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Biometano estratto dai rifiuti per alimentare i mezzi pubblici: primo possibile impianto a Napoli



La soluzione per gestire l’emergenza rifiuti traendone un vantaggio effettivo esiste: si chiama biometano e potrebbe rivoluzionare la filiera di stoccaggio rifiuti nazionale.
Il biometano potrebbe essere la soluzione per ridurre le emissioni di gas serra nell’aria. Si tratta di una fonte di energia rinnovabile e programmabile, estraibile da biomasse agricole e da frazioni di rifiuto solido urbano. Il progetto che potrebbe coinvolgere Napoli parte proprio dalla ricerca di un sistema alternativo per gestire i rifiuti e, allo stesso tempo, renderli parte del ciclo produttivo della città.
La Campania è, da anni, vittima dell’emergenza rifiuti. Questa emergenza, secondo le stime, costa centinaia di migliaia di euro al giorno alla Regione, usati per il conferimento in strutture extraregionali (in Nord Italia esistono circa 1.200 impianti del genere a fronte delle poche decine realizzati nel Mezzogiorno).
Oltre al mancato sviluppo di un sistema sano di gestione e circolarità del rifiuto, non mancano inefficienze burocratiche e intoppi normativi che non aiutano il fiorire della Regione.

La conversione del rifiuto in biometano è conveniente non solo per soddisfare gli obiettivi di decarbonizzazione previsti per il nostro Paese, ma anche per sfruttare i rifiuti organici secondo i principi dell’economia circolare.
Nella Strategia Energetica Nazionale, il potenziale di sviluppo del biometano individuato è di circa 8 mld di m³ al 2030.
Per rilanciare l’economia del territorio e raggiungere un piano di sviluppo e gestione dei rifiuti efficiente e sano, URBEI, società specializzata in progettazione, costruzione e gestione di impianti biogas sta proponendo soluzioni concrete per lo sviluppo del biometano.
Attualmente la società è in attesa di completare l’iter autorizzativo che gli consenta di realizzare un impianto di potenza pari a 250 Nmc/h in località San Pietro a Patierno.
L’impianto, costato circa 22 milioni di euro, prevede ampissimi margini di recupero e ammortizzamento e risolverebbe gran parte del problema rifiuti che affligge il territorio.
"La tecnologia applicata – sottolinea Vartuli, Responsabile di URBEI – non prevede alcun tipo di combustione e rilascio di sostanze nell’atmosfera, con grandi vantaggi ambientali ed economici. Non solo riesce a togliere volume alla discarica ma il biocompost può essere utilizzato come concime per piante o colture intensive sotto serra mentre il metano andrebbe ad alimentare il circuito sempre più in sviluppo dell’autotrazione".
Stando alle stime della Commissione, in un modello di economia circolare il risparmio di materie prime per l’industria europea nel 2025 potrebbe essere almeno del 14% a parità di produzione, una percentuale equivalente a circa 400 miliardi di euro. In relazione all’Italia, si parla di circa 12 miliardi di euro; buona parte di questi potrebbe derivare proprio dallo sfruttamento dei rifiuti del Sud.

fonte: https://www.nonsoloambiente.it/

Biometano, la produzione agricola potrebbe coprire il 12% dei consumi italiani di gas


















In Italia il gas ricopre un ruolo rilevante con il 34,6% di contributo al consumo interno lordo: 70.914 milioni di metri cubi distribuiti principalmente tra il settore residenziale (con il 40,7% dei consumi), industriale (20,4%) e quello dei trasporti (1,5%).
Eppure la produzione di biometano – un biocombustibile che si ottiene sia dagli scarti di biomasse di origine agricola, sia dalla frazione organica dei rifiuti solidi urbani derivante dalla raccolta differenziata – nel solo settore agricolo potrebbe coprire il 12% dei consumi attuali di gas in Italia con evidenti vantaggi ambientali e economici.

Il biometano è un anello fondamentale per il corretto trattamento dei rifiuti biodegradabili nell’ambito del nuovo scenario dell’economia circolare a livello nazionale, a partire dalle regioni del centro sud, ed europeo. Può avere, inoltre, un ruolo fondamentale nella strategia energetica del nostro Paese, per ridurre l’inquinamento atmosferico e nella lotta ai cambiamenti climatici. Secondo il Comitato Termotecnico Italiano il biometano è in grado, infatti, di evitare l’immissione di gas serra di almeno il 75% rispetto a quelle dei combustibili fossili, un contributo fondamentale all'obiettivo di contenimento del surriscaldamento del pianeta entro 1,5 gradi centigradi come recentemente auspicato dal Comitato intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC). L’intero processo, oltre alla produzione di energia verde, permette inoltre di avere come risultato finale un ammendante utile a ridare fertilità ai suoli impoveriti dall'agricoltura intensiva. Senza dimenticare che il biometano "fatto bene” è una grande opportunità economica per i territori, anche in relazione alla creazione di nuovi posti di lavoro.
Sono tutti temi di cui si è discusso oggi nel corso della seconda conferenza nazionale L’era del biometano, promossa da Legambiente a Bologna, per raccontare non solo lo stato dell’arte in Italia, ma anche per rendere sempre più concrete le opportunità per aziende e territori, partendo proprio da quelle esperienze imprenditoriali già attive e di successo. Anche perché il 2018 è stato l’anno di approvazione del tanto atteso decreto per la promozione dell’uso del biometano nel settore dei trasporti. Una misura che, insieme alla definitiva approvazione del nuovo pacchetto di direttive europee sull’economia circolare, che pone tra gli altri l’obbligo della raccolta separata dell’organico a livello europeo, deve accelerare la transizione verso un modello di consumo più sostenibile. Con lo stesso decreto si aprono nuovi e importanti scenari, a partire dai 4,7 miliardi di euro messi in bilancio dallo Stato fino al 2022 per i nuovi impianti per la produzione di biometano e biocarburi da rifiuti. Un incentivo che mira a sostenere i maggiori costi nella produzione di biocarburanti, rendendoli così competitivi con quelli dei combustibili fossili nel settore dei trasporti.
«Il biometano non solo si presta ad essere e a diventare un fonte energetica sempre più strategica nel settore dei trasporti e dei consumi domestici, ma siamo convinti giocherà un ruolo fondamentale nella transizione energetica, offrendo importanti occasioni di rilancio per le imprese, soprattutto agricole, oltre che uno strumento fondamentale per la lotta ai cambiamenti climatici e nella gestione dei rifiuti – dichiara Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente –. In particolare su quest’ultimo punto non possiamo più aspettare. Occorre partire con la realizzazione di nuovi impianti di digestione anaerobica per la produzione di biometano per il trattamento della frazione organica, a partire dalle regioni del centro sud Italia che oggi ne sono carenti, nonostante l’umido rappresenta il 30-40% del totale dei rifiuti prodotti, e affiancare con questa tecnologia anche gli impianti di compostaggio aerobici esistenti, per ottimizzare il processo. Per questo è necessario da subito individuare necessità e creare sinergie per favorire lo sviluppo di un sistema integrato e soprattutto "fatto bene”, sostenendo l’impegno di istituzioni e imprese e coinvolgendo i cittadini sulla strategicità, i vantaggi ambientali ed economici e garantendone la partecipazione con strumenti che integrino il normale iter autorizzativo, fornendo un’informazione corretta e trasparente».
Al di là di superare le carenze normative ancora presenti nel nostro paese (prime fra tutte quelle sulla distinzione tra "sottoprodotto” e "rifiuto” e i limiti all’utilizzo agronomico del digestato previsti dal Decreto Mipaaf 5046), è oggi infatti necessario accompagnare la necessaria realizzazione di nuovi impianti con processi partecipativi e di coinvolgimento della cittadinanza, sulla base di esperienze già in essere nel nostro Paese, con l’obiettivo di dare ai territori garanzie di impianti ben fatti e trasparenza nei processi. A tal proposito utile ricordare che, secondo l’Osservatorio Media Permanente Nimby Forum, nel 2016, sono state 359 le attività di opposizione contro opere di utilità pubblica o contro progetti di nuovi impianti, con un aumento del 5% dei contenziosi rispetto all’anno precedente. Di questi il 56,7% ha riguardato il settore energetico (75,4% fonti rinnovabili) e il 37,4% quello dei rifiuti.
I ritardi nella normativa hanno, inoltre, aperto a interpretazioni controverse, a procedure burocratico-amministrative di autorizzazione diverse da Regione a Regione e prodotto scarsa conoscenza della materia da parte di molte amministrazioni e amministratori, il tutto a ritardare la nascita di biometano "fatto bene”. Conoscenze, informazione, trasparenza, dialogo, negoziazione e partecipazione alla base dello sviluppo degli impianti nei territori.
La conferenza nazionale promossa da Legambiente è stata un’occasione per valorizzare il ruolo del biometano nella copertura dei fabbisogni energetici del paese a partire dal suo ruolo nei trasporti urbani e pesante, ma anche nella gestione sostenibile delle frazioni biodegradabili (organico da raccolta differenziata, scarti agricoli, rifiuti agroindustriali, fanghi di depurazione, etc), per confrontarsi con i decisori istituzionali e gli stakeholders del settore della produzione e della distribuzione, affrontando criticità, normative e tecniche della filiera
fonte: www.oggigreen.it

