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Economia circolare e Covid-19

La Fondazione Ellen MacArthur, da molti anni impegnata nell'affermare la necessità di una transizione verso un'economia circolare, ha di recente pubblicato un report su economia circolare e Covid 19 dove fornisce spunti per uscire dalla crisi pandemica rimodulando l'economia da lineare in circolare



La Pandemia e i diversi lock-down hanno rivelato quanto il nostro sistema sia esposto a rischi, dando avvio ad una delle più gravi crisi economiche in quasi un secolo. Ora, è stato messo a disposizione molto denaro per ripartire e i governi dovranno impegnarsi per dare avvio ad una nuova epoca di sviluppo, dove l'economia circolare giocherà un ruolo fondamentale. La Fondazione Ellen MacArthur, da molti anni impegnata nell’affermazione dell’economica circolare, ha individuato 5 settori chiave su cui investire:

edilizia e costruzioni

imballaggi in plastica

mobilità

tessile e moda

agricoltura e produzione di cibo.

Il mondo è di fronte ad una crisi senza uguali che mette in luce il respiro corto del nostro attuale sistema. In pochissimi mesi la Pandemia ha interrotto i movimenti di milioni di persone, impattando sul lavoro e sulla vita, distruggendo catene produttive e costringendo l’economia a fermarsi.

Tutto questo ha evidenziato la nostra scarsa capacità di contenere ed adattarci ai rischi sistemici legati ad una pandemia in un mondo altamente interconnesso e basato su flussi globali rapidi e senza frontiere per persone, merci e informazioni. Ancora più importante, la pandemia ha messo in luce i limiti del nostro sistema economico basato sul modello lineare, che estrae risorse e crea rifiuti per produrre beni, creando degrado ambientale, cambiamento del clima, perdita di biodiversità e varie altre forme di inquinamento.

La Fondazione Ellen MacArthur ritiene che per uscire dalla crisi post pandemica sia necessario indirizzare gli investimenti nei cinque settori chiave sopra richiamati, che si mostrano più pronti a cogliere la sfida dell'economia circolare e in grado di rispondere sia agli obiettivi di resilienza e rigenerazione a breve e a lungo termine sia del settore pubblico che privato.

La Fondazione prevede, nel sua pubblicazione, per ogni investimento in circolarità due diversi piani:
il primo si sviluppa nell'ottimizzare l'uso di risorse, materiali e nutrienti
il secondo presenta il modo per garantire che i materiali e le sostanze nutritive possano essere rimesse in circolare per mantenere il loro valore, come richiesto dall’economia rigenerativa.

Insieme, le due opportunità rendono il sistema efficace, fornendo valore aggiunto alle imprese, riducendo l'esposizione alla volatilità dei prezzi delle risorse e agli shock dell'offerta e migliorano, al tempo stesso, l'accesso della società civile a prodotti e servizi di alta qualità, convenienti e sicuri.

La Fondazione sottolinea come la transizione all’economia circolare non rappresenti solo un vantaggio economico ma anche ambientale, infatti, il sistema circolare prevede un percorso verso l'ottimizzazione dell'uso delle risorse, che tiene in considerazione la produzione di rifiuti e le varie forme di inquinamento che scaturiscono dai processi di produzione. Inoltre, nella pubblicazione si riconosce un fondamentale ruolo al design - come prerequisito essenziale per realizzare un'economia basata sul modello circolare - che, in combinazione con tendenze come la digitalizzazione e la decarbonizzazione, diviene trasversale per tutti i settori economici.

Si potrebbe obiettare che esistono numerose altre opportunità di investimento per creare un’economia circolare, ma la Fondazione ha selezionato questi 5 settori, ritenendoli “strategici”, in considerazione della loro capacità di:
generare soluzioni alle sfide fondamentali create dalla pandemia (ad esempio aumentando la resilienza e consentendo l'accesso a beni vitali)
soddisfare le priorità governative per la ripresa economica (ad esempio stimolare l'innovazione, creare posti di lavoro, raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile posti dalle NU e gli obiettivi climatici)
offrire un potenziale di crescita per l'economia circolare (guidato, ad esempio, da innovazione, politiche e preferenze dei clienti)
contribuire a ridurre il rischio di shock futuri (ad esempio quelli relativi ai cambiamenti climatici e alla perdita di biodiversità).

Il Covid 19 ha mostrato, a livello globale, la vulnerabilità del sistema nel proteggere l’ambiente, la salute e l’economia, ora, sono molte le voci provenienti da rappresentanti dei governi, delle imprese e della società civile che chiedono una risposta alla crisi pandemia di tipo inclusivo e che non distolga l'attenzione da altre sfide globali. Questi appelli sono cruciali in questo momento, poiché gli investimenti e le azioni politiche, che si metteranno in campo, determineranno la direzione della ripresa economica sia nel breve che nel lungo termine. Ora con circa 10 trilioni di dollari messi a disposizione dai governi di tutto il mondo, c'è un'opportunità senza precedenti di superare la vecchia economia basata sui combustibili fossili e trovare un nuovo equilibrio orientato ad un'economia rigenerativa e sostenibile.

In Europa, ad esempio, un'alleanza rappresentata da politici, imprenditori, eurodeputati e ambientalisti chiede che gli investimenti per la ripartenza siano diretti alla formazione di un "nuovo modello economico europeo: più resiliente, più protettivo, più sovrano e più inclusivo". La presidentessa della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, ha presentato la visione della nuova Europa sottolineando la necessità di fare un salto in avanti e non indietro. Il nostro continente dovrà divenire più resiliente, più verde e più digitale. Al centro di questa trasformazione, ci sarà il Green Deal europeo e la doppia transizione verso la digitalizzazione e la decarbonizzazione.

L'economia circolare si presenta come parte integrante di questa strategia europea del cambiamento. I responsabili politici, i CEO delle imprese ma anche altri personaggi influenti stanno mobilitando le imprese e i governi di tutto il mondo per camminare uniti verso una ripresa resiliente in cui l'economia circolare costituisca sia tra le risposte all'impatto economico della pandemia.

La ripresa economica richiederà il ripensamento, il ripristino e la ri-progettazione dell'intera economia, ci sono in gioco moltissimi soldi, ma la questione fondamentale è capire come e dove questi fondi saranno allocati. Stimolare un cambiamento di sistema che crei resilienza a lungo termine - lavorare per impedire alle economie di collassare, preservare posti di lavoro e reddito, e sostenere allo stesso tempo una transizione verso un'economia dinamica, prospera e a basse emissioni di carbonio - è la sfida chiave del momento.

The circular economy: a transformative Covid-19 recovery strategy

fonte: www.arpat.toscana.it/


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“Siamo troppo poco circolari per salvare il Pianeta”. I dati del Circularity Gap report 2021

Dal Circularity Gap Report 2021 emerge che l'attuale tasso di circolarità all'8,6% va almeno raddoppiato. Per rimanere sotto i 2°C di aumento di temperatura media globale, il sistema deve puntare su strategie circolari che reimmettano più materiali nell'economia. Da dove partire? Mobilità, abitazioni e nutrizione










Ancora una volta Circle Economy, organizzazione dedicata ad accelerare la transizione verso un’economia circolare, presenta il suo studio annuale, Circularity Gap Report 2021, nel corso del World Economic Forum virtuale di Davos. La Circularity Gap Reporting Initiative si offre come punto di riferimento della ricerca sulla circolarità, misurando lo stato dell’economia globale e le potenzialità di una transizione verso un modello circolare.

