Ecomondo è l’evento di riferimento in
Aria, al via il progetto Bigepi

L’inquinamento atmosferico può provocare sintomi e patologie di varia natura, influendo negativamente sulla salute delle persone, specialmente quelle più vulnerabili come bambini, anziani e persone affette da patologie croniche. La qualità dell’aria dovrebbe essere un bene non negoziabile, tanto che la costituzione italiana riconosce il diritto per tutti di vivere in un ambiente sano.
Nel 2018, l’Italia ha raggiunto però il triste primato europeo di morti premature dovute all’esposizione a ossidi di azoto e ozono (derivati in modo diretto o indiretto dalla combustione civile e industriale e dal traffico automobilistico) e il secondo posto nella classifica per le morti causate dall’esposizione al particolato atmosferico (l’insieme di particelle di varie dimensioni disperse nell’aria).
Anche bassi livelli di inquinamento, se prolungati negli anni, possono determinare danni importanti sulla nostra salute. Non esistono quindi limiti sotto i quali si può stare completamente sicuri. Per questo è importante monitorare l’aria, non soltanto dove l’inquinamento è particolarmente elevato, ma anche in zone di campagna o di periferia dove i danni possono vedersi dopo diversi anni di esposizione.
Il progetto BIGEPI sfrutterà i dati raccolti in un precedente progetto, INAIL-BEEP, che ha fornito mappe molto dettagliate della concentrazione di sostanze inquinanti presenti in atmosfera, dalla scala nazionale a quella urbana, suburbana e rurale.
Grazie a INAIL-BEEP sappiamo che le persone più esposte all’inquinamento atmosferico, specialmente bambini e anziani, si ammalano e muoiono di più per malattie cardiovascolari e respiratorie, sia nelle grandi città che nelle aree rurali. Si è inoltre evidenziato che anche temperature estreme, piogge intense e rumore, possono causare danni per la salute.
Il nuovo progetto BIGEPI approfondirà i legami tra gli aspetti ambientali e la salute, correlando i dati locali di mortalità, ricoveri in ospedale e malattie o sintomatologie respiratorie con la qualità dell’ambiente, sia sul breve che sul lungo periodo; indagherà inoltre eventuali legami tra esposizione agli inquinanti e mortalità per disturbi neurologici o neurocognitivi, come per esempio la malattia di Alzheimer o la demenza senile.
In particolare, grazie a BIGEPI saremo in grado di valutare gli effetti a breve termine dell’inquinamento atmosferico e delle temperature in tutti i comuni italiani, comprese le zone industriali e i siti di bonifica.
Per alcune città campione questi effetti saranno analizzati anche sul lungo termine, per capire come un’esposizione lieve ma prolungata all’inquinamento ambientale influisca sull’aspettativa di vita e sulla salute.
Per la città di Roma, infine, lo studio prenderà in considerazione anche l’esposizione a fattori inquinanti sui luoghi di lavoro, per la loro eventuale influenza, oltre che sulle problematiche già menzionate, anche sull’insorgenza di tumori, infarti, ictus, o patologie bronchiali di tipo cronico (bronchiti croniche o enfisema polmonare).
I risultati del progetto permetteranno di aumentare la consapevolezza dei cittadini su una tematica di così grande importanza, basandosi su evidenze ottenute grazie alla ricerca scientifica, e le amministrazioni locali potranno prendere decisioni consapevoli e basate su dati molto precisi per migliorare la qualità dell’aria in favore della salute pubblica, con una speciale attenzione per le persone più a rischio.

Per approfondimenti: scarica la newsletter di avvio del progetto e visita il sito
Progetto reso possibile grazie al finanziamento di INAIL nell’ambito del Bando Ricerche in Collaborazione BRiC 2019.
fonte: www.snpambiente.it
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Plastica anche nell’aria: la respiriamo ogni giorno

La plastica non inquina soltanto gli oceani e gli altri paradisi naturali della Terra, entra anche nel nostro organismo ogni giorno tramite la respirazione. È quanto emerge da uno studio anglo-indiano, condotto grazie al contributo del King’s College e dell’Imperial College di Londra.
Invisibili particelle di plastica sono presenti in grandi quantità nel pulviscolo, soprattutto nelle città maggiormente inquinante e nei Paesi in via di sviluppo. Un problema da non sottovalutare, poiché l’inalazione continua di frammenti del materiale inquinante potrebbero determinare conseguenze gravi sulla salute.
