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L’idrogeno ricavato dall’acqua di mare diventa accumulatore efficiente di energia

La stratup toscana Nemesys si aggiudica Next Energy con una cella elettrolitica che produce idrogeno con recupero di energia. E non si ferma qui





La transizione energetica a un sistema pulito è una priorità che il Green Deal europeo incoraggia, anzi sollecita, in vista della scadenza del 2050 in cui in Europa le emissioni dovranno essere azzerate.

L'idrogeno, in questo scenario, potrebbe essere finalmente una fonte energetica da cui trarre soddisfazioni. Sempre che inizi a rispettare i parametri di Sostenibilità produttiva, ambientale ed economica.

Intanto, però qualcosa si sta muovendo: lo conferma il fatto che un'iniziativa di Open Innovation a sostegno degli obiettivi della transizione energetica come Next Energy ha dato fiducia a una startup che ha fatto dell'idrogeno il fulcro della sua proposta.

Si tratta di Nemesys, startup toscana specializzata in tecnologie innovative per la diffusione dell'uso dell'idrogeno che si è aggiudicata la quarta edizione di Next Energy, il programma promosso da Terna, Fondazione Cariplo e Cariplo Factory che punta a sostenere lo sviluppo di progetti innovativi, startup e imprese focalizzate su tematiche attinenti allo sviluppo del sistema energetico.

A convincere la giuria è stata l'idea innovativa di Nemesys: una cella elettrolitica che consente un recupero di energia elettrica durante il processo di produzione dell'idrogeno, superando gli obiettivi di efficienza Eu al 2030 (48kWh/kgH2). Il prototipo non utilizza metalli preziosi, né costose membrane Pem (polymer-electrolyte membrane) come avviene invece nelle attuali soluzioni di mercato e, per questo, assicurano in Nemesys, ha un costo di realizzazione inferiore e più competitivo.

Inoltre, la soluzione studiata dalla startup è in grado di utilizzare anche l'acqua marina nel processo di generazione dell'idrogeno, evitando di “sprecare” acqua dolce – che sarà sempre più preziosa in futuro – per la produzione energetica che, a questo punto, potrà diventare competitiva e conveniente anche nei Paesi in via di sviluppo, in quelle zone in cui energia e acqua scarseggiano.

Le celle elettrolitiche sviluppate con questa tecnologia, se le aspettative di studio preliminari saranno confermate, potranno ottenere un grande vantaggio competitivo nel mercato degli elettrolizzatori per la produzione di idrogeno verde nel prossimo futuro - secondo gli scenari Decentralizzato e Centralizzato elaborati da Terna e Snam per la transizione energetica, si prevede una produzione di idrogena che va da 1,2 a 3 miliardi di m3 al 2030.

Ma Marco Matteini, startupper classe 1958 e cofondatore con Alessandro Tampucci ci tiene a chiarire: «Sono ben cinque i filoni di ricerca che stiamo sviluppando in Nemesys tutti sotto brevetto o know how segreto».

Per ora l'interesse di Terna è sulla capacità dell'idrogeno di saper svolgere un'ottima funzione di accumulatore di energia che, secondo Matteini «è un ottimo vettore energetico per stoccare grandi quantità di energia sui lunghi periodi».

La startup che conta a oggi 5 soci e tre professionisti, tra cui Francesco Ciardelli, professore onorario di chimica all'Università di Pisa, si porta a casa un voucher di 50mila euro che potrà utilizzare in servizi finalizzati al processo di accelerazione e di go to market del progetto. La sede dell'azienda è a Pontedera proprio dove per anni la Piaggio ha sviluppato i prototipi della Vespa che una delle due ruote più diffuse: sarà di buon auspicio anche per la diffusione dell'idrogeno?

fonte: www.ilsole24ore.com

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Dalle bottiglie ai sedili, l’economia circolare fa l’auto sostenibile

Obiettivo minimo impatto, oltre l'elettrificazione che azzera i consumi, i costruttori auto stanno lavorando sulla sostenibilità degli interni.
















