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Quante e quali risorse per proteggere l'ambiente?

 











I conti dell’ambiente di Istat forniscono informazioni statistiche sulla interazione tra i sistemi economico ed ambientale

A partire dai primi anni ‘90 Istat ha avviato la sua ...

Istat: emissioni atmosferiche 2008-2018

L'Istat ha reso noti i dati sulle emissioni atmosferiche dell’economia nazionale riferiti agli anni 2008-2018 e una stima provvisoria delle emissioni di gas climalteranti per l’anno 2019



















L'Istat ha reso disponibili i dati sulle emissioni atmosferiche a livello nazionale riferiti agli anni dal 2008 al 2018 e una stima provvisoria delle emissioni di gas climalteranti per l’anno 2019.

La serie storica riguarda le emissioni relative a
tutte le attività produttive suddivise in 64 branche di attività economica in base alla Classificazione delle attività economiche Ateco 2007 (corrispondente a livello europeo alla Nace - Statistical Classification of Economic Activities in the European Community)
3 tipologie di consumo finale delle famiglie (trasporto, riscaldamento, altro).

I dati sono riferiti a 23 sostanze inquinanti (climalteranti, acidificanti, precursori dell’ozono troposferico, polveri sottili, metalli pesanti), in particolare: anidride carbonica, protossido di azoto, metano, ossidi di azoto, ossidi di zolfo, ammoniaca, composti organici volatili non metanici, monossido di carbonio, PM10, PM2,5, arsenico, cadmio, cromo, rame, mercurio, nichel, piombo, selenio, zinco, idrofluorocarburi, perfluorocarburi, esafluoruri, trifloruro di azoto.

I conti delle emissioni atmosferiche sono conformi al Regolamento UE 691/2011 e sono calcolati in base al conto Namea (National accounting matrix including environmental accounts, ossia matrice di conti economici nazionali integrata con conti ambientali), che confronta gli aggregati socio-economici della produzione, del valore aggiunto, dell'occupazione e dei consumi finali delle famiglie con i dati relativi alle pressioni che le attività produttive e di consumo esercitano sull'ambiente.

I dati sulle emissioni atmosferiche riportate in Namea sono calcolati a partire dall’inventario nazionale delle emissioni atmosferiche, realizzato annualmente da ISPRA, dal quale scaturiscono i dati comunicati dall’Italia in sede internazionale nell’ambito della convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (United Nations Convention on Climate Change - Unfccc) e della Convenzione sull'inquinamento atmosferico transfrontaliero (Convention on long range transboundary air pollution – Clrtap).

ISTAT ha reso disponibili anche:
la tavola di raccordo che, per ciascun inquinante atmosferico, esplicita la relazione esistente fra le emissioni incluse nella Namea e quelle calcolate da ISPRA nell’ambito della convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e della convenzione sull'inquinamento atmosferico transfrontaliero;
gli indicatori delle intensità di emissione delle attività produttive rispetto alla produzione, al valore aggiunto e alle unità di lavoro a tempo pieno (ULA).

I dati sono disponibili sulla banca dati I.Stat, nel tema “Conti nazionali”, sotto la voce Conti ambientali/Emissioni atmosferiche NAMEA (NACE Rev.2).

fonte: www.arpat.toscana.it/


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Economia circolare? Istat: solo il 21,3% delle imprese usa materie prime seconde

Marginale anche l’impegno nella produzione di energia da fonte rinnovabile elettrica (7,2%) o termica





















