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Il diseducatore globale

Foto tratta dal Floker di European Central Bank

Una parte dei processi di devastazione dell’ambiente provocati dai cambiamenti climatici sono ormai irreversibili. Lo dicono anche i governi, adesso. Tutti però lo sapevano da almeno quarant’anni e hanno fatto orecchie da mercante. Perché mercanti sono: i governi, le imprese, i finanziatori e tutti i divulgatori – più o meno scientifici – al loro servizio, che portano gigantesche responsabilità sulle falsità e la diseducazione che hanno fatto prosperare per decenni. Oggi in Europa, con la progressiva eclissi di Merkel e Macron, il principale rappresentante di questo obnubilamento di carattere quasi psichiatrico dell’intelligenza, che consiste nel nascondere la testa di fronte al disastro immanente, è Mario Draghi. Il suo Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, accoppiato agli altri fiumi di denaro che il governo ha deciso di spendere per “non lasciare indietro” nessuno degli aventi causa nella spartizione dei fondi europei, ha dimostrato di non voler deviare di una virgola da una visione che mette il PIL al primo posto. Tanto per ammettere che il pianeta brucia e che, per salvarlo, bisognerebbe fare scelte prima impensabili (e dunque ogni minuto è prezioso per poterlo spiegare al mondo intero) che fretta c’è?

L’IPCC, il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici, scrive...

Non esistono pasti gratuiti Una nuova economia ecologica

 

Nel libro Il cerchio da chiudere, il biologo e ambientalista Barry Commoner stabiliva le quattro leggi dell’ecologia: 1) ogni cosa è connessa con qualsiasi altra; 2) ogni cosa deve finire da qualche parte; 3) la natura è l’unica a sapere il fatto suo; e, soprattutto, 4) non si distribuiscono pasti gratuiti: in ecologia, come in economia, non c’è guadagno che possa essere ottenuto senza costi. Il pagamento non si può evitare, si può solo rimandare. Qualche anno più tardi, nel 1975, l’economista Milton Friedman definiva nel libro There is no such thing as a free lunch il principio economico del costo-opportunità, secondo cui se i singoli ottengono qualcosa gratuitamente, sarà la società a farne le spese. Prelevando dalla natura come se fosse un serbatoio senza fine, e scaricando nell’ecosistema rifiuti ed emissioni, per anni abbiamo evitato di pagarne il prezzo: il risultato è un pianeta in deficit di biocapacità, che si manifesta nel degrado ambientale e sociale. Una nuova economia ecologica, l’ultimo libro di Patty L’Abbate, l’economista ecologica e senatrice della Repubblica che è stata relatrice del decreto Clima, nasce come testo didattico per studenti universitari, “i green manager di domani” ma si rivolge anche ai rappresentanti del mondo politico e istituzionale, a imprenditori e manager, e a chiunque voglia acquisire consapevolezza sugli strumenti disponibili per sperimentare nuove vie di sviluppo, che non possono più prescindere dalla preservazione e rigenerazione dell’ambiente. Per raggiungere un migliore equilibrio tra uomo e “capitale naturale”, che oltre a determinare la nostra qualità di vita è anche fondamentale per la sopravvivenza, l’autrice introduce e illustra dettagliatamente i fondamenti di una scienza, che si fonda sulle interazioni tra economia e ambiente ed è concepita per affrontare la complessità del sistema Terra: l’economia ecologica.

La prima parte del volume è dedicata alla descrizione di nuovi modelli di economia sostenibile, con una seconda parte più tecnica che approfondisce gli strumenti di contabilità ambientale. Il manuale ripercorre la storia del pensiero dell’economia ecologica e circolare, con particolare attenzione allo stato attuale della transizione ecologica a livello italiano ed europeo. Oltre a introdurre molti temi oggi al centro del dibattito, come gli Obiettivi di sviluppo sostenibile e l’Agenda 2030, fornisce anche gli elementi di base per comprendere i criteri per il calcolo dei principali indicatori di sostenibilità, come l’Impronta ecologica, il metodo Life Cycle Thinking e il suo strumento LCA – che valuta l’impatto ambientale di un prodotto, processo o servizio lungo il suo intero ciclo di vita – a supporto di decisori politici e vertici aziendali che operino secondo una gestione più sostenibile delle risorse naturali.

fonte: www.puntosostenibile.it

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Istruzioni per un nuovo mondo di Guido Viale

Sono già trascorsi cinque anni dalla Laudato si’. L’associazione milanese che prende il nome dall’enciclica di Francesco pubblica ora “Niente di questo mondo ci risulta indifferente”, un libro di grande utilità in cui si abbozzano alcune risposte (le più importanti) non solo ai grandi problemi della nostra epoca, ma anche a molti altri, di apparente minore importanza, con cui i primi si intersecano. Senza questo intreccio tra il grande e il piccolo, tra l’alto e il basso, tra il fondamentale e il minuto, non si costruisce una prassi, cioè non si ritrova il bandolo di ciò che veramente conta né si riesce a risalire da ciò che è alla nostra portata (il locale) a ciò che riguarda tutti: il globale

Guido Viale


Foto di Riccardo Troisi

Niente di questo mondo ci risulta indifferente, a cura di Daniela Padoan (304 pagine, Interno4 Edizioni), è il risultato del lavoro svolto nel corso di più di un anno dall’associazione milanese Laudato si’. Questo libro esce a cinque anni esatti dalla divulgazione di quell’importantissimo documento. Il titolo è tratto da una frase dell’enciclica di papa Francesco a cui l’associazione si ispira.

In quell’enciclica, come nel lavoro dell’associazione, il tema dei rifiuti o, meglio, degli scarti, occupa un posto centrale. Da un lato gli scarti materiali, che sono il risultato di un approccio alla produzione che si estrinseca in una economia lineare: prelievo di risorse vergini, sia rinnovabili che non rinnovabili, dall’ambiente; loro trasformazione in beni di consumo o mezzi di produzione; generazione di scarti sia nel corso della produzione che a conclusione del ciclo di consumo, per “riconsegnarli” all’ambiente in forme e con modalità che non ne consentono né l’inserimento in un nuovo ciclo produttivo (riciclo) né l’inclusione in un nuovo ciclo biologico senza pregiudicare l’equilibrio degli ecosistemi.

Il degrado ambientale e l’inquinamento sempre meno sostenibile sono la conseguenza diretta dell’economia lineare, a cui Francesco contrappone – ma ormai, a livello di enunciazione, sono tutti d’accordo, tranne poi non prendere alcun impegno pratico per tradurla in realtà – i principi di un’economia circolare, che riduca drasticamente i prelievi di risorse vergini ed elimini gli scarti, perché, come fa la natura con i suoi cicli vitali, alimenta ogni nuovo processo produttivo con i residui di quelli precedenti.