La combustione di biomasse forestali non è sempre neutra per gas serra





















L’UE ed i suoi stati membri continuano a classificare tutta la biomassa di origine forestale come energia rinnovabile e a zero emissioni per la CO2.  In un Rapporto pubblicato nell’aprile del 2017  EASAC (European Academies Science Advisory Council) il Comitato consultivo per la Scienza delle Accademie europee sostiene che è’ semplicistico e fuorviante classificare tutta la biomassa di origine forestale appunto come energia rinnovabile  e a zero emissioni di CO2.  Nel giugno 2018 EASAC ha anche pubblicato un commento (link disponibile all’interno del comunicato)  per ribadire i punti del suo Rapporto per incoraggiare i decisori politici a riconsiderare il loro approccio all’utilizzo di biomasse forestali come energia rinnovabile.. “Spesso si sostiene che il carbonio rilasciato dalla combustione della legna e da altre biomasse forestale viene rimosso dall’atmosfera con la ricrescita della vegetazione. Questo può essere vero a lungo termine, ma i decisori politici potrebbero non rendersi conto di quanto tempo ci vuole perché questo accada. Come minimo ci vogliono molti decenni ed in alcuni casi ci vorranno centinaia di anni per far assorbire la CO2 da nuova vegetazione. Nel frattempo il carbonio emesso contribuirà al cambiamento climatico così come la combustione di carbone o petrolio.” Più avanti,  aggiungono in effetti, che per unità di elettricità prodotta le emissioni di carbonio dalla combustione di biomassa forestale  sono maggiori di quelle prodotte dalla combustione di carbone

Nadia Simonini

Rete Nazionale dei Comitati Rifiuti Zero       

Gubbio contro il rischio diffusione di centrali a biomasse


Un vero successo si è rivelata l’assemblea pubblica, che si è tenuta presso la parrocchia di Padule il 18 maggio ultimo scorso, organizzata dal Comitato “Gubbio Salute Ambiente”, per dimostrare la contrarietà ad impianti che utilizzino biomasse in un territorio, quale la conca eugubina, che ha invece una forte vocazione ambientale-paesaggistica, storico-archeologica e turistica.

L’occasione del dibattito è stato il contestato progetto di un impianto di produzione di energia elettrica e termica, mediante combustione di biomasse legnose della potenza di 100 kwe/h, che si vorrebbe installare nella frazione di San Marco, ad opera della “Agricola DA.MA. ss.”.


Di fronte ad una sala gremita da altre 100 persone, il primo intervento è stato quello del Dr. Giovanni Vantaggi, conosciuto medico di famiglia e da molti anni medico per l’ambiente ISDE-Italia oltre che membro del direttivo del Coordinamento Rifiuti Zero (CRURZ). Il Dottor Vantaggi ha messo in luce l’assoluta non innocuità delle centrali a biomasse, in questo caso, di un PIROGASSIFICATORE che attraverso il processo di pirolisi produrrebbe il SYNGAS che verrebbe utilizzato sia  per ottenere il calore necessario (600-800°C) per mantenere lo stesso processo di pirogassificazione  del cippato (biomassa legnosa) sia per ottenere il vapore prodotto da una caldaia che metterebbe in moto un motore a pistoni  collegato a sua volta ad un generatore elettrico. 
Da tale processo derivano sempre emissioni in atmosfera comunque mai innocue per l’uomo e  che se non costantemente monitorate e non mantenute al di sotto dei parametri di legge, possono costituire un danno alla salute e all’ambiente, tanto che questi impianti necessitano dell’Autorizzazione Unica Ambientale (AUA) che ne disciplina l’esercizio. 


E’ stato facile per il Dr.Vantaggi, confutare le affermazioni “rassicuranti” del Presidente di Confagricoltura che, intervistato da TRG nei giorni scorsi, aveva definito  “affabulatori” i cittadini contrari a questo tipo d’impiantistica, poiché è evidente che una simile centrale, anche se considerata di piccola taglia, tuttavia brucia a detta degli stessi progettisti circa 70 quintali al giorno di biomassa, per cui ha certamente e comunque, un suo “carico ambientale” in termini di emissioni per inquinanti (formaldeidi, furani, diossine, metalli pesanti ecc. ...). Assurdo, inoltre, fare paragoni tra questo pirogassificatore ed i camini di casa, in quanto una famiglia che usa caminetti o comunque combustibile legnoso, arriva a consumare 70 q di legna in un anno, non in un giorno!