Più sociale, che ambientale. E anche laddove si parla concretamente di riduzione dell’impatto, complessivamente la sostenibilità nelle maggior parte delle imprese italiane non è materia ancora di vitale importanza, ma nemmeno l’ultima ruota del carro. Come invece dovrebbe esserlo. Questo il quadro che emerge da una lettura attenta del report Istat “Sostenibilità nelle imprese: aspetti ambientali e sociali” pubblicato oggi.
Il tema della sostenibilità, sostiene l’Istituito, ha un crescente impatto sull’agenda politica e sui comportamenti di famiglie, imprese, istituzioni. In particolare, all’interno del perimetro organizzativo dell’impresa, questo tema induce nuove pratiche, potenzialmente in grado di coniugare crescita e performance economica, sostenibilità sociale e ambientale.
I dati del censimento permanente delle imprese – dichiara Istat – permettono ora di misurare compiutamente il tema della sostenibilità nelle imprese e integrarlo in un quadro informativo estremamente ricco e articolato. Il campione effettivamente è importante: 280mila imprese con 3 e più addetti, rappresentative di un universo di poco più di un milione di unità, corrispondenti al 24,0% delle imprese italiane che producono però l’84,4% del valore aggiunto nazionale, impiegano il 76,7% degli addetti (12,7 milioni) e il 91,3% dei dipendenti: si tratta quindi di un segmento fondamentale del nostro sistema produttivo. La rilevazione diretta è stata svolta tra maggio e ottobre del 2019, l’anno di riferimento dei dati acquisiti dalle imprese è il 2018.
Dal punto di vista strettamente ambientale – perché quello sociale riguarda praticamente solo la salute dei lavoratori in relazione alla disponibilità delle aziende rispetto alla flessibilità dell’orario – i macrotemi sono quelli dell’energia, dell’acqua, dei rifiuti e dell’aria.
Energia
Secondo le statistiche contenute nel rapporto, “uno degli ambiti di intervento delle imprese per la riduzione degli impatti sull’ambiente attiene alla gestione efficiente e sostenibile dell’energia e dei trasporti, in forte sviluppo grazie anche alle politiche di incentivazione delle fonti energetiche e rinnovabili (Fer) e dell’efficienza energetica portate avanti dal nostro Paese negli ultimi anni”.
Ma in che modo? Per ridurre i consumi energetici il 40,1% delle imprese ha provveduto a installare macchinari, impianti e/o apparecchi efficienti, quindi il 60% non ha fatto nulla. Di quel 40%, il 32,2% lo ha fatto senza usufruire di incentivi.
Tra gli investimenti finalizzati al risparmio di energia, solo 13 imprese su 100 hanno scelto l’isolamento termico degli edifici e/o la realizzazione di edifici a basso consumo energetico e di queste 10 su 100 hanno sostenuto la spesa in assenza di incentivi.
Più marginale l’impegno delle imprese nella produzione di energia da fonte rinnovabile elettrica (7,2%) o termica (4,4%) e nella realizzazione di impianti di cogenerazione, trigenerazione e/o per il recupero di calore7 (2,8%). Per queste iniziative, circa la metà degli investimenti è stata effettuata grazie all’erogazione di incentivi.
Ancora poco diffuse risultano anche le azioni a supporto della mobilità sostenibile, in media solo 4,8 imprese su 100 hanno acquistato automezzi elettrici o ibridi.
Da sottolineare che la varietà delle misure adottate dalle imprese dipende inoltre dalle caratteristiche proprie dei processi di produzione, in particolare dall’intensità di utilizzo delle risorse energetiche (così come delle risorse idriche e materiali) e dalla produzione di scarti e residui della lavorazione. Tra le iniziative più scelte dalle imprese, quelle finalizzate a un utilizzo più sostenibile dell’energia e dei trasporti prevalgono, come prevedibile, nei contesti che hanno come attività principale la gestione delle risorse energetiche.
Il settore della fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata registra dunque un’elevata incidenza di investimenti (con o senza incentivi) per l’efficientamento energetico: il 43,8% delle imprese del settore ha installato macchinari, impianti e/o apparecchi che riducono il consumo energetico e il 18,5% ha provveduto all’isolamento termico degli edifici e/o realizzato edifici a basso consumo energetico e per lo sfruttamento di fonti energetiche “pulite”. A fronte di una variabilità territoriale complessivamente contenuta, gli investimenti per energia e trasporti sostenibili tendono a essere meno diffusi nella ripartizione centrale e più frequenti nel Mezzogiorno e nel Nord-est, con differenze più marcate, in termini relativi, negli interventi finalizzati alla produzione di energia da rinnovabile: installano impianti per la produzione da Fer elettriche l’8,8% delle imprese del Mezzogiorno e il 7,6% di quelle del Nord-est contro il 5,7% delle imprese del Centro. La dimensione d’impresa si conferma fattore fortemente discriminante anche per l’impegno nella tutela dell’ambiente. La quota di imprese che effettuano investimenti per la gestione sostenibile di energia e trasporti varia positivamente con il numero di addetti. I differenziali sono particolarmente elevati nell’ambito della co/trigenerazione e recupero di calore (si passa dal 2,4% delle microimprese al 17,9% delle imprese con 500 e più addetti), per l’acquisto di automezzi elettrici o ibridi (da 3,9% a 28,3%) e la produzione elettrica da fonte rinnovabile (da 5,9% a 26,3%).
Acqua
La gestione delle risorse idriche presenta diverse criticità, specie in alcune zone più vulnerabili, in larga parte legate alle crescenti pressioni della domanda rispetto alla disponibilità naturale, alle inefficienze delle reti di distribuzione dell’acqua e alla rilevanza dei carichi inquinanti derivanti dalle attività antropiche.
Gli interventi di trattamento delle acque reflue per il recupero e il riutilizzo e per il contenimento degli inquinanti sono più diffusi nei settori a maggiore intensità di utilizzo di risorse idriche: nell’industria in senso stretto (rispettivamente 13,7% e 29,1%) e, al suo interno, nell’estrazione di minerali da cave e miniere (41,7% e 43,9%), nella fornitura di acqua, reti fognarie e attività di gestione dei rifiuti e risanamento (22,4% e 51,5%) e nell’industria manifatturiera (13,2% e 28,2%).
Le azioni volte al contenimento di consumi e prelievi di acqua vengono intraprese più frequentemente della media dalle imprese dei servizi (61,4%) e da quelle di minori dimensioni (61,5% per le imprese con 3-9 addetti 4).
Le imprese del Mezzogiorno si dimostrano più attente nell’utilizzo dell’acqua anche per la minore disponibilità della risorsa idrica in questa porzione del territorio, con il 64,5% di unità che applicano misure per la riduzione dei prelievi, il 25,7% per il controllo degli inquinanti, il 10,3% per il recupero e riutilizzo delle acque di scarico.
Rifiuti
La sostenibilità nella produzione si manifesta anche con il risparmio del materiale utilizzato nei processi produttivi, che riguarda il 52,8% delle imprese, e con l’utilizzo di materie prime seconde (ossia scarti recuperati e reimmessi nella produzione) a cui ricorre il 21,3%. Questo tipo di impegno – risparmio di materiale e riutilizzo di materie prime – è superiore alla media nel settore estrattivo (56,1% e 40,6% delle imprese) e, con riferimento al solo contenimento dei materiali di produzione, nel settore della fornitura acque, gestione rifiuti e risanamento (45,9%). Anche le imprese manifatturiere si distinguono per livelli superiori alla media: il 35,6% ha utilizzato materie prime seconde, il 67,3% ha adottato misure per contenere l’utilizzo del materiale di produzione, con limitate differenze legate al territorio e alla dimensione d’impresa.
Anche per effetto dei vincoli normativi sempre più stringenti, la raccolta differenziata e il riciclo dei rifiuti rappresentano le principali attività per ridurre l’impatto ambientale. L’86,8% delle imprese ha intrapreso azioni in questa direzione e il 58,2% ha implementato misure di gestione dei rifiuti per il controllo degli inquinanti.
A risultare più virtuose, rispetto a entrambe le sfere di azione, sono le imprese del Nord-est (89,0% per la differenziazione/riciclo e 59,3% per il controllo degli inquinanti) e dei settori manifatturiero (88,2% e 67,6%) e sanità e assistenza sociale (90,0% e 73,6), oltre alle imprese che operano proprio nella gestione dei rifiuti (il 70,5% pratica attività finalizzate al controllo degli inquinanti).
Aria
Le azioni di controllo dei contaminanti ambientali si estendono al contenimento delle emissioni atmosferiche, che interessa il 34,3% delle imprese, e dell’inquinamento acustico e/o luminoso (44,5%), con un coinvolgimento crescente all’aumentare della dimensione d’impresa soprattutto per la prima tipologia di intervento (la quota di imprese di 500 e più addetti è quasi doppia rispetto a quella delle microimprese). Le imprese più attive nel contenimento dell’inquinamento acustico e luminoso operano per lo più nei settori dell’estrazione (56,9%) e della fornitura di acqua, gestione dei rifiuti e risanamento (53,0%); lo stesso accade per le azioni di controllo delle emissioni atmosferiche (57,7% e 53,3%), ampiamente praticate anche nella fornitura di energia (42,2% delle imprese) che d’altra parte è uno dei settori a maggiore intensità di emissioni di CO2 sul valore aggiunto.
fonte: www.greenreport.it


