Visualizzazione post con etichetta #FibreSintetiche. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta #FibreSintetiche. Mostra tutti i post

I microbi dello stomaco delle mucche sono mangia-plastica

Tra le plastiche che subiscono questa processo vi è il polietilene tereftalato (PET) utilizzato in bottiglie, imballaggi alimentari e tessuti sintetici













Interessante notizia divulgata nei giorni scorsi dalla stampa internazionale secondo cui alcuni scienziati hanno scoperto alcuni microbi nel liquido estratto dal rumine, la parte più grande dello stomaco di un ruminante (in cui rientrano i mammiferi ungulati come bovini e pecore), in grado di scomporre il cibo ingerito dall'animale.
Il rumine agisce da incubatore per questi microbi, che digeriscono o fermentano i cibi consumati da una mucca o da altri ruminanti, secondo l'Università del Minnesota. Da ciò, i ricercatori hanno pensato che alcuni microbi presenti nel rumine di una mucca avrebbero potuto digerire anche alcune plastiche come il poliestere. Questo in quanto, a causa delle loro diete erbivore, le mucche consumano un poliestere naturale prodotto dalle piante, chiamato cutina. E come poliestere sintetico, il PET condivide una struttura chimica simile a questa sostanza naturale. La cutina costituisce la maggior parte della cuticola, lo strato esterno ceroso delle pareti cellulari delle piante, per esempio può essere trovata in abbondanza nelle bucce di mele e pomodori, come affermato da Doris Ribitsch, senior scientist at the University of Natural Resources and Life Sciences in Vienna.

In particolare, una classe di enzimi chiamati cutinasi è in grado di idrolizzare la cutina, il che significa che si avvia una reazione chimica in cui le molecole d'acqua rompono la sostanza in particelle. Ribitsch e i suoi colleghi hanno isolato tali enzimi dai microbi verificando che le mucche potrebbero essere una fonte di simili microbi che divorano il poliestere.
In un nuovo studio pubblicato di recente i ricercatori hanno scoperto che i microbi del rumine della mucca potrebbero degradare non solo il PET ma anche altre plastiche come il tereftalato adipato di polibutilene (PBAT), utilizzato in sacchetti di plastica compostabili, e il polietilene furanoato (PEF), realizzato con materiali rinnovabili di origine vegetale.
Gli scienziati sono intenzionati a campionare i batteri mangia-plastica provenienti dal liquido del rumine e determinare quali enzimi specifici usano i batteri per abbattere la plastica. Se riuscissero a identificare gli enzimi in grado di essere potenzialmente utili per il il riciclo, potrebbero quindi ingegnerizzarli geneticamente in grandi quantità, senza la necessità di raccogliere tali microbi direttamente dallo stomaco della mucca. In questo modo, gli enzimi possono essere prodotti con facilità e in modo economico, per un utilizzo su scala industriale.
In questo senso, Ribitsch e il suo team hanno già brevettato un metodo di riciclaggio in cui i materiali tessili vengono esposti a vari enzimi in sequenza.


fonte: www.greencity.it



#RifiutiZeroUmbria - Sostienici nelle nostre iniziative, anche con un piccolo contributo su questo IBAN IT 44 Q 03599 01899 050188531897Grazie!

#Iscriviti QUI alla #Associazione COORDINAMENTO REGIONALE UMBRIA RIFIUTI ZERO (CRU-RZ) 


=> Seguici su Blogger 
https://twitter.com/Cru_Rz
=> Seguici su Telegram 
http://t.me/RifiutiZeroUmbria
=> Seguici su Youtube 

Le fibre chimiche sono davvero sempre più inquinanti per l’ambiente e meno salubri per le persone?

Gli scienziati avevano fino a oggi sempre poco considerato il polietilene, un materiale comunemente usato per i sacchetti di plastica e più conosciuto con il nome PET (polietilene tereftalato). Si tratta di una materia sintetica appartenente alla famiglia dei poliesteri che viene realizzato con petrolio, gas naturale o talvolta anche con materie prime vegetali










Siamo per consuetudine abituati a ritenere che le fibre tessili di origine naturale (lana, cotone, seta, ecc.) siano migliori per le loro prestazioni, per la salute delle persone e soprattutto per la tutela dell’ambiente in quanto “naturali” e rinnovabili e che invece le fibre chimiche anche conosciute come “man made”, seppur molto pratiche e di facile manutenzione siano non sostenibili in quanto molto inquinanti per la loro origine da polimeri di sintesi non biodegradabili.