Plastica: la respiriamo ogni giorno
I ricercatori hanno voluto analizzare la qualità dell’aria in diverse aree dell’India, dove l’inquinamento è molto elevato. Prelevando dei campioni, gli esperti si sono accorti della presenza di grandi quantità di cloruri, sostanze normalmente presente nell’aria delle località costiere ma anomale per i centri abitati dell’entroterra.
Monitorando i dati di Delhi, gli scienziati hanno inizialmente pensato che le elevate concentrazioni di cloruri potessero provenire dai numerosi impianti produttivi che circondano la città. In particolare le fabbriche che si occupano di riciclo di rifiuti elettronici, dove l’impiego di acido cloridrico è elevato per pulire le componenti recuperate. Un’analisi più accurata ha però smentito questa ipotesi.
I ricercatori hanno infatti notato come, al crescere della sostanza, aumentava anche la presenza di altre particelle, normalmente collegate alla plastica. Gli esperti hanno quindi sospettato che la contaminazione potesse avere due fonti. Da un lato i rifiuti abbandonati nell’ambiente, che producono microplastiche pronte a essere sollevate dal vento e finire nel pulviscolo. Dall’altro, l’abitudine – molto diffusa in India – di bruciare la plastica a cielo aperto. Nei Paesi a reddito ridotto, non a caso, il 90% di questo materiale finisce in discarica, nell’ambiente oppure viene bruciato.
Gli scienziati hanno quindi controllato le serie storiche sulla qualità dell’aria in varie città mondiali, alla ricerca di quelle particelle “sentinella” che potrebbero indicare la presenza di plastica. E non solo hanno rilevato una contaminazione diffusa, seppur molto più preoccupante dei Paesi più poveri, ma anche un grande impatto sulle emissioni globali. Basti pensare come l’usanza di bruciare la plastica – si tratti di roghi improvvisati o di più tecnologici termovalorizzatori- sia responsabile dal 2 al 10% di tutte le emissioni globali di anidride carbonica.
I danni potrebbero essere importanti. Oltre alle possibili conseguenze sulla salute, ancora tutte da vagliare a livello scientifico, la contaminazione da plastiche nell’aria va di pari passo con la presenza di altri elementi tossici, come la diossina. Ancora, l’eccesso di cloruri potrebbe interagire con altri elementi chimici normalmente presenti in atmosfera: James Allen, dell’Università di Manchester, spiega infatti come questi inquinanti si leghino con l’ozono a livello del terreno, riducendo del 20-30% le capacità di crescita dei raccolti.
Fonte: Guardian
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Scoperta la super-pianta capace di assorbire l’inquinamento atmosferico e ripulire l’aria

Questa pianta, nota anche come Cotognastro, è un comune arbusto da siepe ed è caratterizzato da rigogliosi cespugli fatti di foglie “pelose”. Il nuovo studio condotto dagli scienziati della Royal Horticultural Society (RHS) ha scoperto che si tratta di una “super pianta” che aiuta a rafforzare l’ambiente e a migliorare la salute umana grazie alla speciale capacità di combattere l’inquinamento intrappolando le particelle nocive presenti nell’aria.
Secondo la ricerca, nei punti caldi del traffico, il Cotognastro è almeno il 20% più efficace contro l’inquinamento rispetto ad altri arbusti.
“Sulle principali strade cittadine con traffico intenso abbiamo scoperto che le specie con chiome più dense e più complesse, foglie ruvide e pelose come il cotoneaster erano le più efficaci. Sappiamo che in soli sette giorni una fitta siepe lunga un metro ben gestita assorbirà la stessa quantità di inquinamento che un’auto emette su un percorso di 500 miglia” ha detto la dott.ssa Tijana Blanusa, responsabile della ricerca.
In generale, siepi, arbusti e alberi forniscono i maggiori benefici a lungo termine per l’ambiente e per la fauna selvatica ma questa super pianta intrappola il 20% in più di emissioni rispetto ad altre esaminate, per questo potrebbe essere molto utile lungo strade trafficate nei “punti caldi” dell’inquinamento.
“Super piante” per mitigare il cambiamento climatico
Negli ultimi 10 anni, gli scienziati di tutto il mondo ma anche quelli della RHS hanno intensificato la loro ricerca per trovare soluzioni utili a contrastare l’inquinamento atmosferico, le ondate di calore e le inondazioni localizzate per amplificare l’impatto positivo dei giardini e degli spazi verdi sull’ambiente. Il professor Alistair Griffiths , direttore della scienza e delle collezioni di RHS, ha spiegato:
“Gli studi della RHS hanno dimostrato che i tratti sottostanti di alcune specie vegetali, come la forma delle foglie e le caratteristiche delle radici, aiutano ad alleviare numerosi problemi ambientali. Stiamo continuamente identificando nuove ‘super piante’ con qualità uniche che, se combinate con altra vegetazione, forniscono maggiori benefici e allo stesso tempo gli habitat tanto necessari alla fauna selvatica”.