Il Dr. Vantaggi ha rimarcato, poi, che già nel 2006 lo stesso Istituto Superiore di Sanità, in un convegno tenutosi il 17 novembre di quell’anno, presso il Centro Servizi S. Spirito, in base all’analisi dei dati d’incidenza dei tumori nell’Alto Chiascio, riteneva la conca eugubina una zona sottoposta, comunque, ad un forte impatto ambientale (per la presenza di due industrie insalubri di classe uno) per cui erano necessari ulteriori approfondimenti. Quindi il Dr. Vantaggi ha ribadito, sulla base della documentazione scientifica, netta contrarietà sia ad ogni impianto a biomasse che all’utilizzo del CSS  (Combustibile Solido Secondario)  nei cementifici presenti nel territorio. 


L’Avv. Valeria Passeri, Vice Presidente del WWF Perugia e membro del Coordinamento Rifiuti Zero, ha ripercorso la normativa sulle energie rinnovabili, partendo dalla loro “elastica” definizione giuridica, che oggi ricomprende tutto, a seguito del c.d. Decreto Clini del 6 luglio 2012 (pneumatici fuori uso, pellicole, rifiuti urbani non differenziati ecc. …), fino a parlare di partecipazione del pubblico interessato nei procedimenti in materia ambientale, come prevista anche per gli impianti a biomassa dalle “linee guida” nazionali, nonostante la semplificazione autorizzativa.

Si è messo in luce che questi impianti non possono essere realizzati in ogni dove, ma, come in questo caso, il Comune dovrà tenere in seria considerazione la vicinanza al centro abitato, agli immobili d’interesse storico-architettonico e alle ruralità, che non mancano, secondo i criteri di inidoneità di tali luoghi ad ospitare le centrali a biomassa.


L’invito poi rivolto al Sindaco, Prof. Filippo Mario Stirati, all’Assessore all’Ambiente, Alessia Tasso e agli altri amministratori presenti, di riesaminare l’intera procedura autorizzativa, non ancora definita, perché come ricorda una recente sentenza della Corte Costituzionale (n. 69 del 5 aprile 2018): “il principio di derivazione comunitaria della massima diffusione degli impianti di energia a fonte rinnovabile può trovare eccezione in presenza di esigenze di tutela della salute, paesaggistico-ambientale e dell’assetto urbanistico del territorio...ma la compresenza dei diversi interessi coinvolti, tutti costituzionalmente rilevanti, ha come luogo elettivo di composizione il procedimento amministrativo”.

Sono poi intervenuti il Sindaco e l’Assessore all’Ambiente che hanno manifestato la volontà di volere indire un tavolo tecnico per ponderare con maggiore attenzione il progetto dell’““Agricola DA.MA. ss.”e come poter salvaguardare il territorio eugubino da altri progetti di questo tipo, che vanno a premiare con lauti incentivi chi brucia biomasse boschive anziché chi pratica colture tipiche biologiche, come, in questo caso, la coltivazione dello zafferano o l’attività di apicoltura, a pochi metri dal costruendo impianto.


Al Sindaco sono seguiti plurimi interventi di cittadini presenti e di componenti il Consiglio comunale tra cui, il portavoce di Forza Italia Avv. Francesco Gagliardi, la rappresentante del Movimento 5 Stelle Sara Mariucci, il Consigliere del Partito Comunista Sebastani.

Tutti, in un sereno dialogo, hanno dimostrato la loro solidarietà e volontà di collaborazione con il Sindaco e il Comitato nel risolvere la non facile questione ambientale.


Fondamentali per competenza ed esperienza sono stati pure gli interventi di Silvia Picchi, rappresentante del Comitato di Monteluiano, già alle prese ivi con un impianto a biomasse, e dell’Arch. Riccardo Testa Presidente dell’Associazione ambientalista “Il Riccio” di Città della Pieve nonché membro del Coordinamento Rifiuti Zero, il quale, venuto con altri associati pievesi - anche loro alle prese con l’altro impianto a biomassa costruito vicino alla tomba etrusca di “Laris” - ha saputo cogliere l’aspetto economico, se non speculativo, della produzione di energia elettrica dalla combustione di biomassa mediante incentivi che paghiamo noi contribuenti in bolletta (€ 00,28 al chilovattore prodotto).


Il Comitato “Gubbio Salute e Ambiente” è fiducioso nell’impegno che l’Amministrazione dedicherà alla risoluzione di questo problema e confida nella reiezione del progetto in nome di una vocazione più ambientale e salutare dell’intera conca eugubina.


Comitato Gubbio Salute Ambiente 




Comitato Gubbio Salute Ambiente: Biomasse? Voglio saperne di più - Gubbio, 18 maggio 2018 - ore 21


























Un imprenditore agricolo della piana Eugubina in Località San Marco  vuole installare un “IMPIANTO DI COGENERAZIONE A CIPPATO DI LEGNO” nella relazione protocollata in comune è scritto:  <<L’impianto proposto sarà alimentato da biomasse legnose, rientrante nella tipologia “ b) sottoprodotti di origine biologica di cui alla tabella 1-A” così come definiti dall’art 8 commi 3-4 de D.M. 6/07/2012 e simili>>. Di seguito la Tabella A citata.






















L’impianto di 100 kwe utilizzerà un pirossificatore per l’utilizzo di circa 70 quintali al giorno di biomassa che nel documentazione presentata dall’imprenditore è scritto testualmente: 






















Comitato Gubbio Salute Ambiente

Impatti ambientali dei combustibili nel settore residenziale

I vantaggi degli incentivi all’uso di biomassa, dal lato delle minori emissioni di CO2, si contrappongono agli effetti negativi sulla qualità dell’aria per le maggiori emissioni di particolato, NOx ed altri inquinanti




















