Tra le plastiche che subiscono questa processo vi è il polietilene tereftalato (PET) utilizzato in bottiglie, imballaggi alimentari e tessuti sintetici
Interessante notizia divulgata nei giorni scorsi dalla stampa internazionale secondo cui alcuni scienziati hanno scoperto alcuni microbi nel liquido estratto dal rumine, la parte più grande dello stomaco di un ruminante (in cui rientrano i mammiferi ungulati come bovini e pecore), in grado di scomporre il cibo ingerito dall'animale. Il rumine agisce da incubatore per questi microbi, che digeriscono o fermentano i cibi consumati da una mucca o da altri ruminanti, secondo l'Università del Minnesota. Da ciò, i ricercatori hanno pensato che alcuni microbi presenti nel rumine di una mucca avrebbero potuto digerire anche alcune plastiche come il poliestere. Questo in quanto, a causa delle loro diete erbivore, le mucche consumano un poliestere naturale prodotto dalle piante, chiamato cutina. E come poliestere sintetico, il PET condivide una struttura chimica simile a questa sostanza naturale. La cutina costituisce la maggior parte della cuticola, lo strato esterno ceroso delle pareti cellulari delle piante, per esempio può essere trovata in abbondanza nelle bucce di mele e pomodori, come affermato da Doris Ribitsch, senior scientist at the University of Natural Resources and Life Sciences in Vienna.
In particolare, una classe di enzimi chiamati cutinasi è in grado di idrolizzare la cutina, il che significa che si avvia una reazione chimica in cui le molecole d'acqua rompono la sostanza in particelle. Ribitsch e i suoi colleghi hanno isolato tali enzimi dai microbi verificando che le mucche potrebbero essere una fonte di simili microbi che divorano il poliestere. In un nuovo studio pubblicato di recente i ricercatori hanno scoperto che i microbi del rumine della mucca potrebbero degradare non solo il PET ma anche altre plastiche come il tereftalato adipato di polibutilene (PBAT), utilizzato in sacchetti di plastica compostabili, e il polietilene furanoato (PEF), realizzato con materiali rinnovabili di origine vegetale. Gli scienziati sono intenzionati a campionare i batteri mangia-plastica provenienti dal liquido del rumine e determinare quali enzimi specifici usano i batteri per abbattere la plastica. Se riuscissero a identificare gli enzimi in grado di essere potenzialmente utili per il il riciclo, potrebbero quindi ingegnerizzarli geneticamente in grandi quantità, senza la necessità di raccogliere tali microbi direttamente dallo stomaco della mucca. In questo modo, gli enzimi possono essere prodotti con facilità e in modo economico, per un utilizzo su scala industriale. In questo senso, Ribitsch e il suo team hanno già brevettato un metodo di riciclaggio in cui i materiali tessili vengono esposti a vari enzimi in sequenza.
fonte: www.greencity.it
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Un mattone realizzato attraverso il riciclo dei tessuti, ecco il progetto FabBRICK proiettato verso un futuro maggiormente sostenibile.
Come combinare i filati di scarto con l’edilizia, riducendo al minimo avanzi e rifiuti, ma riciclandoli? Ecco che entra in campo FabBRICK, che punta al riciclo dei tessuti in singolari mattoni decorativi e del tutto isolanti.
L’idea ha preso vita grazie alla creatività della studentessa francese di architettura Clarisse Merlet. Nel 2017 Merlet ha preso consapevolezza dell’incredibile mole di articoli che vengono buttati via, e che non trovano spazio nei percorsi di riciclo e riutilizzo.
