare prevede un percorso verso l'ottimizzazione dell'uso delle risorse, che tiene in considerazione la produzione di rifiuti e le varie forme di inquinamento che scaturiscono dai processi di produzione. Inoltre, nella pubblicazione si riconosce un fondamentale ruolo al design - come prerequisito essenziale per realizzare un'economia basata sul modello circolare - che, in combinazione con tendenze come la digitalizzazione e la decarbonizzazione, diviene trasversale per tutti i settori economici.

Si potrebbe obiettare che esistono numerose altre opportunità di investimento per creare un’economia circolare, ma la Fondazione ha selezionato questi 5 settori, ritenendoli “strategici”, in considerazione della loro capacità di:
generare soluzioni alle sfide fondamentali create dalla pandemia (ad esempio aumentando la resilienza e consentendo l'accesso a beni vitali)
soddisfare le priorità governative per la ripresa economica (ad esempio stimolare l'innovazione, creare posti di lavoro, raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile posti dalle NU e gli obiettivi climatici)
offrire un potenziale di crescita per l'economia circolare (guidato, ad esempio, da innovazione, politiche e preferenze dei clienti)
contribuire a ridurre il rischio di shock futuri (ad esempio quelli relativi ai cambiamenti climatici e alla perdita di biodiversità).

Il Covid 19 ha mostrato, a livello globale, la vulnerabilità del sistema nel proteggere l’ambiente, la salute e l’economia, ora, sono molte le voci provenienti da rappresentanti dei governi, delle imprese e della società civile che chiedono una risposta alla crisi pandemia di tipo inclusivo e che non distolga l'attenzione da altre sfide globali. Questi appelli sono cruciali in questo momento, poiché gli investimenti e le azioni politiche, che si metteranno in campo, determineranno la direzione della ripresa economica sia nel breve che nel lungo termine. Ora con circa 10 trilioni di dollari messi a disposizione dai governi di tutto il mondo, c'è un'opportunità senza precedenti di superare la vecchia economia basata sui combustibili fossili e trovare un nuovo equilibrio orientato ad un'economia rigenerativa e sostenibile.

In Europa, ad esempio, un'alleanza rappresentata da politici, imprenditori, eurodeputati e ambientalisti chiede che gli investimenti per la ripartenza siano diretti alla formazione di un "nuovo modello economico europeo: più resiliente, più protettivo, più sovrano e più inclusivo". La presidentessa della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, ha presentato la visione della nuova Europa sottolineando la necessità di fare un salto in avanti e non indietro. Il nostro continente dovrà divenire più resiliente, più verde e più digitale. Al centro di questa trasformazione, ci sarà il Green Deal europeo e la doppia transizione verso la digitalizzazione e la decarbonizzazione.

L'economia circolare si presenta come parte integrante di questa strategia europea del cambiamento. I responsabili politici, i CEO delle imprese ma anche altri personaggi influenti stanno mobilitando le imprese e i governi di tutto il mondo per camminare uniti verso una ripresa resiliente in cui l'economia circolare costituisca sia tra le risposte all'impatto economico della pandemia.

La ripresa economica richiederà il ripensamento, il ripristino e la ri-progettazione dell'intera economia, ci sono in gioco moltissimi soldi, ma la questione fondamentale è capire come e dove questi fondi saranno allocati. Stimolare un cambiamento di sistema che crei resilienza a lungo termine - lavorare per impedire alle economie di collassare, preservare posti di lavoro e reddito, e sostenere allo stesso tempo una transizione verso un'economia dinamica, prospera e a basse emissioni di carbonio - è la sfida chiave del momento.

