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Nell’ex paese delle scarpe le Re-Born Shoes riciclano anche i copertoni

Nel secondo Dopoguerra a Gonars, in provincia di Udine, la famiglia Masolini aveva deciso di riutilizzare i tessuti militari. Ora il pronipote Nicola avvia un’attività in linea con quella esperienza. “Girando per il mondo ho visto gli sprechi dell’economia lineare e ho voluto creare qualcosa di differente”




C’è un paese, nel basso Friuli, che ha una solidissima tradizione artigianale nel settore delle calzature. Gonars, in provincia di Udine, a lungo è stato il paese delle scarpe. “Ai tempi d’oro qui c’erano una trentina di imprese del settore che davano lavoro a più di duemila persone, e producevano calzature rivolte a tutta Europa” ricorda Nicola Masolini. A poco più di 40 anni, la sua impresa è una delle poche rimaste che ha superato la crisi degli anni ‘90. “Ci eravamo specializzati lavorando con un marchio tedesco che si occupa di scarpe da design” continua Masolini. Fino a quando la commessa tedesca si esaurisce, circa cinque anni fa, a causa della politica del governo tedesco che per le aziende nazionali preferisce il reimpiego della numerosissima comunità siriana, arrivata in Germania a causa degli orrori della guerra nei territori dell’Asia occidentale. Così le difficoltà arrivano anche per l’azienda Masolini. Che per superarle sceglie di guardare all’economia circolare e alla propria storia.

Già il bisnonno di Nicola, il signor Valentino Masolini, nel secondo Dopoguerra, aveva deciso di riciclare le scarpe e i tessuti delle divise militari rimasti dopo il conflitto mondiale appena terminato. Materiali di scarto che nella produzione Masolini diventano nuove calzature. Ed è proprio a quello spirito del riuso che il pronipote Nicola, dopo una vita errabonda in giro per il mondo, sceglie di ispirarsi nella progettazione delle Re-Born Shoes: una serie specifica di scarpe che riprende le antiche tecniche di lavorazione e la scelta del recupero dei materiali più disparati. In questo caso si va dalle vele agli asciugamani degli alberghi, dalle tele degli ombrelloni e dei lettini di spiaggia ai copertoni.

A far propendere verso questa scelta etica è l’esperienza. “Dagli anni Duemila fino a due anni fa io ho collaborato con tante aziende africane e con un marchio molto importante che si chiama SoleRebers (azienda calzaturiera internazionale con sede ad Addis Abeba, in Etiopia, ndr) – spiega Nicola Masolini – In questo modo ho avuto l’occasione di girare per il mondo tra fiere ed eventi, da Las Vegas al Vietnam. E ho visto le fabbriche che producevano scarpe seguendo i dettami dell’economia lineare. Così ho potuto constatare di persona consumi e sprechi a livello globale, e mi è venuta la nausea di quel mondo lì. Per questo, quando ho scelto di tornare a casa, ho voluto creare qualcosa di differente”.

La produzione ecosostenibile delle Re-Born Shoes si rivolge nuovamente al mercato europeo, e conta una decina di dipendenti, artigiani di alta formazione professionale che lavorano nel laboratorio di famiglia. Specie di questi tempi, è importante sottolineare che tutti i materiali di recupero vengono lavati e disinfettati con la massima cura. Inoltre ogni fase del processo produttivo – dalla progettazione della calzatura fino al taglio e all’assemblaggio di tutte le sue parti – è condotta manualmente. “A me piacerebbe creare poi una filiera, ma il progetto non è ancora sostenibile – osserva Masolini – perché è nato un anno fa e poi è arrivata la pandemia. Le cose stavano andando bene, a gennaio ero andato a visitare la fiera Neonyt, di Berlino, che è la fiera di moda sostenibile più importante al mondo. Tanti contatti e tante vendite non si sono potute materializzare, quindi ora l’obiettivo è rimanere a galla in attesa di tempi migliori. La nostra produzione si chiama Ideal Special, siamo tra i pochi al mondo a realizzarla e prevede una cucitura che riesce ad attaccare la tomaia alla parte inferiore della scarpa in una maniera più solida”. I modelli delle Re-Born Shoes sono in effetti molto flessibili e, viste le tante particolarità, difficilmente possono essere imitate. C’è però un dato che fa riflettere. A realizzare le scarpe friulane sono operai e operaie molto in là con gli anni.