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Rifiuti: Istat, costi raccolta troppo alti per 7 famiglie su 10

Nelle Isole più insoddisfatte, Bolzano al top per gradimento del servizio


















Costo della raccolta dei rifiuti troppo alto per 7 famiglie su 10.
Lo scrive l'Istat nel rapporto 'Raccolta differenziata dei rifiuti: comportamenti e soddisfazione dei cittadini e politiche nelle città 2017-2018'.
In particolare, resta elevata e in linea con l'anno precedente la quota di famiglie che reputano elevato il costo dei rifiuti (68,2%) mentre il 28,2% lo definisce adeguato e solo lo 0,7% lo valuta basso. Il costo del servizio è giudicato meno soddisfacente nelle aree dove non c'è ancora una diffusione ottimale dei vari servizi di raccolta differenziata dei rifiuti.
Le famiglie residenti nelle Isole sono le più insoddisfatte (il 79,4% reputa il costo elevato), quelle del Nord-ovest le meno critiche (costo elevato per il 58,9%).
La valutazione del costo cambia a seconda della dimensione dei comuni: nei piccoli (sotto i 2mila abitanti), le famiglie percepiscono adeguato il costo del servizio di raccolta nel 40,7% dei casi (36,3% nel 2017) mentre nei centri di grandi dimensioni tale percentuale è inferiore di circa 20 punti, rivelando un maggior grado di insoddisfazione rispetto a questo aspetto.
La classifica delle regioni con le famiglie più soddisfatte è guidata da Bolzano (66,4%), seguono Trento (48,4%), Lombardia (43,3%) e Veneto (37,6%). Per il Sud la prima regione è il Molise che si posiziona al settimo posto a livello nazionale (31,8%) mentre la Sicilia chiude la graduatoria (14,4% contro 28,2% della media nazionale).

fonte: www.ansa.it

Rapporto Ispra su produzione eco-compatibile di fibra, filati e tessuti

















In Italia, buona parte della lana tosata – fibra tessile per eccellenza – finisce in discarica (o sotterrata); sette milioni di pecore, il patrimonio ovino italiano secondo i dati ISTAT 2015, sono destinate alla produzione di latte per formaggi e la loro lana non trova uso perché considerata di bassa qualità.
Secondo l’ISTAT, la produzione di lana cosiddetta “sucida”, cioè appena tosata, si aggira intorno a 8.700 tonnellate ma è probabilmente un valore sottostimato perché diversi operatori, per non sopportare i costi di smaltimento, la distruggono in vario modo.
L’ISPRA, insieme a Donne in Campo della Confederazione Italiana Agricoltori, ha condotto un’indagine sulla produzione eco-compatibile di fibra da fonti naturali e/o di recupero, filati da tessitura artigianale, tintura naturale e confezioni con materiali e metodi compatibili con l’ambiente.
I frutti dello studio sono contenuti nel volume “Filare, tessere, colorare, creare. Storie di sostenibilità, passione ed eccellenza” pubblicato da ISPRA. Nello studio ISPRA-Donne in Campo si riferiscono, invece, casi di recupero di questo materiale naturale prezioso che dimostrano la possibilità di impiego della lana sucida.
http://www.isprambiente.gov.it/files2018/pubblicazioni/quaderni/Quad_AS_18_18.pdf
http://www.isprambiente.gov.it/files2018/pubblicazioni/quaderni/Quad_AS_18_18.pdf


Al fine di implementare con azioni concrete i propri obiettivi, Donne in Campo ha creato una rete attiva di donne sul territorio rurale che hanno contribuito a questo studio sulla sostenibilità della filiera. Va sottolineato che tali processi produttivi, generalmente, implicano la conservazione di piante tintorie – vegetali che forniscono pigmenti naturali – e di antiche varietà fornitrici di fibre tessile e comportano la valorizzazione di un‘importante eredità culturale e sociale tramandata, in molti casi, dalle donne.
In questo contesto, va sottolineata l’importanza della conservazione di antiche varietà di lino perfettamente adattate localmente, come descritto in una delle storie del volume, poiché nel corso del XX secolo, con l’avvento delle fibre sintetiche, la coltivazione del lino ha subito un forte declino con conseguente perdita di varietà di pregio.
Studi condotti dal CNR, brevemente descritti nel volume, stimano che dal totale della lana “sucida” (nell’accezione latina “unto, grasso”) italiana, proveniente dalla tosa non utilizzata delle pecore, si potrebbero ricavare oltre 5.000 tonnellate di fibra e 15 milioni di metri quadri di tessuto, creando una filiera sostenibile del tessile.
Lo studio ha fornito un panorama di attività e prodotti di eccellenza talmente variegato da risultare difficilmente inquadrabili in settori; si è deciso quindi di descrivere alcune di queste realtà, poco note al pubblico, che sono esempi di sostenibilità, biodiversità ed economia circolare. Le attività che si descrivono nello studio, dimostrano che la sostenibilità in questa filiera esiste e che può essere un mezzo di tutela ambientale e valorizzazione del territorio attraverso l’impiego intelligente delle risorse locali.
All’interno, vi sono infatti aziende che rappresentano un elevato valore sociale, quali le fattorie didattiche e gli agriturismi, perchè provvedono in alcuni casi all’inserimento
lavorativo di persone con disabilità.
Sempre nel campo della produzione sostenibile di fibre, tessuti e tinture naturali, nel 2017 l’ISPRA e l’Universidad Nacional de Córdoba (Argentina), hanno siglato un Protocollo d’intesa da cui è nata un’informativa dettagliata sulla multifunzionalità del bosco e la produzione e colorazione sostenibile di fibre e tessuti in Argentina, che ISPRA ha pubblicato nella collana “Manuali e linee guida” (Manuali e linee guida 171/2018).
fonte: https://www.snpambiente.it/