Tuttavia, l’evoluzione green che l’industria della moda sta vivendo ha reso il mercato delle fibre tessili sempre più dinamico e innovativo con l’introduzione di nuove o vecchie fibre “ingegnerizzate”, che rappresentano valide alternative per ridurre l’impatto ambientale e dare una nuova svolta al comparto tessile.

Gli scienziati avevano fino a oggi sempre poco considerato il polietilene, un materiale comunemente usato per i sacchetti di plastica e più conosciuto con il nome PET (polietilene tereftalato). Si tratta di una materia sintetica appartenente alla famiglia dei poliesteri che viene realizzato con petrolio, gas naturale o talvolta anche con materie prime vegetali.

Il Politecnico di Torino e il Massachusetts Institute of Technology (MIT), hanno recentemente pubblicato su Nature Sustainability (una delle più antiche e importanti riviste scientifiche) una ricerca sui tessuti in fibra di polietilene dal titolo: “Sustainable polyethylene fabrics with engineered moisture transport for passive cooling” –“Sostenibilità dei tessuti in polietilene con trasporto dell'umidità ingegnerizzato per il raffreddamento passivo”. La ricerca si è concentrata sull’ingegnerizzazione delle proprietà di trasporto dell’acqua nel tessuto e si è data l’obiettivo di creare un nuovo filato tecnico sostenibile ottenuto dal polietilene, con una particolare attenzione alla sua impronta ecologica.

Lo studio del Politecnico di Torino e del MIT ha dimostrato che il polietilene è un buon materiale alternativo alle fibre naturali in termini di sostenibilità e proprietà: presenta un basso impatto ambientale e la sua struttura permette di modificarne qualitativamente le caratteristiche meccaniche, termiche e ottiche in modo da acquisire performance molto mirate.

Appare evidente pertanto che la usuale classificazione “per origine” delle fibre tessili in funzione dell’impatto ambientale dei materiali, non è più corretta, come dimostra questa ricerca che rivela che le fibre man made non sempre risultano meno sostenibili di quelle naturali. Inoltre gli studi del Politecnico e del MIT evidenziano che i materiali tessili man made hanno il vantaggio di poter essere programmati su misura in funzione delle specifiche applicazioni a cui sono destinati.

A differenza di quanto accade per le fibre naturali, contraddistinte da componenti chimico-fisiche non controllabili, le microfibre dei tessuti tecnici permettono infatti interventi di ingegnerizzazione mirati alla modellazione delle loro caratteristiche, consentendo la realizzazione di tessuti assai performanti.

Come mostra la ricerca del MIT e del Politecnico, modificando le caratteristiche chimiche superficiali delle fibre e modellandole, è possibile impostare ab origine le caratteristiche legate all’idrorepellenza e anche le proprietà finali del tessuto, come la sua capacità di assorbire e trasportare un fluido al suo interno.

Gli scienziati che hanno partecipato a questa ricerca hanno testato la capacità di traspirazione di questo nuovo tessuto e lo hanno confrontato con molti altri tessuti prodotti con altre fibre, naturali e sintetiche. In tutti i test effettuati i tessuti in polietilene hanno assorbito e fatto evaporare l’acqua più velocemente non solo dei tessuti realizzati in cotone ma anche di quelli in nylon e in poliestere.

I tessuti realizzati con il polietilene offrono resistenza alle macchie, raffreddamento passivo, asciugatura rapida e soprattutto riciclabilità. Risultano inoltre particolarmente igienici grazie ai tempi di asciugatura rapidi. Ciò non solo previene l’insorgenza di batteri, ma ne consente il lavaggio e l’asciugatura con trattamenti a bassa temperatura e di breve durata.