La produzione di scarti non si limita alla dimensione materiale dei processi produttivi, ma investe anche i rapporti sociali: chi si abitua a sbarazzarsi delle cose che non gli servono più senza preoccuparsi di accompagnarle verso processi che ne consentano la rigenerazione finisce per adottare lo stesso comportamento verso gli esseri umani, sia in campo economico che nelle relazioni e persino nelle amicizie più strette.

Coloro che non ci servono più, o che non sono più di alcuna utilità pratica, sia come produttori che come consumatori, per il funzionamento del sistema economico sono anch’essi scarti: “rifiuti umani”, residui sociali, ingombri di cui sbarazzarsi nel più breve tempo possibile e al più basso costo possibile, in quelle discariche dell’umanità che sono le tante forme di emarginazione a cui vengono condannate persone, comunità o intere popolazioni considerate superflue.

Tra questi due processi il legame è strettissimo: a pagare maggiormente i costi del degrado dell’ambiente sono coloro che l’economia lineare ha messo ai margini dei suoi processi.

Ho deciso di recensire questo libro, nonostante abbia contribuito alla sua stesura insieme a decine di altri co-autori, perché lo ritengo uno strumento di grande utilità per il lavoro di divulgazione in cui è impegnata l’associazione di cui faccio parte: in esso si abbozzano alcune risposte (le più importanti) non solo ai grandi problemi della nostra epoca, ma anche a molti altri, di apparente minore importanza, con cui i primi si intersecano.

Senza questo intreccio tra il grande e il piccolo, tra l’alto e il basso, tra il fondamentale e il minuto, non si costruisce una prassi, cioè non si ritrova il bandolo di ciò che veramente conta né si riesce a risalire da ciò che è alla nostra portata (il locale) a ciò che riguarda tutti: il globale.

Questa convinzione mi viene dalla consapevolezza – che credo di condividere con tutti i co-autori di questo testo – che la strada verso questo modo di rapportarsi al nostro tempo è già stata aperta dall’enciclica Laudato sì di papa Francesco, che ne ha focalizzato i principi portanti e che fa da sottofondo a tutti i paragrafi in cui si articola il libro.

Si tratta, per riportare a una formulazione semplice un ragionamento ricco di articolazioni, di profondità e di spessore, di due assunti di fondo tra loro strettamente connessi.

Foto di Riccardo Troisi

Il primo asserisce che a subire maggiormente i danni del degrado dell’ambiente sono i poveri della Terra: nel duplice risvolto di classi, gruppi e individui che si trovano al fondo della piramide sociale in ogni paese e di abitanti dei paesi segnati per sempre dalla dominazione coloniale nei confronti di chi di questa ha in vario modo tratto beneficio o lo trae tuttora.

I primi, relegati nei quartieri e nelle zone più inquinate e meno fornite di servizi pubblici delle città; tutti gli altri negli slum delle metropoli di paesi mai veramente usciti dalla sostanza di una condizione coloniale, in territori devastati e impoveriti dal saccheggio delle loro risorse e dagli effetti dei cambiamenti climatici ormai in corso da tempo.

In termini “geopolitici” sono da un alto gli abitanti dei paesi industrializzati o emergenti e dall’altro quelli di territori e nazioni che non si possono più chiamare né “sottosviluppati”, né “in via di sviluppo”, perché è ormai appurato che la loro storia coloniale e post-coloniale li ha in realtà condannati all’esclusione crescente e permanente dai benefici che abitanti di altre nazioni possono aver tratto da ciò che ha accompagnato per alcuni secoli la “civiltà industriale” e il dominio coloniale.

Di fatto, però, ogni paese del pianeta ha ormai al suo interno – per ricorrere a un’espressione ormai in disuso – il suo “Terzo Mondo”, così come in ogni paese c’è chi beneficia dei tanti processi di esclusione dei più.

Sono dunque i poveri della Terra, in questa duplice accezione, che hanno un vitale interesse a salvare l’ambiente per salvare se stessi. Non c’è per loro prospettiva di emancipazione se non facendo propri gli obiettivi di una radicale conversione ecologica – un’espressione introdotta da Alex Langer oltre 25 anni fa, ripresa con convinzione da questa enciclica – di tutto l’assetto sociale ed economico in cui è ormai immersa l’intera specie umana. Giustizia sociale e giustizia ambientale, rispetto di tutta la vita sulla Terra e salvaguardia dei diritti fondamentali di ogni essere umano non possono procedere disgiunti: sono la stessa cosa.

Questo ci introduce al secondo assunto fondamentale che attraversa l’enciclica e che, come il primo, è un filo conduttore di tutta l’articolazione dei temi sviluppati in questo testo: la Terra, il pianeta su cui e dei cui frutti viviamo, il “creato” – per usare il termine a cui fa principalmente riferimento l’enciclica – non ci appartiene, siamo noi che apparteniamo alla Terra.

Alla sua salvaguardia è indissolubilmente legato il destino della nostra specie, ma anche quello di ciascun individuo, come quello di tutto il vivente – di ogni essere animale o vegetale, anche il più apparentemente insignificante, come sottolinea papa Francesco – ciascuno dei quali ha una propria dignità, che deve essere rispettata anche quando decidiamo di potercene o dovercene servire.

Viene così sanzionata la fine di una visione antropocentrica che dagli esordi delle civiltà e con poche eccezioni – molte delle quali ancora vive tra le popolazioni native meno toccate da influenze “civilizzatrici” di matrice occidentale – ci ha condotti fino all’epoca attuale.

Molti le attribuiscono ormai la denominazione di antropocene, perché è la stessa struttura geologica del pianeta, oltre alla corsa all’estinzione di decine di migliaia di specie viventi, a risultare ormai fondamentalmente determinate dall’intervento umano.

Foto di Riccardo Troisi

Si tratta di una strada senza sbocchi, che negli ultimi decenni ha subito un’accelerazione che ci ha già sospinti sull’orlo di un baratro da cui potrebbe non esserci più ritorno e che l’enciclica, come nessun altro documento politico al mondo, denuncia con la determinazione di un anatema. Guai a non invertire rotta! Ma come?