È ormai assodato il ruolo importante che gioca il riscaldamento domestico nell’ambito della qualità dell’aria a scala locale e regionale. A questo proposito in una recente Arpatnews abbiamo parlato dell’indagine di Innovhub - Stazioni Sperimentali per l’Industria sulle emissioni da apparecchi a gas, GPL, gasolio e pellet.
All’interno dell’indagine viene citato lo studio condotto da ENEA Impatti energetici e ambientali dei combustibili nel riscaldamento residenziale, che ha valutato quanto le politiche di decarbonizzazione e di sostegno alle fonti rinnovabili, tra cui le biomasse legnose, impattano sul settore del riscaldamento domestico, da un punto di vista energetico, ambientale ed economico.
Lo studio, attraverso strumenti modellistici per la simulazione di scenari energetici e di qualità dell’aria (TIMES-Italia e GAINS/MINNI), approfondisce dunque gli aspetti tecnologici e ambientali di queste politiche e ne analizza le ricadute economiche.
Per quanto riguarda gli effetti sulla qualità dell’aria, vengono prese in considerazione le emissioni di anidride carbonica, particolato, ossidi di azoto e composti organici volatili non metanici.
Tutti gli scenari esaminati mostrano che le emissioni complessive di inquinanti, come il particolato primario, si riducono al 2030 grazie al miglioramento delle tecnologie adottate. Tuttavia le riduzioni sono minori laddove aumenta l’uso di biomassa legnosa nel settore residenziale.
Nonostante una situazione di generale miglioramento del quadro emissivo, in tutti gli scenari rimangono in Italia aree sensibili nelle quali le concentrazioni di particolato resterebbero superiori sia alle raccomandazioni dell’OMS che ai più elevati limiti europei.
In tali aree, per ridurre ulteriormente le concentrazioni e contenere di conseguenza i rischi per la salute, le Amministrazioni locali dovrebbero prevedere e imporre
  • standard emissivi molto più stringenti sui piccoli impianti a biomasse legnose nel settore residenziale
  • misure per scoraggiare l’uso stesso delle biomasse legnose tal quali in impianti domestici
  • favorire la sostituzione di camini aperti/chiusi con tecnologie efficienti, a gas o con produzione di calore da altre rinnovabili (elettriche o termiche).
Al governo centrale spetterebbe invece l’adozione di standard generali sulle caratteristiche degli impianti.
In linea generale i sostegni alle biomasse legnose nel settore residenziale, nell’ottica della decarbonizzazione, dovrebbero in primo luogo essere condizionati all’uso delle migliori tecnologie disponibili dal punto di vista ambientale e di quelle più efficienti dal punto di vista energetico.
Gli standard emissivi delle tecnologie da incentivare dovrebbero diventare nel tempo sempre più rigorosi, almeno nelle aree sensibili; inoltre sarebbero utili incentivi indiretti, come quelli per la ricerca e l’innovazione sui sistemi di abbattimento del particolato (filtri o altro) più efficaci e a basso costo.
Viste le attuali politiche di sostegno per le biomasse legnose (IVA al 10% sulla legna, niente accise per legna e pellet) e nonostante il passaggio al 22% per l’IVA sul pellet, un aumento dell’uso di biomasse nel riscaldamento domestico avrebbe, secondo lo studio, un effetto negativo sul gettito fiscale.
Si suggerisce l’opportunità di ripensare la fiscalità energetica in ottica ambientale: le tasse dovrebbero essere cioè rimodulate considerando anche gli impatti negativi sulla salute provocati dalle emissioni di inquinanti atmosferici oltre che gli impatti sul clima provenienti dalle emissioni di anidride carbonica.
fonte: http://www.arpat.toscana.it


Perché l’economia circolare? L’Italia importa 155 milioni di tonnellate di materie prime l’anno

Eppure il Piano di azione nazionale sul tema verrà elaborato solo «entro il 2019», spiega il ministro Galletti. Nel mentre nessun incentivo al riciclo, mentre in legge di Bilancio entra la proroga per i bonus alla termovalorizzazione




 
Per promuovere concretamente l’economia circolare nove multinazionali italiane (Fater, Enel, Intesa Sanpaolo, Novamont, Costa Crociere, Gruppo Salvatore Ferragamo, Bulgari, Eataly), leader nei rispettivi segmenti di mercato, hanno firmato ieri presso la sede di Confindustria il manifesto L’alleanza per l’’conomia circolare per uno sviluppo innovativo e sostenibile. Un documento attraverso il quale i firmatari si impegnano a stimolare la collaborazione tra le aziende favorendo la condivisione di buone pratiche, azioni e progetti comuni coinvolgendo tutti gli attori dell’ecosistema: clienti, istituzioni locali e nazionali, comunità di riferimento, associazioni e fornitori.
«Sono fermamente convinta che l’innovazione non sia un viaggio in solitaria ma un percorso che si nutre di contaminazione di saperi, competenze e interconnessioni. Richiede, insomma, un salto culturale dell’intero sistema», spiega l’ad di Novamont Catia Bastioli. «In questo contesto, le grandi imprese – aggiunge Patrizia Grieco, presidente di Enel – possono svolgere un ruolo fondamentale, anche come volano per favorire la transizione circolare delle proprie filiere, rafforzando la competitività del sistema italiano anche nel contesto internazionale».
«Un esempio – argomenta Giovanni Teodorani Fabbri della Fater – è l’impianto che recentemente abbiamo inaugurato a Treviso, il primo al mondo su scala industriale in grado di riciclare il 100% dei prodotti assorbenti usati (pannolini per bambini, per l’incontinenza e assorbenti igienici) trasformandoli in materie prime secondarie che possono essere riutilizzate e dunque rimesse sul mercato». Ma se i singoli esempi d’eccellenza all’interno del territorio italiano certo non mancano, il problema oggi è proprio quello di riuscire a far sistema; con la firma del manifesto le aziende ci provano, rafforzando le collaborazioni già in corso tentando di includere tutti i principali settori nella transizione, in modo da raggiungere le principali filiere industriali del Paese. Ma sarebbe illusorio pensare di raggiungere un obiettivo di questa portata senza il ruolo attivo delle istituzioni nazionali, che finora all’economia circolare insieme agli applausi hanno dedicato «una normativa ottusa e miope» per dirla con Legambiente.
Nel tentativo di invertire la rotta, quest’estate i ministeri dell’Ambiente e dello Sviluppo economico hanno lanciato il documento di inquadramento strategico Verso un modello di economia circolare per l’Italia. Per fare il punto sul percorso di tale strategia, il ministro Galletti è intervenuto alla Camera aggiornando il calendario d’azione: conclusa la fase di consultazione pubblica, il documento dovrà essere presentato entro la fine dell’anno in Consiglio dei ministri, ma alla stesura del vero e proprio “Piano di azione nazionale sull’economia circolare” dovrà pensarci il prossimo governo. «Entro il 2019 – dettaglia infatti Galletti – dovrà indicare gli obiettivi, le misure di policy e gli strumenti da attivare».
Tante buone intenzioni dunque, ma per una politica industriale degna di questo nome l’economia circolare dovrà aspettare (almeno) altri due anni. Eppure si tratta di un tema trasversale alla manifattura italiana, che meriterebbe ben altra urgenza. Per dare una dimensione industriale – e non “solo” ambientale – al problema basti pensare che ogni anno l’Europa è costretta a importare materie prime con un costo da 760 miliardi di euro.  
Vero è che al contempo la produttività delle risorse nazionale e continentale sta crescendo, come documenta anche oggi l’Agenzia europea dell’ambiente, ma a tassi già declinanti; come si legge nell’Environmental indicator report 2017 appena pubblicato, in Europa «c’è stato un calo nell’uso delle materie prime e un rapido aumento della produttività delle risorse in seguito alla recessione economica del 2007/2008», ma il «tasso d’incremento della produttività delle risorse si stima tornerà a quello più basso visto prima della recessione economica, di poco inferiore all’1% all’anno».
E nel mentre gli impatti ambientali e i costi per l’import di materie prime continuano a crescere: per l’Italia, ha confermato il ministro Galletti, le importazioni nette di risorse ammontano a 155 milioni di tonnellate di materie prime nel solo 2015. Poco meno di tutti i rifiuti – urbani e speciali – prodotti in un anno dal Paese, per rendere l’idea. E questo guardando al solo “import” di risorse.

