Prima sottoprodotto, poi rifiuto. Adesso, forse, di nuovo sottoprodotto. È il surreale
ping-pong degli sfalci e delle potature del verde urbano,
espressione che indica l’erba e le ramaglie prodotte dalla manutenzione
di aiuole, parchi e giardini pubblici e privati in aree cittadine, che a
breve potrebbero segnare un vero e proprio
record: quello di veder mutata per ben tre volte
in poco meno di sei anni la propria natura giuridica. Il
ddl Collegato agricoltura – una serie di misure per aumentare la competitività nel settore agricolo – attualmente in discussione al
Senato,
prevede infatti all’articolo 41 l’esclusione dei residui da manutenzione del verde urbano dal novero degli scarti di lavorazione soggetti alla disciplina sui rifiuti. Articolo che, se approvato definitivamente, sortirebbe l’effetto di riportare indietro
di sei anni le pagine del calendario legislativo italiano.
Fino al 2010 infatti
il Testo unico ambientale non considerava sfalci e potature del verde urbano come “rifiuto” ma come
“sottoprodotto”, e quindi ne permetteva il
riutilizzo senza trattamenti ulteriori; il che garantiva ai
Comuni – responsabili della raccolta e gestione dei residui verdi urbani – la possibilità di spedirli dietro compenso agli
impianti per la produzione di energia da biomassa, che bruciano legna ed altri scarti organici per alimentare le reti di
teleriscaldamento e che la normativa italiana include nel novero delle
fonti rinnovabili.
Nel 2010 però,
con il recepimento della direttiva europea quadro sui rifiuti, cambia il Testo unico e con lui la natura giuridica di sfalci e potature urbane:
da sottoprodotto a rifiuto.
Per poterli riutilizzare come accadeva prima del 2010, recita il nuovo
Testo unico, c’è bisogno di dimostrare – secondo una procedura
piuttosto
lunga e dispendiosa – che rispondano ad una serie di
parametri di compatibilità ambientale (
come ricordato poco meno di un anno fa dal Ministero dell’Ambiente in un parere ufficiale), altrimenti restano rifiuti. La destinazione principale del verde urbano diventa così lo
smaltimento in impianti autorizzati al trattamento dei rifiuti: per lo più centri di
compostaggio o biodigestione, che producono fertilizzante o biogas. Senza dimenticare che, al momento,
né
la normativa italiana né tanto meno quella comunitaria prevedono
l’obbligo di raccolta differenziata e di riciclo degli scarti organici, e
che dunque nulla impedisce ai Comuni di conferire sfalci e potature in
discarica, soprattutto nei territori non serviti da un’adeguata rete di
impianti di compostaggio o biodigestione. Ben più complesso diventa invece avviarli verso gli impianti a biomasse, non autorizzati a trattare rifiuti.
Lo scenario, però, potrebbe
mutare radicalmente con
l’entrata in vigore del Collegato agricoltura, che derubricando sfalci e
potature da rifiuto a sottoprodotto tornerebbe di fatto ad autorizzarne
il trattamento negli impianti a biomassa,
sebbene in deroga alla disciplina europea. E se da un lato questo potrebbe condurre a
incertezze interpretative, contenziosi e persino all’apertura di una
procedura d’infrazione, dall’altro lato è innegabile che la misura
potrebbe rivelarsi conveniente non solo per gli impianti a biomassa ma anche per i per i Comuni. «A differenza dei rifiuti,
i sottoprodotti non si possono avere gratis ma bisogna pagarli - spiega
Walter Righini,
presidente della Federazione italiana produttori di energie rinnovabili
(Fiper) – per questo gli impianti di teleriscaldamento sono disposti ad
acquistare dai Comuni la loro biomassa ad un prezzo di
circa 15-20 euro a tonnellata, mentre al momento inviare a compostaggio o biodigestione una tonnellata di verde urbano
costa agli stessi Comuni circa 60 euro». Insomma, da voce di costo sfalci e potature potrebbero tornare ad essere fonte di guadagno.
I gestori dei bruciatori a biomassa
già fiutano l’affare. Del resto l’intero settore, complice la crisi economica, è da tempo alle prese con la
difficoltà di reperire sul mercato il cosiddetto cippato di legno,
ovvero lo scarto delle segherie e dei pannellifici che rappresenta la
principale fonte di alimentazione degli impianti. Dal canto loro
i compostatori scendono invece sul piede di guerra,
temendo di vedersi portata via una buona fetta della materia che oggi
viene avviata a trattamento nei loro impianti. «Considerando che
su 5,7 milioni di tonnellate di rifiuti organici, 1,9 provengono dal verde, quindi più del 33%,
questa iniziativa che nasce per fini di lobby potrebbe avere un effetto nefasto su un settore che è solido, strutturato e virtuoso» denuncia
Alessandro Canovai,
presidente del Consorzio italiano compostatori (Cic), aggiungendo che
l’entrata in vigore del collegato «non solo esporrebbe il nostro paese
ad un’altra procedura di infrazione europea, ma comporterebbe anche un
incremento dei costi di trattamento dei rifiuti urbani e delle tariffe
per i cittadini».