Questo “come”, a cui questo libro non pretende certo di dare risposte definitive, ha spinto a costituire e a tenere in vita da ormai cinque anni un’associazione che prende il nome dall’enciclica e da molti più anni, chi individualmente e chi in altre aggregazioni, a dar vita a un processo di elaborazione condivisa: aprendolo ai contributi di un arco molto vario di approcci sia culturali o politici – ma non partitici – sia di “buone pratiche”, fino a sviluppare, per punti e sottopunti, un documento che ha lo scopo di aiutare i lettori a chiarirsi sulla posizione da prendere nei confronti dei tanti problemi trattati.

Molti di noi nel corso di questo percorso hanno potuto verificare come lo sforzo di collegare con un filo rosso i vari problemi su cui venivamo chiamati a pronunciarci nel corso di dibattiti o confronti – prima svolti in presenza, poi, negli ultimi mesi, solo on line – abbia facilitato enormemente il nostro lavoro di divulgazione, la capacità di capire e farsi capire. Soprattutto se con il termine divulgazione non intendiamo la banalizzazione di una questione, ma lo sforzo per portare allo scoperto il modo in cui questioni tecniche o argomenti anche complessi si intersecano con le esperienze della vita quotidiana a cui tutti possono fare riferimento. Basta guarda all’insieme dei capitoli, ciascuno dei quali si articola in 15-20 paragrafi, per rendersi conto della complessità di questo lavoro.


Da oggi e fino al 28 maggio, Niente di questo mondo ci risulta indifferente, a cura di Daniela Padoan (304 pagine, Interno4 Edizioni) è in vendita promozionale, in formato e-book, al prezzo di soli 4,45 euro. Dal 28, in formato cartaceo, costerà tre volte tanto. Chi è interessato può affrettarsi a ordinarlo e scaricarlo su Ibs, Feltrinelli, Mondadori e Amazon




fonte: https://comune-info.net



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A Roma un orto urbano per ogni quartiere: il progetto

L'idea è del gruppo Zappata Romana, che partecipa alla selezione dei progetti finanziabili da parte del Comune di Roma. La proposta che l'associazione avanza è quella di promuovere la realizzazione di un orto urbano per ogni quartiere della capitale. E i cittadini possono votare.












Coltivare e sviluppare nuovi spazi per una “Roma città giardino” promovendo un orto urbano per quartiere, almeno 100 in tutta Roma, nelle aree libere non costruite, nei parchi privi di manutenzione e nelle aree verdi abbandonate: è l'idea dell'associazione Zappata Romana, con cui partecipa alla selezione indetta da Roma Capitale nell'ambito del bilancio partecipativo che permetterà di individuare un certo numero di progetti finanziabili.
«Nella nostra idea, i cittadini che vorranno prendersi cura di una piccola parte del loro quartiere saranno agevolati e sostenuti - dice l'associazione - Le aree riqualificate in orti saranno intese come spazi pubblici, aperte a tutti, dove cittadini, scuole e associazioni potranno coltivare dei piccoli appezzamenti. Queste aree riqualificate miglioreranno i quartieri e contribuiranno a creare luoghi di socialità, integrazione, autoproduzione, biodiversità, sicurezza, educazione ambientale, promozione culturale, incontro, gioco, partecipazione e salute. Il nostro obiettivo è quello di recuperare aree e parchi abbandonati per creare occasioni di socialità e bellezza con il verde. E vorremmo che protagonisti di questo recupero fossero i cittadini di ogni età, le associazioni e le scuole».
L'opportunità che il Comune di Roma sta fornendo ai cittadini è tutt'altro che scontata.  «I cittadini e l'Amministrazione decidono insieme, per la prima volta, come investire 20 milioni di euro, su tutto il territorio, per la tutela del decoro urbano» si legge sul sito di Roma Capitale. E i cittadini possono votare i progetti migliori fino al 21 luglio prossimo.
Le proposte che ottengono almeno il 5% dei like complessivamente ricevuti dai progetti che ricadono nello stesso Municipio sono ammesse alla fase successiva di valutazione da parte di un Tavolo dell’Amministrazione che ne esamina la fattibilità tecnico-finanziaria. A ottobre il processo partecipativo si conclude con le votazioni finali online, che porteranno alla formazione di 15 graduatorie, una per ogni Municipio, e di un’ulteriore graduatoria di carattere intermunicipale.
«Un giardino/orto condiviso è anzitutto uno spazio pubblico con finalità socioculturali e ambientali - spiegano da Zappata Romana - A differenza dei giardini pubblici tradizionali, i giardini e gli orti condivisi vedono protagonisti tutti i cittadini perché sono realizzati e/o gestiti dai cittadini stessi riuniti intorno ad un progetto comune per rendere migliore il loro quartiere. Molto spesso un giardino condiviso è lo spunto per fare altro: un luogo di incontro, far giocare i bimbi, avere un po’ di relax, praticare uno sport all’aperto, fare attività culturali, imparare una lingua, fare giardinaggio, coltivare un orto per l’autoconsumo, fare volontariato sociale o educazione ambientale. Il giardino condiviso può essere il fulcro di una comunità delineando nuovi modi di vivere la città».
fonte: http://www.ilcambiamento.it/

Onu, ripristinare l’ecosistema degradato conviene (anche) all’economia

Il recupero di 350 milioni di ettari di terreni degradati tra oggi e il 2030 potrebbe generare 9.000 miliardi di dollari e liberare l'atmosfera di ulteriori 13-26 gigaton di gas serra




