Non si tratta forse di flussi che è necessario governare bene e rapidamente, per la seconda potenza manifatturiera d’Europa? «L’economia circolare non deve essere un principio da enunciare, ma un valore tangibile», osserva il ministro Galletti. Eppure per una concreta politica industriale che entri nel merito della questione l’Italia sembra dovrà attendere ancora un bel po’. E nel mentre, sebbene sembra non ci sia spazio in legge di Bilancio per introdurre – per la prima volta nella storia nazionale – incentivi al riciclo, oggi il Sole 24 Ore spiega che uno dei 173 emendamenti approvato ieri in commissione al Senato prevede la «proroga a tutto il 2020 degli incentivi per la produzione di energia da biomassa, biogas e bioliquidi di cui potrà beneficiare anche il termovalorizzatore di Acerra», e – c’è da supporre – non solo a quello. Un’idea piuttosto distorta di economia circolare.


fonte: www.greenreport.it

Impianti a biomassa, l’Europarlamento chiede nuovi criteri sostenibilità

Un nuovo progetto di parere chiede standard più stringenti sugli impianti a biomassa, abbassando la soglia d’applicazione dei criteri di sostenibilità e alzando quella d’efficienza

















Ridurre la soglia per l’applicazione dei criteri di sostenibilità alla biomassa destinata a impianti con una capacità di combustibile uguale o superiore a 1 MW. Questa la richiesta della Commissione Ambiente dell’Europarlamento (ENVI) e contenuta in un progetto di parere alla nuova direttiva sulle energie rinnovabili 2030. La proposta, presentata dal relatore Bas Eickhout (Gruppo Verde/Alleanza libera europea), colpisce il provvedimento redatto da Bruxelles in tutti i suoi punti deboli.

A partire dall’obiettivo rinnovabili al 2030, che nella draft opinion di Eickhout passerebbe dal quel temerario 27 per cento chiesto dalla Commissione Europea, addirittura ad un 45 per cento. Gli emendamenti più interessanti sono tuttavia quelli riguardanti le agroenergie. Spunta fuori così la richiesta di metter mano alla soglia dei criteri di sostenibilità applicati alla biomassa usata nella produzione elettrica e termica.

Biomasse e criteri di sostenibilità

L’attuale normativa prevede che le fonti agroenergetiche se impiegate per produrre biocarburanti o bioliquidi debbano rispondere a precisi standard per poter essere contati all’interno del target UE. Tali criteri di sostenibilità servono a garantire che vi sia un reale risparmio di emissioni, tutelando la biodiversità. Bruxelles nella sua bozza di direttiva ha proposto che tali obblighi vengano assegnati anche alla biomassa impiegata nelle centrali termiche ed elettriche, a patto che esse abbiano con una capacità uguale o superiore ai 20 MW. Nel rapporto ENVI, la soglia si abbassa drasticamente a 1 MW.

“Impostare una soglia da 20 MW rischia di far sì che la biomassa che non soddisfa tali requisiti sia riservata agli impianti più piccoli di sostenibilità” e quella “a norma”, per così dire, alle grandi istallazioni (“effetto perdita” o “leakage effect”)”, si legge nel rapporto. “La soglia di 1 MW è coerente con la direttiva sulle centrali a combustione media e rappresenta già un impianto di grandi dimensioni (1 MW può alimentare circa 400-900 case)”.

Non solo. Il relatore propone anche requisiti più stringenti per gli Stati membri che intendano fornire sostegno finanziario agli impianti di biomassa su larga scala. In linea con la raccomandazione contenuta nella direttiva, i sussidi dovrebbero essere concessi solo a tecnologie con un’efficienza di conversione di almeno l’85% per applicazioni residenziali e commerciali.

fonte: www.rinnovabili.it

DL Mezzogiorno, ok della Camera con regalo a Enel.Si e vecchie biomasse

Le due modifiche riguardanti l'energia frutteranno rispettivamente 44-66 milioni a un solo progetto della ESCo di Enel e da 78 a 129 milioni da spartire tra alcuni vecchi impianti a biomasse e bioliquidi per la produzione elettrica. Il testo votato in aula, gli emendamenti e gli ordini del giorno.















È stato approvato dall’aula di Montecitorio il Ddl di conversione del DL Mezzogiorno 243/2016 (A.C. 4200-A), che ora passa all’esame del Senato.
Nel testo, votato ieri, sono stati incorporati gli emendamenti su efficienza energetica e biomasse di cui avevamo parlato.
La modifica sui grandi progetti di efficienza energetica – proposta dall’onorevole Cinzia Maria Fontana (PD) – come abbiamo scritto ieri – sembra concepita su misura, a beneficio di un’unica iniziativa, di Enel.Si.(Esco di Enel).
La proroga di un anno disposta per gli impianti di cui all’art. 14, comma 11, del D.Lgs 4 luglio 2014 n. 102 – infatti, a quanto risulta a QualEnergia.it – interesserebbe un solo un grandissimo progetto presentato nel 2010, che dovrebbe riguardare un’acciaieria (Enel.si non ha risposto alle nostre richieste di chiarimento).
La possibilità di ritirare per un anno in più i 440.322 titoli di efficienza energetica del progetto potrebbe fruttare all’azienda da 44 milioni a 66 milioni di euro circa, a seconda del valore di mercato dei titoli considerato.
Dovrebbe portare benefici solo a pochi e vecchi impianti anche la modifica introdotta sulle biomasse, nata da un emendamento dell’onorevole Antonio Castricone (PD).
Si prorogano di un altro anno (fino al 2021) gli incentivi agli impianti a biomasse, biogas e bioliquidi sostenibili per la produzione di energia elettrica che hanno cessato di usufruirne entro il 2016.
La modifica interviene sulla Legge di Stabilità 208/2015 (commi 149, 150 e 151) che aveva già concesso cinque anni di sussidi in più a questi impianti, datati e che in genere sono di grossa taglia e producono solo energia elettrica.
Secondo il calcolo fatto dal GSE in occasione della prima estensione, il costo aggiuntivo dell’operazione è da 78 a 129 milioni di euro all’anno.

fonte: www.qualenergia.it

Biomasse: utili per l’ambiente, nocive per la salute?