Tra questi proprio gli abiti e i tessuti, una mole di rifiuti pari a 4 milioni di tonnellate annuali solo in Francia, ma che può giungere rapidamente e superare i 17 milioni solo negli USA. Questa quantità impressionante di rifiuti soffoca il benessere del Pianeta stesso, perché solo una percentuale minima trova spazio nel riutilizzo e riciclaggio dei filati. Riciclo dei tessuti: dalle stoffe al mattone
Gli scarti tessili impiegati per la creazione dei mattoni contemplano materiali differenti, non si limitano solo al cotone, ma comprendono anche poliestere, lana, elastan, PVC e molto altro. Ogni mattone è costituito dall’equivalente di tre magliette sminuzzate e mescolate attraverso l’impiego di un particolare collante ecologico, creato appositamente da Merlet.
Il tutto viene versato in uno stampo per mattoni e pressato meccanicamente senza l’impiego di energia, se non quella delle braccia dell’operaio. I mattoni vengono liberati dal contenitore e lasciati asciugare per due settimane.
Sono elementi decorativi, non deputati per l’utilizzo edile ma la creatrice sta cercando di progettare nuovi modelli che possano soddisfare questo genere di richiesta. I prodotti attuali mostrano un’ottima resistenza all’acqua e al fuoco e risultano particolarmente isolanti, sono perfetti per separare gli spazi e decorare gli ambienti. Non solo stanze e abitazioni, ma anche showroom grazie alla trasformazione in tavolini, sgabelli, lampade ed elementi arredo.
Dal 2018 a oggi l’azienda ha riciclato ben 12 tonnellate di rifiuti e attualmente si sta concentrando sul riutilizzo delle mascherine chirurgiche. Il progetto è ancora in divenire, ma affascina l’idea di poter risparmiare risorse naturali in favore di un riciclo utile e salva ambiente.
Una nuova ricerca valuta l’impatto delle microfibre – provenienti dai lavaggi domestici – sugli ecosistemi oceanici e stila una serie di consigli per ridurre il problema
L’8 giugno si è celebrata la Giornata mondiale degli oceani e in occasione di questa ricorrenza un nuovo studio della Northumbria University, in Inghilterra, punta i riflettori su un problema ancora poco considerato: l’inquinamento da microfibre. Secondo gli studiosi, ogni anno la sola Europa riversa negli ecosistemi marini 13.000 tonnellate di microfibre, sia naturali che sintetiche.
Queste fibre, rilasciati dai tessuti durante il lavaggio, sembrano essere anche più dannose per fiumi, mari e oceani delle microplastiche bandite dai prodotti di consumo. Per valutarne a pieno l’impatto ambientale, gli scienziati in collaborazione con Procter & Gamble hanno misurato il rilascio di microfibre dai tipici cicli di lavaggio, valutando anche fattori come l’aggiunta dell’ammorbidente o l’età dei capi
L’analisi svolta dai ricercatori della Northumbria University ha rivelato come vengano persi, a ogni lavaggio standard e per ogni chilogrammo di tessuto, in media 114 mg di fibre.
Attraverso analisi spettroscopiche e microscopiche il team è riuscito anche a determinare i rapporti tra fibre artificiali e naturali rilasciate dai carichi di lavaggio, scoprendo che il 96% delle particelle liberate sono naturali (da cotone, lana e viscosa), mentre solo il 4% proviene da fibre sintetiche (come nylon, poliestere e acrilico). Il dato è positivo. Le prime infatti si biodegradano molto più rapidamente a differenza di quelle sintetiche o a base petrolifera, che al contrario si stabilizzano e permangono negli ambienti acquatici a lungo.
Confrontando diverse lavatrici, il gruppo di ricerca ha scoperto che quelle di ultima generazione permettono una riduzione del 70% nel rilascio di fibre da tessuti in pile e del 37% da magliette in poliestere. Ma non è solo cambiando lavatrice che si può coadiuvare la riduzione di questi inquinanti dagli ecosistemi acquatici. Altre semplici azioni possono essere d’aiuto: dall’utilizzare vestiti più vecchi in quanto le microfibre rilasciate sono molto alte nei primi otto lavaggi, al fare carichi più alti che, a causa del rapporto inferiore tra tessuto e acqua, ne diminuiscono il rilascio (senza riempire troppo la propria lavatrice: l’ideale sarebbero 3/4 di carico).