La ricerca ha evidenziato inoltre che le fibre naturali come il cotone, il lino o la seta, comunemente percepite come eco-sostenibili, celano un alto impatto ambientale, riscontrabile solo analizzando l’intero ciclo di vita del tessuto che va dalla coltivazione e produzione della fibra, alla filatura, alla tintura del filato ed infine alla tessitura e che l’industria tessile ha diversi parametri da tenere in considerazione rispetto alla sostenibilità.

Le fibre naturali implicano grandi consumi di acqua, l’utilizzo di pesticidi, la necessità di realizzare degli spazi di coltivazione dove magari prima c’erano foreste, senza trascurare infine l’impatto sull’ambiente delle sostanze chimiche e coloranti utilizzati nei processi di tintura.

Come ha osservato Svetlana Boriskina, coordinatrice della ricerca presso il MIT, “Tenendo conto delle proprietà fisiche del polimero e dei processi necessari per realizzare e tingere i tessuti, secondo questa ricerca sarebbe necessaria meno acqua e meno energia rispetto all’impiego di poliestere o cotone con un impatto ambientale inferiore del 60% rispetto a quelli, per esempio del cotone”. La tintura delle fibre naturali avviene infatti dopo la filatura della fibra con processi ad umido ancora abbastanza inquinanti.

“Il polietilene inoltre si presta facilmente ad un processo di separazione e riciclaggio industriale: ciò consente di creare nuovi capi anche da materiale riciclato, con un grande potenziale di economia circolare”.

I ricercatori che hanno lavorato a questo studio congiunto sperano che i risultati ottenuti possano fornire un incentivo a recuperare e riciclare buste di plastica, bottiglie di PET e altri prodotti in polietilene per trasformarli in tessuti indossabili, felpe, scarpe da ginnastica, dando così un senso alla sostenibilità di questo materiale. A tal fine, il MIT nei prossimi mesi creerà una start-up per produrre questo nuovo tessuto e sta lavorando con l'esercito degli Stati Uniti, la NASA e il produttore di abbigliamento sportivo New Balance sulle applicazioni dei tessuti in polietilene. L’ingegnerizzazione delle fibre man made presenta quindi grandi possibilità di sviluppo e si può prevedere che il nostro abbigliamento del futuro sarà realizzato con materiali innovativi e sempre più performanti.

L’unico aspetto a cui non mi sembra si accenni nella ricerca è quello legato al lavaggio degli indumenti sintetici in lavatrice. Infatti, ogni ciclo di lavaggio in lavatrice di tali tessuti è fonte di inquinamento, a causa delle microfibre plastiche che sono rilasciate nelle acque. Come mostrato da uno studio del 2016, pubblicato sulla rivista Environmental Science & Technology, più di un grammo di microplastiche viene rilasciato ogni volta che vengono lavate giacche sintetiche e fino al 40 per cento delle stesse finisce inevitabilmente nei corpi idrici . Dobbiamo quindi confidare che questi materiali di ultima generazione e con caratteristiche studiate e mirate ab origine siano in grado di risolvere anche questa problematica.

fonte: www.agi.it



#RifiutiZeroUmbria - Sostienici nelle nostre iniziative, anche con un piccolo contributo su questo IBAN IT 44 Q 03599 01899 050188531897Grazie!

#Iscriviti QUI alla #Associazione COORDINAMENTO REGIONALE UMBRIA RIFIUTI ZERO (CRU-RZ) 


=> Seguici su Blogger 
https://twitter.com/Cru_Rz
=> Seguici su Telegram 
http://t.me/RifiutiZeroUmbria
=> Seguici su Youtube 

Plastica nel tessile: verso un'economia circolare per i tessuti sintetici in Europa

Le fibre tessili sintetiche sono prodotte da combustibili fossili, petrolio e gas naturale, risorse non rinnovabili e generano impatti vari sull’ambiente sia in fase di produzione che di consumo ma anche successivamente quando si trasformano in rifiuti



La crisi dovuta al COVID-19 ha portato a un improvviso calo della domanda di prodotti tessili da parte dei consumatori, con conseguenti problemi di liquidità e disoccupazione nel settore, creando in questo comparto un vero e proprio shock, che potrebbe dare avvio a due diversi scenari:
il primo vede un rallentamento nella transizione verso un tessile più circolare e sostenibile
il secondo, al contrario, determina uno slancio verso il cambiamento radicale del comparto tessile rendendolo maggiormente circolare, con risultati economici e ambientali positivi.

