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Coronavirus, c'è un legame tra il virus e lo smog

Lo conferma la Sima, la società di medicina ambientale, che già a marzo ipotizzava una correlazione tra il virus e particolato atmosferico. "La prova definitiva dell'interazione nelle tracce di RNA virale isolate in campioni provenienti dai filtri di raccolta nella provincia di Bergamo a fine febbraio", spiega il professor Leonardo Setti, docente di Biochimica Industriale all'Alma Mater di Bologna



Il collegamento era stato già individuato, ma ora arriva una nuova conferma: c'è un legame tra la diffusione del coronavirus e l'inquinamento atmosferico in Pianura Padana. Lo studio della Sima, la società di medicina ambientale, che già a marzo ipotizzava un legame, è stato infatti pubblicato sulla rivista open-access "British Medical Journal", dopo 7 mesi di accurata peer-review da parte della comunità scientifica internazionale. "Si tratta della quarta pubblicazione che abbiamo prodotto dal mese di marzo - spiega il professor Alessandro Miani, presidente della Sima - quando ci siamo sentiti in dovere di avvertire i decisori politici, nel pieno dell'emergenza Covid-19, che la distanza di sicurezza di 2 metri (ridotta a 1 metro per gli ambienti indoor dal Cts governativo) non fosse sufficiente a garantire la sicurezza e che era necessario obbligare all'uso della mascherina tutti i cittadini in ogni luogo aperto al pubblico in un momento in cui si stava ancora discutendo dell'efficacia dei dispositivi di protezione individuale", aggiunge Miani.

"Abbiamo ottenuto la prova definitiva dell'interazione tra particolato atmosferico e virus quando siamo riusciti a isolare tracce di RNA virale in campioni provenienti dai filtri di raccolta del particolato atmosferico prelevati nella provincia di Bergamo durante l'ultima serie di picchi di sforamento di PM10 avvenuta a fine febbraio, quando le curve di contagio hanno avuto un'improvvisa accelerata facendoci precipitare nell'emergenza sanitaria culminata con il lockdown", spiega il professor Leonardo Setti, docente di Biochimica Industriale all'Alma Mater di Bologna e membro del comitato scientifico Sima.

Gianluigi De Gennaro, professore di Chimica dell'Ambiente all'Università di Bari precisa: "Durante l'inverno, in Pianura Padana, è possibile riscontrare anche per diversi giorni consecutivi più di 150.000 particelle per centimetro cubo, con un impatto sulla salute, anche in termini di mortalità evitabile, oramai acclarato dai rapporti annuali dell'Agenzia Europea per l'Ambiente. La pianura padana in inverno è assimilabile ad un ambiente indoor con il soffitto di qualche decina di metri, dove in presenza di una grande circolazione virale le condizioni di stabilità atmosferica, il tasso di umidità e la scarsa ventilazione hanno di fatto aperto al Coronavirus delle vere e proprie 'autostrade'".

I dettagli dello studio vengono forniti dal professor Prisco Piscitelli, epidemiologo e vicepresidente Sima: "Abbiamo analizzato il numero di sforamenti per il PM10 sopra i 50 g/m3 per tutte le Province italiane, considerando il numero di centraline installate, la numerosità e densità della popolazione, oltre al numero medio di pendolari giornalieri e turisti. Il periodo esaminato andava dal 9 al 29 Febbraio, in modo da tener conto dei 14 giorni di massima incubazione del virus e quindi degli effetti prodotti nelle prime due settimane di ondata epidemica in Italia (24 Febbraio-13 Marzo). Su un totale di 41 Province del Nord Italia, ben 39 si collocavano nella categoria di massima frequenza di sforamenti, mentre 62 Province meridionali su 66 si situavano ai livelli più bassi di inquinamento atmosferico. L'andamento degli sforamenti di PM 2.5 era pressoché sovrapponibile. L'effetto osservato era indipendente sia dalla numerosità che dalla densità di popolazione. Complessivamente, gli sforamenti di PM10 si rivelavano un significativo fattore predittivo di infezione da Covid-19, potendo spiegare la diversa velocità di propagazione del virus nelle 110 Province italiane".

