Una settimana l’anno per incoraggiare tutti gli europei (e non solo) a impegnarsi nella...
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Una settimana l’anno per incoraggiare tutti gli europei (e non solo) a impegnarsi nella...
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Orto Capovolto: a Palermo al posto del degrado nascono orti urbani
Dal 2015 a oggi sono più di cento i progetti compiuti nelle scuole e circa venti gli interventi di orti urbani realizzati per riqualificare spazi abbandonati di Palermo. Nata dall'idea di una donna architetto e di un educatore ambientale, Orto Capovolto sta cambiando il volto del capoluogo siciliano e diffondendo consapevolezza fra i suoi abitanti.

In questo periodo così opaco e scarso di emozioni belle, assembrate e colorate, in cui ogni cosa sembra perdere di senso e il significato delle azioni a volte è senza significante, la vita di prima del covid sembra un sogno lontano. Eppure Palermo prima della pandemia era un fiorire di iniziative, di tran tran di turisti e guide che urlavano “follow me” in giro tra i monumenti, di artigiani che aprivano botteghe, di startup geniali che nascevano, di comunità operose che valorizzavano il bene comune. La “città tutta porto” – questo vuol dire Palermo – era in continuo fermento.

In questo periodo così opaco e scarso di emozioni belle, assembrate e colorate, in cui ogni cosa sembra perdere di senso e il significato delle azioni a volte è senza significante, la vita di prima del covid sembra un sogno lontano. Eppure Palermo prima della pandemia era un fiorire di iniziative, di tran tran di turisti e guide che urlavano “follow me” in giro tra i monumenti, di artigiani che aprivano botteghe, di startup geniali che nascevano, di comunità operose che valorizzavano il bene comune. La “città tutta porto” – questo vuol dire Palermo – era in continuo fermento.
In questo contesto pulsante di nuove energie e vibrante di emozioni, nasce Orto Capovolto, “la cooperativa sociale che vuole valorizzare il volto della città attraverso il verde commestibile” – questa la definizione che danno di loro stessi sul sito web del progetto. Ed era bello girare un angolo e stupirsi di trovarsi di fronte a cassoni pieni di terra con tanti ortaggi e fiori dentro. Succedeva spesso, in particolare durante Manifesta 12, la biennale di arte contemporanea che ha messo a soqquadro Palermo; c’era un progetto tutto curato da Orto Capovolto chiamato “Palermo, la città tutta orto”, dove gli orti urbani sono stati disseminati per il centro storico e non solo.
Ma come nasce l’idea di Orto Capovolto e con quali finalità? Ha origine dall’incontro di un architetto – Angelica – e un educatore ambientale – Giorgio –, che insieme immaginano una città più verde. Nel 2013 Angelica propone a un cliente di realizzare un orto sul tetto della sua casa e così inizia ad appassionarsi all’agricoltura urbana. Giorgio è convinto che solo partendo dalle nuove generazioni si può immaginare un futuro più sostenibile. Decidono quindi di aprire una startup – correva l’anno 2015 – con l’obiettivo di creare un orto diffuso a Palermo, per occuparsi tanto di progettazione e realizzazione di orti urbani, quanto di educazione ambientale e alimentare nelle scuole e non solo.

«Coltivare un orto in città non significa solo produrre la propria cena senza pesticidi», spiega Angelica Agnello. «Significa anche e soprattutto, imparare l’importanza della biodiversità, la stagionalità dei prodotti e concetti chiave come il chilometro zero, la filiera corta e l’importanza di tutti gli elementi naturali».
La cosa che i fondatori di Orto Capovolto ritengono più importante sono i progetti di riqualificazione urbana, che sono realizzati sempre in partnership con altre realtà, come associazioni e comitati di quartiere. Attraverso questi progetti cercano di coinvolgere un target che sia il più ampio possibile, principio che cozza con la pandemia e infatti da circa un anno questo filone di attività è fermo.
Ma di certo il covid non può fermare l’immaginazione: «In questo momento – spiega Angelica – abbiamo sospeso quasi del tutto le attività; manteniamo pochi progetti, come quello in partenza al Malaspina, (il carcere minorile di Palermo, ndr) dal titolo “Le buone erbe”. La maggior parte delle nostre iniziative era con i bambini. Abbiamo deciso di rimanere quasi del tutto fermi aspettando tempi migliori perché i laboratori erano dentro ludoteche o scuole. Sono in stand-by anche i progetti di riqualificazione urbana, che generalmente partono in primavera. Ma la grande bellezza è il coinvolgimento di tanta gente, cosa che per adesso è impensabile. Facciamo l’indispensabile e aspettiamo l’anno prossimo». Va molto bene però la linea di design di Orto Capovolto, prodotti legati al giardinaggio come grembiuli da orto o le bombe di semi.