Sappiamo che la ripartenza post COVID-19 dipenderà anche dall’adozione di nuovi modelli economici che terranno conto della potenzialità dell’economia circolare, ma affinché questa transizione si concretizzi, bisogna partire dall'analisi dei comparti produttivi, dagli elementi di criticità e dalla loro capacità di trasformazione.

Lo studio dell’Agenzia Europea dell’ambiente (di seguito EEA), "Plastic in textiles: towards a circular economy for synthetic textiles in Europe", pubblicato alla fine di gennaio 2021, vuole andare in questa direzione. Fornisce una panoramica sulla produzione di tessile sintetico in Europa, analizza gli impatti ambientali e indica alcuni ambiti su cui puntare maggiormente per trasformare il settore, rendendolo più sostenibile e circolare.

Non stiamo parlando di un settore di nicchia, in Europa i tessuti a base di plastica - o "sintetici" – fanno parte della nostra vita quotidiana. Sono presenti nei vestiti che indossiamo, negli asciugamani che usiamo e nelle lenzuola in cui dormiamo. Sono nei tappeti, nelle tende e nei cuscini con cui decoriamo le nostre abitazioni e gli uffici. Sono nelle cinture di sicurezza, nei pneumatici delle auto, nell'abbigliamento da lavoro e in quello sportivo.

Produzione e consumo

Il consumo globale di fibre sintetiche è passato da poche migliaia di tonnellate nel 1940 a più di 60 milioni di tonnellate nel 2018, e continua ad aumentare. Dalla fine degli anni '90, il poliestere ha superato il cotone come fibra più comunemente usata nel tessile.

La maggior parte delle fibre tessili sintetiche sono prodotte in Asia, l'Europa è il più grande importatore mondiale, pur essendo anch'essa una produttrice ed esportatrice. Secondo le stime sono state prodotte, nel 2018 in Europa, 2,24 milioni di tonnellate di fibre sintetiche, 1,78 milioni di tonnellate sono state importate, 0,36 milioni di tonnellate esportate e 3,66 milioni di tonnellate consumate.

Il grosso vantaggio delle fibre sintetiche è che sono economiche e versatili, consentendo la produzione di tessuti a basso costo, per questo sono molto utilizzate soprattutto nella fast fashion (moda usa e getta). Oltre il 70% delle fibre tessili sintetiche viene trasformato in abbigliamento e tessili per la casa. Il resto viene utilizzato per tessuti tecnici (ad esempio abbigliamento di sicurezza) e usi industriali (ad esempio materiali per veicoli e macchinari di vario genere).

Secondo l'European Bioplastic, la produzione e l'uso di fibre sintetiche a base biologica, purtroppo, ad oggi, è trascurabile.

Più della metà della produzione globale di fibre è costituita da poliestere, che risulta essere la fibra sintetica più comune (55 milioni di tonnellate nel 2018). Si tratta di una fibra resistente, prodotta a basso prezzo e utilizzata in una moltitudine di applicazioni. Dopo il poliestere, è il nylon la fibra sintetica più usata, nel 2018, ne sono state prodotte oltre 5 milioni di tonnellate e viene ampiamente utilizzata in collant, tappeti e ombrelli. di fibra di nylon.

Impatti sull’ambiente e sul clima delle emissioni in atmosfera

La produzione e il consumo di prodotti tessili generano pressioni e impatti ambientali come
emissioni di gas serra (GHG)
inquinamento dell'aria e dell'acqua
consumo del suolo, dell'acqua e di altre risorse.

La produzione di fibre sintetiche richiede grandi quantità di energia e contribuisce in modo significativo al cambiamento climatico e all'esaurimento delle risorse di combustibili fossili. Tuttavia, a differenza del cotone - la fibra naturale più comune - le fibre sintetiche quando vengono prodotte non richiedono l'uso di pesticidi o fertilizzanti tossici.

La gamma di impatti sull'ambiente dipende molto dal tipo di fibra. Fibre diverse hanno chiaramente impatti ambientali e climatici diversi, quindi non è facile valutare quali di queste sia da ritenersi più idonee.