La ricerca suggerisce come possibile miglioramento un “semplice” cambio di abitudini. Infatti se le persone usassero cicli di lavaggio da 15 minuti a 30°C la quantità di microfibre rilasciate dai tessuti si ridurrebbe del 30%, con un risparmio di questi inquinanti di circa 3.810 tonnellate.
Come ha sottolineato l’autore principale dello studio, John R. Dean, per “trovare una soluzione definitiva all’inquinamento degli ecosistemi marini da parte delle microfibrerilasciate durante i cicli di lavaggio” saranno necessari “interventi significativi sia nei processi di produzione di tessuti che nella progettazione delle lavatrici”. Nel frattempo la ricerca, spiega Neil Lant, Research Fellow della Procter & Gamble, “ha dimostrato che le scelte dei consumatori per quanto concerne il bucato possono avere un impatto significativo e immediato sull’inquinamento da microfibra. Ciò non eliminerà il problema, ma potrebbe permetterci di operarne una significativa riduzione a breve termine mentre vengono sviluppate e commercializzate altre soluzioni tecnologiche, come filtri per lavatrice e indumenti a bassa dispersione”.
fonte: www.rinnovabili.it
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MIRANDOLA E FINALE EMILIA – Nasce la sartoria sociale ManiGolde a Finale Emilia: inclusiva, ecologica e che produce fa gran bei vestiti. E’ una sartoria sociale espressione di una economia circolare, inclusiva e di integrazione: il progetto ‘ManiGOLDe’ dell’associazione Manitese di Finale Emilia ha fin da subito catturato l’attenzione di chi a questi temi ci tiene, come l’azienda mirandolese Mantovanibenne che sponsorizza il gruppo di lavoro.
L’idea di utilizzare i materiali usati e di scarto per produrre capi di abbigliamento “nuovi” con lo scopo di promuovere azioni di inclusione socio-lavorativa per persone con disabilità e fragilità non ha lasciato indifferente l’azienda mirandolese. Spiegano dalla sartoria sociale ManiGolde: “Qualche tempo fa, Mani Tese Finale Emilia, in un post su Facebook lanciava l’idea di creare una sartoria a Manitese. Le risposte a questa idea lanciata sul social siamo noi. Tutto è partito così, e il 10 Settembre, abbiamo fatto il primo incontro per confrontarci. Da questo incontro non ci siamo lasciati più. È nato un progetto incredibile, che prende spunto da altre realtà esistenti, una sartoria sociale che avrà un proprio brand e realizzerà capi esclusivamente da materie prime riciclate. Una prima collezione, maniGOLDe, verrà realizzata con tessuti abbandonati e una seconda linea nascerà dalla trasformazione di abiti vintage e si chiamerà riMani.”
Questa mattina il progetto della sartoria sociale ManiGolde è stato presentato alla stampa presso la sede di Manitese a Finale Emilia, alla presenza di Roberta Mantovani, presidente e amministratore delegato di Mantovanibenne, di Palma Costi, assessore alle Attività produttive della Regione, di Simone Gradellini, direttore dell’area Capitale umano di Confindustria Emilia, e delle volontarie di Manitese.
Rigenerazione tessile e rafforzamento del tessuto sociale, attraverso il coinvolgimento di una rete di attori locali. Sono queste le caratteristiche del progetto RicuciTò che ha visto gli studenti del Politecnico di Torino lavorare insieme alle donne della Sartoria Sociale Gelso per ridare vita a vecchi jeans realizzando ciabatte e presine.
Da quello che era uno scarto può nascere qualcosa di nuovo, utile e capace di dare un valore aggiunto ad un'intera comunità. È da questo presupposto che ha preso vita il progetto RicuciTò promosso da HUMANA People to People Italia, Sartoria Sociale Gelso e Occhio del Riciclone. L'iniziativa ha coinvolto gli studenti del Politecnico di Torino ed è stata finanziata grazie al bando AxTò – Azioni per le periferie torinesi sostenuto dal Comune di Torino.