Istat, in aumento i costi di gestione dei rifiuti

Rispetto al 2017 risulta in aumento dello 0,6% trainato dagli acquisti di beni e servizi (+1,4%), a fronte di riduzioni per le spese del personale (-1,2%) e del costo d’uso del capitale (-1,0%)





















L’Istituto nazionale di statistica (Istat) ha pubblicato oggil’aggiornamento al 2018 degli indici annuali dei costi di gestione dei rifiuti (con base di riferimento 2015=100), che rispetto al 2017 risulta in aumento dello 0,6% trainato dagli acquisti di beni e servizi (+1,4%), a fronte di riduzioni per le spese del personale (-1,2%) e del costo d’uso del capitale (-1,0%); negli ultimi anni l’incremento nell’indice è più marcato per quanto riguarda la voce “recupero dei materiali” rispetto a quella dedicata a “raccolta, trattamento e smaltimento”.
«Rispetto ai due sotto-settori economici che compongono l’indice totale (raccolta, trattamento e smaltimento dei rifiuti il primo, recupero dei materiali il secondo), l’andamento dei costi nel 2018 mostra – conferma Istat – che il settore che ha fatto registrare maggiori aumenti è stato quello del recupero dei materiali (+1,1%) rispetto a quello dell’attività di raccolta, trattamento e smaltimento dei rifiuti (+0,3%)».
Complessivamente, gli indici si riferiscono alle attività di raccolta, trattamento e smaltimento dei rifiuti e al recupero dei materiali (divisione 38 dell’Ateco 2007); come spiega Istat tali indici misurano l’andamento nel tempo dei costi di produzione delle attività di gestione dei rifiuti, con riferimento all’acquisto di beni e servizi, al costo del personale dipendente e al costo d’uso del capitale. È bene comunque precisare che l’indicatore impiegato dall’Istat è di tipo indiretto, data «l’assenza di fonti informative rilevanti per la produzione di indici di prezzo alla produzione per il settore della gestione dei rifiuti».
In modo molto sintetico, l’indice mostra chiaramente che gestire i rifiuti comporta un costo economico – a fronte di ingenti vantaggi ambientali e sociali – e investimenti dedicati, proprio come pulire casa propria: l’Italia produce ogni anno circa 135 milioni di tonnellate di rifiuti speciali e circa 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani, che devono essere gestiti secondo logica di sostenibilità e prossimità.
fonte: www.greenreport.it

Istat, solo l’1,1% delle tasse ambientali serve a finanziare la protezione dell’ambiente

Su 57,38 miliardi di euro incassati nell’ultimo anno, appena 640 milioni di euro sono riferibili a imposte di scopo






Che fine fanno le tasse ambientali riscosse ogni anno in Italia? Secondo gli ultimi dati Istat, aggiornati ieri, sui 57,38 miliardi di euro incassati dallo Stato nel 2017 – in calo rispetto ai 58,7 del 2016 – appena 640 milioni di euro sono destinati a spese per la protezione ambientale: circa l’1,1%. Solo per questa minima frazione si può dunque parlare di “imposte di scopo”, ossia imposte il cui gettito è destinato a finanziare spese per la protezione ambientale, mentre i rimanenti 56,7 miliardi di euro di gettito finiscono a finanziare tutt’altre partite.

Ma di che tasse stiamo parlando, in concreto? Come spiega direttamente l’Istat, le imposte ambientali «costituiscono prelievi obbligatori non commisurati ai benefici che il singolo riceve dall’azione delle amministrazioni pubbliche. Un’imposta è ambientale se la sua base impositiva è ‘costituita da una grandezza fisica (eventualmente sostituita da una proxy) che ha un impatto negativo provato e specifico sull’ambiente’. Tale approccio, mutuato dalle linee guida internazionali per la compilazione di statistiche sulle imposte ambientali, assegna un ruolo fondamentale alla base impositiva per stabilire l’inclusione o meno di una imposta nell’insieme delle imposte ambientali, mentre non risulta determinante l’obiettivo dell’imposta per come risulta espresso dal legislatore».

Tutto questo significa che le tasse ambientali, così come vengono attualmente censite, comprendono «sia le imposte introdotte con esplicite finalità di tipo ambientale sia le imposte in cui una tale finalità non si ravvisa nella formulazione normativa». Esaminarle in dettaglio rende molto più semplice capire la differenza. Le tasse ambientali più consistenti censite dall’Istat rientrano ad esempio all’interno del capitolo “energia”, che valgono 45,6 miliardi di euro: si va dalla “sovraimposta di confine sui gas in condensabili” alla “imposta sui consumi di carbone”, da quella “sul gas metano” alle “entrate dell’Organismo centrale di stoccaggio italiano”.

La seconda voce tra le tasse ambientali, in termine di consistenza di gettito (pari a 11 miliardi di euro), risulta invece quella del “trasporto”: qui si ritrovano imposte che molto poco sembrano a che fare con l’ambiente, come il “Pubblico registro automobilistico (Pra)”, la “imposta sulle assicurazioni Rc auto” o le “tasse automobilistiche a carico delle famiglie”. Ancora minore l’importo del gettito relativo alle tasse più facilmente associabili a fattori ambientali, come quelle relative alla voce “inquinamento”: qui compaiono il “tributo speciale discarica”, la “tassa sulle emissioni di anidride solforosa e di ossidi di azoto”, il “tributo provinciale per la tutela ambientale” e la “imposta regionale sulle emissioni sonore degli aeromobili”. Tutto per il modico gettito di 686 milioni di euro su 58,7 miliardi totali.