"Sono quasi 200 i lavori scientifici che hanno citato i nostri studi, tra cui quello a firma del premio Nobel J. Molina" - aggiunge Leonardo Setti - "Tutti hanno confermato le nostre ipotesi mettendo in evidenza fenomeni di iperdiffusione ("superspread") del virus in vari Paesi del mondo. Tanti colleghi hanno osservato lo stesso fenomeno partendo da ipotesi diverse rafforzando ulteriormente il modello da noi proposto. E' importante sapere che queste accelerazioni della diffusione del virus le osserviamo quando le sorgenti naturali o le attività antropiche, legate al traffico e al riscaldamento domestico, così come le condizioni atmosferiche che riscontriamo tra gennaio e febbraio, portano a sforamenti ripetuti delle PM2,5 e PM10. Gli indici R0 passano da 2 a oltre 4 se gli sforamenti superano i 3-4 giorni consecutivi". "Nel ribadire che l'inquinamento atmosferico si rivela ancora una volta fonte di gravi danni alla salute, vogliamo tuttavia sottolineare che le evidenze prodotte da Sima non devono spaventare gli attori del mondo del lavoro e delle imprese, ma stimolarli a una ripartenza verde che coniughi il giusto progresso economico con la sostenibilità ambientale necessaria alla tutela della salute umana. L'abbandono dei combustibili fossili con una rapida transizione energetica ed ecologica è prospettiva oramai inevitabile per evitare il rapido collasso degli ecosistemi dalle conseguenze imprevedibili e offrirà nuove opportunità economiche e condizioni di lavoro in grado di servirsi al meglio delle nuove tecnologie", commenta Miani che aggiunge "Anche alla luce di queste evidenze, il Recovery Found deve essere occasione ineludibile per investire non più su azioni accessorie ma soprattutto su progettualità concrete che possano ridurre nel breve/medio periodo l'impatto dell'uomo sull'ambiente".

fonte: www.repubblica.it


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Riapertura delle scuole: un’occasione per ripensarle dal punto di vista della tutela ambientale?

Le problematiche connesse alla qualità dell’aria all’interno degli ambienti scolastici costituiscono una tematica di grande rilevanza, ancora di più in questo post Coronavirus











È all’ordine del giorno di queste settimane e lo sarà per tutta l’estate il tema della predisposizione e preparazione delle scuole alla riapertura di settembre: quali e quanti spazi, vecchi e nuovi arredi, dispositivi di sicurezza, sanificazione ed areazione….

Per istituti scolastici e amministrazioni locali questa ri-progettazione e questo sforzo, in termini finanziari ma anche di idee, può diventare la leva di un cambiamento importante se si coglie l’occasione per ripensare le nostre scuole anche dal punto di vista della sostenibilità ambientale.

Ante Covid il problema della scarsa qualità ambientale degli edifici scolastici era ben nota: si pensi in primis al problema dell’esposizione al particolato e agli altri inquinanti aero-dispersi che impatta negativamente sullo sviluppo cognitivo e quindi sul rendimento scolastico degli studenti.

È stato infatti dimostrato che nelle scuole con i più bassi livelli di polveri ultrafini da traffico veicolare, particelle di carbonio e biossido di azoto, gli indicatori dello sviluppo cognitivo segnano fino a un +13% (come attenzione e capacità di memorizzazione) rispetto alle scuole con una scarsa qualità dell’aria e presenza di più alte concentrazioni di inquinanti.


Ma come siamo messi in Italia dal punto di vista dell’inquinamento indoor delle scuole?

La campagna “Che aria tira?” condotta dal Comitato Torino Respira ha rilevato la qualità dell’aria presso 121 scuole torinesi attraverso l’installazione di provette per il monitoraggio del biossido di azoto. Quello che è emerso è che
il 99% delle scuole presenta valori superiori al valore di 20 µg/m3 al di sopra del quale si osservano effetti negativi sulla salute
il 40% delle 71 scuole dell’infanzia e primarie analizzate presenta valori oltre i limiti di legge
alcune scuole del centro e persino all’interno della ZTL sono fuori dai limiti di legge.

Il progetto di ricerca “Il cambiamento è nell’aria” promosso dalla Libera Università di Bolzano – con la collaborazione di ricercatori e dottorandi dell’Università Iuav di Venezia e delle Università di Trento e Padova – e dall’azienda Agorà, ha indagato la qualità dell’aria negli edifici scolastici italiani attraverso il monitoraggio continuo di temperatura, umidità, concentrazione di CO2 e illuminamento, mettendoli in relazione anche al comportamento degli studenti e alla normativa di riferimento (in particolare, la EN 16798-1: 2019).

Sono stati quindi rilevati valori di concentrazione di CO2 che superano per più dell’80% del tempo la soglia massima suggerita; per quanto riguarda la portata di ventilazione si è attestata sotto la soglia minima prescritta per oltre il 95% del tempo di esposizione. I dati indicano anche come un ricorso alla ventilazione naturale, anche se fosse più esteso di quanto già fatto nelle due settimane (le finestre sono risultate completamente chiuse per meno della metà del tempo), difficilmente potrebbe garantire i tassi di ricambio richiesti.