“Nel mondo della calzatura, ma forse più in tutta l’industria in generale, si fa ancora fatica a recepire il cambiamento – dice Masolini – La mia generazione, ad esempio, guarda con scetticismo al mondo dell’industria tessile. Ecco perché ho voluto sopperire questa mancanza rivolgendomi ai lavoratori che magari sono in questo campo da un po’. Credo che dovremmo far comprendere agli italiani che bisogna privilegiare le aziende sostenibili e che realizzano un’economia circolare, anche se i loro prodotti hanno costi maggiori. Per le scarpe questo è ancora più evidente. La gente è abituata a consumare tanto e male, una scarpa che costa 30 euro vale in realtà 2 euro. Io ho visto la produzione dei più grandi marchi internazionali, che scelgono volutamente di realizzare i propri modelli in Cina: lì la produzione costa 10 euro a scarpa, poi te le ritrovi sul mercato a 150 euro e scegli ugualmente di comprarle. Quando magari noi abbiamo prezzi simili, pure più bassi, ma con costi di produzione molto più alti perché etici. Per questo dico che c’è bisogno di scelte più consapevoli da parte del consumatore”.

fonte: www.economiacircolare.it

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Una piattaforma per fare rete: cambiare dentro per ridurre l’impatto fuori

Una “rete di valore aperto” per promuovere progetti, eventi e buone pratiche volti alla riduzione dell’impronta ecologica individuale in Friuli-Venezia Giulia. Abbiamo intervistato Francesco, che dopo un’esperienza da cervello in fuga in giro per il mondo, è rientrato in Italia per raccontare e diffondere la filosofia Zero Waste attraverso una comunità virtuale territoriale.





Zero Waste FVG è una piattaforma indipendente e no profit basata su tecnologie Open Source il cui scopo è la diffusione della filosofia zero sprechi in Friuli-Venezia Giulia. A parlarcene è Francesco Marino, giovane laureato in Tecnologie Web e Multimediali che abbiamo intervistato a Udine, dove è tornato a vivere da quando, nel novembre del 2018, è rientrato da sei anni di vita all’estero.






Era il 2012, infatti, quando Francesco ha iniziato a viaggiare grazie a degli stage post-laurea, diventando successivamente un digital nomad e allungando la lunga lista di cervelli in fuga del nostro paese. In questo periodo, passato tra Norvegia, Hong Kong, Filippine e soprattutto Spagna, la sua consapevolezza ambientale è cresciuta moltissimo, “di pari passo con un profondo cambiamento interiore, che è l’unica spinta che può davvero portare le persone a sognare ed agire per un mondo migliore”.

Durante la sua permanenza in Asia, in particolare nelle Filippine, ha potuto toccare con mano gli effetti dei cambiamenti climatici e dell’inquinamento su vasta scala. Sicché, dopo un percorso di crescita personale iniziato con lo yoga e durato quattro anni, ha deciso di rimboccarsi le maniche e – prima ancora di rientrare in Italia da Barcellona, ultima tappa della sua esperienza all’estero – ha deciso di fondare prima un gruppo e una pagina Facebook, e poi di aprire il sito www.zerowastefvg.it.





La piattaforma è pensata come un servizio “contenitore”, co-progettato e co-gestito da tutti i membri della comunità che lo utilizzano (più di 1000 nel gruppo Facebook), con l’obiettivo di diventare un bene comune dei cittadini. “Si tratta di un luogo virtuale nel quale chiedere, suggerire, realizzare sondaggi, far nascere collaborazioni tra cittadini, siano essi consumatori, produttori, negozianti, riparatori, comunicatori”, chiarisce Francesco, che sottolinea come il progetto sia su base volontaria per tutti, totalmente orizzontale ed aperto al supporto di chiunque voglia dare una mano.

Sul sito è presente una mappa collaborativa, che dà visibilità ai “punti di interesse etici” che già esistono sul territorio regionale e che vuole essere uno stimolo per tutti a lanciare nuovi progetti e attività in questa direzione. Inoltre è presente un calendario degli eventi che vengono organizzati sul territorio e vari gruppi Telegram per gestire attività specifiche (social, giornate ecologiche, riciclo creativo, ecc.).





Pur non essendo collegato a nessuna delle varie reti internazionali Zero Waste, il progetto di Francesco condivide con esse i valori che ne sono alla base e che possono essere riassunti nei seguenti principi:
- Rifiutare (prevenzione/minimalismo);
- Ridurre (prevenzione/decrescita);
- Riutilizzare (prolungamento della vita dei prodotti);
- Riciclare (recupero della materia);
- Compostare (recupero dell’energia).


Francesco tiene molto a sottolineare come, più che uno stile di vita, Zero Waste sia soprattutto una filosofia. “Se qualcuno mi chiede cosa deve fare per vivere una vita a minor impatto ambientale, io gli rispondo che prima di tutto deve ascoltarsi”, ci dice. Un segno che il cambiamento non si basa tanto (o non soltanto) sulle azioni, pur dettate dal buon senso, ma soprattutto da un lavoro interiore. “Vivere una vita Zero Waste significa anzitutto liberarsi mentalmente del superfluo, a cominciare dal giudizio verso il percorso degli altri”.


E a ben pensarci è solo così che possiamo accettare con maggior tolleranza chi, per i motivi più disparati – a cominciare dalle possibilità di accesso alle informazioni – non ha (ancora) aderito a un cambiamento strutturale. Aumentando le possibilità di aprire qualche ulteriore varco nella cultura dominante, invece di costruire altri muri.

fonte: www.italiachecambia.org