Tutti i costruttori, in base a una direttiva europea del 2000 recepita in Italia tre anni più tardi, devono realizzare veicoli composti da materiali recuperabili per almeno il 95% del peso della vettura. In particolare l’85% attraverso il riuso dei componenti e il 10% tramite recupero energetico. Una sfida essenziale per la sostenibilità del comparto automobilistico che coinvolge dunque l’intero ciclo di vita di un’auto: dal modo in cui viene costruita e dai materiali e processi impiegati a quello in cui viene venduta, considerando i saloni, la partecipazione alle fiere e così via.
Obiettivo minimo impatto, oltre l’elettrificazione che azzera i consumi. E soprattutto, possibilità di riciclare quei materiali, spesso frutto di ricerche molto sofisticate, per farne dell’altro. Audi, per esempio, è il primo costruttore al mondo ad aver ricevuto la certificazione di sostenibilità della Aluminium Stewardship Initiative (Asi). Significa che soddisfa tutti i requisiti nella progettazione e produzione dell’alloggiamento delle batterie dell’elettrica e-tron. C’è chi ha eliminato materiali di origine animale optando per soluzioni vegetali, o addirittura per la roccia vulcanica, sia per i tessuti che per le imbottiture e i sedili. Senza contare ovviamente la necessità di riciclare gli accumulatori al litio che muovono i mezzi elettrici: l’Italia potrebbe presto lanciare una sua filiera di recupero di metalli e minerali rari come cobalto, nickel, manganese e lo stesso litio grazie a un sistema messo a punto da Cobat, Cnr-Iccom di Firenze e Cnr-Itia di Milano con il coordinamento del Politecnico meneghino.
Uno dei fronti più impegnativi è tuttavia quello della plastica. In ogni auto ci sono infatti, 340 chili di componenti realizzati in plastica, di cui circa la metà sono riciclabili. Sempre la casa dei quattro anelli fa dell’impiego dei materiali riciclabili e di origine certificata uno dei pilastri della sua strategia innovativa: “Il nostro obiettivo è produrre rivestimenti durevoli e di qualità, che superino tutti i nostri test, ma che siano anche sostenibili” spiega Ute Grönheim, che lavora nel reparto sviluppo materiali e che ha curato la nuova Audi A3. I rivestimenti di ogni singolo sedile della berlina premium sono fatti partendo da 45 bottiglie di plastica da 1,5 litri.
Un processo emblematico del nuovo approccio dei costruttori che vale la pena raccontare. Inizia dalla raccolta delle bottiglie usate, lavate e triturate in fiocchi fino a ricavarne un granulato che, a sua volta, viene impiegato per realizzare fili di poliestere che vengono trasformati in filato plastico. Con tutte le sfide che ne conseguono in termini di colorazione e raffinazione. Una volta lavorato, quel filato diventa il tessuto per i rivestimenti dei sedili e viene sottoposto ad attenti controlli di qualità, alcuni dei quali affidati agli specialisti che verificano 200 metri all’ora. Dopodiché il tessuto viene arrotolato, lavato a 60 gradi centigradi, levigato e asciugato, fino all’aiuto di un macchinario che lo incolla sul rivestimento, insomma la fase di laminazione. Considerando tutti gli “ingredienti”, il rivestimento del sedile finisce per essere composto per l’89% da bottiglie di plastica riciclata. E il futuro coinvolgerà anche la colla, che dovrà essere di origine sostenibile. Dopo un ulteriore controllo qualità e uno stress test, i rivestimenti vengono infine messi in forma e avvolti intorno al sedile: “Nei prossimi anni potremo fare grandi progressi nel campo della sostenibilità – conclude Grönheim – vogliamo arrivare a produrre i rivestimenti dei sedili con plastica riciclata al 100%”.
I fronti aperti sono quindi moltissimi. Per esempio, c’è la ricerca su nuove fibre minerali basaltiche completamente riciclabili da associare a resine termoindurenti da biomassa da utilizzare per diversi componenti delle vetture. Uno degli obiettivi è infatti sostituire i metalli con materiali compositi a matrice polimerica che siano però recuperabili e possano così allinearsi alle normative europee sui veicoli fuori uso. Poi ci sono gli pneumatici “airless” che aumenteranno il ciclo di vita delle gomme e ancora progetti pilota per riqualificare i rifiuti domestici in plastica, altrimenti destinati a finire negli inceneritori o nelle discariche, e farne componenti automobilistici.
E c’è perfino chi ha provato a costruire una city car sperimentale completamente riciclabile battezzata Noah: la firma è dell’università tecnologica di Eindhoven, nei Paesi Bassi, che ha messo a punto una piccola due posti elettrica in materiali biocompositi dal peso di soli 360 chili. Il telaio e la scocca sono da barbabietola da zucchero e lino, inglobati da due pannelli rigidi di fibra vegetale a struttura a nido d’ape e la carrozzeria in bioresina. Proprio di recente l’ateneo olandese ha invece sfornato un’altra vettura, Luca, con telaio costruito con un composito derivato da prodotti in polietilene terepftalato (il famigerato Pet) imbottito da strati esterni di lino e il resto della carrozzeria in un nuovo materiale sviluppato in collaborazione con una start-up israeliana Ubq. Combina un additivo derivato da rifiuti urbani con polipropilene riciclato (PP). Completano l’opera elementi in alluminio, ovviamente riciclato.
Una ricerca accademica, ovviamente, da cui però i costruttori possono imparare molto – sono stati infatti intrecciati rapporti con alcune sigle – perché sono già impegnati da tempo in quella direzione obbligata dalle leggi e dall’ambiente.
fonte: www.greenstyle.it