Quando si pensa all’inquinamento delle scuole non possiamo dimenticare anche i problemi di carattere acustico. Uno studio condotto nell’ambito del progetto Life Gioconda a Napoli, Taranto, Ravenna ed alcuni Comuni del Valdarno inferiore ha mostrato che la maggior parte dei rumori che interessano i plessi scolastici sono quelli causati o da vicini siti industriali o dal traffico veicolare. Inoltre anche gli edifici sono risultati deficitari dal punto di vista acustico, a causa di superfici esterne non riverberanti o in grado di assorbire e disperdere i rumori, una non adeguata acustica delle aule e la mancanza di infissi in grado di diminuire il propagarsi dei rumori.

Il caso studio ha confermato l’esistenza di una correlazione tra il fastidio percepito dagli studenti e le misure del rumore fuori e dentro le aule. Già precedenti indagini sull’argomento avevano mostrato una stretta correlazione tra il fastidio percepito dai ragazzi a causa dei rumori e le loro capacità di comprensione, uso dell’attenzione, memoria e abilità matematiche.

Cosa si può fare per limitare l’inquinamento negli edifici scolastici?
Le raccomandazioni per garantire un’adeguata qualità dell’aria nelle classi elaborate dalla Cattedra UNESCO per l’educazione alla salute e lo sviluppo sostenibile e dalla Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA) prevedono dallo stop al sovraffollamento delle classi all’importanza dell’igiene personale degli alunni fino all’ottimale ventilazione e pulizia delle aule; dall’installazione di termostati e dal monitoraggio continuo di Radon e PM10/PM2.5 alla piantumazione di barriere verdi intorno agli edifici scolastici, valutando anche l’opportunità di utilizzare per l’indoor piante in grado di assorbire inquinanti e l’uso di purificatori d’aria capaci di eliminare anche i virus.

Il documento Qualità dell’aria indoor negli ambienti scolastici: strategie di monitoraggio degli inquinanti chimici e biologici, elaborato dal Gruppo di Studio Nazionale Inquinamento Indoor, consiglia la corretta scelta dei processi di efficientamento energetico finalizzato ad ottimizzare il livello di benessere e la qualità dell’aria indoor, la necessità di effettuare un regolare ricambio dell’aria, l’ammodernamento di aule, laboratori didattici specialistici, palestre, uffici, ecc., la scelta di arredi sempre più adeguati alla didattica (e non scelti perché più convenienti o recuperati), la scelta di materiali didattici e di consumo tenendo conto dei livelli emissivi di sostanze inquinanti dei singoli materiali ed ancora l’attivazione e realizzazione di programmi di tipo educativo e formativo obbligatori per gli studenti e per il personale sui potenziali rischi per la salute provenienti dall’inquinamento.

Per quanto riguarda l’inquinamento acustico utili indicazioni giungono dal già citato progetto Life Gioconda: soluzioni semplici e a basso costo potrebbero infatti essere efficacemente implementate, come ad esempio una buona manutenzione di porte e finestre per migliorare l’isolamento o l’installazione di controsoffitti per contribuire all’abbassamento del riverbero. Gli stessi studenti coinvolti nel progetto hanno avanzato suggerimenti sulla riorganizzazione delle aule, dai semplici sistemi di contenimento come mezze palline da tennis sotto le sedie o pannelli alle pareti, alla riorganizzazione del traffico esterno come la chiusura delle strade che portano alle scuole.

Si potrebbe ancora pensare ad implementare una didattica all’aperto, valorizzando lo spazio esterno agli edifici scolastici, quale occasione alternativa di apprendimento. Da uno studio, condotto dall’Istituto regionale ricerca educativa del Lazio su ragazzi delle scuole medie, emerge che due studenti su tre non sanno eseguire una capriola in avanti, non sanno andare in bicicletta o saltare su un piede solo: si tratta di tutte quelle attività all’aria aperta che hanno caratterizzato lo sviluppo e la crescita delle generazioni di ieri e che sempre più sono state sostituite da sedentarietà e chiusura dentro le abitazioni.

Il cosiddetto “disturbo pediatrico da deficit di natura”, definito per la prima volta da Richard Louv, giornalista e scrittore americano nel 2005 e poi studiato e osservato da medici e ricercatori, coinvolge proprio i bambini che vivono in agglomerati urbani e che non hanno contatti frequenti con ambienti verdi. Stare in mezzo alla natura aiuterebbe invece a muoversi e socializzare in modo diretto e autentico, favorendo l’attività sportiva e la buona salute psicofisica, e la vegetazione, anche quella cittadina, migliorerebbe le qualità dell’aria respirata e anche solo la visione di un paesaggio verde costituirebbe un’immagine positiva a livello mentale.