Senza che ce ne accorgiamo l’ecosistema – anzi, gli ecosistemi che vanno a comporre il variegato e magnifico mondo naturale – ci offre ogni giorno “servizi” indispensabili alla vita: la purificazione dell’aria e dell’acqua, il cibo e la difesa dai cambiamenti climatici, ad esempio. La natura lo fa gratuitamente, ma potrebbe presto chiederci il conto: secondo il Wwf il valore economico di questi servizi ecosistemici – una stima che rende giustizia soltanto in parte, perché in ballo è la vita – può essere «valutato intorno a 125.000 miliardi di dollari, una cifra superiore al prodotto globale lordo dei paesi di tutto il mondo, che si aggira sugli 80.000 miliardi di dollari». Un valore che il genere umano erode anno dopo anno facendo avanzare inquinamento, perdita di biodiversità e cambiamenti climatici.
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che ha appena dichiarato il periodo 2021-2030 come Decennio dell’Onu per il ripristino dell’ecosistema spiega chiaramente qual è la posta in gioco: il degrado degli ecosistemi terrestri e marini mina le condizioni di vita di 3,2 miliardi di persone e costa circa il 10% del prodotto lordo globale annuo in termini di perdita di servizi per specie ed ecosistemi. Da questa consapevolezza nasce il Decennio dell’Onu, che mira a potenziare in modo rilevante il ripristino degli ecosistemi degradati o distrutti come misura per combattere le crisi climatiche e migliorare la sicurezza alimentare, l’approvvigionamento idrico e la biodiversità.
«Il degrado dei nostri ecosistemi ha avuto un impatto devastante sia sulle persone che sull’ambiente – ricorda Joyce Msuya, direttore esecutivo del Programma ambientale delle Nazioni Unite – Siamo entusiasti del fatto che lo slancio per ripristinare il nostro ambiente naturale abbia guadagnato terreno, perché la natura è la nostra migliore scommessa per affrontare il cambiamento climatico e garantire il futuro». Come sottolineano dalla Fao (l’Organizzazione Onu per l’alimentazione e l’agricoltura, con sede a Roma), ad oggi circa il 20% della superficie vegetata del pianeta mostra un calo della produttività con perdite di fertilità legate all’erosione, all’impoverimento delle risorse e all’inquinamento in tutte le parti del mondo, ed entro il 2050 il degrado e il cambiamento climatico potrebbero ridurre i raccolti del 10% a livello globale e in alcune regioni fino al 50%. Per questo il ripristino dell’ecosistema è fondamentale per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile, e in primis quelli relativi ai cambiamenti climatici o all’eliminazione della povertà: lavorare per quest’obiettivo significa attivare un processo per invertire il degrado di paesaggi, laghi e oceani, rendendo loro possibile riprendere la propria funzionalità ecologica. «In altre parole, per migliorare la produttività e la capacità degli ecosistemi di soddisfare i bisogni della società – argomentano dalla Fao – Ciò può essere fatto consentendo la rigenerazione naturale degli ecosistemi sovra-sfruttati, ad esempio, o piantando alberi e altre piante».
Il Decennio accelererà dunque gli attuali obiettivi di ripristino globale, ad esempio la Bonn Challenge, che mira a ripristinare 350 milioni di ettari di ecosistemi degradati entro il 2030, un’area quasi delle dimensioni dell’India. Al momento 57 paesi, governi subnazionali e organizzazioni private si sono impegnate a restaurare oltre 170 milioni di ettari, e la posta in palio per il traguardo finale è altissima: il recupero di 350 milioni di ettari di terreni degradati tra oggi e il 2030 potrebbe infatti «generare 9.000 miliardi di dollari in servizi eco-sistemici e liberare l’atmosfera di ulteriori 13-26 gigaton di gas serra».
fonte: www.greenreport.it

La ragazza di 23 anni che ha scoperto il segreto per decomporre la plastica (e trasformarla in molecole organiche)



















Eterna plastica? Una ragazza di appena 23 anni, Miranda Wang, ha trovato il modo per degradarla ottenendo dei prodotti utilizzabili per molte applicazioni (senza usare il petrolio). Una tecnologia (da cui è stata fondata la compagnia specializzata BioCellection) che su larga scala potrebbe ridurre significativamente la plastica indistruttibile che affligge i nostri mari (e non solo).
Le materie plastiche sono fatte di lunghissimi polimeri, ovvero catene di composti chimici tutti uguali, quasi mai biodegradabili e quindi quasi permanenti nell’ambiente. Ma la chiave per la loro “distruzione” sembra essere l’utilizzo di un catalizzatore, ovvero di una molecola che rende la reazione di “taglio” molto più rapida ed economica.
I batteri presenti naturalmente non ce la fanno e anche per la chimica ci sono diversi problemi, salvo qualche caso in fase di studio che coinvolge l’utilizzo di enzimi. Il problema nasce dalla difficoltà di spezzare le catene fatte da legami tra atomi di carbonio molto stabili. Per riuscirci sono necessarie alte temperature, ma queste implicano costi elevati ed emissioni in atmosfera non molto amiche dell’ambiente.
La soluzione (forse)? “Abbiamo identificato un catalizzatore che taglia le catene polimeriche per innescare una reazione a catena intelligente, a pressione atmosferica e ad una temperatura che può essere gestita da un bollitore – si legge sul sito della società - Una volta che il polimero si rompe in pezzi con meno di 10 atomi di carbonio, l’ossigeno dell’aria si aggiunge alla catena e forma preziose specie di acidi organici che possono essere raccolte, purificate e utilizzate per realizzare i prodotti che amiamo”.
I catalizzatori sono molecole che facilitano reazioni molto complesse, agendo in diversi modi ma con un medesimo principio di base, ovvero modificandone il meccanismo. Procedendo in maniera diversa tutto cambia e, se il catalizzatore è veramente efficace, si registra una velocità maggiore, magari con temperature e pressioni più basse, quindi con costi inferiori. Ulteriore vantaggio: il catalizzatore può essere recuperato a fine reazione per molti cicli consecutivi.
plastica catalizzatore
La tecnologia proposta da Miranda Wang promette inoltre apparati semplici e quindi potenzialmente industrializzabili, nonché il recupero di prodotti utili per altre applicazioni e soprattutto non derivati dal petrolio, aggiungendo un altro vantaggio per l’ambiente.
“Il nostro prodotto è una miscela di esteri dibasici contenenti da 4 a 9 atomi di carbonio – si legge ancora sul sito - Nessun altro team ha creato tali prodotti dai rifiuti di plastica post-consumo! Gli eteri sono prodotti oggi utilizzando petrolio e sono essenziali per ottenere svariati tessuti e materiali. La nostra innovazione utilizza i rifiuti di plastica sostituendo il petrolio come risorsa per filiere sostenibili.





La società condurrà una dimostrazione pilota del proprio processo il prossimo ottobre convertendo 17 tonnellate di rifiuti di plastica in 6 tonnellate di sostanze chimiche di valore in 3 mesi. Successivamente il team ha in programma di costruire un apparato più grande per continuare a riciclare i materiali ed espandere la propria ricerca includendo il riciclo anche di altri materiali plastici.

fonte: https://www.greenme.it

Onu, verso la “fine” della plastica usa e getta in mare, ma piano

Sir David Attenborough: «Gli oceani di fronte alla più grande minaccia nella loro storia»