Grazie alla progettazione creativa degli studenti del corso di Design II del Politecnico di Torino, le sarte della Sartoria Sociale Gelso (Cooperativa Patchanka) con il loro laboratorio presso la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno hanno ridato vita a vecchi jeans realizzando ciabatte e presine da cucina comode, pratiche ed ecosostenibili. Due originali prodotti realizzati anche grazie al supporto tecnico offerto dalla Cooperativa Sociale Occhio del Riciclone.
«Un “rigenerare vita” che ben si coniuga con il desiderio di chi cerca di rinascere attraverso un lavoro giusto e dignitoso. Le donne della Sartoria Gelso in questo ci credono e dalle loro mani escono manufatti ricchi della loro esperienza e di valore umano», afferma Elisabetta De Leo della Sartoria Sociale Gelso.
«Il progetto – ha spiegato Laura Di Fluri di HUMANA People to People Italia - nasce dal desiderio di applicare un modello innovativo di economia circolare e collaborativa nell’attività di recupero del denim, il materiale di cui sono fatti i jeans. Un’iniziativa che declina il valore della rigenerazione a tutto tondo: il rafforzamento del tessuto sociale che passa da un nuovo esempio virtuoso di economia circolare. Un processo e un’esperienza che assumono un significato ancora più preciso se si considera il microcosmo del quartiere di San Salvario, vero e proprio ecosistema in cui si incontrano culture, stili di vita e professionalità diverse, così come esigenze sociali e approcci differenti: un luogo multiculturale per natura».
L’obiettivo di RicuciTò non è dunque solo quello di allungare la vita di un materiale tessile non più utilizzabile ma anche quello di creare nuove sinergie tra diverse realtà del torinese, attraverso l’ideazione e la creazione di un nuovo prodotto di riciclo.
«Dal jeans che si credeva non più riutilizzabile inizia una storia tutta da scrivere che, partendo dall’armadio, arriva e (ri)torna nelle periferie della città… ricucendone il tessuto sociale», scrive HUMANA People to People Italia.
Il progetto, svoltosi da gennaio a settembre, si è articolato in tre fasi:
1. Workshop sulla trasformazione dei materiali e sviluppo di concept creativi In questa prima fase sono stati coinvolti gli studenti del corso di Laurea in Design e Comunicazione Visiva del Politecnico di Torino: invitati a riflettere sui benefici ambientali e sociali connessi al riutilizzo e riciclo del tessile e alle potenzialità dell’economia circolare, hanno poi elaborato 48 spunti creativi per la successiva realizzazione del prototipo.
2. Realizzazione del prototipo e produzione del prodotto La Sartoria Sociale Il Gelso, con il supporto tecnico della Cooperativa Sociale Occhio del Riciclone, si è occupata della fase di prototipazione dei due progetti selezionati e di quella di produzione nel laboratorio che gestisce all’interno della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno, dove sono impiegate tre detenute. Gli studenti del Politecnico durante questa fase hanno incontrato le sarte della Casa Circondariale per un importante momento di scambio e condivisione: creatività e mani, idee e macchine da cucire.
3. Evento di presentazione aperto alla cittadinanza, lancio comunicativo e commercializzazione L’evento ha l'obiettivo di raccontare il progetto, i partner coinvolti e presentare i prodotti realizzati alla cittadinanza. Contestualmente è prevista la commercializzazione attraverso i due negozi di HUMANA People to People Italia presenti a Torino e la rete di esercizi commerciali individuata nel corso del progetto.
E proprio alcuni giorni fa, domenica 6 ottobre, dalle 11 alle 20 presso il mercato coperto San Salvario Emporium di Torino si è tenuta la mostra di RicuciTò che ha ospitato il confronto aperto tra artisti, illustratori, artigiani e designer provenienti da tutta Italia. “L’occasione ideale per parlare al pubblico di riuso, lotta allo spreco, ciclo virtuoso dei prodotti tessili e solidarietà”, ha commentato Laura Di Fluri.