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Economia circolare europea: solo il 10% dei materiali viene riutilizzato

Il rapporto dell’Agenzia Ambientale europea fa il punto sulle iniziative avviate nel Vecchio continente per ridurre l’uso delle risorse naturali e la produzione di rifiuti

















L’economia circolare europea è solo gli inizi. Nonostante il primo piano organico per traghettare l’Unione verso il nuovo modello di produzione e consumo abbia ormai quattro anni alle spalle, nel Vecchio Continente “chiudere il cerchio” è un’impresa ancora tutta da tentare. A confermarlo è il nuovo rapporto dell’Agenzia Ambientale Europea (AEA), intitolato Paving the way for a circular economy: insights on status and potentials, secondo cui, attualmente, solo il 10% dei materiali impiegati viene recuperato e riutilizzato. Questo tasso di circolarità varia dall’1% per elementi come litio e silicio a oltre il 50% per argento e piombo, ma nella maggior parte dei casi è indice di potenzialità sprecate.

Nel complesso il documento mostra come i volumi di rifiuti siano aumentati del 3% tra il 2010 e il 2016, facendo tuttavia crescere di pari passo anche la percentuale del riciclo (50-54%) e quella dell’incenerimento con recupero di energia (12-18%). Le discariche invece sono diminuite dal 29% al 24% nello stesso periodo, sebbene esistano grandi differenze tra i singoli Paesi.
I progressi in questo campo sono in gran parte da ricollegare alla direttiva quadro sui rifiuti che ha definito per la prima volta nel 2008 una gerarchia di gestione, una classifica delle opzioni basata sul presupposto degli impatti ambientali, in cui viene data priorità alla prevenzione seguita dalla preparazione per il riutilizzo, il riciclo o altri tipi di recupero e  quindi lo smaltimento in discarica. Per l’Agenzia, un’applicazione ferrea di queste norme permetterebbe agli Stati Membri di migliorare ulteriormente l’economia circolare europea in termini di efficienza delle risorse e dell’energia spesa, riducendo l’uso di materiali vergini, emissioni di gas serra e inquinamento. E soprattutto permetterebbe di creare nuovi posti di lavoro e crescita economica. Il numero di persone impiegate nel settore UE è aumentato da quasi 840.000 nel 2011 a circa 950.000 nel 2016; oltre il 50% di questi europei è attivo nella raccolta dei rifiuti.
Lo studio rivela che 21 dei 32 paesi aderenti allo Spazio Economico Europeo sostengono iniziative di economia circolare, ma per lo più si tratta di strumenti normativi o basati sul mercato dedicati al comparto del riciclo e del recupero energetico, mentre l’eco-design, l’attenzione ai consumi e il riutilizzo possono contare su approcci più soft come campagne di comunicazione ed etichette informative.
Anche “le aziende europee stanno adottando sempre più modelli di business circolari, focalizzati principalmente sull’efficienza operativa e sulla riduzione degli sprechi”, spiega l’AEA. Tuttavia esistono ancora diversi ostacoli, dalla cultura aziendale ai fattori di mercato passando per  la complessità del sistema.
Il nuovo rapporto rileva inoltre che il monitoraggio dei progressi nell’economia circolare europea richiede ulteriori investimenti. Molti dati pertinenti – ad esempio, sulla fase di produzione e consumo dei cicli di vita dei prodotti – non sono disponibili nei sistemi di informazione e nelle statistiche nazionali. Gli autori sottolineano anche la necessità di integrare le attuali politiche circolari con quelle sul clima e la bioeconomia

fonte: www.rinnovabili.it

Rifiuti: quali conseguenze dopo la stretta cinese? Plasmix destinato ad accumularsi, rischio paralisi della filiera



