Ecco perché illustri economisti ambientali come Massimiliano Mazzanti hanno più volte spiegato sulle nostre pagine che le tasse ambientali di fatto sono ancora a livelli praticamente nulli in Italia, un vero e proprio paradosso se si raffronta il loro livello con – ad esempio – le tasse che gravano sul lavoro. Una riforma fiscale realmente ambientalista sarebbe dunque chiamata a incrementare le tasse ambientali (un esempio su tutti? La carbon tax), riducendo quelle sul lavoro. Un tema che però non è mai andato molto di moda nel nostro Paese: quella del governo M5S-Lega, che al cuore delle proprie riforme fiscale ha inserito una proposta profondamente iniqua come la flat tax, è solo l’ultima delusione.

fonte: www.greenreport.it

Istat, i costi per la gestione dei rifiuti italiani sono cresciuti del 16,3% dal 2010

Dati trainati «dagli acquisti di beni e servizi (+22,1%), a fronte di andamenti più contenuti per le spese del personale (+6,7%) e del costo d’uso del capitale (+1,3%)»






















Tenere pulita casa propria costa, come tutti sanno, in termini di tempo e/o denaro: occorre raccogliere i rifiuti e magari recuperare prima qualche risorsa evitando sprechi inutili, lavare, riassettare. Il che a sua volta significa comprare di tutti gli strumenti necessari per farlo (cestini per la spazzatura, detersivi per i pavimenti, etc), impiegare una fetta della propria giornata nelle operazioni o – per i pochi che se lo possono permettere – pagare qualcun altro che lo faccia, traendone a sua volta almeno un minimo profitto. Tramite una semplice e semplicistica analogia, non è difficile immaginare che tenere pulito un territorio più esteso di quello dove sorge un appartamento, magari allargando lo sguardo a un intero Paese, non sia un’operazione a costo zero.
Ma se tener conto delle spese legate alla pulizia della propria casa non è una missione così difficile, altrettanto non si può dire per l’Italia intera. A provarci adesso è l’Istat, dopo aver preso atto della «assenza di fonti informative rilevanti per la produzione di indici di prezzo alla produzione per il settore della gestione dei rifiuti». A partire da oggi l’Istituto nazionale di statistica aggiornerà dunque ogni anno i suoi nuovi indici dei costi di gestione dei rifiuti con base di riferimento 2015=100, il cui campo d’osservazione «riguarda, in termini di Ateco 2007, le attività economiche della divisione 38, raccolta, trattamento e smaltimento dei rifiuti; recupero dei materiali, gruppi 381, 382 e 383 (si veda la fotogallery in pagina, ndr)».
Come spiega l’Istat, gli indici dei costi di gestione dei rifiuti si riferiscono alle attività di raccolta, trattamento e smaltimento dei rifiuti e al recupero dei materiali, e misurano l’andamento nel tempo dei costi di produzione delle attività di gestione dei rifiuti, con riferimento all’acquisto di beni e servizi (che pesano per il 67,1% all’interno dell’indice complessivo), al costo del personale dipendente (23,9%) e al costo d’uso del capitale (9%).
Dai dati raccolti sappiamo dunque che in Italia «tra il 2010 e il 2017 l’indice di costo della gestione dei rifiuti aumenta del 16,3%, trainato dagli acquisti di beni e servizi (+22,1%), a fronte di andamenti più contenuti per le spese del personale (+6,7%) e del costo d’uso del capitale (+1,3%)». Una crescita che è risultata particolarmente sostenuta fino al 2014, mentre «negli ultimi tre anni la crescita dell’indice complessivo è più contenuta (+0,8%) e relativamente più omogenea tra le diverse componenti dei costi: +1,6% per l’acquisto di beni e servizi; -1,3% per le spese per il personale; +0,8% per il costo d’uso del capitale».

Costi che non si ritrovano naturalmente anche nell’ambito del recupero materiali vero e proprio, dove anzi stanno crescendo più rapidamente: «Rispetto ai due sotto-settori economici che compongono l’indice totale (raccolta, trattamento e smaltimento dei rifiuti il primo, recupero dei materiali il secondo), l’andamento dei costi si dimostra sostanzialmente simile, ad eccezione – conclude infatti l’Istat – di un più accentuato incremento nel settore del recupero di materiali nell’ultimo anno».

fonte: www.greenreport.it

Smog, clima, rifiuti: i principali problemi ambientali per gli italiani

L’Istat  pubblica l’Annuario statistico italiano e spiega: l’inquinamento dell’aria tiene sveglio il Nord Italia e lo smaltimento dei rifiuti preoccupa il Sud



















Inquinamento atmosferico, cambiamenti climatici e spazzatura: sono questi i principali problemi ambientali che preoccupano gli italiani. A confermarlo è l’Annuario statistico italiano, la pubblicazione con cui l’Istat di anno in anno offre un articolato ritratto dell’Italia e della sua evoluzione. Nel capitolo Ambiente ed Energia, l’Annuario passa in rassegna le principali criticità nazionali e la percezione che di queste hanno gli italiani. Si scopre così che più della metà degli abitanti ha a cuore la questione dello smog e della qualità dell’aria, problema sentito soprattutto nel Nord Italia e quasi il 50% teme il climate change. A preoccupare (con punte più alte al Sud) è anche lo smaltimento dei rifiuti, seguito in ordine dai timori per l’inquinamento delle acque e per l’effetto serra. Traffico e difficoltà di parcheggio sono invece i problemi maggiormente sentiti dalle famiglie con riguardo alla zona in cui risiedono.

Al di là della percezione degli italiani, il capitolo dedica ampio spazio ai fenomeni ambientali ed energetici in atto, a cominciare dalla questione idrica. Siccità, alte temperature e perdite della rete sono individuati come i principali elementi all’origine delle carenze idriche dell’estate scorsa. La scarsità di precipitazioni del trimestre autunnale 2016, proseguita nel 2017, unitamente ai picchi di caldo estivo hanno concorso infatti, a determinare il forte deficit idrico di quest’anno.