The circular economy: a transformative Covid-19 recovery strategy

fonte: www.arpat.toscana.it/


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Nell’ex paese delle scarpe le Re-Born Shoes riciclano anche i copertoni

Nel secondo Dopoguerra a Gonars, in provincia di Udine, la famiglia Masolini aveva deciso di riutilizzare i tessuti militari. Ora il pronipote Nicola avvia un’attività in linea con quella esperienza. “Girando per il mondo ho visto gli sprechi dell’economia lineare e ho voluto creare qualcosa di differente”




C’è un paese, nel basso Friuli, che ha una solidissima tradizione artigianale nel settore delle calzature. Gonars, in provincia di Udine, a lungo è stato il paese delle scarpe. “Ai tempi d’oro qui c’erano una trentina di imprese del settore che davano lavoro a più di duemila persone, e producevano calzature rivolte a tutta Europa” ricorda Nicola Masolini. A poco più di 40 anni, la sua impresa è una delle poche rimaste che ha superato la crisi degli anni ‘90. “Ci eravamo specializzati lavorando con un marchio tedesco che si occupa di scarpe da design” continua Masolini. Fino a quando la commessa tedesca si esaurisce, circa cinque anni fa, a causa della politica del governo tedesco che per le aziende nazionali preferisce il reimpiego della numerosissima comunità siriana, arrivata in Germania a causa degli orrori della guerra nei territori dell’Asia occidentale. Così le difficoltà arrivano anche per l’azienda Masolini. Che per superarle sceglie di guardare all’economia circolare e alla propria storia.

Già il bisnonno di Nicola, il signor Valentino Masolini, nel secondo Dopoguerra, aveva deciso di riciclare le scarpe e i tessuti delle divise militari rimasti dopo il conflitto mondiale appena terminato. Materiali di scarto che nella produzione Masolini diventano nuove calzature. Ed è proprio a quello spirito del riuso che il pronipote Nicola, dopo una vita errabonda in giro per il mondo, sceglie di ispirarsi nella progettazione delle Re-Born Shoes: una serie specifica di scarpe che riprende le antiche tecniche di lavorazione e la scelta del recupero dei materiali più disparati. In questo caso si va dalle vele agli asciugamani degli alberghi, dalle tele degli ombrelloni e dei lettini di spiaggia ai copertoni.

A far propendere verso questa scelta etica è l’esperienza. “Dagli anni Duemila fino a due anni fa io ho collaborato con tante aziende africane e con un marchio molto importante che si chiama SoleRebers (azienda calzaturiera internazionale con sede ad Addis Abeba, in Etiopia, ndr) – spiega Nicola Masolini – In questo modo ho avuto l’occasione di girare per il mondo tra fiere ed eventi, da Las Vegas al Vietnam. E ho visto le fabbriche che producevano scarpe seguendo i dettami dell’economia lineare. Così ho potuto constatare di persona consumi e sprechi a livello globale, e mi è venuta la nausea di quel mondo lì. Per questo, quando ho scelto di tornare a casa, ho voluto creare qualcosa di differente”.

La produzione ecosostenibile delle Re-Born Shoes si rivolge nuovamente al mercato europeo, e conta una decina di dipendenti, artigiani di alta formazione professionale che lavorano nel laboratorio di famiglia. Specie di questi tempi, è importante sottolineare che tutti i materiali di recupero vengono lavati e disinfettati con la massima cura. Inoltre ogni fase del processo produttivo – dalla progettazione della calzatura fino al taglio e all’assemblaggio di tutte le sue parti – è condotta manualmente. “A me piacerebbe creare poi una filiera, ma il progetto non è ancora sostenibile – osserva Masolini – perché è nato un anno fa e poi è arrivata la pandemia. Le cose stavano andando bene, a gennaio ero andato a visitare la fiera Neonyt, di Berlino, che è la fiera di moda sostenibile più importante al mondo. Tanti contatti e tante vendite non si sono potute materializzare, quindi ora l’obiettivo è rimanere a galla in attesa di tempi migliori. La nostra produzione si chiama Ideal Special, siamo tra i pochi al mondo a realizzarla e prevede una cucitura che riesce ad attaccare la tomaia alla parte inferiore della scarpa in una maniera più solida”. I modelli delle Re-Born Shoes sono in effetti molto flessibili e, viste le tante particolarità, difficilmente possono essere imitate. C’è però un dato che fa riflettere. A realizzare le scarpe friulane sono operai e operaie molto in là con gli anni.