Circolarità in calo rispetto al 2018

Il dato di partenza di ogni report è sempre lo stesso: quanto è circolare l’economia attuale? Il nuovo studio riporta che solo 8,6% dei materiali è reinserito nell’economia, una cifra più bassa rispetto al 9,1% misurato da Circle Economy nel suo primo report del 2018. Questo vuol dire che per il restante 91,4% l’economia globale persiste con una visione ‘produci-usa-getta’, che ha portato il consumo di materiali a toccare i 100 miliardi di tonnellate all’anno. “Usiamo sempre più cose e non le reinseriamo nella nostra economia – spiega Marc de Wit, Direttore Strategic Alliances presso Circle Economy e iniziatore del Circularity Gap Report – non siamo in grado di riportarle nell’economia, ecco perché tutti gli indicatori sono in rosso. Continuiamo a usare più cose, non siamo in grado di farle tornare indietro, di usarle più a lungo nella nostra economia, dobbiamo rallentare un po’ il ritmo. Usare meno per soddisfare i nostri bisogni”.

Materiali ed emissioni: una sfida aperta

A questo quadro si aggiunge il dato del surriscaldamento globale che non si arresta, il mondo è diventato già più caldo di 1°C rispetto ai livelli pre-industriali. La riflessione del Circularity Gap Report 2021 gira infatti intorno alla relazione molto stretta tra consumo di materiali ed emissioni di gas serra. Secondo i calcoli del report, il 70% delle emissioni sono da associare proprio all’uso e gestione dei materiali necessari a soddisfare le esigenze della società. L’analisi di Circle Economy conferma il ruolo centrale delle strategie di economia circolare: attuarle può significare tagliare le emissione del 39% rispetto ai livelli del 2019 (22,8 miliardi di tonnellate), facendo così in modo che l’aumento della temperatura media resti entro i 2°C. “Questo Circularity Gap Report per la prima volta non solo guarda alla circolarità in sé, ma a come la circolarità influenza altre questioni globali – interviene Matthew Fraser, alla guida del Circularity Gap Reporting Initiative -. L’economia circolare operante a livello globale ha il potenziale per colmare completamente il gap di emissioni: vuol dire che se adottiamo una roadmap con strategie di economia circolare, entro il 2032 possiamo raggiungere un percorso ben al di sotto dei 2°C. E raggiungere la neutralità”. Aumentando la circolarità del sistema globale del 7,7%, e quindi arrivando a un dato quasi doppio rispetto a quello attuale, si colmerebbe il gap di emissioni, ovvero il divario tra il livello delle emissioni previste per il 2030 e i livelli corrispondenti all’obiettivo di mantenere l’aumento delle temperature entro i 2 o meglio 1,5° C. Proprio sul recente Emission Gap Report del Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite (United Nations Environmental Programme – Unep): “Stiamo percorrendo la strada che porta a un riscaldamento globale elevato – prosegue Fraser -: se guardiamo a dove saremo con il business-as-usual entro il 2030, gli impegni e le politiche attuali delle nazioni ci porteranno solo al 15% del percorso per stare sotto i 2 °C, il restante 85% è economia circolare”.

Riprogettare la mobilità

Il report evidenzia tre settori che da soli producono il 70% delle emissioni globali: mobilità, abitazioni e nutrizione. Muoversi verso strategie circolari in queste tre aree porterebbe dei vantaggi importantissimi in termini di riduzione delle emissioni. Tra le tante attività economiche che generano emissioni di gas serra “la mobilità è la principale – spiega ancora Matthew Fraser – una cosa di cui ci siamo resi conto lo scorso anno, con il coronavirus e il lockdown, è che ridurre i viaggi può portare lontano in termini di riduzione delle emissioni. Il risparmio maggiore può derivare dal viaggiare di meno. Quello che attendiamo con ansia nella ripresa post Covid è pensare a modelli più permanenti di lavoro virtuale, spazi di lavoro flessibili, da remoto. Ma guardiamo anche a nuovi modelli di business: i modelli di condivisione stanno esplodendo nelle grandi città cambiando fondamentalmente le persone riguardo al possesso di auto”. Ma sicuramente il passo avanti in ottica circolare è ripensare l’intero modello: “Unirlo al design circolare di questi veicoli, se sono progettati per la longevità, la ripetibilità e la riciclabilità: questo è il punto di svolta” secondo Fraser.

Ripensare l’abitare

Anche tutto ciò che è abitare secondo gli autori del Circularity Gap report 2021 deve essere ripensato, interrogandosi su come è possibile utilizzare meglio lo spazio. Una progettazione circolare deve guardare non solo allo smantellamento e alla riciclabilità, ma anche alla modularità e a come poter rendere gli spazi adattabili e funzionali in modi diversi. “Il report vuole capire come possiamo massimizzare l’uso di input secondari (materie prime seconde), l’uso di rifiuti, come chiudere il ciclo. È su questo che bisogna agire nei prossimi 10 anni. Ci sono molti esempi in tutto il mondo, si tratta di guidare l’innovazione nel settore e riprodurre in scala. L’ispirazione c’è, bisogna metterla in pratica”.

Cambiare il modo di produrre e consumare cibo

Se si parla di emissioni e impatti non si può non nominare il settore alimentare. La catena alimentare che ci nutre ogni giorno è ormai globale e immensa, e a dover modificare le condotte sono sia i produttori sia i consumatori. “Se guardiamo ai Paesi occidentali, dobbiamo davvero ripensare ai nostri consumi, specialmente all’eccesso di consumo, a malattie come l’obesità e ai tassi di spreco alimentare superiori al 30%”. Secondo Fraser i maggiori produttori di cibo dovrebbero riflettere sull’utilizzo di pratiche come l’agricoltura rigenerativa capace di reimmettere costantemente carbonio nel suolo, creare biodiversità, costruire più diversità nell’economia locale.

Misurare per migliorare

Con il suo annuale lavoro sullo stato dell’economia circolare globale, la Circularity Gap Reporting Initiative ha portato alla luce il potere dei dati: “Alcuni anni fa non sapevamo nemmeno quanto fossimo circolari. Ora siamo in grado di eseguire quell’analisi a livello di Paese, anche a livello regionale” racconta Fraser. La nuova iniziativa portata avanti da Circle Economy è una piattaforma online partecipata dove si dia vita ai dati. In questo modo non si riportano semplicemente numeri che gli attori locali possono analizzare per capire i loro progressi, ma questo strumento permetterà loro di imparare da altri grandi esempi stimolanti. La Circularity Gap Reporting Initiative ha l’obiettivo di andare oltre la sua ricerca, come racconta il direttore Marc de Wit: “Quello che cerchiamo di fare con il rapporto è di fotografare il quadro globale, come organizzazione lavoriamo con città in tutto il mondo, con nazioni e Stati. Ma siamo ispirati a fare molto di più in tutto il Pianeta”.

fonte: economiacircolare.com


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Come iniziare a progettare con plastica riciclata

Ospitiamo l'intervento della nota azienda di design Pezy Group, che ci spiega come l'economia circolare è innanzitutto un modo di pensare differente. "Una delle sfide che dobbiamo fronteggiare è comprendere come sfruttare al meglio la versatilità delle proprietà meccaniche ed estetiche che i materiali offrono"











Durante gli ultimi 15 anni, come azienda di design, Pezy Group è stata spesso coinvolta nello sviluppo di prodotti sostenibili. Sulla base dei molti insegnamenti che abbiamo acquisito, ci siamo creati un bagaglio di conoscenze su come utilizzare in modo corretto la plastica riciclata. Condividendo quello che abbiamo imparato con voi, spero di dare un impulso al processo di sostituzione della plastica vergine con quella riciclata, quanto questo è possibile. Questo articolo vi parlerà del ruolo che le plastiche riciclate hanno nello sviluppo di un prodotto, a di come iniziare a progettare proprio con questo tipo di materiali.