È stato scientificamente dimostrato che nella vita dei bambini l’assenza di panorami naturali e di semplici attività rurali o campestri può favorire condizioni di difficoltà di attenzione e socializzazione, come l’ADHA (disturbo da deficit di attenzione e iperattività), oppure facilitare la comparsa di asma, infezioni respiratorie e disordini metabolici come l’obesità.

L’educazione all’aperto, oltre ai benefici sopra descritti, potrebbe inoltre offrire un modello in grado di garantire il distanziamento sociale, tanto richiesto in questa fase post pandemia.

L’anno scolastico che si aprirà a settembre vedrà l’introduzione – nelle scuole di ogni ordine e grado – dell’insegnamento trasversale dell’educazione civica, che comprende anche l’educazione ambientale. Che sia di auspicio per passare dalle parole ai fatti, dall’insegnamento alla pratica?

fonte: https://www.snpambiente.it/


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Perché l’inquinamento da Pm10 può agevolare la diffusione del virus

La correlazione evidenziata dall’analisi dei dati delle Arpa congiunta ai numero dei contagiati: il Pm10 agirebbe da vettore del virus



Le correlazioni vengono al pettine: l'inquinamento, soprattutto quello atmosferico, potrebbe aver preparato il terreno al Coronavirus e alla sua diffusione. Quantomeno i dati evidenziano una relazione tra i superamenti dei limiti di legge per il Pm10 e il numero di casi infetti da Covid-19.

Lo dimostra uno studio curato da una dozzina di ricercatori italiani e medici della Società italiana di Medicina Ambientale (Sima). Leonardo Setti dell'Università di Bologna e Gianluigi de Gennaro dell'Università di Bari hanno passato gli ultimi venti giorni sui dati registrati nel periodo tra il 10 e il 29 febbraio e li hanno incrociati: da una parte quelli provenienti dalle centraline di rilevamento delle Arpa, le agenzie regionali per la protezione ambientale, dall'altra i dati del contagio da Covid19 riportati dalla Protezione Civile, aggiornati al 3 marzo, lasso temporale necessario considerando il ritardo temporale intermedio di 14 giorni pari al tempo di incubazione del virus. La conclusione è che si evidenzia una relazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di Pm10 e PM2,5 e il numero di casi infetti da Covid-19.

La Pianura padana è in codice rosso anche nello studio: qui si sono osservate le curve di espansione dell’infezione che hanno mostrato accelerazioni anomale, in evidente coincidenza, a distanza di due settimane, con le più elevate concentrazioni di particolato atmosferico.

Il Pm10 avrebbe, secondo la ricerca, esercitato un'azione di boost, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell'epidemia. Leonardo Setti lo mette in luce: «Le alte concentrazioni di polveri registrate nel mese di febbraio in Pianura padana hanno prodotto un'accelerazione alla diffusione del Covid19. L'effetto è più evidente in quelle province dove ci sono stati i primi focolai».

Potrebbe quindi essere questo uno dei motivi per cui la Pianura padana, rispetto alle altre zone d'Italia, ha cullato il virus in maniera più concentrata. A questo proposito è emblematico il caso di Roma, in cui la presenza di contagi era già manifesta negli stessi giorni delle regioni padane senza però innescare un fenomeno così virulento. Brescia è tra le città più colpite per inquinamento e caso di focolai di Coronavirus.

L'idea che l'inquinamento da Pm10 sia facilitatore delle infezioni non è nuova, a partire da polmonite e morbillo. La letteratura è lì a dimostrarlo e a suggerire norme importanti per ridurre l'inquinamento.

Il presupposto con il Coronavirus è lo stesso: il particolato funge da carrier per il trasporto del virus. Anche nell'etere. Forse tanto quanto una stretta di mano: «Più ci sono polveri sottili – afferma Gianluigi de Gennaro, dell'Università di Bari - più si creano autostrade per i contagi. È necessario ridurre al minimo le emissioni».

È noto che il particolato atmosferico funziona da vettore di trasporto per molti contaminanti chimici e biologici, inclusi i virus che si “attaccano” (con un processo di coagulazione) anche per ore, giorni o settimane. Inoltre, sarebbero lunghe le distanze che il virus potrebbe percorrere così trasportato.

Lo studio mette in luce un altro fattore: «L'attuale distanza considerata di sicurezza – fa notare Alessandro Miani, Presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima) riferendosi allo spazio di un metro - potrebbe non essere sufficiente». Così come evidentemente non sono sufficienti le misure finora adottate per contenere l'inquinamento atmosferico.

fonte: https://www.ilsole24ore.com