Pantaloni a 7 euro, magliette e felpe a volte anche a 5 euro. H&M, Zara, Primark, tanto per fare alcuni esempi, hanno rimesso in discussione l’industria dell’abbigliamento lanciando capi low cost che però, non fanno bene né all’ambiente né alla nostra salute.
La moda low cost non è sostenibile, di certo non ci voleva molto a capirlo, ma purtroppo continua ad essere la più gettonata vuoi per i costi contenuti, vuoi perché ormai per molti magliette e pantaloncini sono diventati usa e getta. Si bada più alla quantità che alla qualità.
Ogni anno, le discariche di tutto il mondo inceneriscono12milioni di indumentie le loro emissioni di Co2 contribuiscono in maniera sostanziale all’effetto serra, tant’è che l’industria tessile a livello di inquinamento è seconda solo al petrolio.
Dal 1960 al 2015 c’è stato un record di rifiuti tessili con un aumento stimato dell’ 811%. Solo nel 2015 sono finiti in discarica 1630 tonnellate di vestiti. Si stima che ogni persona, ogni anno, consumi 34 vestiti e ne butti 14 chili. E poco ci consola il fatto che molte tonnellate siano state riciclate, perché le cifre continuano ad essere scandalose. Eppure ogni anno 62 milioni di tonnellate di vestiti escono dalle fabbriche e secondo le Nazioni Unite, l’industria tessile contribuisce anche a gas serra e inquinamento delle acque.
I dati
150mila milioni di capi vengono prodotti ogni anno, cioè circa 62 milioni di tonnellate di abbigliamento e accessori. Di questi, il 30% viene venduto a basso costo, mentre un altro 30% non viene mai venduto, mentre il 50% degli abiti realizzati da catene low cost finisce nella spazzatura in meno di un anno.
Nella spazzatura o meglio negli inceneritori finendo per generare nuove tonnellate di CO2. E se volessimo fare un esempio, potremmo dire che bruciare un chilo di vestiti significa generare 1,36 chili di anidride carbonica per mega wattora. È più inquinante della combustione del carbone (1,13 chili per mega wattora) o del gas naturale (61 chili per mega wattora).
Ecco perché prima di acquistare dovremmo fermarci a riflettere su cosa si nasconde dietro questa industria, partendo proprio dai materiali economici, di scarsa qualità, spesso tossici e dannosi per ambiente e salute.
C’è poi tutta la questione manodopera estera sottopagata, a volte con sfruttamento minorile, senza contratti e senza tutele. Il risultato sono produzioni che costano molto all’ambiente e poco all’uomo e che vengono utilizzati come usa e getta.
L’attuale modello quindi non va bene, prezzi competitivi, bassa qualità, durata limitata, per questo sarebbe necessario che i governi facessero pressione sulle aziende per operare un’inversione di tendenza. Molti marchi hanno già linee sostenibili tuttavia la strada è ancora in salita e il vero e proprio consumo consapevole sembra un miraggio.
In Italia, buona parte della lana tosata – fibra tessile per eccellenza – finisce in discarica (o sotterrata); sette milioni di pecore, il patrimonio ovino italiano secondo i dati ISTAT 2015, sono destinate alla produzione di latte per formaggi e la loro lana non trova uso perché considerata di bassa qualità.
Secondo l’ISTAT, la produzione di lana cosiddetta “sucida”, cioè appena tosata, si aggira intorno a 8.700 tonnellate ma è probabilmente un valore sottostimato perché diversi operatori, per non sopportare i costi di smaltimento, la distruggono in vario modo.
L’ISPRA, insieme a Donne in Campo della Confederazione Italiana Agricoltori, ha condotto un’indagine sulla produzione eco-compatibile di fibra da fonti naturali e/o di recupero, filati da tessitura artigianale, tintura naturale e confezioni con materiali e metodi compatibili con l’ambiente.