Una delle sfide che dobbiamo fronteggiare noi, in qualità di designer, è comprendere come sfruttare al meglio la versatilità delle proprietà meccaniche ed estetiche che i materiali offrono. Pensiamo in termini di applicazioni e per farlo dobbiamo tradurre le proprietà del materiale in proprietà dell’applicazione. I fornitori di plastica, d’altra parte, pensano in termini di materiali e di proprietà dei materiali. Pertanto, è necessario creare una forte connessione proprio tra designer e fornitori di materiali: lo scopo è far coincidere le capacità dei materiali con le prestazioni delle applicazioni. Questo vale per la plastica vergine, ma anche per la plastica riciclata.

Da 3 anni e mezzo, Pezy è parte del progetto PolyCE, abbreviazione che sta per Post-Consumer High-tech Recycled Polymers for a Circular Economy. Si tratta di un progetto finanziato dall’Unione Europea attraverso il programma per la ricerca e l’innovazione Horizon 2020. Il progetto è portato avanti da un partenariato di attori europei che insieme hanno raccolto la sfida di rendere il ciclo di vita della plastica delle apparecchiature elettriche ed elettroniche più sostenibile. Ad oggi, sono molti gli ostacoli in questa catena di valore che devono essere rimossi, che riguardano la progettazione, la produzione, l’utilizzo e il recupero della plastica: tutti gli step di questa catena devo agire insieme per mantenere il livello di qualità e quantità della plastica il più alto possibile.

Ma come designer, è soprattutto la fase di recupero della plastica ad essere sfidante. La maggior parte delle volte siamo ancora abituati a pensare attraverso modelli lineari: estrazione di risorse-produzione-generazione di rifiuti. Creare prodotti che soddisfino tutti i passaggi all’interno di un modello circolare, significa innanzitutto che dobbiamo comprendere questi passaggi. Dobbiamo realizzare prodotti in modo che i materiali fluiscano attraverso di essi. Questo è incredibilmente difficile, poiché ci sono molti altri step dopo il fine vita del prodotto che noi non conosciamo. Abbiamo ovviamente un’idea approssimativa di cosa accadrà, ma non lo conosciamo in dettaglio. Potremmo dire che c’è un mondo completamente nuovo da scoprire se vogliamo diventare pienamente circolari. Ora quello che vediamo sono due mondi distinti:
il “nostro” mondo, quello dei designer, cioè il mondo dello sviluppo del prodotto
il mondo del recupero dei rifiuti

Questi mondi devono essere connessi e devono rispondere l’uno all’altro. Per farlo, definiamo due porte (gate in inglese) che fanno da collegamento tra di loro. Gate A, Design for Recycling (design per il riciclo) e Gate B, Design from Recycling (design da materiale riciclato).

Il Gate A è il gate in cui noi, come progettisti, ci chiediamo cosa possiamo fare per aumentare la qualità e la quantità di plastica durante la fase di recupero. Siamo noi quindi che dobbiamo sapere quali regole di progettazione dobbiamo applicare per creare un design che si adatti alle fasi di riciclo. A questo scopo, in collaborazione con il consorzio di partner del progetto PolyCE abbiamo creato delle linee guida focalizzate sulla plastica utilizzata nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche. Le linee guida verranno pubblicate intorno a febbraio del prossimo anno.

Il Gate B è quello in cui chiediamo ai fornitori di plastica riciclata che tipo di materiali possiamo ottenere da loro, per essere in grado di sviluppare i nostri prodotti in modo tale da poter implementare questi materiali nei prodotti che progettiamo.

Progettare con plastica riciclata in realtà non è diverso dal progettare con plastica vergine. In base alle proprietà del materiale, viene creato un progetto per soddisfare i requisiti dell’applicazione. Ciò che è diverso, però, sono i materiali stessi con le loro proprietà specifiche. Come sappiamo già dall’utilizzo di diverse qualità di materiale vergine, ognuna di esse ha un suo comportamento specifico a livello chimico, meccanico, estetico o di lavorazione. Questo non è diverso per quanto riguarda la plastica riciclata. Una certa tipologia di materiale vergine non è corrispondente a una certa tipologia di materiale riciclato, e quindi un design realizzato con una certa qualità di materiale vergine, ad esempio di polipropilene (PP), non può essere semplicemente sostituito da un PP riciclato aspettandosi che si comporti esattamente allo stesso modo del vergine. Il comportamento potrebbe essere simile, ma non sarà identico. Pertanto, tutta la conoscenza integrata di designer, produttori di apparecchiature e produttori di stampi risulta oggi meno utile. In passato ci si è basati sull’aspettativa che i materiali vergini potessero essere sostituiti, 1 contro 1, da materiali riciclati: questo ha portato ad avere brutte esperienze con l’utilizzo di materiale riciclato a causa delle quali, le aziende sono diventate riluttanti a provare nuove qualità di materiali, sia nei prodotti già esistenti e soprattutto nei nuovi prodotti.

Per sviluppare e produrre parti in plastica affidabili, sono 4 gli aspetti che dovrebbero essere in equilibrio tra loro: il materiale (ad esempio la qualità della plastica) di cui è composto il pezzo, la geometria, lo stampo e il processo di produzione. Quando, per un nuovo prodotto in fase di sviluppo, si sceglie un materiale, spesso si sceglie una plastica che è ben nota per le sue proprietà estetiche e meccaniche. La maggior parte delle volte è stato utilizzata in precedenza, e quindi se ne ha internamente anche una conoscenza applicativa. Si tratta della banca dati della conoscenza dei materiali che si forma in una azienda e che è stata costruita grazie all’esperienza acquisita dai designer durante lo sviluppo di prodotti precedenti. Quanto un designer sceglie di lavorare con la plastica riciclata, la conoscenza dei materiali basata sull’utilizzo di plastica vergine non può essere utilizzata. C’è cioè una lacuna di conoscenza.

Qui si trova anche la risposta alla domanda: come iniziare a progettare con plastica riciclata? Prima di iniziare a sviluppare nuovi prodotti, bisogna eliminare questa lacuna di conoscenza per prevenire allo stesso tempo i rischi legati a due grandi incertezze: 1) la fattibilità del rispetto dei requisiti delle funzionalità delle parti del prodotto da sviluppare e 2) le prestazioni del materiale sconosciuto.

Per ridurre la complessità, noi consigliamo di partire con la conoscenza del materiale. Iniziare quindi con lo scouting di plastica riciclata che potenzialmente potrebbe soddisfare le nostre esigenze. Quindi passare ad applicare il materiale in un prodotto esistente o parti di un prodotto, che è già ben noto in ogni suo aspetto.

Utilizzando stampi esistenti, impareremo a conoscere le possibilità legate alle plastiche riciclate post-consumo, applicandole e confrontandole con le parti del prodotto che attualmente contengono invece plastica vergine. Il suggerimento è quello di iniziare con forme semplici per avere una prima idea sul comportamento del materiale durante la lavorazione e per determinarne le proprietà meccaniche o di lavorazione. Una tipica sfida per il PP, ad esempio, è la ricerca attraverso l’impiego di questo materiale della rigidità (caratteristica dei cosiddetti omopolimeri) o della resistenza all’urto (caratteristica dei cosiddetti copolimeri).