Gli impatti ambientali e climatici specifici delle fibre sintetiche più comuni possono essere confrontati con il cotone, per chilogrammo di tessuto tinto. Il nylon, fibra sintetica, ha il più alto impatto, per chilogrammo, sul il cambiamento climatico e l'uso di combustibili fossili, mentre per quanto riguarda l'uso della terra, dell'acqua, l'eutrofizzazione e la scarsità di risorse minerali, è il cotone ad avere il più alto impatto per chilogrammo.

Un confronto simile può essere fatto tra poliestere e cotone: si stima che l'intero ciclo di vita di 1 kg di tessuto in poliestere sia responsabile del rilascio di più di 30 kg di anidride carbonica equivalente, mentre il cotone ne rilascia circa 20 kg.

È importante tenere presente che gli impatti dipendono anche dai volumi di produzione delle fibre e dei tessuti. Per esempio, mentre la produzione di poliestere usa meno energia del nylon, il suo tasso di produzione annuale è molto più alto e quindi comporta impatti complessivi maggiori.

Inoltre bisogna valutare gli effetti ambientali nel loro complesso, in quanto questi non sono generati solo durante la produzione di tessuti ma anche durante l'uso, si pensi al lavaggio domestico e/o industriale, all'asciugatura e alla stiratura. Se da un lato queste attività richiedono molta energia e contribuiscono al cambiamento climatico, dall'altro consentono un uso più lungo e intenso del prodotto, aumentandone la durata.

Ai problemi sopra menzionati si aggiunge quello delle microplastiche, problema ambientale abbastanza recente, oggetto di ricerca e, in genere, non valutato nella tipica analisi del ciclo di vita di un tessuto. C'è ancora molto da studiare e da capire sulla portata e sull' impatto delle microplastiche sulla salute umana e sull'ambiente. Le microplastiche vengono rilasciate dai tessuti sintetici durante tutto il loro ciclo di vita: in fase di produzione di fibre e tessuti, durante l'uso e il lavaggio fino allo smaltimento, che sia tramite discarica, incenerimento o riciclaggio. Si stima che ogni anno entrino nell'ambiente marino tra le 200 000 e le 500 000 tonnellate di fibre microplastiche provenienti dai tessuti.

Verso un’economia circolare delle fibre sintetiche

Nel piano d'azione per l'economia circolare del 2020, la Commissione europea ha identificato il tessile come un settore tra quelli prioritari su cui lavorare per raggiungere modelli di economia circolare. Il piano d'azione riconosce che "i tessili sono la quarta categoria a più alta pressione per l'uso di materie prime primarie e acqua, dopo il cibo, l'alloggio e i trasporti, e la quinta per le emissioni di gas serra". Il piano d'azione contempla la strategia dell'UE per il settore tessile volta a "rafforzare la competitività industriale e l'innovazione, dando impulso al mercato europeo dei tessili sostenibili e circolari, compreso il mercato del riutilizzo dei tessili, meno improntato al fast fashion e rivolto a nuovi modelli di business".

In linea con il piano d'azione per l'economia circolare del 2020, questo studio e la relazione ETC/WMGE evidenziano alcuni ambiti su cui lavorare per rendere la produzione e il consumo di tessuti sintetici più circolare e sostenibile:
scelta di fibre sostenibili
controllo del rilascio di microplastiche
miglioramento della raccolta differenziata, riutilizzo e riciclaggio.

Per quanto riguarda la scelta di fibre sostenibili, questa definisce le proprietà e le prestazioni del prodotto tessile, ma determina anche l'impatto ambientale risultante. Il passaggio alle fibre naturali o a base biologica può ridurre l'uso di risorse come i combustibili fossili e anche limitare le emissioni di gas serra.

Il principio guida, secondo l'EEA, è che la scelta della fibra dovrebbe corrispondere all'applicazione del prodotto tessile, alle proprietà richieste, alla durata prevista e ai processi di fine vita. Nella fase di progettazione, vengono fatte scelte importanti sui tipi di fibre da usare per un particolare prodotto o una specifica applicazione. L'importanza della selezione delle fibre adatte allo scopo implica che non serve escludere certi tipi di fibre - per esempio quelle sintetiche - e che non esiste un tipo di fibra che da solo possa rappresentare l’industria tessile sostenibile.