Le biomasse sono considerate fonti rinnovabili rispettose dell’ambiente, ma sono anche la tipologia di combustibile per riscaldamento domestico a più alta emissione di PM2,5, la cui natura cancerogena è causa di buona parte dei decessi per inquinamento in Italia. Ambiente e salute convivono in un rapporto contraddittorio e di difficile soluzione.


















Attualmente un quarto della produzione energetica dell’Eurozona è ricavata da fonti rinnovabili. Di queste, nonostante una crescita consistente del solare e dell’eolico, oltre il 63% è rappresentato dalle biomasse: una fonte rispettosa dell’ambiente, perché durante il processo di combustione emette nell’atmosfera una quantità di Co2 pari a quella assorbita durante il processo di crescita, azzerando il rilascio di nuova anidride carbonica. Un mezzo per ridurre il consumo di carburanti fossili e recuperare gli scarti agricoli e forestali. Eppure, si è sottovalutato un aspetto importante: le elevate emissioni di polveri sottili PM 2,5.

Appuratane la sostenibilità, le politiche green europee, così come quelle italiane, hanno cominciato a sovvenzionare l’uso delle biomasse e a tassare prima i combustibili liquidi (gasolio, GPL, kerosene) e poi il metano. Le normative ambientali si sono concentrate soprattutto su un settore, quello dei trasporti, emanando severe restrizioni che hanno ridotto il tetto massimo di emissione di polveri sottili da 140mg a 5mg dal 1992 al 2016. I dati ISPRA parlano di un risultato soddisfacente: le emissioni di particolato frazione PM2,5 derivate dai trasporti sono calate del 60%, nonostante l’aumento del numero dei mezzi impiegati. Ma, mentre diminuivano le emissioni delle automobili, aumentavano quelle prodotte dal riscaldamento domestico – dai 30 mln ai 60 mln di tonnellate di PM2,5 – rendendo ogni sforzo vano.

Secondo i dati ISPRA-ISTAT, quasi tutte le emissioni primarie di PM2,5 nel residenziale sono dovute alla combustione di biomasse, nello specifico legna e pellet. Se mancano dati affidabili per stimare il consumo di legna, l’adozione del pellet ha subito un’impennata costante dal 2006: alla fine del decennio in corso si passerà a consumarne da 10 a 23 mln di tonnellate in UE e da 1 a 10 mln in Cina. Nel 2011, ISPRA ha pubblicato un rapporto in cui si evince la portata delle emissioni di PM2,5 prodotte dalle biomasse: 400 grammi/gigaJoule. Nettamente superiori al carbone (219g/GJ), gpl (3,6 g/GJ) e metano (0,2g/GJ). Una ricerca della European Respiratory Society sottolinea come le emissioni di particolato fine dovute a legna e pellet a uso domestico sono fino a cinque volte superiori di quelle prodotte dalle grandi centrali a biomassa.

La questione è complessa. Da un lato, nell’ottica di un’efficace mitigazione del cambiamento climatico, la riduzione delle emissioni di gas serra è fondamentale e prioritaria. Dall’altro le PM2,5 sono estremamente nocive per l’uomo, in quanto le dimensioni ridotte delle polveri consentono al particolato di arrivare a intaccare i polmoni in profondità e, secondo il progetto VIIAS, per via della loro natura cancerogena indipendente dall’origine emissiva, sono le principali responsabili di oltre il 60% dei decessi per inquinamento che avvengono annualmente in Italia.

Il quadro è quindi poco incoraggiante ed è arduo trarre conclusioni sulla strada migliore da intraprendere. Sicuramente non tutti gli impianti domestici a biomasse sono uguali, e una rigida regolamentazione della qualità di combustibili, installazione, manutenzione e condotti darebbe un contributo importante. Così come la produzione di piani industriali volti ad aumentare le classi di efficienza energetica e l’isolamento termico durante le fasi di costruzione e ristrutturazione. Certo restano fattori difficili da controllare, come il comportamento sociale, secondo cui l’efficienza tecnologica si traduce spesso in un aumento della domanda pro-capite di energia, o la presenza di condizioni climatiche sempre più instabili che, complici inversione termica e assenza di vento, inchiodano i vari inquinanti al suolo. Per il momento, però, è importante non dare per scontato che le biomasse siano una fonte sostenibile a tutto tondo, iniziando ad affrontare il problema dell’inquinamento da esse prodotto prima che la situazione peggiori ulteriormente.

fonte: http://nonsoloambiente.it

Biomassa agricola, se non ben immagazzinata diventa rifiuto




















Gli scarti vegetali utilizzati per produrre energia rinnovabile non rientrano nella disciplina dei rifiuti solo se ben stoccati e non dispersi nell'ambiente. In caso contrario, risultano materiale abbandonato e quindi classificabile come rifiuto.
Questo quanto stabilito dai Giudici nella sentenza Tar Toscana 1611/2016 che ha esaminato il caso di un deposito di residui di materiale insilato, presso un impianto di produzione di energia elettrica da biogas.

In seguito ai rilievi effettuati dall'Arpa presso l'impianto, è stato "riscontrato l'abbandono e il deposito incontrollato di rifiuti costituiti da residui di materiale insilato non avente più le caratteristiche di quello destinato ad alimentare l'impianto aziendale". Il Sindaco del Comune nel quale è ubicato l'impianto ha, perciò, emanato un'ordinanza per la rimozione dei rifiuti.
L'azienda propietaria dell'impianto ha contestato che il materiale riscontrato dall'Arpa e dalla Polizia Municipale possa essere qualificato come rifiuto, perchè si tratta di una modica quantità di biomassa costituita da prodotti vegetali non trattati chimicamente, non pericolosa per l'ambiente e accidentalmente caduta al suolo durante le operazioni di stoccaggio.
I Giudici hanno respinto il ricorso dell'azienda, in quanto i rivieli effettuati dall'Arpa mostrano chiaramente che "il materiale risulta abbandonato sul terreno, e ciò evidenzia l'intenzione della ricorrente di disfarsene. Correttamente, quindi, il Sindaco, ... ha impartito l'ordine di rimuoverlo".
I materiali agricoli utilizzati per produrre energia sono esclusi dalla disciplina sui rifiuti (articolo 185, comma 1, lett. f) del Dlgs 152/2006) solo fintantoché vengono utilizzati per produrre energia e non quando siano stati abbandonati, come accaduto nel caso esaminato. Caso che ha procurato anche un evidente danno ambientale, derivante dal percolato rilasciato dai residui vegetali abbandonati e dal relativo ruscellamento nei corsi d'acqua limitrofi all'azienda ricorrente.
Inoltre, i materiali rinvenuti non possono essere nemmeno considerati come funzionali a fertilizzare il terreno - come dicharato dall'azienda - perchè esso è stato compattato con l'apporto di materiali sabbiosi e detriti rocciosi, trasformandolo in piazzali per ospitare i silos di stoccaggio. E ciò fa venir meno la sua natura agricola.