La plastica riciclata post-consumo è costituita da una miscela di materiali in cui entrambe le proprietà vengono parzialmente perse. Aggiungendo fibre al materiale è possibile aumentarne la rigidità, ma poi c’è il rischio che diventi troppo fragile e che non superi i test di impatto. Trovare un equilibrio e imparare quali sono i limiti dei materiali è il punto di partenza per i designer per progettare geometrie che li compensino.

fonte: economiacircolare.com


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Ecodesign. Ovvero, come superare un errore di sistema

Smontaggio, riparabilità, recupero e riutilizzo: con i suoi criteri ambientali l'ecoprogettazione dei prodotti può giocare un ruolo fondamentale nella riduzione dei rifiuti. Paola Sposato, ricercatrice Enea, spiega i vantaggi delle strategie circolari e dei nuovi modelli di business











La maggior parte degli impatti ambientali che un prodotto origina lungo il suo ciclo di vita sono la conseguenza delle scelte operate in fase di progettazione. Molti rifiuti, infatti, potrebbero essere eliminati progettando una nuova generazione di prodotti pensati sin da principio per ridurre, minimizzare ed ottimizzare il consumo di risorse lungo l’intero ciclo di vita, cioè far sì che risorse e materiali siano non solo impiegati in modo efficiente nei prodotti, ma anche pensati per continuare a “vivere” nelle fasi di post-uso, dopo che i prodotti di cui fanno parte cessano di svolgere la loro funzione.

Si tratta quindi di intervenire su un errore di progettazione, che è anche un errore di sistema: in un modello di economia lineare, l’uscita di un bene dallo stabilimento coincide spesso con la fine dell’interesse da parte dell’azienda per ogni singolo materiale che compone quel prodotto, sebbene abbia sostenuto considerevoli costi economici e ambientali per costruirlo (materie prime, processi, energia, acqua eccetera). Ed è proprio questo abbandono di considerazione la principale criticità del modello.

Ecoprogettazione vuol dire integrare con i criteri tradizionali, come la forma e la funzione, requisiti di sostenibilità e considerazioni ambientali lungo l’intera catena del valore: dalle fasi di pre-produzione, passando per la distribuzione e il consumo. Certamente, la prevenzione di sprechi e inefficienze è alla base di una progettazione sostenibile: dematerializzare, ottimizzare i processi produttivi e scegliere materiali riciclati/riciclabili, biodegrabili, compostabili eccetera, sono tutti criteri progettuali fondamentali. Sappiamo inoltre come l’effettiva riciclabilità finale di un materiale passi per il livello di disassemblabilità del bene (la possibilità cioè di smontarlo in più parti) che abbiamo acquistato, coerentemente con il sistema di riciclo per cui è stato pensato.

Ma se da un lato queste strategie sono oggi maggiormente note e vedono una loro applicazione sempre più diffusa, ciò che è ancora carente è la conoscenza e applicazione di strategie di chiusura dei cicli che intervengano sin dalla fase di uso.

Oltre al disassemblaggio infatti – prerogativa imprescindibile, capace di far recuperare i materiali di un prodotto a fine vita – sono molte altre le strategie di chiusura dei cicli che consentono di evitare la produzione di rifiuti prima ancora che il prodotto venga dismesso dal consumatore. Si tratta delle cosiddette strategie di estensione ed ottimizzazione della vita utile del prodotto.

In quest’ottica un prodotto deve essere concepito per garantirne la riparabilità ed aggiornabilità delle parti e componenti nonché la rigenerazione, il riutilizzo e la rifabbricazione. Questo consente da un lato di aumentare il tasso di utilizzo dei prodotti, favorendo una nuova generazione di beni più durevoli, evitando le conseguenze dell’obsolescenza programmata, dall’altro di implementare azioni e sistemi per reimpiegare le risorse nei processi produttivi evitando l’utilizzo e acquisto di altre risorse vergini o critiche.

Tuttavia la possibilità che un prodotto progettato per essere riparabile venga poi effettivamente riparato dipende fortemente dallo scenario d’uso e di restituzione in cui è inserito (sistemi di logistica inversa, centri di riparazione ecc..). Tenere in considerazione questi aspetti è dunque fondamentale e rappresenta la condizione necessaria per una progettazione veramente circolare e sistemica.

Progettare relazioni circolari

Oltre a progettare un prodotto smontabile, recuperabile e riparabile, l’ecodesign deve essere quindi accompagnato anche da una “progettazione di relazioni circolari” tra tutti gli attori della catena del valore: da chi produce il bene, passando per chi lo consegna (sistemi di distribuzione) e chi lo detiene temporaneamente (il consumatore), fino a tutti i sistemi e attori necessari affinché i flussi di risorse possano tornare indietro per essere riutilizzati e valorizzati in altri processi produttivi.

Le strategie di design circolare rappresentano quindi dei veri e propri modelli integrati di produzione e consumo, nuovi modelli di business che richiedono un cambio di mentalità nella cultura aziendale, che è chiamata ad abbandonare le logiche dell’economia lineare in favore di un cambio di paradigma in cui i concetti di collaborazione e sharing economy, condivisione ed accesso ai beni in luogo del possesso, divengono cruciali per la transizione ecologica. Determinanti in quest’ottica anche fattori abilitanti quali le piattaforme digitali e L’IoT (Internet of things). Non si tratta sicuramente di un percorso facile e immediato, e necessita di essere supportato e facilitato da istituzioni e mondo della ricerca, da una maggiore formazione anche a sostegno della nascita di adeguate e nuove figure professionali.

Al tempo stesso rappresenta un’occasione unica per le imprese di diventare più competitive e consolidare il rapporto con i consumatori, sempre più esigenti e critici nei loro comportamenti di acquisto in relazione agli aspetti ambientali e che, attraverso piattaforme di condivisione, stanno sempre più diventando loro diretti concorrenti.

I modelli di progettazione circolare rendono un’azienda più resiliente, affidabile e indipendente dalle fluttuazioni del mercato delle materie prime. Puntare al recupero di prodotti, componenti e materiali attraverso le strategie di estensione della vita utile significa infatti avere un maggior controllo su quante e quali tipologie di risorse è possibile recuperare in ogni fase del ciclo di vita. Significa, in altri termini, pianificare la produzione con sistemi di tracciamento e monitoraggio alla base di una gestione efficiente delle risorse necessari per massimizzare la produttività delle risorse già acquistate ed impiegate nei prodotti. Tenendo in considerazione questa prospettiva, i vantaggi dell’ecoprogettazione e dei sistemi circolari diventano alleati indispensabili per superare quell’errore di sistema.

fonte: economiacircolare.com


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Il riciclo in edilizia può dare una grande mano alla riduzione delle emissioni









L’industria delle costruzioni è tra i settori più inquinanti al mondo. Nei paesi sviluppati rappresenta circa il 40% delle emissioni di CO2 ed è responsabile di terzo di tutti i rifiuti generati. Senza contare che il suo peso sulle materie prime è altissimo. Per ridurre l’impatto del settore, una delle strategie attuabili è quella di aumentare la quota di riciclo in edilizia. Materie prime seconde ed elementi di recupero possono alleggerire la fase iniziale, mentre un’attenta gestione circolare dei rifiuti – da costruzione o demolizione – è in grado rendere più sostenibile il fine vita. “Dobbiamo mitigare questo impatto il più rapidamente possibile”, afferma Jan Brütting, completato il suo dottorato all’EPFL all’interno dello Structural Xploration Lab (SXL). “Un modo per raggiungere questo obiettivo è implementare sistematicamente i principi dell’economia circolare”.