“Nel mondo della calzatura, ma forse più in tutta l’industria in generale, si fa ancora fatica a recepire il cambiamento – dice Masolini – La mia generazione, ad esempio, guarda con scetticismo al mondo dell’industria tessile. Ecco perché ho voluto sopperire questa mancanza rivolgendomi ai lavoratori che magari sono in questo campo da un po’. Credo che dovremmo far comprendere agli italiani che bisogna privilegiare le aziende sostenibili e che realizzano un’economia circolare, anche se i loro prodotti hanno costi maggiori. Per le scarpe questo è ancora più evidente. La gente è abituata a consumare tanto e male, una scarpa che costa 30 euro vale in realtà 2 euro. Io ho visto la produzione dei più grandi marchi internazionali, che scelgono volutamente di realizzare i propri modelli in Cina: lì la produzione costa 10 euro a scarpa, poi te le ritrovi sul mercato a 150 euro e scegli ugualmente di comprarle. Quando magari noi abbiamo prezzi simili, pure più bassi, ma con costi di produzione molto più alti perché etici. Per questo dico che c’è bisogno di scelte più consapevoli da parte del consumatore”.

fonte: www.economiacircolare.it

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Istruzioni per un nuovo mondo di Guido Viale

Sono già trascorsi cinque anni dalla Laudato si’. L’associazione milanese che prende il nome dall’enciclica di Francesco pubblica ora “Niente di questo mondo ci risulta indifferente”, un libro di grande utilità in cui si abbozzano alcune risposte (le più importanti) non solo ai grandi problemi della nostra epoca, ma anche a molti altri, di apparente minore importanza, con cui i primi si intersecano. Senza questo intreccio tra il grande e il piccolo, tra l’alto e il basso, tra il fondamentale e il minuto, non si costruisce una prassi, cioè non si ritrova il bandolo di ciò che veramente conta né si riesce a risalire da ciò che è alla nostra portata (il locale) a ciò che riguarda tutti: il globale

Guido Viale


Foto di Riccardo Troisi

Niente di questo mondo ci risulta indifferente, a cura di Daniela Padoan (304 pagine, Interno4 Edizioni), è il risultato del lavoro svolto nel corso di più di un anno dall’associazione milanese Laudato si’. Questo libro esce a cinque anni esatti dalla divulgazione di quell’importantissimo documento. Il titolo è tratto da una frase dell’enciclica di papa Francesco a cui l’associazione si ispira.

In quell’enciclica, come nel lavoro dell’associazione, il tema dei rifiuti o, meglio, degli scarti, occupa un posto centrale. Da un lato gli scarti materiali, che sono il risultato di un approccio alla produzione che si estrinseca in una economia lineare: prelievo di risorse vergini, sia rinnovabili che non rinnovabili, dall’ambiente; loro trasformazione in beni di consumo o mezzi di produzione; generazione di scarti sia nel corso della produzione che a conclusione del ciclo di consumo, per “riconsegnarli” all’ambiente in forme e con modalità che non ne consentono né l’inserimento in un nuovo ciclo produttivo (riciclo) né l’inclusione in un nuovo ciclo biologico senza pregiudicare l’equilibrio degli ecosistemi.

Il degrado ambientale e l’inquinamento sempre meno sostenibile sono la conseguenza diretta dell’economia lineare, a cui Francesco contrappone – ma ormai, a livello di enunciazione, sono tutti d’accordo, tranne poi non prendere alcun impegno pratico per tradurla in realtà – i principi di un’economia circolare, che riduca drasticamente i prelievi di risorse vergini ed elimini gli scarti, perché, come fa la natura con i suoi cicli vitali, alimenta ogni nuovo processo produttivo con i residui di quelli precedenti.

La produzione di scarti non si limita alla dimensione materiale dei processi produttivi, ma investe anche i rapporti sociali: chi si abitua a sbarazzarsi delle cose che non gli servono più senza preoccuparsi di accompagnarle verso processi che ne consentano la rigenerazione finisce per adottare lo stesso comportamento verso gli esseri umani, sia in campo economico che nelle relazioni e persino nelle amicizie più strette.

Coloro che non ci servono più, o che non sono più di alcuna utilità pratica, sia come produttori che come consumatori, per il funzionamento del sistema economico sono anch’essi scarti: “rifiuti umani”, residui sociali, ingombri di cui sbarazzarsi nel più breve tempo possibile e al più basso costo possibile, in quelle discariche dell’umanità che sono le tante forme di emarginazione a cui vengono condannate persone, comunità o intere popolazioni considerate superflue.