Non solo cotognastro. Secondo la RHS, anche l‘edera che ricopre i muri è utilissima per il raffreddamento degli edifici e il biancospino e il ligustro aiutano ad alleviare le intense piogge estive e ridurre le inondazioni localizzate.
“Se piantati in giardini e spazi verdi in cui questi problemi ambientali sono più diffusi, potremmo fare una grande differenza nella mitigazione e nell’adattamento ai cambiamenti climatici”.
Ancora una volta è Madre Natura, coi suoi potenti strumenti, a offrirci gratuitamente le soluzioni per porre rimedio ai nostri danni.
fonte: www.greenme.it
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Studio di Arpa Veneto sulle performance di sensori low-cost per la misura del PM10
Negli ultimi anni si sono diffusi diversi tipi di sensori a basso costo (qualche decina di euro) per la determinazione di inquinanti atmosferici. ARPA Veneto, viste anche le diverse segnalazioni e richieste di informazioni da parte dell’utenza, ha deciso di intraprendere uno studio per comprendere potenzialità e limiti di un modello molto diffuso di sensore low-cost per il particolato, effettuando un rigoroso confronto con la strumentazione di riferimento, normalmente utilizzata per le misure ai sensi della norma. Infatti tra i sensori a basso costo, quelli che hanno avuto più successo tra la popolazione sono stati sicuramente quelli per la determinazione di PM10 e PM2.5
Questi dispositivi, per il cui assemblaggio e funzionamento esiste un’ampia documentazione online, effettuano delle misure di concentrazione del particolato con alte frequenze (anche ogni minuto), con la possibilità di pubblicare il dato su piattaforme online dedicate, in cui sono presenti un gran numero di dispositivi ubicati anche in Veneto.
https://www.snpambiente.it/wp-content/uploads/2020/12/Aria-Sensori-lowcost_Report-2020.pdf
Prendendo spunto da questo rapporto, abbiamo chiesto ad Alessandro Benassi che coordina il gruppo di lavoro SNPA sulla “Citizen science” di rispondere ad alcune domande.
l lavoro che Arpa Veneto ha fatto sui dispositivi di monitoraggio low-cost ha permesso di individuarne alcuni che possono essere considerati “affidabili” e con l’individuazione dello “scarto” fra i loro risultati e quelli delle stazioni di monitoraggio gestite dalle Arpa?
Questo primo studio di ARPAV è stato compiuto valutando le performance del modello di sensore low cost più diffuso tra i cittadini, a causa della grande mole di informazioni presente online sul suo funzionamento e relativo assemblaggio. Questi sensori funzionano sul principio del light scattering come la gran parte dei modelli sul mercato e sia dallo studio che da dati di letteratura si può evincere che proprio al principio di funzionamento, e non tanto la strutturazione del sensore, è legata l’affidabilità di questi monitor. Infatti in condizioni di elevata umidità relativa, in particolare associata a fenomeni meteorologici di foschia o nebbia, la determinazione legata al light scattering può subire dei cali di performance, portando ad una significativa sovrastima del particolato. Tali condizioni purtroppo sono particolarmente frequenti specialmente durante i mesi invernali, proprio quando i livelli di particolato atmosferico sono massimi. D’altro canto le schede tecniche di molti modelli di sensori fanno espresso riferimento a necessità di funzionamento in condizioni di lavoro con umidità relative non estremamente alte, di solito inferiori al 70-80%. Purtroppo questa problematica, particolarmente importante nel caso di funzionamento dei sensori outdoor, non è conosciuta o tenuta in debita considerazione dagli utenti, che utilizzano nella grandissima parte dei casi questi strumenti all’aperto: per questo motivo lo studio ha cercato di evidenziare e circostanziare puntualmente il problema, per portarlo alla conoscenza del pubblico. Al contrario, si è appurato che in condizioni di lavoro ottimali, per esempio durante i mesi estivi (ma anche e soprattutto in ambienti indoor, con condizioni di umidità controllata), questi sensori presentano una discreta accuratezza e la possibilità di evidenziare fenomeni di variazione delle concentrazioni di particolato anche di durata molto breve, grazie all’elevata risoluzione temporale delle misure.