Il ricercatore si è focalizzato sulla fase di progettazione. Ma piuttosto che suggerire di riciclare materiali esistenti fondendo parti metalliche per dare loro una nuova forma, Brütting invita le aziende, gli ingegneri strutturali e gli architetti a basare il loro progetto sui componenti di seconda mano, senza trasformarli. Soprattutto perché la loro affidabilità e le loro proprietà tecniche sono dimostrate. “Si tratta di cambiare tutto ciò che abbiamo imparato a fare finora”, avverte. Per raggiungere questo obiettivo, mancano ancora alcuni strumenti fondamentali. Ecco perché lo scienziato si è dedicato negli ultimi 4 anni allo sviluppo di un software che permettesse di progettare strutture analizzandone il ciclo di vita. Il programma si basa sul riutilizzo di travi, pilastri e barre di acciaio, ma potrebbe incorporare un domani anche altri materiali, come legno e cemento.

Come funziona? L’ingegnere o l’architetto che progetta o modifica una struttura, inserisce le sue caratteristiche generali nel programma, insieme a una descrizione dello stock di componenti riutilizzabili e di seconda mano. Il software esegue quindi una prima ottimizzazione della forma della struttura, in modo da utilizzare il minor materiale possibile. Successivamente, – e questa è una delle innovazioni del progetto – fornisce forme strutturali alternative che soddisfino vari obiettivi di sostenibilità. Ad esempio, può cambiare il layout della struttura, selezionando e posizionando anche i componenti dallo stock di risorse, in modo da ridurre al minimo l’impronta di carbonio.

Lo studio svolto ha anche fornito parametri di riferimento per confermare che la pratica del riciclo in edilizia consegna una profonda riduzione delle emissioni di gas serra: fino al 60%, nonostante un aumento della massa del struttura del 40%. Brütting ha integrato nel software anche la possibilità di progettare strutture temporanee specifiche per eventi, basate su travi lineari e connettori sferici. “La nostra soluzione offre molte più opzioni di design rispetto agli attuali sistemi di costruzione modulare. Questo potrebbe interessare le aziende specializzate nel riutilizzo dei materiali”.

fonte: www.rinnovabili.it


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Jeans su misura in 3d: la sfida alla moda usa e getta

















Ordini annullati, scorte in eccesso, catene di approvvigionamento interrotte: la pandemia ha messo a nudo alcune sfide fondamentali del modo in cui i nostri vestiti sono progettati, ordinati, fabbricati e venduti; oppure messi in discarica, inceneriti o venduti sui mercati secondari. Questi impatti sono stati aggravati dal Covid-19, ma l’industria dell’abbigliamento e ad alta intensità di risorse aveva bisogno di una riprogettazione ben prima che arrivasse la pandemia.


L’industria della moda è uno dei principali utilizzatori di prodotti chimici e a sua volta è responsabile per il 20% dell’inquinamento delle acque e delle emissioni di gas nocivi nell’aria.


Per questo molte società si stanno impegnando a cambiare le proprie catene di produzione e nella ricerca di nuovi modi in cui le persone acquistano i propri capi. Ne è un esempio la startup californiana Unspun, con sede a San Francisco, un’azienda specializzata nella produzione personalizzata e automatizzata di jeans.


Invece di entrare in un negozio pieno di jeans con taglie e modelli prestabiliti, i clienti acquistano i propri jeans su misura, attraverso una scansione 3D del proprio corpo, a casa utilizzando un’app del telefono e la fotocamera a infrarossi integrata dell’iPhone ( o di persona in un negozio, attualmente solo a San Francisco e Hong Kong). La scansione viene utilizzata per produrre un paio di jeans personalizzati entro un paio di settimane.


Attualmente non è economico (un paio di jeans costa circa 200 dollari) ma come tutte le tecnologie dirompenti ha il potenziale per diventare più conveniente nel tempo. E mentre il denim potrebbe essere costoso, la qualità e la durata incoraggiano i clienti a mantenere i loro capi più a lungo, un vero e proprio principio di circolarità.


“C’è un’enorme discrepanza tra ciò che fa l’industria dell’abbigliamento e ciò che la gente compra. Soprattutto ora con la pandemia, c’è un grosso problema con l’inventario in eccesso. Con Unspun produciamo abbigliamento dopo che qualcuno l’ha acquistato: lo realizziamo su richiesta anziché aspettare che qualcuno arrivi nel negozio. Non abbiamo taglie, e ciò è più inclusivo. Non abbiamo inventario, che riduce gli sprechi e le emissioni” afferma Beth Esponnette, cofondatrice di Unspun, intervistata da Greenbiz.


“Il sowtware che utilizziamo costruisce il modello in modo completamente digitale e questo ci dà un enorme vantaggio per eventuali modifiche. È automatizzato, quindi una volta che hai programmato il software non costa nulla per il programma eseguirlo e creare un modello. Ci siamo sbarazzati delle ore di lavoro che un sarto avrebbe trascorso costruendo un modello. L’idea è che non c’è macchina da cucire o lavoro manuale. Stiamo anche sperimentando la tessitura in tre dimensioni e la costruzione dell’intero indumento da filo. I consumatori stanno iniziando a rallentare e pensare al loro impatto nel mondo. La media è di 84 capi acquistati all’anno per ogni americano; è folle che acquistiamo più di un prodotto a settimana! Penso che i consumatori saranno disposti a spendere una fetta maggiore delle proprie entrate per un minor numero di prodotti che dureranno più a lungo e di cui sono entusiasti. Stiamo iniziando a vedere quel cambiamento.Tutto ciò lo facciamo per la sostenibilità e per cercare di ridurre le emissioni globali di carbonio dell’1 percento, che è la nostra stella polare principale”.






fonte: https://www.beppegrillo.it



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Dalle bottiglie ai sedili, l’economia circolare fa l’auto sostenibile

Obiettivo minimo impatto, oltre l'elettrificazione che azzera i consumi, i costruttori auto stanno lavorando sulla sostenibilità degli interni.
