Al fine di implementare con azioni concrete i propri obiettivi, Donne in Campo ha creato una rete attiva di donne sul territorio rurale che hanno contribuito a questo studio sulla sostenibilità della filiera. Va sottolineato che tali processi produttivi, generalmente, implicano la conservazione di piante tintorie – vegetali che forniscono pigmenti naturali – e di antiche varietà fornitrici di fibre tessile e comportano la valorizzazione di un‘importante eredità culturale e sociale tramandata, in molti casi, dalle donne.
In questo contesto, va sottolineata l’importanza della conservazione di antiche varietà di lino perfettamente adattate localmente, come descritto in una delle storie del volume, poiché nel corso del XX secolo, con l’avvento delle fibre sintetiche, la coltivazione del lino ha subito un forte declino con conseguente perdita di varietà di pregio.
Studi condotti dal CNR, brevemente descritti nel volume, stimano che dal totale della lana “sucida” (nell’accezione latina “unto, grasso”) italiana, proveniente dalla tosa non utilizzata delle pecore, si potrebbero ricavare oltre 5.000 tonnellate di fibra e 15 milioni di metri quadri di tessuto, creando una filiera sostenibile del tessile.
Lo studio ha fornito un panorama di attività e prodotti di eccellenza talmente variegato da risultare difficilmente inquadrabili in settori; si è deciso quindi di descrivere alcune di queste realtà, poco note al pubblico, che sono esempi di sostenibilità, biodiversità ed economia circolare. Le attività che si descrivono nello studio, dimostrano che la sostenibilità in questa filiera esiste e che può essere un mezzo di tutela ambientale e valorizzazione del territorio attraverso l’impiego intelligente delle risorse locali.
All’interno, vi sono infatti aziende che rappresentano un elevato valore sociale, quali le fattorie didattiche e gli agriturismi, perchè provvedono in alcuni casi all’inserimento lavorativo di persone con disabilità.
Sempre nel campo della produzione sostenibile di fibre, tessuti e tinture naturali, nel 2017 l’ISPRA e l’Universidad Nacional de Córdoba (Argentina), hanno siglato un Protocollo d’intesa da cui è nata un’informativa dettagliata sulla multifunzionalità del bosco e la produzione e colorazione sostenibile di fibre e tessuti in Argentina, che ISPRA ha pubblicato nella collana “Manuali e linee guida” (Manuali e linee guida 171/2018).
Secondo una ricerca britannica, nei prossimi 5 anni il settore è destinato a raddoppiare il proprio valore, arrivando a 46 miliardi di euro. Ma gli operatori autorizzati sono minacciati da chi opera nell’illegalità
Gli abiti di seconda mano avranno un boom nei prossimi anni. A dirlo è un recente rapporto britannico, commissionato dal retailer online Thred Up. Secondo l’indagine, l’industria dell’usato, solo nel settore tessile, è destinata a raddoppiare il proprio valore nei prossimi cinque anni, fino ad arrivare a 46 miliardi di euro.
Numeri che sembrano dare fiato a un settore, quello dell’abbigliamento usato e della raccolta dei tessuti, che stenta a decollare e che attualmente sta attraversando qualche difficoltà dal punto di vista economico.
In Gran Bretagna un importante “charity shop collector”, un negozio che raccoglie vestiti per beneficenza, ha dovuto chiudere i battenti ad aprile, anche se ci sono dubbi su come questo tipo di impresa fosse gestita, visto che lavorava sotto la stessa insegna delle sue passate gestioni e che era stata dichiarata insolvente nel 2017, lasciando una scia di debiti. Ma ci sono tante altre realtà affermate che stanno lottando e sono al limite delle loro possibilità e forze. Una battuta d’arresto, anche piccola, potrebbe essere fatale.
È anche vero che negli ultimi anni molti stilisti hanno iniziato a utilizzare materiali provenienti dal riuso e dal riciclo. Uno degli esempi è costituito dagli outfit surreali di Victor & Rolf nel 2016.