Questo lavoro può servire per definire un “protocollo di monitoraggio” che permetta di promuovere iniziative di citizen science?
Le iniziative di Citizen Science partono spesso e giustamente dai cittadini, in maniera spontanea. Proprio nel campo della qualità dell’aria, in Italia, vi sono gli esempi collaudati di tale fenomeno. Ne abbiamo recentemente parlato anche nel convegno Aree Fragili in cui hanno partecipato anche alcuni di noi attori del SNPA.
A volte i cittadini ci chiedono un confronto sulle misure che svolgono, altre volte no.
Quello che ci sembra importante sottolineare in questo contesto è che noi, operatori del SNPA, dobbiamo innanzitutto essere in grado di sapere come si comportano i misuratori più comunemente usati in queste sperimentazioni, quali sono le loro caratteristiche, in quali condizioni essi possano dare misure indicative ed in quali invece, magari, si dimostrino inaffidabili od inefficaci. Si tratta di un approfondimento che non è da considerarsi in opposizione o concorrenza con le misure e i sistemi di riferimento ufficiali, ma piuttosto come la premessa culturale per costruire un confronto con i cittadini e condividere con essi il percorso di conoscenza su questa tipologia di sensori.
Secondo lei sarebbe auspicabile che il SNPA si facesse promotore di iniziative di citizen science, ed in quali campi?
Personalmente ritengo che la CS sia un tema su cui tutti noi, operatori del SNPA, dobbiamo prestare attenzione, proponendo atteggiamenti positivi e costruttivi. E’ una realtà attraverso la quale potremo anche veicolare i contenuti e le numerosissime informazioni prodotte dal Sistema, fornendo degli importanti spunti di educazione ambientale.
Come già accennato, quello che non va dimenticato è la componente spontanea del fenomeno, il fatto che le iniziative nascano da bisogni specifici, interessi ed attenzioni che si rendono evidenti nelle singole realtà territoriali.
Per questo, di fronte ad una realtà in così forte sviluppo, ritengo che sia importante prioritariamente dotare il SNPA di uno strumento di osservazione delle iniziative di CS. Dall’esperienza nascerà, sono sicuro, una capacità del Sistema di saper sempre meglio e sempre più valorizzare i grandi vantaggi di queste sperimentazioni, in qualsiasi campo ambientale esse siano applicate.
A breve inizieremo a raccogliere in maniera più sistematica di quanto fatto finora, i progetti con componenti di Citizen Science che hanno visto coinvolti, a vario titolo, Agenzie Ambientali o ISPRA. Non vorremmo solo costruire un ennesimo catalogo che rischierebbe di diventare vecchio non appena concluso, quanto cominciare a creare punti di riferimento per chi volesse affrontare progetti di CS. Molti cittadini hanno voglia di partecipare in prima persona ad iniziative, anche sperimentali, in campo ambientale: si tratterebbe semplicemente di diventare partner affidabili ed autorevoli in questi processi. L’importante è non creare una rete troppo rigida, impermeabile e con regole di ingaggio troppo complesse . Così facendo ci troveremmo fuori da un fenomeno che nasce “spontaneo” , dove il cittadino può (non deve!) rivolgersi all’istituzione per partecipare e non per essere giudicato.
fonte: www.snpambiente.it
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Impatto e misurazione degli odori

Mercoledì 28 ottobre 2020, dalle ore 10 alle 13, si terrà il convegno online “Impatto e misurazione degli odori. Valutazione, monitoraggio e buone pratiche”.
Il disturbo olfattivo è uno dei più sentiti e rilevanti aspetti negativi di impatto ambientale: può interferire con lo stato di benessere e diventa spesso elemento di conflitto tra cittadini e attività produttive. L’assenza di parametri normativi definiti univocamente, insieme alla soggettività della percezione e alle difficili modalità per determinare gli odori nell’ambiente, rende problematica la caratterizzazione del disagio percepito e, di conseguenza, l’attività degli organi di vigilanza.
Il convegno intende fare il punto delle conoscenze sugli effetti sanitari legati alla molestia olfattiva e promuovere un confronto sugli aspetti tecnici legati al monitoraggio, anche attraverso esperienze di coinvolgimento dei cittadini.
Il webinar sarà accessibile online su piattaforma Zoom, previa iscrizione.