Tra questi due processi il legame è strettissimo: a pagare maggiormente i costi del degrado dell’ambiente sono coloro che l’economia lineare ha messo ai margini dei suoi processi.

Ho deciso di recensire questo libro, nonostante abbia contribuito alla sua stesura insieme a decine di altri co-autori, perché lo ritengo uno strumento di grande utilità per il lavoro di divulgazione in cui è impegnata l’associazione di cui faccio parte: in esso si abbozzano alcune risposte (le più importanti) non solo ai grandi problemi della nostra epoca, ma anche a molti altri, di apparente minore importanza, con cui i primi si intersecano.

Senza questo intreccio tra il grande e il piccolo, tra l’alto e il basso, tra il fondamentale e il minuto, non si costruisce una prassi, cioè non si ritrova il bandolo di ciò che veramente conta né si riesce a risalire da ciò che è alla nostra portata (il locale) a ciò che riguarda tutti: il globale.

Questa convinzione mi viene dalla consapevolezza – che credo di condividere con tutti i co-autori di questo testo – che la strada verso questo modo di rapportarsi al nostro tempo è già stata aperta dall’enciclica Laudato sì di papa Francesco, che ne ha focalizzato i principi portanti e che fa da sottofondo a tutti i paragrafi in cui si articola il libro.

Si tratta, per riportare a una formulazione semplice un ragionamento ricco di articolazioni, di profondità e di spessore, di due assunti di fondo tra loro strettamente connessi.

Foto di Riccardo Troisi

Il primo asserisce che a subire maggiormente i danni del degrado dell’ambiente sono i poveri della Terra: nel duplice risvolto di classi, gruppi e individui che si trovano al fondo della piramide sociale in ogni paese e di abitanti dei paesi segnati per sempre dalla dominazione coloniale nei confronti di chi di questa ha in vario modo tratto beneficio o lo trae tuttora.

I primi, relegati nei quartieri e nelle zone più inquinate e meno fornite di servizi pubblici delle città; tutti gli altri negli slum delle metropoli di paesi mai veramente usciti dalla sostanza di una condizione coloniale, in territori devastati e impoveriti dal saccheggio delle loro risorse e dagli effetti dei cambiamenti climatici ormai in corso da tempo.

In termini “geopolitici” sono da un alto gli abitanti dei paesi industrializzati o emergenti e dall’altro quelli di territori e nazioni che non si possono più chiamare né “sottosviluppati”, né “in via di sviluppo”, perché è ormai appurato che la loro storia coloniale e post-coloniale li ha in realtà condannati all’esclusione crescente e permanente dai benefici che abitanti di altre nazioni possono aver tratto da ciò che ha accompagnato per alcuni secoli la “civiltà industriale” e il dominio coloniale.

Di fatto, però, ogni paese del pianeta ha ormai al suo interno – per ricorrere a un’espressione ormai in disuso – il suo “Terzo Mondo”, così come in ogni paese c’è chi beneficia dei tanti processi di esclusione dei più.

Sono dunque i poveri della Terra, in questa duplice accezione, che hanno un vitale interesse a salvare l’ambiente per salvare se stessi. Non c’è per loro prospettiva di emancipazione se non facendo propri gli obiettivi di una radicale conversione ecologica – un’espressione introdotta da Alex Langer oltre 25 anni fa, ripresa con convinzione da questa enciclica – di tutto l’assetto sociale ed economico in cui è ormai immersa l’intera specie umana. Giustizia sociale e giustizia ambientale, rispetto di tutta la vita sulla Terra e salvaguardia dei diritti fondamentali di ogni essere umano non possono procedere disgiunti: sono la stessa cosa.

Questo ci introduce al secondo assunto fondamentale che attraversa l’enciclica e che, come il primo, è un filo conduttore di tutta l’articolazione dei temi sviluppati in questo testo: la Terra, il pianeta su cui e dei cui frutti viviamo, il “creato” – per usare il termine a cui fa principalmente riferimento l’enciclica – non ci appartiene, siamo noi che apparteniamo alla Terra.