Per quanto attiene, invece, il controllo del rilascio di microplastiche, possiamo dire che, al momento, sono state avviate diverse iniziative per studiare i fattori che influenzano il rilascio di microplastiche - e per valutare il loro effetto sulla salute umana e sull'ambiente. Allo stesso tempo, si stanno studiando molte soluzioni, come la produzione di materiale tessile adattato ai filtri nelle lavatrici, per ridurre la perdita di microplastiche nell'acqua o nell’aria durante il ciclo di vita del tessuto.

Con riferimento infine al miglioramento della raccolta differenziata, del riutilizzo e del riciclaggio, questi si mostrano fondamentali per ridurre la domanda di fibre vergini e quindi raggiungere un'economia circolare.

Il riciclaggio delle fibre è particolarmente impegnativo nel caso dei tessili sintetici, sia per ragioni tecniche che economiche. Una migliore raccolta differenziata dei tessili, un'accurata selezione automatizzata e un riutilizzo e riciclaggio dei tessili di alta qualità hanno un potenziale significativo per ridurre l'impatto ambientale.Tuttavia, molte sfide tecniche, economiche e sociali dovranno essere superate per facilitare e incoraggiare il riutilizzo e rendere il riciclaggio delle fibre tecnicamente ed economicamente fattibile.

"Plastic in textiles: towards a circular economy for synthetic textiles in Europe"

fonte: www.arpat.toscana.it


#RifiutiZeroUmbria - Sostienici nelle nostre iniziative, anche con un piccolo contributo su questo IBAN IT 44 Q 03599 01899 050188531897Grazie!

=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria

La plastica nell’Artico proviene in gran parte da abiti in poliestere

Uno studio canadese ha analizzato le particelle di plastica presenti nell’Artico, scoprendo che nel 73 per cento dei casi si tratta di poliestere.








La plastica presente nell’oceano Artico proviene in gran parte dalle fibre sintetiche con le quali sono fabbricati molti dei capi d’abbigliamento che vengono utilizzati in tutto il mondo. A spiegarlo è uno studio curato da un gruppo di scienziati dell’organizzazione non governativa canadese Ocean Wise, pubblicato dalla rivista Nature il 12 gennaio.

Campioni prelevati in 71 siti tra America, Europa e Polo Nord

I ricercatori hanno infatti analizza alcuni campioni raccolti tra 2 e 8 metri di profondità in 71 siti presenti in America del Nord, nell’Europa settentrionale e direttamente nella regione polare. In alcuni caso, come nel mare di Beaufort, tra l’Alaska e il Canada, il campionamento si è spinto fino a mille metri al di sotto della superficie dell’oceano. I dati indicano che in ciascun metro cubo di acqua sono presenti 40 particelle di microplastica. Grazie a uno spettrometro infrarosso, è stato quindi possibile analizzare la composizione di tali particelle. Nel 92,3 per cento dei casi si tratta appunto di fibre plastiche. E nel 73,3 per cento di poliestere.



Frammenti di plastica raccolti dal mare © Ingimage
Ma non è tutto: al fine di comprendere la ragione della concentrazione nell’Artico, gli scienziati hanno analizzato anche le correnti. “L’abbondanza di particelle è correlata alla longitudine – hanno spiegato nello studio -. Nell’Artico orientale è presente un quantitativo tre volte più importante rispetto alla porzione occidentale”.
“La plastica arriva dalle abitazioni e dai centri di trattamento delle acque”

Secondo quando indicato da Peter Ross, docente dell’università della Colombia Britannica, a Radio Canada “le analisi indicano che sono le abitazioni e le stazioni di trattamento delle acque che rilasciano microfibre che finiscono per inquinare l’Artico. C’è plastica ovunque nelle nostre vite”.