Iscrizione al convegno
Programma del convegno
fonte: www.snpambiente.it/
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Monitoraggio della qualità dell’aria e dell’inquinamento odorigeno nel Lazio

L’ARPA Lazio ha eseguito, a partire dal 4 giugno 2020 e fino al 28 luglio, un monitoraggio nel comune di Colonna (Roma) con un laboratorio mobile. La campagna di misura segue quella realizzata tra febbraio e marzo dello stesso anno e ha previsto, oltre alla verifica degli inquinanti previsti dal D.lgs. n.155/2010, un monitoraggio sperimentale dell’inquinamento odorigeno.
L’assenza di un quadro normativo con riferimenti specifici ed adeguati alla complessità della problematica dell’impatto olfattivo, comporta l’insorgere di molteplici difficoltà nel valutare compiutamente l’impatto dei fenomeni osmogeni, in termini sia qualitativi che quantitativi.
L’odore è una risposta soggettiva ad una stimolazione delle cellule olfattive, presenti nella sede del naso, da parte di molecole gassose. La misura univoca ed esaustiva degli odori, in particolare per miscele complesse e con più componenti, è un problema in buona parte ancora irrisolto, anche perché la sensibilità umana nella percezione degli odori spesso si dimostra superiore ai limiti di rilevabilità delle tecniche analitiche tradizionali. Per tale motivo, non è identificabile un metodo completamente efficace per la misura degli odori ma è spesso necessario ricorrere ad un insieme di indagini e di tecniche, tra loro complementari, per riuscire ad ottenere il maggior numero di informazioni possibili.
L’ARPA Lazio ha quindi avviato una serie di attività finalizzate a sperimentare la definizione di un protocollo di misura che, mediante l’utilizzo di analizzatori “in continuo” di inquinanti gassosi, provi ad evidenziare la presenza di fenomeni di inquinamento odorigeno. Il protocollo è tuttora in fase di verifica, sia attraverso l’esecuzione di campagne di misura che avvalendosi di confronti con le altre Agenzie del Sistema nazionale di protezione dell’ambiente.
Nel caso di Colonna, l’ARPA Lazio ha posizionato un mezzo mobile in un’area adiacente al Palazzetto Don Vincenzo Palamara in Via Bruno Buozzi. Questo sito di misura è stato scelto in accordo con il Comune di Colonna sulla base degli esposti relativi alla presenza di cattivo odore. Per valutare l’effetto odorigeno delle sostanze non singolarmente, ma tenendo conto della loro coesistenza in miscela, è stata stimata con un metodo sperimentale e per ogni ora valida della campagna, l’intensità di odore della miscela, il cui valore è raffrontabile con una scala a 5 valori che va da odore inesistente a odore intollerabile.
Dalle risultanze dello studio sperimentale si registrano, nel periodo di misura (1288 ore), un 33% di eventi con intensità di odore da discernibile a forte (424 ore durante le quali la molestia si è verificata con una certa probabilità) e un 2% con intensità di odore da forte a molto forte (28 ore durante le quali la molestia si è verificata con una certa probabilità). Le intensità di odore sono state calcolate utilizzando il concetto di intensità di picco, pertanto il valore assegnato a ogni singola ora non sta a significare che la percezione della molestia sia stata rilevata durante tutta l’ora ma che durante la stessa la molestia si sia verificata con una certa probabilità.
Esiste una parziale sovrapposizione (pari a circa il 18%) delle ore nelle quali sono state registrate intensità di odore da discernibile a molto forte, con le ore durante le quali la popolazione residente ha rilevato la presenza di odore e lo ha segnalato attraverso alcuni questionari pervenuti all’ARPA Lazio attraverso un comitato dei cittadini.


La direzione dei venti, durante le ore in cui l’intensità di odore è significativa, risulta prevalentemente dai quadranti SUD-EST e SUD-OVEST che sono coerenti con la posizione di due sorgenti conosciute di emissioni in atmosfera presenti nella zona: l’area industriale e il traffico dell’infrastruttura stradale. Report Campagna Monitoraggio Mezzo Mobile
fonte: www.snpambiente.it
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Riapertura delle scuole: un’occasione per ripensarle dal punto di vista della tutela ambientale?
È all’ordine del giorno di queste settimane e lo sarà per tutta l’estate il tema della predisposizione e preparazione delle scuole alla riapertura di settembre: quali e quanti spazi, vecchi e nuovi arredi, dispositivi di sicurezza, sanificazione ed areazione….
Per istituti scolastici e amministrazioni locali questa ri-progettazione e questo sforzo, in termini finanziari ma anche di idee, può diventare la leva di un cambiamento importante se si coglie l’occasione per ripensare le nostre scuole anche dal punto di vista della sostenibilità ambientale.