La fine dell’era della plastica usa e getta presa in considerazione all’UN Environment Assembly L’inquinamento marino è stato uno dei temi centrali dell’UN Environment Assembly dell’ United Nations environment programme (Unep) tenutasi a Nairobi e, in uno dei documenti preparatori del summit ambientale, l’Unep ha evidenziato che «L’inquinamento marino si ritrova in tutti gli oceani del mondo, anche nelle fregion i più remote. L’aumento continuo della quantità di rifiuti solidi che producono gli esseri umani e la grande lentezza con la quale questi rifiuti si degradano comportano un aumento progressivo della quantità di rifiuti che si trovano in mare, nei fondali marini e lungo le coste in tutto il mondo».
L’Unep ricorda che «Le attività umane a terra sono le principali fonti di inquinamento marino. Si tratta in particolare dello sversamento di rifiuti lungo le coste, dei rifiuti sulle spiagge e della decomposizione delle imbarcazioni. Le inondazioni e altri avvenimenti legati alle condizioni meteorologiche eliminano questi rifiuti in mare, dove sfociano o sono portati dalle correnti. Le principali fonti marittime dell’inquinamento marino comprendono l’attrezzi da pesca abbandonati, i trasporti navali e lo sversamento legale e illegale. Tutto questo inquinamento provoca gravi perdite economiche. Le comunità costiere fanno fronte a spese crescenti in materia di pulizia delle spiagge, di salute pubblica e di eliminazione dei rifiuti. L’industria marittima  è influenzata dai costi più elevati associati alle eliche bloccate, ai motori danneggiati e alla gestione dei rifiuti nei porti. L’industria della pesca è danneggiata negli attrezzi e dalle catture ridotte e contaminate».
Inoltre, l’inquinamento marino provoca una perdita di biodiversità e danneggia i servizi eco sistemici: «Gli attrezzi da peasca abbandonati  possono continuare a uccidere la vita marina e a soffocare gli habitat faunistici  – fa notare l’Unep – I pesticidi e altre tossine aderiscono a delle minuscole particelle di plastica sversate (microplastiche), che possono essere ingerite accidentalmente dalla piccola vita selvatica. Una volta ingerite, le tossine si moltiplicano nella misura in cui risalgono la catena alimentare, si accumulano negli uccelli, nella vita marina ed eventualmente negli esseri umani».
Il Global Programme of Action for the Protection of the Marine Environment from Land-Based Activities, avviato nel 1995,  punta a orientare le autorità nazionali verso la prevenzione, la riduzione, il controllo e l’eliminazione del degrado del mare dovuto alle attività antropiche terrestri, Nel 2017 l’Unep ha lanciato anche la #CleanSeas campaign che esorta i governi ad adottare politiche miranti a ridurre l’utilizzo di plastica e di chiedere all’industria di ridurre gli imballaggi di plastica e di progettare prodotti che comportino meno rifiuti, ma chiede anche ai consumatori di cambiare le loro abitudini riguardo ai rifiuti«Prima che al nostro mare non vengano causati danni irreversibili«. L’Unep è al lavoro anche sul Regional Seas programme che punta a rafforzare la protezione del mare in tutto il mondo.
E’ in questo quadro di grande rischio e difficoltà che all’UN Environment Assembly di Nairobi  i ministri dell’ambiente hanno sottoscritto un documento nel quale si afferma che l’afflusso di plastica in mare deve essere fermato. Una dichiarazione accolta favorevolmente da scienziati e ambientalisti ma che fanno notare che  è di fatto un accordo sui principi  che non fissa obiettivi e scadenze. I ministri dell’ambiente rispondono che la dichiarazione è in realtà una pietra miliare perché indica a governi, industria e opinione pubblica che è necessario un grande cambiamento.
Il ministro norvegese dell’ambiente, Vidar Helgesen (Partito Conservatore), che a Nairobi è stato il leader del fronte che ha imposto di discutere dell’inquinamento marino da rifiuti di plastica (Marine Litter) ha detto a BBC News: «Ciò per cui eravamo venuti qui era la necessità di agire, il punto di partenza era quello di puntare era puntare a zero immissioni di rifiuti in mare, quindi è stato fatto effettivamente un passo avanti per l’immissione zero di plastica nell’oceano». Ma Helgesen ha dovuto ammettere che quello fatto in Kenya è solo l’inizio dell’azione contro il marine litter.
Secondo Li Lin, del Wwf International, all’UN Environment Assembly  «Si sono visti  progressi abbastanza buoni sui rifiuti marini e sulle microplastiche. Vorremmo solo vedere questo accordo attuato da governi, imprese, ONG e consumatori il più rapidamente possibile, perché questo problema è urgente».
Ambientalisti e scienziati sono preoccupati perché sappiamo che la plastica sta già danneggiando la vita marina, ma non sappiamo quanti danni possa subire ancora prima che possano essere colpiti interi ecosistemi. A questo problema, derivante dalla cattiva gestione e dal mancato riutilizzo di rifiuti/risorse, si aggiungono i cambiamenti climatici, l’acidificazione, le zone morte e gli altri tipi di inquinamento che satanno modificando rapidamente – e in peggio – mari e oceani.
I delegati all’UN Environment Assembly sperano che questi pericoli e le crescenti prese di posizione spingano i governi ad adottare rapidamente politiche nazionali per gestire i rifiuti  di plastica e ridurne la quantità e il consumo, invece che aspettare che dall’Onu arrivino risoluzioni miracolose.
Ma fermare i rifiuti di plastica richiederà nuove tecnologie e nuovi atteggiamenti da parte dei consumatori e tra le molte sfide legate all’inquinamento che l’umanità deve affrontare, questo è senza dubbio uno dei più difficili.
Ne è convinto anche Sir David Attenborough che avverte: «Gli oceani del  mondo stanno attualmente affrontando la più grande minaccia nella loro storia».
Nell’ultimo episodio di Blue Planet II, trasmesso il 10 dicembre in prima serata dalla BBC, Attenborough lancia un forte allarme sullo stato dei nostri oceani che sono già stati gravemente danneggiati dai cambiamenti climatici, dall’inquinamento da plastica e dalla pesca eccessiva.
In un’intervista il grande documentarista ha detto: «Per anni abbiamo pensato che gli oceani fossero così vasti e  che i loro  abitanti fossero così infinitamente numerosi che non potessimo fare nulla che avesse un effetto su di loro. Ma ora sappiamo che era sbagliato. Ora è chiaro che le nostre azioni stanno avendo un impatto significativo sugli oceani del mondo. Ora sono minacciati come mai prima nella storia umana. Molte persone credono che gli oceani abbiano raggiunto un punto di crisi, Come esseri umani abbiamo la responsabilità di prevenire ulteriori danni. Sicuramente abbiamo la responsabilità di prenderci cura del nostro pianeta blu. Il futuro dell’umanità, e in effetti di tutta la vita sulla Terra, ora dipende da noi».
Ma potenti forze politiche ed economiche si muovono per impedire la rivoluzione culturale e ambientale di cui il mobdo avfrebbe bisogno e Sir David Attenborough si è trovato per la prima volta in vita sua a fare i conti con una richiesta di “controllo dei fatti”  sui contenuti di Blue Planet 2, Controllo superato ma dovuto al fatto che i dirigenti della BBC erano preoccupati che il documentario fosse «diventato troppo politicizzato», formula che sottintende che a qualche politico di governo non piace che si parli troppo di global warming e marine litter.
Di fronte a questi attacchi, il produttore della serie, Mark Brownlow ha detto al Guardian che «E’ impossibile trascurare il danno causato negli oceani. Non potevamo ignorarlo: non sarebbe stato un ritratto veritiero degli oceani del mondo. Non andiamo in giro a fare campagna elettorale. Siamo semplicemente mostrando qualcosa ed è abbastanza scioccante. Gran parte del filmato girato durante la realizzazione della era troppo sconvolgente per la trasmissione, incluse le riprese con le scene di pulcini albatros morti  per aver mangiato  plastica». Ma la troupe della BBC ha anche girato le scene scioccanti del più grande e peggiore sbiancamento di massa di coralli della storia che ha colpito la Grande Barriera Corallina Australiana.
Jon Copley, uno scienziato dell’Università di Southampton, che compare nell’episodio finale di Blue Planet II, ha detto all’Evening Standard:  «Quel che mi sconvolge di ciò che tutti i dati mostrano è quanto velocemente le cose stiano cambiando qui [in Antartide]. Ci stiamo dirigendo verso un territorio inesplorato».
Lo show evidenzia anche l’effetto che l’inquinamento acustico può avere sulla vita marina, spiegando quanto i forti suoni prodotti della navigazione e dalle attività turistiche ostacolino e confondano i rumori naturali prodotti dagli animali per comunicare sott’acqua.
Attenborough  mette in guardi gli spettatori anche sui pericoli del sovra sfruttamento: «Ogni notte vengono calati migliaia di chilometri di lenze da pesca: ce n’è abbastanza da avvolgere due volte il mondo».