Tutti i costruttori, in base a una direttiva europea del 2000 recepita in Italia tre anni più tardi, devono realizzare veicoli composti da materiali recuperabili per almeno il 95% del peso della vettura. In particolare l’85% attraverso il riuso dei componenti e il 10% tramite recupero energetico. Una sfida essenziale per la sostenibilità del comparto automobilistico che coinvolge dunque l’intero ciclo di vita di un’auto: dal modo in cui viene costruita e dai materiali e processi impiegati a quello in cui viene venduta, considerando i saloni, la partecipazione alle fiere e così via.
Obiettivo minimo impatto, oltre l’elettrificazione che azzera i consumi. E soprattutto, possibilità di riciclare quei materiali, spesso frutto di ricerche molto sofisticate, per farne dell’altro. Audi, per esempio, è il primo costruttore al mondo ad aver ricevuto la certificazione di sostenibilità della Aluminium Stewardship Initiative (Asi). Significa che soddisfa tutti i requisiti nella progettazione e produzione dell’alloggiamento delle batterie dell’elettrica e-tron. C’è chi ha eliminato materiali di origine animale optando per soluzioni vegetali, o addirittura per la roccia vulcanica, sia per i tessuti che per le imbottiture e i sedili. Senza contare ovviamente la necessità di riciclare gli accumulatori al litio che muovono i mezzi elettrici: l’Italia potrebbe presto lanciare una sua filiera di recupero di metalli e minerali rari come cobalto, nickel, manganese e lo stesso litio grazie a un sistema messo a punto da Cobat, Cnr-Iccom di Firenze e Cnr-Itia di Milano con il coordinamento del Politecnico meneghino.
Uno dei fronti più impegnativi è tuttavia quello della plastica. In ogni auto ci sono infatti, 340 chili di componenti realizzati in plastica, di cui circa la metà sono riciclabili. Sempre la casa dei quattro anelli fa dell’impiego dei materiali riciclabili e di origine certificata uno dei pilastri della sua strategia innovativa: “Il nostro obiettivo è produrre rivestimenti durevoli e di qualità, che superino tutti i nostri test, ma che siano anche sostenibili” spiega Ute Grönheim, che lavora nel reparto sviluppo materiali e che ha curato la nuova Audi A3. I rivestimenti di ogni singolo sedile della berlina premium sono fatti partendo da 45 bottiglie di plastica da 1,5 litri.
Un processo emblematico del nuovo approccio dei costruttori che vale la pena raccontare. Inizia dalla raccolta delle bottiglie usate, lavate e triturate in fiocchi fino a ricavarne un granulato che, a sua volta, viene impiegato per realizzare fili di poliestere che vengono trasformati in filato plastico. Con tutte le sfide che ne conseguono in termini di colorazione e raffinazione. Una volta lavorato, quel filato diventa il tessuto per i rivestimenti dei sedili e viene sottoposto ad attenti controlli di qualità, alcuni dei quali affidati agli specialisti che verificano 200 metri all’ora. Dopodiché il tessuto viene arrotolato, lavato a 60 gradi centigradi, levigato e asciugato, fino all’aiuto di un macchinario che lo incolla sul rivestimento, insomma la fase di laminazione. Considerando tutti gli “ingredienti”, il rivestimento del sedile finisce per essere composto per l’89% da bottiglie di plastica riciclata. E il futuro coinvolgerà anche la colla, che dovrà essere di origine sostenibile. Dopo un ulteriore controllo qualità e uno stress test, i rivestimenti vengono infine messi in forma e avvolti intorno al sedile: “Nei prossimi anni potremo fare grandi progressi nel campo della sostenibilità – conclude Grönheim – vogliamo arrivare a produrre i rivestimenti dei sedili con plastica riciclata al 100%”.
I fronti aperti sono quindi moltissimi. Per esempio, c’è la ricerca su nuove fibre minerali basaltiche completamente riciclabili da associare a resine termoindurenti da biomassa da utilizzare per diversi componenti delle vetture. Uno degli obiettivi è infatti sostituire i metalli con materiali compositi a matrice polimerica che siano però recuperabili e possano così allinearsi alle normative europee sui veicoli fuori uso. Poi ci sono gli pneumatici “airless” che aumenteranno il ciclo di vita delle gomme e ancora progetti pilota per riqualificare i rifiuti domestici in plastica, altrimenti destinati a finire negli inceneritori o nelle discariche, e farne componenti automobilistici.
E c’è perfino chi ha provato a costruire una city car sperimentale completamente riciclabile battezzata Noah: la firma è dell’università tecnologica di Eindhoven, nei Paesi Bassi, che ha messo a punto una piccola due posti elettrica in materiali biocompositi dal peso di soli 360 chili. Il telaio e la scocca sono da barbabietola da zucchero e lino, inglobati da due pannelli rigidi di fibra vegetale a struttura a nido d’ape e la carrozzeria in bioresina. Proprio di recente l’ateneo olandese ha invece sfornato un’altra vettura, Luca, con telaio costruito con un composito derivato da prodotti in polietilene terepftalato (il famigerato Pet) imbottito da strati esterni di lino e il resto della carrozzeria in un nuovo materiale sviluppato in collaborazione con una start-up israeliana Ubq. Combina un additivo derivato da rifiuti urbani con polipropilene riciclato (PP). Completano l’opera elementi in alluminio, ovviamente riciclato.
Una ricerca accademica, ovviamente, da cui però i costruttori possono imparare molto – sono stati infatti intrecciati rapporti con alcune sigle – perché sono già impegnati da tempo in quella direzione obbligata dalle leggi e dall’ambiente.
fonte: www.greenstyle.it

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Libro "A Scuola di Rifiuti Zero"

A Scuola di Rifiuti Zero è un manuale di circa 160 pagine che intende far avvicinare studenti, docenti e famiglie alla Strategia Rifiuti Zero e a uno stile di vita più sostenibile. L’autrice insegna in una Scuola Media che è Eco-school certificata e di fatto anche Scuola Rifiuti Zero, pertanto la sua esperienza nell’istituto scolastico di appartenenza può essere un valido punto di partenza per la divulgazione di idee e azioni ambientaliste.
Il libro è suddiviso in tre brevi capitoli. Nel primo paragrafo del primo capitolo si accenna ai Trattati per l’Ambiente più importanti, mentre nel secondo paragrafo vengono esposti i 10 passi della Strategia Rifiuti Zero e si spiega perché questa strategia può essere la risposta più immediata ai problemi ambientali, soprattutto per quel che concerne i rifiuti. Nel primo paragrafo del secondo capitolo, invece, sono elencati i 7 passi per ottenere la Bandiera Verde, ossia la certificazione Eco-schools, e vengono elencate le azioni che occorre effettuare per raggiungere questo prestigioso traguardo e per diventare una Scuola Rifiuti Zero di fatto. Nel secondo paragrafo viene sottolineata l’importanza della presa di coscienza attraverso un’opera di sensibilizzazione capillare, che può comprendere la partecipazione a corsi di formazione e ad eventi a tema ecologico e Rifiuti Zero, la visione di film documentari , la lettura di libri e la trattazione di unità didattiche anche in lingua su tematiche ambientali, la comunicazione sul Web e altro ancora. Il terzo capitolo, suddiviso in cinque paragrafi, è dedicato alle azioni concrete per Riciclare (attraverso la raccolta differenziata nelle classi), Ridurre e Riusare (ad es. usando le borracce al posto delle bottigliette di plastica usa e getta), Riprogettare (con i tanti lavori artistici che gli alunni possono realizzare con materiali da riciclo) e Rifiutare (ad es. gli imballaggi inutili).
Infine, A Scuola di Rifiuti Zero intende far passare il messaggio che i cambiamenti dall’alto sono fondamentali, ma lo sono altrettanto quelli dal basso, soprattutto a partire dalle scuole, dove vengono formate le nuove generazioni che con la loro preziosa collaborazione possono contribuire alla tutela dell’ambiente e della nostra salute, anche quando le istituzioni manifestano lentezza nell’intraprendere provvedimenti seri e urgenti per salvare il nostro Pianeta.


Filomena Compagno - Casa editrice Innuendo di Massimo Lerose

Si Investe Molto Nella Raccolta Rifiuti, Ma Quanto Si Investe Sul Riuso?














Il Tavolo del Riuso ha incontrato i consiglieri comunali di Torino in una recente audizione a Palazzo Civico. “Si investe molto nella raccolta rifiuti, ma quanto si investe sul riuso?” Se è vero che Torino è la città in cui c’è l’unico Centro del riuso inserito nel ciclo di gestione rifiuti, gli spazi per investire sul riuso sono ancora abbondanti. Pier Andrea Moiso, coordinatore del Tavolo del Riuso ha sottolineato: “Stiamo aspettando che la normativa consenta effettivamente e obblighi a considerare il riuso come elemento costitutivo della gestione dei flussi di materia. I produttori già lo sanno e si sono costituiti in consorzi in modo da far girare un enorme volume di economia. Lasciano però alle istituzioni pubbliche la raccolta con i costi e loro si prendono le materie. Spero che arrivino presto i decreti attuativi e la norma che obbligherà tutti i gestori rifiuti a investire nel riuso”.