Quel che è certo è che la domanda proveniente dall’Africa resta ancora sostenuta, mentre la richiesta di più alta qualità rende le cose più difficili quando si parla di entrare nel mercato con dei profitti più significativi.
A complicare le cose è la competizione tra i raccoglitori, selezionatori ed esportatori autorizzati con chi opera nel mercato nero, senza alcuna forma di licenza o permesso nella gestione dei rifiuti. Spesso poi la concorrenza sleale di chi opera nell’illegalità si estende anche al costo e alle condizioni di lavoro dei loro dipendenti, ai salari minimi e alle tasse.
Un aspetto che dovrà necessariamente essere affrontato dalle autorità competenti: è necessario combattere il mercato nero per dare prospettive migliori a chi opera nella legalità e creare un’economia sana, basata sul rispetto delle regole e che possa davvero essere un ingranaggio fondamentale dell’economia circolare.
L’abbigliamento sostenibile realizzato dalla start-up pratese Rifò debutta alla fiera milanese Fa la cosa Giusta!, dove propone in anteprima la collezione primavera/estate, composta da capi in cotone rigenerato e organico
Tessuti in cotone rigenerato e organico, ipoallergenici e prodotti senza additivi chimici e con un minimo utilizzo d’acqua. Questa la ricetta dell’abbigliamento sostenibile firmato Rifò che debutta a Fa’ la cosa giusta!, fiera nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, in programma a Milano dall’8 al 10 marzo. La giovane start-up pratese, infatti, fondata nel dicembre 2017 da Niccolò Cipriani e Clarissa Cecchi, produce capi e accessori di alta qualità, realizzati con fibre tessili 100% rigenerate. Nel capoluogo lombardo, Rifò presenterà in anteprima la nuova collezione primavera/estate, nella quale i protagonisti sono teli da mare e scialli, articoli creati artigianalmente: i primi, a telaio jacquard e disponibili in 9 diverse fantasie, i secondi, invece, con fibre tessili composte per l’80% da cotone rigenerato e per il 20% da cotone organico, in 18 combinazioni di colore.
Come spiegato dai fondatori, si tratta di prodotti nei quali non è presente nemmeno una piccola quantità di cotone vergine. “Questo perché – spiegano – è una delle fibre più inquinanti dell’industria tessile”. Per produrre un capo in cotone vergine, infatti, vengono utilizzati tra i 2.700 e i 3.200 litri d’acqua e un notevole quantitativo di pesticidi; per produrre un telo da mare Rifò, invece, vengono impiegati 1,5 chilogrammi di scarti di cotone e consumati soltanto 120 litri d’acqua. L’azienda pratese, inoltre, ha messo a punto un innovativo metodo di produzione grazie al quale riesce a realizzare una t-shirt in cotone rigenerato e fibra tessile ricavata da 4-5 bottiglie di plastica recuperate dal mare. “Così diamo nuova vita ai tessuti – sostengono – e combattiamo, nel contempo, l’abbandono di materiale plastico nell’ambiente”. Numerosi i vantaggi ambientali di un simile processo produttivo: l’abbigliamento sostenibile realizzato da Rifò, che i creatori garantiscono avere le stesse qualità dei prodotti originali, è in grado di ridurre, rispetto a un capo nuovo, del 90% l’uso di acqua, del 77% quello dell’energia, del 90% i prodotti chimici, del 95% le emissioni di CO2 e del 100% l’uso di coloranti.
Il marchio, arrivato terzo alla finale nazionale del Premio Cambiamenti del CNA, riservato alle aziende più innovative del Paese, si ispira a un modello economico etico e sostenibile, senza rinunciare all’eleganza, alla qualità e alla cura per i dettagli. Perno del brand Rifò è #2lovePrato, iniziativa, che finanzia, con 2 euro per ogni acquisto, progetti scelti di Fondazione Ami, Opera Santa Rita e Legambiente.