Alla sua salvaguardia è indissolubilmente legato il destino della nostra specie, ma anche quello di ciascun individuo, come quello di tutto il vivente – di ogni essere animale o vegetale, anche il più apparentemente insignificante, come sottolinea papa Francesco – ciascuno dei quali ha una propria dignità, che deve essere rispettata anche quando decidiamo di potercene o dovercene servire.

Viene così sanzionata la fine di una visione antropocentrica che dagli esordi delle civiltà e con poche eccezioni – molte delle quali ancora vive tra le popolazioni native meno toccate da influenze “civilizzatrici” di matrice occidentale – ci ha condotti fino all’epoca attuale.

Molti le attribuiscono ormai la denominazione di antropocene, perché è la stessa struttura geologica del pianeta, oltre alla corsa all’estinzione di decine di migliaia di specie viventi, a risultare ormai fondamentalmente determinate dall’intervento umano.

Foto di Riccardo Troisi

Si tratta di una strada senza sbocchi, che negli ultimi decenni ha subito un’accelerazione che ci ha già sospinti sull’orlo di un baratro da cui potrebbe non esserci più ritorno e che l’enciclica, come nessun altro documento politico al mondo, denuncia con la determinazione di un anatema. Guai a non invertire rotta! Ma come?

Questo “come”, a cui questo libro non pretende certo di dare risposte definitive, ha spinto a costituire e a tenere in vita da ormai cinque anni un’associazione che prende il nome dall’enciclica e da molti più anni, chi individualmente e chi in altre aggregazioni, a dar vita a un processo di elaborazione condivisa: aprendolo ai contributi di un arco molto vario di approcci sia culturali o politici – ma non partitici – sia di “buone pratiche”, fino a sviluppare, per punti e sottopunti, un documento che ha lo scopo di aiutare i lettori a chiarirsi sulla posizione da prendere nei confronti dei tanti problemi trattati.

Molti di noi nel corso di questo percorso hanno potuto verificare come lo sforzo di collegare con un filo rosso i vari problemi su cui venivamo chiamati a pronunciarci nel corso di dibattiti o confronti – prima svolti in presenza, poi, negli ultimi mesi, solo on line – abbia facilitato enormemente il nostro lavoro di divulgazione, la capacità di capire e farsi capire. Soprattutto se con il termine divulgazione non intendiamo la banalizzazione di una questione, ma lo sforzo per portare allo scoperto il modo in cui questioni tecniche o argomenti anche complessi si intersecano con le esperienze della vita quotidiana a cui tutti possono fare riferimento. Basta guarda all’insieme dei capitoli, ciascuno dei quali si articola in 15-20 paragrafi, per rendersi conto della complessità di questo lavoro.


Da oggi e fino al 28 maggio, Niente di questo mondo ci risulta indifferente, a cura di Daniela Padoan (304 pagine, Interno4 Edizioni) è in vendita promozionale, in formato e-book, al prezzo di soli 4,45 euro. Dal 28, in formato cartaceo, costerà tre volte tanto. Chi è interessato può affrettarsi a ordinarlo e scaricarlo su Ibs, Feltrinelli, Mondadori e Amazon




fonte: https://comune-info.net



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Moda, impatti ambientali e scelte dei consumatori

Sondaggio su un campione di quasi 8000 persone in 7 diversi paesi del mondo per comprendere cosa sanno i consumatori degli impatti ambientali dell'industria della moda e come le politiche ambientali dei brand influiscano sulle loro scelte di acquisto



