Ma Blue Planet II non è uno spettacolo triste: mostra anche quanto siano ancora meravigliosi il mare e il lavoro di chi lo protegge, come Len Peters, un ambientalista che a Trinidad è riuscito a mettere fine alla caccia alle tartarughe marine e che spiega che quando era un bambino era normale mangiare carne di tartaruga, ma la popolarità di questa carne aveva portato a solo 30 – 40  il numero di tartarughe nidificanti a Trinidad, ora dopo una vita passata a difenderle, secondo Peters le tartarughe marine di Trinidad sono più di 500.

fonte: www.greenreport.it

Fao «Gli sprechi alimentari, di risorse naturali e di capitale umano mettono a rischio l’agricoltura e lo sviluppo rurale del Mediterraneo»

MediTerra: le sfide condivise dai sistemi alimentari della regione e le opzioni per farvi fronte
















La nuova pubblicazione  MediTerra 2016 – Zero Waste in the Mediterranean: Natural Resources, Food, and Knowledge di Fao e International center for advanced mediterranean agronomic studies (Ciheam) sottolinea che «La traduzione agricola e alimentare del Mediterraneo è stata a lungo considerata esempio di un approccio sano al cibo, sostenuto da vivaci economie agricole. Ma pressioni demografiche ed ambientali –  sommate a cambiamenti climatici e a sfide sociali ed economiche – stanno facendo sorgere dubbi sul futuro dei tanto celebrati sistemi alimentari della regione e sulle relative implicazioni per lo sviluppo sostenibile».
L’approfondito studio mette in guardia contro «il “triplo spreco” rappresentato dal cattivo uso delle risorse naturali, dagli sprechi alimentari e dalla lenta scomparsa dei saperi tradizionali.  Questi rischi devono essere affrontati adottando una produzione agricola più sostenibile e politiche più forti basate su approcci multisettoriali».
Nell’introduzione alla pubblicazione, Il direttore generale della Fao, José Graziano da Silva, e il segretario generale del Ciheam, Cosimo Lacirignola, scrivono: «Il mondo, incluso la regione del Mediterraneo, si trova davanti a molte sfide. Forme diverse di spreco, che riguardano il cibo, le risorse naturali e la conoscenza, sono intrinseche a queste sfide e pongono un ostacolo significativo al raggiungimento della sostenibilità»
Inoltre, MediTerra  fa notare «come lo spreco di capitale umano nella regione – soprattutto per quanto riguarda i giovani – stia ostacolando lo sviluppo. Questo include disoccupazione, mancanza di acceso all’educazione, fuga di cervelli, scomparsa delle conoscenze locali e delle tradizioni agricole».
Secondo Fao e Ciheam, l’obiettivo, non deve essere «solamente preservare le tradizioni agricole, quanto rinvigorirle per renderle motore dello sviluppo sostenibile e di una nutrizione migliore».
La nuova edizione di MediTerra  analizza i sistemi agricoli e alimentari della regione del Mediterraneo, dal Nord Africa all’Europa meridionale, al Medio Oriente e contiene 17 capitoli redatti da esperti Fao e Ciheam organizzazioni, suddivisi in tre aree principali: Lo stato delle risorse naturali essenziali all’agricoltura globale e della regione, incluso risorse marine, idriche e forestali, diversità genetica animale ed energia: Aspetti diversi relativi agli sprechi e alle perdite alimentari a livello mondiale e regionale; e come i singoli paesi e comunità vi stanno facendo fronte; Come le risorse umane e la conoscenza tradizionale della regione sono minacciate di scomparire e come le famiglie contadine stanno rispondendo.
MediTerra mette in evidenza diverse sfide che stanno mettendo alla prova l’agricoltura e i sistemi alimentari del Mediterraneo. Per esempio:
Limitate risorse idriche. Il l’area del Mediterraneo possiede solo il 3% delle risorse idriche mondiali e ospita oltre il 50% della popolazione mondiale affetta da scarsità d’acqua – circa 180 milioni di persone. In varie regioni l’estrazione di risorse idriche dal sottosuolo ha raggiunto il limite di sostenibilità. In agricoltura – il maggior utilizzatore di risorse idriche – grandi quantità di acqua vengono perse a causa di tecniche errate o di infrastrutture obsolete. I cambiamenti climatici avranno un ulteriore impatto sulle già limitate risorse idriche.
Perdita e degradazione del suolo.  La pubblicazione mette in guardia contro la “lenta scomparsa di terre arabili causata dall’avanzare dell’urbanizzazione”, oltre che dall’ erosione, la salinizzazione e la desertificazione – gran parte delle quali dovute a pratiche agricole non sostenibili. Alcune stime indicano che se i trend attuali di degradazione della terra continueranno, nel 2020 altri 8,3 milioni di ettari di terra arabile saranno andati persi rispetto al 1960.
Perdite e sprechi alimentari. Non esistono stime accurate su perdite e sprechi alimentari nella regione complessiva del Mediterraneo ma i dati a livello di singolo paese indicano un problema serio: in Spagna vanno perse o sprecate circa 7,6 milioni di tonnellate di cibo ogni anno; in Italia 8,8 milioni, in Francia 9 milioni. In Nord Africa e Medio Oriente si registrano problemi simili, con 250 kg di cibo sprecato per famiglia ogni anno. Tali sprechi – 42 km3 all’anno – rappresentano il 17% degli sprechi idrici globali legati agli sprechi alimentari.
Risorse ittiche e forestali a rischio. Per millenni il mare ha rappresentato la spina dorsale dei mezzi di sussistenza e della sicurezza alimentare nell’area del Mediterraneo. Oggi il 52% degli stock ittici monitorati sono sfruttati a livelli non sostenibili. In una nota simile, la superficie forestale della regione è diminuita drammaticamente, nonostante l’importante ruolo che essa gioca negli ecosistemi locali.
La “fuga di cervelli” in agricoltura. Gran parte delle attività agricole nella regione sono di stampo familiare e riescono a rimanere competitive rispetto a regalità agroindustriali più grandi e solide. In alcune aree della regione tuttavia comunità e conoscenze stanno scomparendo. Nella zona del Maghreb per esempio, l’età media degli agricoltori supera i 50 anni, mentre la regione si confronta con tassi di disoccupazione tra i più alti del mondo.
MediTerra conclude: «Gran parte delle sfide che coinvolgono i sistemi alimentari, le risorse naturali e le conoscenze, sono comuni a tutti i paesi del Mediterraneo, sottolinea la pubblicazione. E’pertanto importante condividere un’agenda comune di ricerca e azione, politiche e innovazioni integrate – sia tecniche che organizzative – per affrontare “il triplo spreco” in maniera coordinata.  In questo senso Ciheam e Fao possono offrire un contributo: esse, infatti, offrono uno spazio unico per l’interscambio di esperienze, expertiese e analisi volte a proporre risposte alle diverse sfide che la regione del Mediterraneo si trova ad affrontare.  E questo ha un valore strategico per il futuro dei paesi del Mediterraneo, e il loro sviluppo sostenibile».