fonte: www.nextville.it

Biomassa, gli obiettivi UE aiutano la deforestazione

Gravi episodi di disboscamento in Europa sono legati a doppio filo agli obiettivi UE sulle rinnovabili e alla politica comunitaria dei sussidi













Per raggiungere i suoi obiettivi sulla bioenergia, l’Unione Europea sta chiudendo un occhio su gravi episodi di deforestazione indiscriminata. Una realtà che non riguarda soltanto paesi come l’Indonesia, dove il fenomeno ha assunto rilevanza mondiale anche grazie alla lotta contro lo sfruttamento dell’olio di palma, ma il nostro cortile di casa. L’energia da biomassa, secondo le direttive Ue attuali, dovrebbe provenire soltanto da residui del legno e rifiuti agricoli, ma gli impianti a biomassa non sono obbligati a garantire che il combustibile impiegato provenga da fonti gestite in modo sostenibile.
È l’allarme lanciato da Birdlife e Transport & Environment in un rapporto dal titolo Black Book of Bioenergy. Si tratta di un ambito decisamente rilevante per l’UE, visto che la quota di biomassa nel mix energetico è stata portata l’anno scorso ad almeno il 27%, con l’obiettivo di rispettare le promesse sui tagli delle emissioni e sulla lotta ai cambiamenti climatici. Una cifra che si attesta invece al 65% se si considera l’output solo tra le energie rinnovabili.

Sotto la lente del rapporto finiscono ad esempio le foreste della Slovacchia orientale nel parco nazionale di Poloniny, dove il disboscamento è cresciuto del 50% rispetto al 2000 e dove il legname di buona qualità (non gli scarti) arriva a coprire fino al 70% del totale della biomassa. Un trend, accusano le Ong, che è legato a doppio filo agli obiettivi UE sulle rinnovabili e alla politica comunitaria dei sussidi. Discorso analogo è stato riscontrato dagli membri delle due Ong anche per certe aree della Bassa Sassonia in Germania e per le isole Canarie.
Non fa eccezione l’Italia. Secondo il rapporto, sono più di 400 gli ettari di boschi interessati dal fenomeno. Sono concentrati sostanzialmente tutti in Emilia-Romagna, lungo quasi 200 km di sponde fluviali. In buona sostanza le aziende riuscirebbero ad ottenere i permessi per disboscare queste aree presentando i loro interventi come misure di mitigazione del rischio di alluvioni.

fonte: www.rinnovabili.it

Potature, tra compost e biomasse: a scegliere sarà il mercato?