“Non si può parlare di questo tema se non si conosce profondamente quelli che sono i meccanismi economici e normativi che regolano il settore” ha continuato Moiso. “Come Tavolo del Riuso ci offriamo a fare un simposio in cui informiamo tutta la parte politica e la Città di Torino sul tema in modo da conoscere il mondo in cui ci stiamo muovendo”.

Nel corso dell’audizione il dibattito si è concentrato anche sulle quelle azioni eterogenee che afferiscono al riuso (es. la riparazione). Come mettere insieme queste azioni disperse? “Come Tavolo ci stiamo provando” ha sottolineato il coordinatore del Tavolo. “E’ un operazione molto interessante che richiede tuttavia investimenti al riguardo. Perché se vogliamo produrre degli effetti occorre dare contenuto all’azione, altrimenti rischiamo di rimanere nel campo delle intenzioni”.

L’attenzione si è anche concentrata sulle nuove generazioni imprenditoriali che si affacciano nel campo dell’economia circolare. “Sarebbe interessante mettere assieme delle esperienze con diverso vissuto, dalle cooperative sociali ai diversi poli di innovazioni presenti in città. Quello delle start-up è un mondo che spesso citiamo: ma chi conosce effettivamente i numeri di quante start-up sono presenti nell’eco-sistema torinese e quante di queste lavorano nel campo dell’economia circolare?” si chiede Moiso. “Se nessuno lo sa è uno spreco. Questi sono elementi di conoscenza e di azione preziosi, se messi in connessione con tutto il resto. Altrimenti i risultati delle start-up rimangono momenti isolati. Occorre quindi emergere e rendere questi dati fruibili e disponibili all’elaborazione. Ci sono degli elementi di conoscenza che possono avere risultati ed efficacia molto interessanti e che sono assolutamente da divulgare”.

Inoltre Moiso ha auspicato la creazione di un luogo in grado di mettere insieme “una serie di soggetti che sanno fare e lavorare sul riuso rendendo fruibile al pubblico questo luogo. Naturalmente – ha spiegato il coordinatore del Tavolo del Riuso – anche questo richiede investimenti importanti. Le competenze ci sono, magari nascoste. Bisogna scovarle, renderle sostenibili economicamente e dargli continuità. Con Triciclo lo stiamo facendo, ma non basta. L’idea della Città di ‘Hub dell’economia circolare’ non deve essere astratta ma deve rappresentare un servizio che possa cambiare l’approccio delle persone nei confronti del riuso, dando anche risposte semplici a bisogni di riparazione di oggetti di uso quotidiano”. La cooperativa Triciclo ci ha provato a farlo da solo tenendo conto delle proporzioni, sostenuto dal PON Metro, ha realizzato Tricircolo (che viene inaugurato il 22 novembre 2019 in via Regaldi 7/9). Questo esempio può essere una spinta, un punto di partenza per immaginare un centro del riuso proporzionato ad una città di 900 mila abitanti.

Per quanto riguarda l’Hub dell’economia circolare, il presidente della Commissione Ambiente del Comune di Torino, Federico Mensio, ha spiegato: “E’ un’idea venuta fuori tempo fa ed è ancora valida. Vorremmo individuare uno spazio dove possano trovare spazio le realtà dell’economia circolare. E’ sicuramente una cosa che agevolerebbe un processo già in atto (l’esempio del Tavolo del Riuso ne è una prova). Vorremmo mettere insieme la parte più sociale nel campo dell’economia circolare con realtà imprenditoriali, artistiche e soprattutto la cittadinanza, che su queste cose magari non ha contezza di cosa vuol dire riuso, recupero ed economia circolare”.

“L’idea è in piedi” ha confermato Mensio. “Ci auguriamo che si riesca a realizzare in una visione allargata di economia circolare, che non vuol dire semplicemente ‘riuso’. In questo momento non c’è una cosa del genere in Italia. Ci sono cose simili, i centri del riuso o del recupero, ma non c’è nulla focalizzato sull’economia circolare”.

“C’è il tema della riparazione, della riprogettazione, che andrebbe considerato” ha aggiunto il presidente della Commissione consiliare Ambiente. L’obiettivo è mettere insieme quei pezzi che compongono l’economia circolare creando innovazione, tutti i “punti della filiera circolare messi a contatto in un luogo fisico, inserendo il design sistemico, la ri-progettazione, l’utilizzo di nuovi materiali, coinvolgendo Politecnico e Università. Tutto quello che riguarda l’economia circolare a 360°, compreso il campo chimico e ingegneristico” ha spiegato Mensio.

“La nostra è un’idea di ampio respiro – ha ribadito il presidente della Commissione Ambiente – non limitata al riuso. In quello spazio potresti avere chi seleziona i vestiti e quello che non riesce a valorizzare lo dà a qualcuno a fianco che ricava nuovi oggetti”. Mensio cita un esempio che arriva dall’ultima edizione del Climathon torinese: il secondo classificato ha proposto di recuperare gli ombrelli rotti trasformandoli in borse. “Ci sono cose che in questo momento sfuggono all’idea del riuso e del riciclo. Messe in quel contesto lì, magari, potrebbero anche crescere. Ci va però uno spazio fisico, altrimenti ci saranno sempre delle realtà che tra di loro non comunicano. E ci deve essere contaminazione tra queste realtà” ha concluso Mensio.

fonte: http://tavolodelriuso.it/

Capannori: Economia circolare - obiettivi 2030 - Sabato 1 dicembre 2018 ore 10.30








































Sabato 1 dicembre 2018 ore 10.30 si terrà il 
Direttivo dei Comuni Virtuosi.
Al tavolo tecnico alcuni Esperti Ambientali Nazionali, tra cui Rossano Ercolini, per discutere dei seguenti temi:
1) Nuovo accordo Anci - Conai
2) Reintroduzione vuoto a rendere
3) Riprogettazione dei materiali
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Dalle ore 15.00, iniziamo con il 'Make something weerk' 🎉


Si prepara direttiva UE sui monouso?

Circola in rete una bozza di direttiva che punta a ridurre la circolazione nella UE di articoli usa-e-getta in plastica. Ecco cosa dice...

















Sta circolando in rete la bozza di una proposta di Direttiva UE (in allegato) che punta a limitare la vendita sul mercato europeo di alcuni articoli monouso in plastica ritenuti responsabili dell’inquinamento dell’ambiente, soprattutto quello marino.
Le misure previste dalla proposta riguardano sia la prevenzione(articolo 4), che restrizioni alla circolazione di alcuni manufatti come cannucce in plastica, bastoncini per la pulizia delle orecchie, posate e piatti usa-e-getta, bastoncini per palloncini. Lista (allegato B) che potrebbe essere estesa ad altri articoli monouso per i quali esistono alternative più sostenibili.
La bozza interviene anche sull’ecodesign dei prodotti, fissando criteri di progettazione per i contenitori per bevande monouso (tazze, bicchieri), per far sì che i coperchi e altre chiusure non si possano staccare e inquinare l’ambiente (articolo 6). bottiglie plasticaPotrebbero essere fissati anche obiettivi minimi per il recupero e riciclo delle bottiglie in plastica monouso, anche attraverso schemi di deposito con cauzione, con l’obiettivo di raccoglierne in modo differenziato il 90% entro il 2025 (art. 8). Infine, viene proposta l’adozione di una etichetta obbligatoria, per alcuni prodotti, che informi i consumatori sull’impatto ambientale e le corrette pratiche di smaltimento (art. 7).
La direttiva non distingue - nel definire le plastiche monouso - quelle di origine fossile dalle bioplastiche biobased e/o biodegradabili.
Secondo le associazioni ambientaliste che hanno messo online il documento, la proposta dovrebbe essere presentata prima dell’Estate.
Nel documento si sottolinea che oltre l’80% dei rifiuti recuperati in mare e nelle spiagge è di plastica e che metà di questi sono articoli monouso e il 27% attrezzature da pesca.