fonte: www.greenrepot.it

Unep, l’ambiente malato uccide 234 volte di più delle guerre

Le morti premature dovute al degrado ambientale minacciano la salute pubblica
12,6 milioni di decessi nel 2012 attribuibili al deterioramento delle condizioni ambientali, il 23% del totale

Unep morti
Secondo il rapporto tematico “Healty environment, Healty People”, presentato alla seconda sessione dell’United Nations Environment Assembly (Unea-2) che si è aperta a Nairobi, «si stima che il degrado ambientale e l’inquinamento causino fino a 234 volte il numero di morti premature che si verificano ogni anno durante i conflitti, mettendo in evidenza l’importanza di un ambiente sano per il raggiungimento degli obiettivi della 2030 Agenda for Sustainable Development. Gli impatti ambientali sono responsabili della morte di più di un quarto di tutti i bambini di età inferiore ai cinque anni».
Il rapporto è stato realizzato da United Nations Environment Programme (Unep), Organizzazione mondile della sanità (Oms), Convention on Biological Diversity, Protocollo di Montreal Protocol sulle sostanze che riducono lo strato di ozono, e Convenzioni di Basilea, Rotterdam e Stoccolma e analizza I pericoli posti alla salute e al benessere umano da inquinamento dell’aria, prodotti chimici, cambiamento climatico ed altri problemi ambientali.
Il rapporto rileva che, nel 2012,  ben 12,6 milioni di decessi erano attribuibili al deterioramento delle condizioni ambientali, il 23% del totale. La più alta percentuale di decessi attribuibili per l’ambiente si riscontra nel Sud-est asiatico e nel Pacifico occidentale (rispettivamente 28% e il 27% dell’ammontare totale). Il numero di decessi attribuibili all’ambiente è del 23% nell’Africa sub-sahariana, del  22% nella regione del Mediterraneo orientale, dell’11% e del 15% nei Paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) e nei Paesi non-Ocse della regione delle Americhe, mentre l’Europa arriva al 15%.
In tutte le regioni del pianeta sono in aumento i decessi correlati a malattie non trasmissibili. Nel 2012 i tre quarti delle morti a causa di malattie non trasmissibili vivevano nei Paesi a basso e medio reddito. Il rapporto evidenzia anche quali sono i driver  degli impatti riguardanti la  salute ambientale, inclusi la distruzione degli ecosistemi, il cambiamento climatico, la disuguaglianza, l’urbanizzazione non pianificata, gli stili di vita insalubri e dispendiosi e i modelli di consumo e di produzione non sostenibili – e delinea i grandi vantaggi  economici e per la salute che porterebbe un’azione ambientale.
Secondo il rapporto, «il cambiamento climatico sta esacerbando la scala e l’intensità dei rischi per la salute legati all’ambiente. Le stime dell’Oms indicano che a causa del cambiamento climatico, tra il 2030 e il 2050,  ogni anno potrebbero verificarsi 250.000 morti in più  , per lo più da malnutrizione,  malaria, diarrea e stress da caldo».
I fattori ambientali chiave evidenziati nel rapporto comprendono: l’inquinamento atmosferico, che ogni anno uccide 7 milioni di persone in tutto il mondo. Di questi, 4,3 milioni sono causati dall’inquinamento atmosferico delle case, in particolare tra le donne e bambini nei Paesi in via di sviluppo. La mancanza di accesso all’acqua pulita e ai servizi igienici, che si traduce in 842.000 persone che ogni anno muoiono di malattie diarroiche, il 97% dei quali nei Paesi in via di sviluppo. Le malattie diarroiche sono la terza principale causa  dei decessi di bambini di età inferiore ai 5 anni, che rappresentano il 20% di tutte le morti nei bambini sotto i cinque anni. L’esposizione chimica: circa 107.000 persone muoiono ogni anno per esposizione all’amianto e nel 2010 sono morte 654.000 persone per esposizione al piombo nel 2010. Disastri naturali: Dalla prima Conferenza sui cambiamenti climatici dell’Onu nel 1995, sono morte 606.000 persone e 4,1 miliardi di esseri umani sono stati feriti, rimasti senza casa o hanno avuto bisogno di assistenza di emergenza a seguito di disastri legati al clima.
Il rapporto però dimostra anche che investire in un ambiente sano può portare molteplici vantaggi: il successo della messa al bando di quasi 100 sostanze dannose per l’ozono ha permesso di evitare fino a 2 milioni di casi di cancro della pelle e molti milioni di cataratta agli occhi ogni anno entro il 2030, I benefici a livello globale dell’eliminazione del piombo nella benzina sono stati stimati in 2.45 trilioni di dollari l’anno, o il  4% del Pil mondiale, evitando circa 1 milione di morti premature ogni anno. L’implementazione, misure economicamente vantaggiose ha dimostrato di poter  ridurre le emissioni di inquinanti climalteranti di breve durata come il black carbon e  il metano e  potrebbero ridurre il riscaldamento globale di 0,5° C entro la metà del secolo e salvare 2,4 milioni di vite ogni anno con la riduzione dell’inquinamento atmosferico entro il 2030. Gli investimenti da 18 – 60 dollari per lavoratore  in programmi di prevenzione e per la salute nei luoghi di lavoro salute possono ridurre le assenze per malattia del 27%, mentre il ritorno sugli investimenti nei servizi idrici e igienico-sanitari è compreso tra 5 e 28 dollari per dollaro investito.