Ante Covid il problema della scarsa qualità ambientale degli edifici scolastici era ben nota: si pensi in primis al problema dell’esposizione al particolato e agli altri inquinanti aero-dispersi che impatta negativamente sullo sviluppo cognitivo e quindi sul rendimento scolastico degli studenti.
È stato infatti dimostrato che nelle scuole con i più bassi livelli di polveri ultrafini da traffico veicolare, particelle di carbonio e biossido di azoto, gli indicatori dello sviluppo cognitivo segnano fino a un +13% (come attenzione e capacità di memorizzazione) rispetto alle scuole con una scarsa qualità dell’aria e presenza di più alte concentrazioni di inquinanti.

Ma come siamo messi in Italia dal punto di vista dell’inquinamento indoor delle scuole?
La campagna “Che aria tira?” condotta dal Comitato Torino Respira ha rilevato la qualità dell’aria presso 121 scuole torinesi attraverso l’installazione di provette per il monitoraggio del biossido di azoto. Quello che è emerso è che
il 99% delle scuole presenta valori superiori al valore di 20 µg/m3 al di sopra del quale si osservano effetti negativi sulla salute
il 40% delle 71 scuole dell’infanzia e primarie analizzate presenta valori oltre i limiti di legge
alcune scuole del centro e persino all’interno della ZTL sono fuori dai limiti di legge.
Il progetto di ricerca “Il cambiamento è nell’aria” promosso dalla Libera Università di Bolzano – con la collaborazione di ricercatori e dottorandi dell’Università Iuav di Venezia e delle Università di Trento e Padova – e dall’azienda Agorà, ha indagato la qualità dell’aria negli edifici scolastici italiani attraverso il monitoraggio continuo di temperatura, umidità, concentrazione di CO2 e illuminamento, mettendoli in relazione anche al comportamento degli studenti e alla normativa di riferimento (in particolare, la EN 16798-1: 2019).
Sono stati quindi rilevati valori di concentrazione di CO2 che superano per più dell’80% del tempo la soglia massima suggerita; per quanto riguarda la portata di ventilazione si è attestata sotto la soglia minima prescritta per oltre il 95% del tempo di esposizione. I dati indicano anche come un ricorso alla ventilazione naturale, anche se fosse più esteso di quanto già fatto nelle due settimane (le finestre sono risultate completamente chiuse per meno della metà del tempo), difficilmente potrebbe garantire i tassi di ricambio richiesti.
Quando si pensa all’inquinamento delle scuole non possiamo dimenticare anche i problemi di carattere acustico. Uno studio condotto nell’ambito del progetto Life Gioconda a Napoli, Taranto, Ravenna ed alcuni Comuni del Valdarno inferiore ha mostrato che la maggior parte dei rumori che interessano i plessi scolastici sono quelli causati o da vicini siti industriali o dal traffico veicolare. Inoltre anche gli edifici sono risultati deficitari dal punto di vista acustico, a causa di superfici esterne non riverberanti o in grado di assorbire e disperdere i rumori, una non adeguata acustica delle aule e la mancanza di infissi in grado di diminuire il propagarsi dei rumori.
Il caso studio ha confermato l’esistenza di una correlazione tra il fastidio percepito dagli studenti e le misure del rumore fuori e dentro le aule. Già precedenti indagini sull’argomento avevano mostrato una stretta correlazione tra il fastidio percepito dai ragazzi a causa dei rumori e le loro capacità di comprensione, uso dell’attenzione, memoria e abilità matematiche.
Cosa si può fare per limitare l’inquinamento negli edifici scolastici?
Le raccomandazioni per garantire un’adeguata qualità dell’aria nelle classi elaborate dalla Cattedra UNESCO per l’educazione alla salute e lo sviluppo sostenibile e dalla Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA) prevedono dallo stop al sovraffollamento delle classi all’importanza dell’igiene personale degli alunni fino all’ottimale ventilazione e pulizia delle aule; dall’installazione di termostati e dal monitoraggio continuo di Radon e PM10/PM2.5 alla piantumazione di barriere verdi intorno agli edifici scolastici, valutando anche l’opportunità di utilizzare per l’indoor piante in grado di assorbire inquinanti e l’uso di purificatori d’aria capaci di eliminare anche i virus.