potature biomassa
Prima sottoprodotto, poi rifiuto. Adesso, forse, di nuovo sottoprodotto. È il surreale ping-pong degli sfalci e delle potature del verde urbano, espressione che indica l’erba e le ramaglie prodotte dalla manutenzione di aiuole, parchi e giardini pubblici e privati in aree cittadine, che a breve potrebbero segnare un vero e proprio record: quello di veder mutata per ben tre volte in poco meno di sei anni la propria natura giuridica. Il ddl Collegato agricoltura – una serie di misure per aumentare la competitività nel settore agricolo – attualmente in discussione al Senato, prevede infatti all’articolo 41 l’esclusione dei residui da manutenzione del verde urbano dal novero degli scarti di lavorazione soggetti alla disciplina sui rifiuti. Articolo che, se approvato definitivamente, sortirebbe l’effetto di riportare indietro di sei anni le pagine del calendario legislativo italiano.
Fino al 2010 infatti il Testo unico ambientale non considerava sfalci e potature del verde urbano come “rifiuto” ma come “sottoprodotto”, e quindi ne permetteva il riutilizzo senza trattamenti ulteriori; il che garantiva ai Comuni – responsabili della raccolta e gestione dei residui verdi urbani – la possibilità di spedirli dietro compenso agli impianti per la produzione di energia da biomassa, che bruciano legna ed altri scarti organici per alimentare le reti di teleriscaldamento e che la normativa italiana include nel novero delle fonti rinnovabili.
Nel 2010 però, con il recepimento della direttiva europea quadro sui rifiuti, cambia il Testo unico e con lui la natura giuridica di sfalci e potature urbane: da sottoprodotto a rifiuto. Per poterli riutilizzare come accadeva prima del 2010, recita il nuovo  Testo unico, c’è bisogno di dimostrare – secondo una procedura piuttosto lunga e dispendiosa – che rispondano ad una serie di parametri di compatibilità ambientale (come ricordato poco meno di un anno fa dal Ministero dell’Ambiente in un parere ufficiale), altrimenti restano rifiuti. La destinazione principale del verde urbano diventa così lo smaltimento in impianti autorizzati al trattamento dei rifiuti: per lo più centri di compostaggio o biodigestione, che producono fertilizzante o biogas. Senza dimenticare che, al momento, né la normativa italiana né tanto meno quella comunitaria prevedono l’obbligo di raccolta differenziata e di riciclo degli scarti organici, e che dunque nulla impedisce ai Comuni di conferire sfalci e potature in discarica, soprattutto nei territori non serviti da un’adeguata rete di impianti di compostaggio o biodigestione. Ben più complesso diventa invece avviarli verso gli impianti a biomasse, non autorizzati a trattare rifiuti.
Lo scenario, però, potrebbe mutare radicalmente con l’entrata in vigore del Collegato agricoltura, che derubricando sfalci e potature da rifiuto a sottoprodotto tornerebbe di fatto ad autorizzarne il trattamento negli impianti a biomassa, sebbene in deroga alla disciplina europea. E se da un lato questo potrebbe condurre a incertezze interpretative, contenziosi e persino all’apertura di una procedura d’infrazione, dall’altro lato è innegabile che la misura potrebbe rivelarsi conveniente non solo per gli impianti a biomassa ma anche per i per i Comuni. «A differenza dei rifiuti, i sottoprodotti non si possono avere gratis ma bisogna pagarli - spiega Walter Righini, presidente della Federazione italiana produttori di energie rinnovabili (Fiper) – per questo gli impianti di teleriscaldamento sono disposti ad acquistare dai Comuni la loro biomassa ad un prezzo di circa 15-20 euro a tonnellata, mentre al momento inviare a compostaggio o biodigestione una tonnellata di verde urbano costa agli stessi Comuni circa 60 euro». Insomma, da voce di costo sfalci e potature potrebbero tornare ad essere fonte di guadagno.
I gestori dei bruciatori a biomassa già fiutano l’affare. Del resto l’intero settore, complice la crisi economica, è da tempo alle prese con la difficoltà di reperire sul mercato il cosiddetto cippato di legno, ovvero lo scarto delle segherie e dei pannellifici che rappresenta la principale fonte di alimentazione degli impianti. Dal canto loro i compostatori scendono invece sul piede di guerra, temendo di vedersi portata via una buona fetta della materia che oggi viene avviata a trattamento nei loro impianti. «Considerando che su 5,7 milioni di tonnellate di rifiuti organici, 1,9 provengono dal  verde,  quindi  più del 33%, questa iniziativa che nasce per fini di lobby potrebbe avere un effetto nefasto su un settore che è solido, strutturato e virtuoso» denuncia Alessandro Canovai, presidente del Consorzio italiano compostatori (Cic), aggiungendo che l’entrata in vigore del collegato «non solo esporrebbe il nostro paese ad un’altra procedura di infrazione europea, ma comporterebbe anche un incremento dei costi di trattamento dei rifiuti urbani e delle tariffe per i cittadini».
Fermiamoci un istante: da un lato la Fiper sostiene che la misura porterà guadagni ai Comuni. Dall’altro il Cic denuncia il rischio di incremento dei costi di trattamento e quindi delle tariffe rifiuti. Chi ha ragione? Entrambi. C’entra il fatto che sfalci e potature sono due tipi di scarto diversi tra loro, con un differente appeal sulle imprese. Perchè mentre «gli sfalci sono perfetti per il compost» spiega Righini «potature e ramaglie contengono lignina, e quindi si prestano benissimo ad essere utilizzate come combustibile negli impianti a biomasse». Nelle mire degli impianti di teleriscaldamento, insomma, non c’è tutto il verde urbano ma solo gli scarti legnosi. Righini spiega che «il beneficio economico complessivo per l’amministrazione pubblica italiana potrebbe aggirarsi quindi tra 240-360 milioni di euro l’anno», visto che, secondo stime di Fiper, il quantitativo disponibile di potature urbane si attesta intorno ai 3-4 milioni di tonnellate all’anno con un costo di smaltimento di circa 180-240 milioni di euro a fronte di un possibile ricavo, in caso di utilizzo energetico, di 80-120 milioni.
Il problema è che le ramaglie fanno gola anche ai compostatori dal momento che, spiega Canovai, rappresentano «lo strutturante che permette di compostare scarti alimentari ed altre matrici ad elevata putrescibilità». La classificazione delle potature fuori dal regime di gestione dei rifiuti, assicura però Righini «non vieta ai compostatori di impiegare questo materiale quale strutturante della fabbricazione del compost. Ci si misurerà sul mercato per il loro acquisto, nella logica della concorrenza nei diversi usi. Sicuramente i detentori, ovvero i Comuni – aggiunge – potranno beneficiare economicamente di questa competizione».
E i Comuni, da che parte stanno? Non dalla parte del libero mercato, visto che l’Anci, associazione dei Comuni italiani, si è schierata a favore dei compostatori. Oltre a paventare il rischio che il conflitto con il dettato comunitario possa generare incertezza e confusione nell’applicazione della normativa, l’Anci sostiene infatti che l’entrata in vigore del Collegato agricoltura «abbatterebbe il livello di raccolta differenziata negli enti locali». In effetti, l’organico rappresenta ad oggi circa la metà dei rifiuti raccolti dai Comuni italiani in maniera separata. Escludere il verde urbano dal novero dei rifiuti significherebbe sottrarlo di punto in bianco al conteggio delle quantità raccolte in maniera differenziata dagli enti locali, e quindi condannare ad un drastico calo le percentuali di differenziata in ogni singolo comune della Penisola. Percentuali che a quel punto, ripulite dell’effetto dopante garantito dalle quantità di scarti da verde pubblico, rispecchierebbero in maniera più sincera la reale efficacia dei sistemi di raccolta dei rifiuti urbani “tout court” (quelli della pattumiera) messi a punto dai Comuni, aumentando al tempo stesso le distanze, in molti casi ancora notevoli, dai target fissati dalla normativa nazionale. Una prospettiva che, a quanto pare, spaventa i Comuni più di quanto non li alletti l’idea di risparmiare sui costi di smaltimento delle potature da verde urbano.
Anche perchè non è detto che le conseguenze di una eventuale “liberalizzazione” del mercato delle potature si sviluppino tutte in direzione del risparmio. Se tutti i Comuni decidessero infatti di vendere le proprie potature piuttosto che smaltirle, non solo i titolari di impianti a biomassa ma anche i compostatori sarebbero obbligati a pagare per acquistarle sul mercato. E questi ultimi, di conseguenza, potrebbero essere costretti ad aumentare il costo di conferimento ai propri impianti. Perchè a differenza degli impianti a biomassa, che recupererebbero la spesa grazie alla vendita dell’energia prodotta – peraltro incentivata dallo Stato – i compostatori, che non guadagnano dalla vendita del fertilizzante ma dal prezzo pagato dai Comuni per smaltire l’organico, non potrebbero che rientrare dei nuovi costi di approvvigionamento delle potature aumentando le tariffe di conferimento.
Insomma, se da un lato i Comuni potranno guadagnare dalla vendita delle potature, dall’altro invece saranno costretti a pagare di più per smaltire quel che resta delle loro frazioni organiche. E se l’ago della bilancia dovesse pendere più verso i costi che verso i ricavi, un aumento della tariffa rifiuti potrebbe risultare inevitabile. Impianti a biomasse e centri di compostaggio possono dunque davvero concorrere alla pari sul libero mercato? La travagliata storia di sfalci e potature sembrerebbe proprio rispondere di no. Ma non è detto che l’eventuale entrata in vigore del Collegato debba necessariamente tradursi nella catastrofe pronosticata da Comuni e compostatori. Al momento, infatti, questi ultimi hanno ancora dalla loro la forza dei numeri, visto che gli impianti a biomassa attivi in Italia sono solo un’ottantina, mentre nel 2014 l’Ispra censiva ben 279 impianti per la produzione di fertilizzante dai rifiuti organici, trentanove in più rispetto all’anno precedente.

fonte: http://www.riciclanews.it