Per ottenere questi  benefici, il rapporto raccomanda quattro approcci integrati: Disintossicare: rimuovere le sostanze nocive e/o mitigare il loro impatto sull’ambiente in cui le persone vivono e lavorano. Decarbonizzare: ridurre l’uso di carburanti fossili e quindi le emissioni di anidride carbonica (CO2) attraverso fonti rinnovabili. Nel ciclo di vita, l’impatto ambientale di energia solare, eolica e idroelettrica legato a inquinamento e salute umana è  da 3 a 10 volte inferiore a quello delle centrali elettriche a combustibili fossili. Disaccoppiare l’uso delle risorse e cambiare stili di vita: Generare l’attività economica e il valore necessari per sostenere la popolazione mondiale con minor uso di risorse, meno sprechi, meno inquinamento e meno distruzione ambientale. Migliorare la resilienza degli ecosistemi e la protezione dei sistemi naturali del pianeta: Costruire la capacità dell’ambiente, delle economie e delle società di anticipare, reagire e recuperare a disturbi e shock attraverso la protezione e la conservazione della diversità genetica e della biodiversità  terrestre, costiera e marina; rafforzare il ripristino degli ecosistemi; ridurre le pressioni dall’allevamento del  bestiame e dell’industria del legname sugli ecosistemi naturali.
Il direttore esecutivo dell’Unep, Achim Steiner, ha detto: «Riducendo l’infrastruttura ecologica del nostro pianeta e aumentando il nostro impatto da inquinamento, abbiamo richiesto un prezzo sempre crescente in termini di salute umana e il benessere. Dall’inquinamento atmosferico, al l’esposizione chimica fino all’estrazione delle nostre risorse naturali basilari, bbiamo compromesso i nostri vitali  sistemi di sostegno. Un pianeta più sano è una marea che solleva tutte le barche, compresa la salute umana, ma anche le economie e le società. Attuando lo sviluppo e il progresso nel campo della salute ambientale, salvaguardiamo il nostro benessere. All’Unea-2, il mondo si sta concentrando sui percorsi per garantire che l’ambiente sostenga  la salute umana, piuttosto che minacciarla».
L’Unea-2 analizzerà anche altri rapporti  riguardanti salute umana e attività antropiche: “Marine Plastic Debris and Microplastics: Global Lessons and Research to Inspire Action and Guide Policy Change”  rivela che nel 2014 la produzione di plastica globale ha superato i 311 milioni di tonnellate, un aumento del 4% rispetto al 2013. Tra 4,8 e 12,7 milioni di tonnellate finiscono in mare a causa di inadeguate politiche di gestione e riutilizzo dei rifiuti e le microplastiche sono particolarmente pericolose. In media, per ogni Km2 degli oceani del mondo ci sono 63.320 particelle di microplastica  che galleggiano in superficie. Gli organismi marini –   zooplancton, invertebrati, pesci, uccelli marini e balene – possono essere esposti a microplastiche attraverso l’ingestione diretta di acqua e indirettamente, come predatori all’apice delle reti alimentari. I potenziali effetti negativi dell’ingestione di microplastica comprendono risposte immunotossicologiche, disturbi riproduttivi, sviluppo embrionale anomale, alterazioni del sistema endocrino ed alterazioni dell’espressione genica.
Un altro studio, “Gender and Plastic Management”, prende in esame  i diversi ruoli di uomini e donne nell’uso e consumo di plastica, individuando le donne in regioni ricche come importanti per ridurre la plastica nei beni di consumo di base.
Il “2016 Global Report on the Status of Legal Limits on Lead in Paint” ha scoperto che gli sforzi per eliminare il piombo dalle vernici stanno avendo successo: agli inizi del 2016, 70 dei 196 Paesi  del mondo  avevano approvato dei limiti vincolanti per piombo nelle vernici. Tuttavia, solo 17 Paesi richiedono che  la vernice venga testata e certificata riguardo al  contenuto di piombo.
Unep Frontiers ha scoperto che «In tutto il mondo c’è stato un aumento di zoonosi emergenti, focolai di zoonosi epidemiche, un aumento della zoonosi di origine alimentare e una persistenza preoccupante delle zoonosi trascurate nei paesi poveri. Mai prima d’ora così tanti animali sono allevati da così tante persone e mai prima d’ora esistono così tante opportunità esistevano per gli agenti patogeni di passare dall’ambiente biofisico agli animali selvatici, dal bestiame alle persone  per le malattie zoonotiche o zoonosi».
Circa il 60% di tutte le malattie infettive negli esseri umani sono zoonotiche, così come lo sono il 75%  di tutte le malattie infettive emergenti. Negli ultimi anni, diverse malattie zoonotiche emergenti hanno fatto notizia per aver causato,  o minacciato di causare, grandi pandemie. Oltre all’influenza aviaria, la febbre della Rift Valley, la sindrome respiratoria improvvisa acuta grave (SARS), la sindrome respiratoria del Medio Oriente (MERS), il virus del Nilo occidentale, Ebola e il virus Zika. Il rapporto conclude che negli ultimi 20 anni, queste malattie emergenti hanno avuto costi diretti per più di 100 miliardi di dollari e che «Se questi focolai fossero diventati pandemie umane, le perdite sarebbero state pari a diverse migliaia di miliardi di dollari».

fonte: www.greenreport.it