Al fine di fronteggiare il problema, secondo lo scienziato ciascuno di noi potrebbe intervenire installando un filtro nelle proprie lavatrici, “capace di diminuire la perdita di fibre di poliestere del 95 per cento”. Ma si possono anche scegliere abiti più robusti, che non perdono facilmente materia (e che, tra l’altro, durano di più nel tempo). Ciò che serve, però, è che a cambiare siano non solo le abitudini dei consumatori ma anche i metodi di produzione e i modelli di business delle aziende.

fonte: www.lifegate.it


#RifiutiZeroUmbria - Sostienici nelle nostre iniziative, anche con un piccolo contributo su questo IBAN IT 44 Q 03599 01899 050188531897Grazie!

=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria

Da vecchi jeans a nuove magliette, la svolta del riciclo tessile

Un gruppo di ricerca dell’Istituto Fraunhofer abbatte gli storici ostacoli tecnici al riciclo degli indumenti a fibre miste. E realizza il primo filato di viscosa in cotone riciclato.



Nuova svolta per il riciclo tessile. Un gruppo di ricercatori tedeschi ha messo a punto una tecnica di upcycling in grado di valorizzare tutti quei vecchi indumenti fino a ieri non riciclabili; una soluzione capace di fornire nuove materie prime al comparto abbassando nel contempo il suo impatto sull’ambiente e le risorse naturali. Oggi, infatti, l’industria della moda è tra i settori produttivi più inquinanti al mondo (dati Greenpeace). Oltre all’uso di sostanze chimiche pericolose, le imprese tessili negli ultimi anni hanno aumentato l’impiego di fibre sintetiche a cui sono associate alte emissioni di CO2 nel ciclo di vita.

Il problema non riguarda solo la carbon footprint più elevata di questi materiali, ma anche l’estrema difficoltà di riciclarli, soprattutto nel caso di tessuti misti. Un problema reso ancor più complicato dalle abitudini di consumo, che compartano una quantità di rifiuti sempre più elevata. Basti pensare che un italiano su due dichiara di possedere più capi di abbigliamento di quanti ne abbia realmente bisogno.

“I tessuti raramente sono realizzati in puro cotone. I jeans, ad esempio, contengono sempre una certa quantità di fibre chimiche come poliestere o elastan”, spiega André Lehmann, chimico presso il Fraunhofer IAP di Potsdam e tra gli autori del nuovo sistema di riciclo tessile. Lavorando per conto dell’azienda svedese re: newcell, il ricercatore e il suo team sono riusciti a convertire la polpa di cotone riciclato in fibre di pura cellulosa.

L’industria della moda di solito utilizza la polpa della cellulosa come materiale di partenza per la produzione di fibre rigenerate come viscosa, modal e lyocell. Questa polpa, la cui materia prima è solitamente il legno, viene sciolta in una soluzione e fatta passare attraverso una filiera per essere filata. “Tuttavia, re: newcell ci ha inviato fogli di cellulosa di cotone riciclato e ci ha chiesto di scoprire se potevano essere convertiti in viscosa. Siamo stati in grado di estrarre le fibre estranee dalla polpa impostando i parametri giusti sia per il processo di dissoluzione che per il processo di filatura, ad esempio, attraverso stadi di filtrazione efficaci”, afferma il Lehmann. Questo ha permesso di produrre un filato continuo di fibra lunga diversi chilometri e composta al 100% da cellulosa, la cui qualità è paragonabile a quella ottenuta dal legno.

Uno degli elementi più importanti di questo progetto di riciclo tessile, è che i nuovi filati sono perfettamente adatti alla produzione di massa. “Siamo stati in grado di soddisfare gli elevati standard di purezza di re: newcell per la nuova fibra”, aggiunge lo scienziato. Il prodotto finale non teme confronti con la viscosa commerciale, di cui presenta esattamente le stesse proprietà. “Gli indumenti di cotone di solito vengono inceneriti o finiscono in discarica. Ora possono essere riciclati più volte per contribuire a una maggiore sostenibilità nella moda”.

fonte: www.rinnovabili.it


RifiutiZeroUmbria - #DONA IL #TUO 5 X 1000 A CRURZ - Cod.Fis. 94157660542

=> Seguici su Twitter - https://twitter.com/Cru_Rz 
=> Seguici su Telegram - http://t.me/RifiutiZeroUmbria