fonte: www.polimerica.it

RISPARMIO ENERGETICO IN EDILIZIA: È QUI CHE SI GIOCA LA SFIDA DELL’ACCORDO DI PARIGI

SOLO COL RISPARMIO ENERGETICO IN EDILIZIA SI POTRÀ EVITARE IL SURRISCALDAMENTO GLOBALE. IN CANADA È IN ATTO UNA RIVOLUZIONE NEL GREEN BUILDING MA NEL RESTO DEL MONDO SI PROCEDE CON LENTEZZA








La diffusione di sistemi di produzione energetica rinnovabile, con il fotovoltaico in prima linea, sta sicuramente contribuendo a tenere a bada il riscaldamento globale. Ma questi sforzi non sono sufficienti a garantire una reale miglioramento sul fronte delle emissioni inquinanti se non si agisce con maggiore determinazione nel risparmio energetico in edilizia.
L’inefficienza degli edifici potrebbe costarci l’Accordo di Parigi
È dagli edifici che dipende la più alta percentuale dei consumi energetici a livello mondiale ed è proprio la loro inefficienza che potrebbe costarci il rispetto dell’Accordo di Parigi e quindi l’obiettivo di mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2 ° C. A dirlo è il recente report redatto dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), con dati confermati dalla Global Alliance for Buildings and Constructions, secondo cui per raggiungere gli obiettivi climatici che i paesi firmatari si sono posti, l’efficienza energetica degli edifici dovrebbe aumentare del 30% entro il 2030 rispetto al 2015.
Risparmio energetico in edilizia: cosa fare
Per ottenere una maggiore efficienza energetica del costruito bisognerebbe agire su più fronti: sia riducendo il quantitativo di energia ed elettricità necessario per far funzionare le strutture, specie quelle che operano in modo continuato, pensiamo a ospedali o centri commerciali. Sia migliorando i processi e i materiali che con le loro emissioni nocive contribuiscono all’inquinamento atmosferico.
La transizione energetica passa per gli edifici
Secondo l’UNEP, gli edifici consumano un terzo dell’energia che viene prodotta a livello mondiale ed emettono il20% dei gas serra. Nel 2015, l’82% dell’energia consumata nel settore delle costruzioni è stata generata dai combustibili fossili. Sebbene si stia indubbiamente investendo in misure di risparmio energetico in edilizia, è necessario accelerare questo processo di transizione, soprattutto in vista dell’enorme espansione che interesserà le città di tutto il mondo per accogliere una popolazione in forte crescita.






Secondo gli analisti nei prossimi 40 verranno edificati circa 230 miliardi di metri quadrati. Cifre che spaventano ma che possono anche rappresentare un enorme potenziale, dal momento in cui gran parte dell’edilizia sarà di nuova costruzione e l’obiettivo che ci si dovrebbe porre globalmente è quello del rispetto di elevati standard di sostenibilità, basso impatto ambientale ed efficienza energetica.

La sfida si giocherà nei paesi in via di sviluppo

Il problema è che gran parte del costruito si concentrerà nei paesi in via di sviluppo, quelli maggiormente interessati dal boom demografico, e nella maggior parte di queste aree non esistono ancora delle rigide prescrizioni per quanto riguarda il risparmio energetico in edilizia. E’ in questi paesi che si dovrà promuovere l’efficienza, perché, secondo il rapporto dell’Unep, migliorare gli standard edilizi nei paesi più ricchi non sarà sufficiente per garantire il rispetto degli obiettivi stabiliti con l’Accordo sul clima parigino.

Canada in prima linea sul green building

Se c’è un paese che negli ultimi anni sta concentrando tutti i suoi sforzi nel trasformare il settore delle costruzioni in un comparto veramente green è sicuramente il Canada. A guardare tutti i progetti che si stanno realizzando o che sono stati pianificati per il futuro si può tranquillamente dire che sia in atto una rivoluzione architettonica.

Grattacieli in legno, edifici microclimatici

Il Canada è la patria indiscusso dei grattacieli in legno, con il noto Brock Commons, un edificio di 53 metri realizzato a Vancouver, che detiene ancora il primato di edificio in legno più alto del mondo, ma che presto verrà superato dai 71 metri della Terrace House, che porta la firma di Shigeru Ban e verrà realizzata sempre a Vancouver. Ma anche di alcune sperimentazioni di edilizia sostenibile innovativa e microclimatica, come quella dell’Etobicoke Civic Centre, in fase di realizzazione nella città di Toronto.

Progetti innovativi di passive house

Il vero risparmio energetico in edilizia si otterrà però molto probabilmente grazie a una serie di progetti Passive House, che sono in corso di attuazione, in fase progettuale o semplicemente di proposta.  A gennaio, ad esempio, aprirà ufficialmente le porte a Vancouver The Heights, un condominio di sei piani dotato di 85 unità abitative, realizzato seguendo i principi di progettazione passiva.
Efficienza energetica del costruito, la rivoluzione canadese
È il più grande progetto di passive house realizzato in Canada, ma molto probabilmente non deterrà il primato per molto tempo, perché sono molti gli edifici ultra efficienti che dovrebbero essere realizzati negli anni a venire. D’altra parte, per riuscire a rispettare l’impegno, sottoscritto con l’Accordo di Parigi, di ridurre le emissioni nocive del 30% rispetto ai livelli del 2005, il Canada non può far altro che intervenire in modo molto deciso sul comparto edile.
In città come Toronto e Vancouver gli edifici sono i più grandi generatori di gas a effetto serra, rappresentando rispettivamente il 53 e il 56% delle emissioni nocive, stando a dati del 2014. Dal momento in cui entrambe le città hanno stabilito di voler ridurre drasticamente, se non eliminare del tutto, le emissioni prodotte dai nuovi edifici entro il 2030, non si può far altro che invertire decisamente la rotta, puntando alla massima sostenibilità ed efficienza energetica.

Torri passive, due progetti innovativi

Il primo passo è quello di abbandonare la tradizione edilizia delle case unifamiliari, molto in voga in un paese come il Canada caratterizzato da superfici molto estese, promuovendo soluzioni condominiali e grattacieli. Con un focus particolare sulla progettazione passiva, l’unica che possa realmente garantire un evidente risparmio energetico in edilizia. In questo senso, siamo certi certi che il Canada diventerà un modello a livello internazionale per le realizzazioni Passive House su larga scala. Oltre al condominio The Heights, a gennaio 2018 verrà lanciato un bando per la progettazione di una residenza dell’Università di Toronto, che comprenderà due torri, una di otto piani e l’altra di 10, realizzate seguendo principi di casa passiva.
Ancora più ambizioso è il progetto di due sviluppatori, Asia Standard e Landa Global Properties, che stanno investendo nel progetto di due torri passive di 43 e 48 piani, per la città di Vancouver. In questo caso, si è ancora nelle fasi iniziali, ma i primi modelli sembrano confermare la fattibilità per l’applicazione di principi di progettazione passiva a dei grattacieli così alti.
fonte: www.green.it