Iniziano a manifestarsi i primi segni della stretta cinese sulle importazioni di rifiuti. Andrea Fluttero, presidente di UNICIRCULAR, ad Eco dalle Città: " I materiali saranno destinati ad accumularsi nei piazzali con il rischio che si paralizzi la filiera fino alla raccolta stessa"

Nei mesi scorsi la Cina ha annunciato e poi messo in pratica la stretta sulle importazioni di rifiuti. Uno degli ultimi passaggi in questo senso è l’entrata in vigore, dal 1° marzo 2018, del nuovo tetto massimo alle impurità presenti nei materiali inviati a trattamento negli impianti cinesi (0,5% del peso complessivo del carico). Su questo tema abbiamo interpellato Andrea Fluttero, presidente di UNICIRCULAR:
Partiamo dall’origine della scelta presa dalla Cina: da cosa è stata dettata?
La Cina sta evolvendo il suo modello di sviluppo. Il gigante asiatico sta crescendo in maniera molto rapida. Cresce in dimensioni ma cresce anche in qualità. E così ha deciso di definire dei limiti molto più restrittivi alle impurità presenti nei materiali che importava. In questo modo elimina tutta una serie di materiali di scarsa qualità in entrata e riduce l’uscita di prodotti di bassa qualità. Questa decisione, tuttavia, mette in crisi l’Europa, in particolare i Paesi che hanno spinto sulla raccolta differenziata.
Quali sono esattamente i rifiuti che vengono “colpiti” da questa stretta?
Fino ad ora le frazioni di qualità più alta hanno trovato collocazione a livello europeo nel circuito del riciclo. Le frazioni con maggiori impurità, invece, avevano uno sbocco collaudato nelle aziende cinesi. Tra i materiali più colpiti dalla stretta cinese, ci saranno le plastiche eterogenee, il cosiddetto plasmix. Questi materiali prima venivano comprati anche se a prezzi bassi. Il plasmix veniva e viene utilizzato in Italia, anche se in quantità limitate, per nuove produzioni. Il materiale restante veniva esportato (con costi di trasporto bassi verso la Cina). Oggi non è più così e questo materiale perde interesse nelle aste dove i compratori acquistano la plastica da lavorare per il riciclo.
Quali sono le conseguenze all'orizzonte?
Venendo meno il mercato asiatico, l’Europa si trova davanti a un problema non indifferente. Il WTO ha cercato di convincere la Cina a rivedere i parametri, ma le modifiche sono state minime e di conseguenza ora si stanno manifestando una serie di fenomeni ambientali/economici. Nel Nord Europa, dove ci sono molti termovalorizzatori, i flussi che prima andavano in Cina tendono ad essere avviati a recupero energetico. Nei Paesi dove ci sono meno impianti, invece, questi materiali devono essere esportati verso altri stati europei con capacità residua.
Ma con costi differenti rispetto a quelli verso la Cina...
Dalle prime indicazioni, i prezzi per lo smaltimento di queste frazioni poco nobili stanno salendo da 80/100 euro a tonnellata (trasporto compreso) a 150/160 euro a tonnellata (senza trasporto).
Cosa fare per gestire e superare le eventuali criticità?
In questo quadro i materiali saranno destinati ad accumularsi nei piazzali con il rischio che si paralizzi la filiera fino alla raccolta stessa. Il sistema deve cercare vie di sbocco. Una soluzione a questa situazione sarebbe il recupero energetico. Ma servono gli impianti, e quelli presenti in Italia sono già saturati dai rifiuti provenienti dalle regioni non dotate di termovalorizzatori. Occorrerebbe intervenire a monte riducendo la quantità di queste plastiche che non trovano uno sbocco e ri-orientare il packaging verso plastiche che sono più facili da inserire in un circuito di recupero meccanico e con bio plastiche compostabili. Una strada da percorrere, i cui frutti, tuttavia, non si raccolgono subito.
fonte: www.ecodallecitta.it