Nel 2015, spiega ancora l’Istat, ogni cittadino residente in un comune capoluogo di regione ha consumato in media 266 litri di acqua potabile al giorno. In totale i gestori delle reti comunali di distribuzione hanno autorizzato l’erogazione complessiva di 957 milioni di metri cubi di acqua per uso potabile. Le differenze tra i comuni capoluogo, in termini di volumi pro capite erogati, sono tuttavia significative: si va dai 167 litri giornalieri per abitante residente di Palermo ai 384 di Milano. Per garantire l’attuale livello di consumo, il volume immesso in rete è molto più elevato di quanto effettivamente consumato e pari complessivamente a 1,53 miliardi di metri cubi di acqua per uso potabile. Nel complesso, le perdite idriche totali nelle reti dei comuni capoluogo di regione ammontano al 37,5% del volume complessivamente immesso in rete.

fonte: www.rinnovabili.it

La mappa dei rischi dei comuni italiani

Disponibile sul sito ISTAT. È stata realizzata con il contributo di varie fonti istituzionali, quali Istat stessa, INGV, ISPRA, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo 

 




L'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) e Casa Italia, Struttura di Missione della Presidenza del Consiglio, hanno reso disponibile un sito Web dedicato ai rischi naturali in Italia.
Il sito è ospitato in quello istituzionale dell'Istat e presenta variabili e indicatori di qualità con dettaglio comunale sui rischi di esposizione a terremoti, eruzioni vulcaniche, frane e alluvioni.
Tali informazioni integrano dati provenienti da varie fonti istituzionali: Istat, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo.
Per ciascun Comune i dati sul rischio sismico, idrogeologico e, per alcuni, vulcanico, sono corredati da informazioni demografiche, abitative, territoriali e geografiche.
È possibile selezionare da un menù a tendina il comune che interessa e quindi scegliere fra tre opzioni:
  • scarica i dati: un file in formato .xlsx contenente tutti gli indicatori disponibili;
  • visualizza report: una scheda riassuntiva dei principali dati disponibili per il comune selezionato;
  • consulta la mappa: dove è possibile costruire immediatamente dei cartogrammi per ciascuno degli indicatori.
 
 
report di un comune


Nel sito compaiono due sezioni distinte "Indicatori" e "Cartografia".
La sezione "Indicatori" consente la visualizzazione e l'estrazione di oltre 140 variabili a livello comunale relative a: superficie e altre caratteristiche territoriali; rischio sismico, idrogeologico (frane e alluvioni) e vulcanico; stato degli edifici a uso residenziale e delle abitazioni (tipo di materiale utilizzato per la costruzione, numero dei piani fuori terra, epoca di costruzione dei fabbricati e distribuzione delle abitazioni per tipologia di occupanti); numero dei beni culturali presenti nel territorio comunale; indicatori demografici di contesto, quali variazione della popolazione, densità abitativa, indici di vecchiaia e di dipendenza strutturale, vulnerabilità sociale e materiale e numerose altre variabili.
La sezione "Cartografia" permette invece di produrre mappe interattive delle variabili a livello comunale su oltre 20 principali tematiche informative. 



A sinistra la mappa del rischio sismico, a destra quella del rischio frane
Molto ricco è il set di metadati riferiti a dati e indicatori – anch’esso navigabile interattivamente – che ne descrive contenuto, fonti, aspetti metodologici e link di approfondimento. 

fonte: http://www.arpat.toscana.it/



















Quanto sborsa davvero lo Stato italiano per l’ambiente? «Lo 0,7% della propria spesa primaria»

Crollo verticale anche per gli investimenti pubblici con finalità ambientali, fermi a 4,3 miliardi di euro l’ultimo anno (-61% rispetto al 2010)


















Pubblicando il suo 25esimo Rapporto annuale, l’Istat ha offerto una fotografia impietosa di un’Italia dove il progressivo allargarsi delle disuguaglianze tra i propri cittadini moltiplica le fratture sociali, con pesanti ricadute sulle possibilità di sviluppo (sostenibile) per l’intero Paese. A questa prospettiva è però indispensabile aggiungerne una seconda, volta a indagare quantità e qualità del capitale naturale posseduto dalla nazione: quella ricchezza “invisibile” che ci assicura ogni giorno acqua e aria pulite, cibo, materie prime, svago. Per recuperare la speranza in un futuro migliore è imprescindibile conoscere (per valorizzare) al meglio il presente.
Allo scopo arriva in aiuto il recentissimo rapporto sul capitale naturale italiano, pubblicato per la prima volta all’omonimo Comitato sotto il cappello del ministero dell’Ambiente. Sulle nostre pagine abbiamo già pubblicato una prima analisi del documento, individuando da una prima stima in 338 miliardi il valore del capitale naturale nazionale; stima certamente riduttiva, tenuto conto che dal capitale naturale dipende la vita stessa. Che cosa sta facendo dunque lo Stato italiano per tutelare e valorizzare questo inestimabile patrimonio?
«In generale – si spiega nel rapporto – le politiche pubbliche orientate al capitale naturale sono strettamente dipendenti dai livelli di spesa pubblica a sostegno dei programmi d’intervento». Non sono incoraggianti al proposito i dati raccolti nell’Ecorendiconto, redatti a cura della Ragioneria dello Stato: il volume della spesa primaria (massa spendibile) per l’ambiente «ha subito una drastica riduzione in soli 5 anni, passando da 8,3 Mld € del 2010 a 4,3 Mld € del 2015, toccando la quota minima dello 0,7% del totale della spesa primaria dello Stato», quando nel 2010 ammontava all’1,5%. Una percentualmente certamente infima, ma pur doppia di quella attuale.
«Ancora più preoccupante – aggiunge  il Comitato per il capitale naturale – è la riduzione della spesa in conto capitale (investimenti pubblici con finalità ambientali), che è passata da 6,7 Mld € del 2010 a soli 2,6 Mld € del 2015 (-61%)». Un crollo verticale su tutti i fronti.
Com’è possibile innestare la retromarcia? Tra le raccomandazioni contenute nel rapporto, che ricordiamo essere voluto in prima persona dal governo stesso, spicca sia il «rafforzamento delle attività di valutazione ambientale dei Sussidi economici previsti dalle politiche pubbliche settoriali» sia interventi in fatto di «fiscalità ambientale e altri strumenti economici».
Riguardo al primo punto si ricorda quanto emerso nel primo Catalogo dei sussidi dannosi e favorevoli all’ambiente, anch’esso pubblicato a cura del ministero dell’Ambiente: lo Stato spende ogni anno (almeno) 16,1 miliardi di euro per sussidiare attività ambientalmente dannose, più di quanto spenda per sostenere quelle che l’ambiente lo migliorano (15,7 miliardi di euro). Per quanti lamentano la mancanza di risorse da spendere a favore del nostro capitale naturale dovrebbe dunque essere chiaro da dover partire per racimolarle.
Esistono poi ulteriori possibilità d’intervento. «Nella perdurante situazione di crisi della finanza pubblica – si osserva nel rapporto – l’utilizzo di ulteriori strumenti finanziari innovativi, come i green bonds statali, può aiutare a supportare l’attivazione di un piano di rafforzamento degli investimenti pubblici destinati al Capitale Naturale, a partire da quelli riguardanti il ripristino della funzionalità degli ecosistemi, normalmente privi di fonti di entrata (che non si ripagano in senso strettamente finanziario, ma che comportano significativi benefici per la collettività). Un esempio pioneristico in questa direzione è dato dai green bonds francesi».
Senza dimenticare un ormai indispensabile – ma continuamente rinviato – riordino della fiscalità italiana, cui dedichiamo (qui) un approfondimento a parte, è doveroso infine «rafforzare, nel quadro della riforma del Codice dei contratti pubblici, le disposizioni riguardanti i criteri degli appalti di fornitura per il Green public procurement (Gpp), includendo nelle valutazioni di costo – secondo l’approccio di ciclo di vita del prodotto – anche i costi per la collettività associati ai consumi di risorse naturali e all’inquinamento».