Come mette in evidenza il rapporto della Fondazione Ellen Macarthur "A new textiles economy: redesigning fashion's future"  il tessile e l’abbigliamento hanno visto raddoppiarsi, negli ultimi 15 anni, i loro volumi di produzione, il settore dell’abbigliamento muove 1.3 trilioni di dollari a livello mondiale, dando lavoro a più di 300 milioni di persone. Nonostante i molti benefits, questo comparto produttivo si muove ancora seguendo un modello di economia lineare. Le risorse non rinnovabili vengono estratte per produrre tessuti e poi vestiti, che spesso sono utilizzati solo per brevi periodi e destinati velocemente allo smaltimento in discarica o all’incenerimento. A questi si possono aggiungere altri impatti negativi sull'ambiente prodotti dal comparto tessile e abbigliamento, quali, ad esempio:
  • elevate emissioni di gas serra, stimabili in 1,2 miliardi di tonnellate annue
  • elevato utilizzo di sostanze nocive nella produzione di tessuti
  • rilascio di microfibre in plastica nell'ambiente, soprattutto in fase di lavaggio degli indumenti in polyester, nylon e acrilico
  • uso di grandi volumi di fertilizzanti e pesticidi per la coltivazione delle fibre naturali che impattano sul suolo e sulle acque.
Per questo, questo settore industriale, nel suo complesso, comincia a ripensare ai propri modelli, impegnandosi a rendere i propri processi produttivi più sostenibili dal punto di vista ambientale, come dimostra anche la recente sottoscrizione della Carta della moda sostenibile e a favore del clima da parte di importanti marchi.
Ma se l'industria di questo importante comparto industriale sta muovendo i primi passi verso un cambiamento, cosa pensano, invece, i consumatori? conoscono gli impatti ambientali prodotti dal comparto del tessile e abbigliamento? danno importanza e valorizzano l'impegno ambientalista dei brands della moda?
Sustainable Fashion Survey, curato da Ipsos Mori per conto di Changing Markets Foundation e Clean Clothes Campaign, indaga su quale sia la consapevolezza dei consumatori sulla relazione tra moda e inquinamento ambientale e come questa possa influenzare le scelte di consumo.
Il sondaggio è stato realizzato ad ottobre del 2018, coinvolgendo quasi 8000 persone (7.701) in 7 differenti paesi: Gran Bretagna, USA, Francia, Germania, Italia, Polonia e Spagna.
Nel sondaggio venivano proposte domande relative agli impatti ambientali ma anche sociali derivanti dall'industria della moda (T&A), dalle risposte fornite dagli intervistati emerge una certa attenzione per l'ambiente e per gli impatti che su di esso produce l'industria del tessile e della moda.
domanda n. 1 sondaggio
Il 79% degli intervistati, infatti, ritiene importante sapere se questo comparto industriale abbia adottato misure per ridurre l'inquinamento ambientale derivante dalla catena di produzione.
Sempre la stessa percentuale di intervistati considera altresì utile che i brands della moda forniscano informazioni ai consumatori sui loro impegni per tutelare l'ambiente. Su questo aspetto gli Italiani, insieme agli Spagnoli, si mostrano molto sensibili, in generale, le donne più degli uomini (82% vs 76%) attribuiscono importanza alla conoscenza degli impegni a favore dell'ambiente assunti dai brands.
domanda n.2 sondaggioIl 56% degli intervistati si mostra deciso nell'affermare che non comprerebbe da un brand che inquina, a questo proposito i più convinti risultano i consumatori francesi seguiti da quelli italiani e spagnoli.
Solo il 17% si ritiene informato sugli impatti ambientali e sociali prodotti dal mondo della moda, ma il 46% è consapevole che l'industria della produzione di tessuti ed abiti determini impatti ambientali; i più sicuri, a tale proposito, si mostrano gli Spagnoli e i Francesi.
domanda n. 3
Infine, è stato chiesto ai consumatori coinvolti nel sondaggio se avessero compiuto azioni ambientalmente sostenibili negli ultimi 12 mesi, come:
  • comprare vestiti prodotti con materiali sostenibili
  • acquistare scegliendo l'opzione più rispettosa dell'ambiente
  • cercare informazioni sulla politica ambientale di un brand di abbigliamento
  • firmare una petizione o fare qualche altra azione concreta volta a chiedere all'industria del tessile e della moda maggiore sostenibilità ambientale o sociale
  • scrivere o mandare una mail alle industrie tessili o di abbigliamento per chiedere quali fossero i loro impegni ambientali o sociali.
Il 38% degli intervistati ha dichiarato di avere realizzato almeno una di queste azioni, in particolare gli Italiani hanno affermato di avere optato per l'acquisto di abiti prodotti con materiali sostenibili.
fonte: http://www.arpat.toscana.it