Il documento Qualità dell’aria indoor negli ambienti scolastici: strategie di monitoraggio degli inquinanti chimici e biologici, elaborato dal Gruppo di Studio Nazionale Inquinamento Indoor, consiglia la corretta scelta dei processi di efficientamento energetico finalizzato ad ottimizzare il livello di benessere e la qualità dell’aria indoor, la necessità di effettuare un regolare ricambio dell’aria, l’ammodernamento di aule, laboratori didattici specialistici, palestre, uffici, ecc., la scelta di arredi sempre più adeguati alla didattica (e non scelti perché più convenienti o recuperati), la scelta di materiali didattici e di consumo tenendo conto dei livelli emissivi di sostanze inquinanti dei singoli materiali ed ancora l’attivazione e realizzazione di programmi di tipo educativo e formativo obbligatori per gli studenti e per il personale sui potenziali rischi per la salute provenienti dall’inquinamento.
Per quanto riguarda l’inquinamento acustico utili indicazioni giungono dal già citato progetto Life Gioconda: soluzioni semplici e a basso costo potrebbero infatti essere efficacemente implementate, come ad esempio una buona manutenzione di porte e finestre per migliorare l’isolamento o l’installazione di controsoffitti per contribuire all’abbassamento del riverbero. Gli stessi studenti coinvolti nel progetto hanno avanzato suggerimenti sulla riorganizzazione delle aule, dai semplici sistemi di contenimento come mezze palline da tennis sotto le sedie o pannelli alle pareti, alla riorganizzazione del traffico esterno come la chiusura delle strade che portano alle scuole.
Si potrebbe ancora pensare ad implementare una didattica all’aperto, valorizzando lo spazio esterno agli edifici scolastici, quale occasione alternativa di apprendimento. Da uno studio, condotto dall’Istituto regionale ricerca educativa del Lazio su ragazzi delle scuole medie, emerge che due studenti su tre non sanno eseguire una capriola in avanti, non sanno andare in bicicletta o saltare su un piede solo: si tratta di tutte quelle attività all’aria aperta che hanno caratterizzato lo sviluppo e la crescita delle generazioni di ieri e che sempre più sono state sostituite da sedentarietà e chiusura dentro le abitazioni.
Il cosiddetto “disturbo pediatrico da deficit di natura”, definito per la prima volta da Richard Louv, giornalista e scrittore americano nel 2005 e poi studiato e osservato da medici e ricercatori, coinvolge proprio i bambini che vivono in agglomerati urbani e che non hanno contatti frequenti con ambienti verdi. Stare in mezzo alla natura aiuterebbe invece a muoversi e socializzare in modo diretto e autentico, favorendo l’attività sportiva e la buona salute psicofisica, e la vegetazione, anche quella cittadina, migliorerebbe le qualità dell’aria respirata e anche solo la visione di un paesaggio verde costituirebbe un’immagine positiva a livello mentale.
È stato scientificamente dimostrato che nella vita dei bambini l’assenza di panorami naturali e di semplici attività rurali o campestri può favorire condizioni di difficoltà di attenzione e socializzazione, come l’ADHA (disturbo da deficit di attenzione e iperattività), oppure facilitare la comparsa di asma, infezioni respiratorie e disordini metabolici come l’obesità.
L’educazione all’aperto, oltre ai benefici sopra descritti, potrebbe inoltre offrire un modello in grado di garantire il distanziamento sociale, tanto richiesto in questa fase post pandemia.
L’anno scolastico che si aprirà a settembre vedrà l’introduzione – nelle scuole di ogni ordine e grado – dell’insegnamento trasversale dell’educazione civica, che comprende anche l’educazione ambientale. Che sia di auspicio per passare dalle parole ai fatti, dall’insegnamento alla pratica?
fonte: https://www.snpambiente.it/
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Economia circolare? Istat: solo il 21,3% delle imprese usa materie prime seconde
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Piove plastica
È nell’aria che respiriamo. Sospinta dal vento, arriva anche nei luoghi più remoti del pianeta. E con la pioggia o la neve si deposita persino sulle vette alpine e sulle calotte polari. La plastica, che fino a settant’anni fa neppure esisteva, ormai fa parte dell’ambiente, dove resterà per millenni. Al punto che gli scienziati oggi la trovano dappertutto, anche quando non la cercano.
Gregory Weatherbee, chimico dello United States Geological Survey (Usgs), stava osservando al microscopio dei campioni di acqua piovana raccolti sulle Montagne Rocciose quando ha notato un arcobaleno di fibre e perline colorate. Weatherbee studia l’inquinamento da azoto e non si aspettava di trovare tanta plastica nelle gocce di pioggia. Ma ha capito subito che nell’aria deve essercene molta di più di quanto i nostri occhi possano vedere perché, come ha scritto nelle conclusioni del suo rapporto, persino tra le Montagne Rocciose piove plastica.