fonte: http://www.greenreport.it

L'andamento del benessere equo e sostenibile in Italia

La quarta edizione del rapporto sul benessere equo e sostenibile in Italia curato da ISTAT 
















Arrivato alla quarta edizione, il Rapporto Bes offre un quadro dei principali fenomeni economici, sociali e ambientali che caratterizzano l'Italia, attraverso l'analisi di 130 indicatori suddivisi in 12 domini del benessere: Salute, Istruzione e formazione, Lavoro e conciliazione tempi di vita, Benessere economico, Relazioni sociali, Politica e istituzioni, Sicurezza, Benessere soggettivo, Paesaggio e patrimonio culturale, Ambiente, Ricerca e innovazione, Qualità dei servizi.
Quest'anno ci sono due importanti novità che caratterizzano il Rapporto:
  • l'inclusione degli indicatori di benessere equo e sostenibile tra gli strumenti di programmazione e valutazione della politica economica nazionale, come previsto dalla riforma della Legge di bilancio, entrata in vigore nel settembre 2016;
  • l'approvazione da parte delle Nazioni Unite dell'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e dei 17 obiettivi (SDGs nell'acronimo inglese), con i quali vengono delineate a livello mondiale le direttrici dello sviluppo sostenibile dei prossimi anni.
Il quadro che emerge, rispetto al 2013, è di miglioramento o stabilità per tutte le componenti del benessere; il recupero è invece ancora parziale se il termine di confronto è il 2010.
Il Nord e il Centro registrano un miglioramento per ambiente, salute e istruzione nell’ultimo anno, negli altri domini si è tornati vicini ai livelli del 2010, ad eccezione della qualità del lavoro.
Nel Mezzogiorno rimangono forti divari rispetto al 2010 per condizioni economiche minime, qualità del lavoro e soddisfazione per la vita, mentre si rilevano miglioramenti in tutti i domini nel confronto con il 2013.
Venendo nello specifico alla dimensione Ambiente, dal rapporto emerge una forte disparità nelle risposte alle problematiche di salvaguardia dell’ambiente (adeguamento a normative europee e/o gestione delle emergenze ambientali).
Tra i segnali di miglioramento troviamo il buon livello raggiunto dalla disponibilità di aree verdi urbane accessibili ai cittadini e di aree naturali protette, pari ormai a più del 20% del territorio nazionale.
Cresce complessivamente negli anni la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili, nonostante il calo dell’ultimo anno, mentre diminuiscono le emissioni di gas serra e il consumo di materiale interno. Cresce al contempo la sensibilità della popolazione italiana nei confronti delle problematiche ambientali.
Nonostante questi segnali incoraggianti, persistono ritardi e difficoltà strutturali su tutto il territorio. Risultano infatti ancora insufficienti gli interventi strutturali in settori come:
  • trattamento in discarica dei rifiuti urbani,
  • dispersione di acqua potabile dalle reti di distribuzione comunale,
  • acque reflue urbane non trattate da impianti di depurazione di tipo secondario o avanzato.
In generale, emergono diverse aree del Paese in cui la popolazione è fortemente esposta ad eventi di grande impatto sulla tenuta del territorio e sulla sicurezza.
Per approfondire: Rapporto BES 2016

fonte: http://www.arpat.toscana.it

Biomasse: utili per l’ambiente, nocive per la salute?

Le biomasse sono considerate fonti rinnovabili rispettose dell’ambiente, ma sono anche la tipologia di combustibile per riscaldamento domestico a più alta emissione di PM2,5, la cui natura cancerogena è causa di buona parte dei decessi per inquinamento in Italia. Ambiente e salute convivono in un rapporto contraddittorio e di difficile soluzione.


















Attualmente un quarto della produzione energetica dell’Eurozona è ricavata da fonti rinnovabili. Di queste, nonostante una crescita consistente del solare e dell’eolico, oltre il 63% è rappresentato dalle biomasse: una fonte rispettosa dell’ambiente, perché durante il processo di combustione emette nell’atmosfera una quantità di Co2 pari a quella assorbita durante il processo di crescita, azzerando il rilascio di nuova anidride carbonica. Un mezzo per ridurre il consumo di carburanti fossili e recuperare gli scarti agricoli e forestali. Eppure, si è sottovalutato un aspetto importante: le elevate emissioni di polveri sottili PM 2,5.