Fermiamoci un istante: da un lato la Fiper sostiene che la misura
porterà guadagni ai Comuni. Dall’altro il Cic denuncia il rischio di
incremento dei costi di trattamento e quindi delle tariffe rifiuti.
Chi ha ragione? Entrambi. C’entra il fatto che
sfalci e potature sono due tipi di scarto diversi tra loro, con un differente appeal sulle imprese. Perchè mentre «gli sfalci sono perfetti per il compost» spiega Righini «
potature
e ramaglie contengono lignina, e quindi si prestano benissimo ad essere
utilizzate come combustibile negli impianti a biomasse». Nelle mire degli impianti di teleriscaldamento, insomma, non c’è tutto il verde urbano ma
solo gli scarti legnosi. Righini spiega che «
il
beneficio economico complessivo per l’amministrazione pubblica italiana
potrebbe aggirarsi quindi tra 240-360 milioni di euro l’anno», visto che, secondo stime di Fiper, il quantitativo disponibile di potature urbane si attesta intorno ai
3-4
milioni di tonnellate all’anno con un costo di smaltimento di circa
180-240 milioni di euro a fronte di un possibile ricavo, in caso di
utilizzo energetico, di 80-120 milioni.
Il problema è che
le ramaglie fanno gola anche ai compostatori dal momento che, spiega Canovai, rappresentano «lo
strutturante che
permette di compostare scarti alimentari ed altre matrici ad elevata
putrescibilità». La classificazione delle potature fuori dal regime di
gestione dei rifiuti, assicura però Righini «
non vieta ai compostatori di impiegare questo materiale quale strutturante della fabbricazione del compost.
Ci si misurerà sul mercato per il loro acquisto, nella logica della
concorrenza nei diversi usi. Sicuramente i detentori, ovvero i Comuni – aggiunge –
potranno beneficiare economicamente di questa competizione».
E i Comuni, da che parte stanno? Non dalla parte del libero mercato, visto che
l’Anci, associazione dei Comuni italiani, si è schierata a favore dei compostatori.
Oltre a paventare il rischio che il conflitto con il dettato
comunitario possa generare incertezza e confusione nell’applicazione
della normativa, l’Anci sostiene infatti che l’entrata in vigore del
Collegato agricoltura
«abbatterebbe il livello di raccolta differenziata negli enti locali».
In effetti, l’organico rappresenta ad oggi circa la metà dei rifiuti
raccolti dai Comuni italiani in maniera separata. Escludere il verde
urbano dal novero dei rifiuti significherebbe
sottrarlo di punto in bianco al conteggio delle quantità raccolte in maniera differenziata dagli enti locali,
e quindi condannare ad un drastico calo le percentuali di
differenziata in ogni singolo comune della Penisola. Percentuali che a
quel punto, ripulite dell’effetto dopante garantito dalle quantità di
scarti da verde pubblico, rispecchierebbero in maniera più sincera la
reale efficacia dei sistemi di raccolta dei rifiuti urbani “tout court”
(quelli della pattumiera) messi a punto dai Comuni, aumentando al tempo
stesso le distanze, in molti casi ancora notevoli, dai target fissati
dalla normativa nazionale. Una prospettiva che, a quanto pare,
spaventa i Comuni più di quanto non li alletti l’idea di
risparmiare sui costi di smaltimento delle potature da verde urbano.
Anche perchè
non è detto che le conseguenze di una eventuale
“liberalizzazione” del mercato delle potature si sviluppino tutte in
direzione del risparmio. Se tutti i Comuni decidessero infatti
di vendere le proprie potature piuttosto che smaltirle, non solo i
titolari di impianti a biomassa ma
anche i compostatori sarebbero obbligati a pagare per acquistarle sul mercato.
E questi ultimi, di conseguenza, potrebbero essere costretti ad
aumentare il costo di conferimento ai propri impianti. Perchè a
differenza degli impianti a biomassa, che recupererebbero la spesa
grazie alla vendita dell’energia prodotta – peraltro
incentivata dallo Stato – i compostatori, che non guadagnano dalla vendita del fertilizzante ma
dal prezzo pagato dai Comuni per smaltire l’organico, non potrebbero che rientrare dei nuovi costi di approvvigionamento delle potature
aumentando le tariffe di conferimento.
Insomma,
se da un lato i Comuni potranno guadagnare dalla
vendita delle potature, dall’altro invece saranno costretti a pagare di
più per smaltire quel che resta delle loro frazioni organiche. E se l’ago della bilancia dovesse pendere più verso i costi che verso i ricavi,
un aumento della tariffa rifiuti potrebbe risultare inevitabile. Impianti a biomasse e centri di compostaggio possono dunque davvero
concorrere alla pari sul libero mercato? La travagliata storia di sfalci e potature sembrerebbe proprio rispondere di no. Ma non è detto che l’eventuale entrata in vigore del Collegato debba necessariamente tradursi nella
catastrofe
pronosticata da Comuni e compostatori. Al momento, infatti, questi
ultimi hanno ancora dalla loro la forza dei numeri, visto che
gli impianti a biomassa attivi in Italia sono solo un’ottantina, mentre nel 2014
l’Ispra censiva ben 279 impianti per la produzione di fertilizzante dai rifiuti organici, trentanove in più rispetto all’anno precedente.
fonte: http://www.riciclanews.it