Dov’è finita?
Nel mondo ogni anno si producono più di 330 milioni di tonnellate di plastica, ma secondo uno studio pubblicato su Science Advance solo il 9% viene riciclata. Un altro 12% è bruciata negli inceneritori, mentre il restante 79% finisce in discariche di ogni genere o, più spesso, è dispersa direttamente nell’ambiente. Dove poi finisca esattamente tutta questa plastica dispersa, però, non si sa.
Negli ultimi anni l’attenzione si è focalizzata sugli oceani, dopo l’inquietante scoperta di enormi vortici di plastica galleggiante. Ma i conti non tornano: quel che si trova nel mare non è che una porzione infinitesimale – appena l’1% – della plastica che abbiamo immesso nell’ambiente. E allora tutto il resto dov’è? Con ogni probabilità, la risposta più corretta è: ovunque.
Una volta nell’ambiente, infatti, la plastica si degrada in frammenti sempre più piccoli che possono essere trasportati dal vento e dalle correnti marine nelle regioni più sperdute della Terra. Particelle di plastica sono state trovate in abbondanza persino negli abissi oceanici, sulle vette dei Pirenei o nei ghiacci delle calotte polari.
Il team di Melanie Bergmann, ecologa marina dell’Alfred Wegener Institute (Awi), ha inseguito la plastica fino allo stretto di Fram, un passaggio tra la Groenlandia e le isole Svalbard che si apre sul Mar Glaciale Artico. E anche nei ghiacci della banchisa ha trovato una notevole concentrazione di frammenti, soprattutto di dimensioni inferiori a 10 micrometri, che sono trasportati dal vento e ricadono al suolo insieme alla neve.
Dentro di noi
Ma c’è di più. Le microplastiche, cioè i frammenti di lunghezza inferiore a 5 millimetri, si accumulano anche negli organismi viventi, risalendo la catena alimentare. E se aggiungiamo il fatto che persino nell’atmosfera ce n’è più del previsto, allora la plastica è davvero ovunque. Nell’aria, nei fiumi, nei mari, nelle rocce, nella pioggia, nei pesci, negli uccelli, dentro di noi.
Gli effetti sulla salute umana, peraltro, sono ancora tutti da indagare. Tra gli esperti aleggia il timore che le microplastiche respirate o ingerite possano diventare un pericoloso veicolo di batteri e sostanze tossiche. Ai frammenti di plastica si possono infatti legare microbi, metalli pesanti e composti sintetici pericolosi di varia natura, come vernici o ritardanti di fiamma.
Per mitigare il rischio non c’è altra possibilità che ridurre la produzione di plastica – che purtroppo continua invece ad aumentare anno dopo anno, bruciando sempre più combustibili fossili – e vietare l’assurdo impiego dei prodotti monouso, utili per qualche minuto e destinati a contaminare l’ambiente per millenni. Al momento, infatti, puntare sul riciclo è un’illusione: la plastica è molto difficile da recuperare e la gran parte continua a essere dispersa nel suolo, nell’acqua e nell’aria. Se non vogliamo che ci piova in testa, dobbiamo imparare a vivere senza trasformare il pianeta in una discarica.
fonte: https://www.wired.it
Isde Perugia: Aiutiamoci, Aiutateci.....È Rimasto Poco Tempo!
Trovate microplastiche in aria
I rifiuti in plastica sono oggi uno dei problemi più urgenti a livello mondiale, una delle principali sfide ambientali, in particolare per la presenza di microplastiche nei mari di tutto il mondo. Ad eccezione di Parigi e della città cinese di Dongguan, dove sono state svolte ricerche sulla ricaduta atmosferica delle microplastiche, ad oggi non ci sono molti dati sulla presenza o sul trasporto di tali particelle in aria.
La lunghezza predominante delle fibre di plastica trovate nei campioni è tra i 100 e i 300 μm; i frammenti per la maggior parte sono ≤ a 50 μm.
Proprio il vento potrebbe essere stato il “motivo” del trasporto delle microplastiche da un luogo all’altro; un'analisi della traiettoria e della direzione della massa d'aria ha rilevato infatti come queste plastiche abbiano “viaggiato” in aria fino a 95 km di distanza. L'area di origine delle microplastiche ritrovate si estenderebbe cioè fino a 95 km dal sito, raggiungendo diverse città.