Appuratane la sostenibilità, le politiche green europee, così come quelle italiane, hanno cominciato a sovvenzionare l’uso delle biomasse e a tassare prima i combustibili liquidi (gasolio, GPL, kerosene) e poi il metano. Le normative ambientali si sono concentrate soprattutto su un settore, quello dei trasporti, emanando severe restrizioni che hanno ridotto il tetto massimo di emissione di polveri sottili da 140mg a 5mg dal 1992 al 2016. I dati ISPRA parlano di un risultato soddisfacente: le emissioni di particolato frazione PM2,5 derivate dai trasporti sono calate del 60%, nonostante l’aumento del numero dei mezzi impiegati. Ma, mentre diminuivano le emissioni delle automobili, aumentavano quelle prodotte dal riscaldamento domestico – dai 30 mln ai 60 mln di tonnellate di PM2,5 – rendendo ogni sforzo vano.

Secondo i dati ISPRA-ISTAT, quasi tutte le emissioni primarie di PM2,5 nel residenziale sono dovute alla combustione di biomasse, nello specifico legna e pellet. Se mancano dati affidabili per stimare il consumo di legna, l’adozione del pellet ha subito un’impennata costante dal 2006: alla fine del decennio in corso si passerà a consumarne da 10 a 23 mln di tonnellate in UE e da 1 a 10 mln in Cina. Nel 2011, ISPRA ha pubblicato un rapporto in cui si evince la portata delle emissioni di PM2,5 prodotte dalle biomasse: 400 grammi/gigaJoule. Nettamente superiori al carbone (219g/GJ), gpl (3,6 g/GJ) e metano (0,2g/GJ). Una ricerca della European Respiratory Society sottolinea come le emissioni di particolato fine dovute a legna e pellet a uso domestico sono fino a cinque volte superiori di quelle prodotte dalle grandi centrali a biomassa.

La questione è complessa. Da un lato, nell’ottica di un’efficace mitigazione del cambiamento climatico, la riduzione delle emissioni di gas serra è fondamentale e prioritaria. Dall’altro le PM2,5 sono estremamente nocive per l’uomo, in quanto le dimensioni ridotte delle polveri consentono al particolato di arrivare a intaccare i polmoni in profondità e, secondo il progetto VIIAS, per via della loro natura cancerogena indipendente dall’origine emissiva, sono le principali responsabili di oltre il 60% dei decessi per inquinamento che avvengono annualmente in Italia.

Il quadro è quindi poco incoraggiante ed è arduo trarre conclusioni sulla strada migliore da intraprendere. Sicuramente non tutti gli impianti domestici a biomasse sono uguali, e una rigida regolamentazione della qualità di combustibili, installazione, manutenzione e condotti darebbe un contributo importante. Così come la produzione di piani industriali volti ad aumentare le classi di efficienza energetica e l’isolamento termico durante le fasi di costruzione e ristrutturazione. Certo restano fattori difficili da controllare, come il comportamento sociale, secondo cui l’efficienza tecnologica si traduce spesso in un aumento della domanda pro-capite di energia, o la presenza di condizioni climatiche sempre più instabili che, complici inversione termica e assenza di vento, inchiodano i vari inquinanti al suolo. Per il momento, però, è importante non dare per scontato che le biomasse siano una fonte sostenibile a tutto tondo, iniziando ad affrontare il problema dell’inquinamento da esse prodotto prima che la situazione peggiori ulteriormente.

fonte: http://nonsoloambiente.it

Istat: la dipendenza energetica italiana sta diminuendo

Dal 2009 al 2014 in Italia sono calate le importazioni nette di energia, mentre è aumentato il contributo della produzione interna di energia primaria













L’Istat ha pubblicato il consueto aggiornamento dell’Annuario statistico italiano, il documento che offre di anno in anno un articolato ritratto dell’Italia e della sua evoluzione su 24 settori, dalla territorio alla finanza.
Un capitolo è tradizionalmente dedicato ad ambiente ed energia. Dalla lettura integrata dei fenomeni in atto, emerge un contesto energetico in lento ma progressivo cambiamento dal 2009 al 2014. La crisi mantiene i suoi effetti negativi sul mercato energetico nazionale, determinando una nuova contrazione dei consumi, di entità superiore a quella riscontrata lo scorso anno e il fotovoltaico si conferma risorsa trainante per la crescita delle rinnovabili in Italia, ma nel 2014 si ridimensiona la forte espansione registrata nel 2013.

L’aspetto forse più interessante è tuttavia legato alla dipendenza energetica nazionale. In Italia le importazioni concorrono in misura consistente al fabbisogno energetico nazionale, a causa della complessiva limitata disponibilità di risorse energetiche primarie del nostro sottosuolo. Nel bel paese l’import netto 2014 ha coperto il 75,9 per cento del consumo interno lordo, di fronte ad una media europea del 53,5 per cento. Il dato tuttavia è in progressivo calo dal 2009 quando segnava oltre l’80%. Ed è in calo a fronte di un profilo medio Ue 28 stabile e in controtendenza rispetto a paesi quali la Germania e, soprattutto, il Regno Unito.

“Il tendenziale maggiore contributo della produzione interna di energia primaria si evidenzia, per l’Italia, anche in relazione alla capacità di soddisfare il fabbisogno energetico nazionale (espresso dal consumo interno lordo di energia primaria)”, spiega l’Istat. Nel periodo 2009-2014, il rapporto tra produzione totale di energia primaria e consumo interno lordo di energia primaria è cresciuto dal 18,2 per cento al 24,4 per cento, mentre nella media dell’Ue 28 è restato sostanzialmente stabile. “La contrazione dei consumi energetici osservata nel nostro Paese si riscontra anche a livello europeo, come mostrato dall’andamento dei consumi finali di energia nell’arco temporale considerato” ma “per i principali paesi europei si tratta comunque di un andamento discontinuo”.

fonte: http://www.rinnovabili.it