Una delle azioni che più sono rimaste impresse nella memoria della città è sicuramente l’intervento su Salita Raffadali, che per un periodo è stata chiusa al traffico, colorata e addobbata con alberi, fiori e ortaggi. Un intervento di riqualificazione che ha avuto una eco nazionale, ma che adesso rappresenta una grandissima delusione per Orto Capovolto e anche per Sos Ballarò, il comitato di quartiere: «È stato un intervento che sarebbe dovuto durare solo quattro settimane – aggiunge Angelica –, poi è piaciuto a tutti e si era deciso di farlo diventare permanente, ma non è stato così, l’amministrazione è scomparsa e la strada è tornata carrabile. Molto spesso i giardini che riqualifichiamo vengono abbandonati, per questo è importante fare innamorare i residenti del progetto».
Un intervento molto positivo è stato invece quello fatto alla Kalsa, in vicolo del Pallone: «Qui gli abitanti si sono messi davvero in gioco e hanno continuato a interagire con il giardino aggiungendo dettagli, come la statua di una madonnina; anche la vicina chiesa se ne prende cura, ha anche celebrato delle messe lì, all’aperto».
«Quello che ci manca di più è lavorare con i bambini», conclude Angelica. «Una cosa che vogliamo assolutamente fare appena torneremo alla vita di prima è mappare le aree urbane di Palermo non destinate a ospitare strutture e infrastrutture e che quindi possano essere dei luoghi di aggregazione dove far nascere delle aree verde e dei giardini condivisi».
fonte: www.italiachecambia.org
Ma come nasce l’idea di Orto Capovolto e con quali finalità? Ha origine dall’incontro di un architetto – Angelica – e un educatore ambientale – Giorgio –, che insieme immaginano una città più verde. Nel 2013 Angelica propone a un cliente di realizzare un orto sul tetto della sua casa e così inizia ad appassionarsi all’agricoltura urbana. Giorgio è convinto che solo partendo dalle nuove generazioni si può immaginare un futuro più sostenibile. Decidono quindi di aprire una startup – correva l’anno 2015 – con l’obiettivo di creare un orto diffuso a Palermo, per occuparsi tanto di progettazione e realizzazione di orti urbani, quanto di educazione ambientale e alimentare nelle scuole e non solo.

«Coltivare un orto in città non significa solo produrre la propria cena senza pesticidi», spiega Angelica Agnello. «Significa anche e soprattutto, imparare l’importanza della biodiversità, la stagionalità dei prodotti e concetti chiave come il chilometro zero, la filiera corta e l’importanza di tutti gli elementi naturali».
La cosa che i fondatori di Orto Capovolto ritengono più importante sono i progetti di riqualificazione urbana, che sono realizzati sempre in partnership con altre realtà, come associazioni e comitati di quartiere. Attraverso questi progetti cercano di coinvolgere un target che sia il più ampio possibile, principio che cozza con la pandemia e infatti da circa un anno questo filone di attività è fermo.
Ma di certo il covid non può fermare l’immaginazione: «In questo momento – spiega Angelica – abbiamo sospeso quasi del tutto le attività; manteniamo pochi progetti, come quello in partenza al Malaspina, (il carcere minorile di Palermo, ndr) dal titolo “Le buone erbe”. La maggior parte delle nostre iniziative era con i bambini. Abbiamo deciso di rimanere quasi del tutto fermi aspettando tempi migliori perché i laboratori erano dentro ludoteche o scuole. Sono in stand-by anche i progetti di riqualificazione urbana, che generalmente partono in primavera. Ma la grande bellezza è il coinvolgimento di tanta gente, cosa che per adesso è impensabile. Facciamo l’indispensabile e aspettiamo l’anno prossimo». Va molto bene però la linea di design di Orto Capovolto, prodotti legati al giardinaggio come grembiuli da orto o le bombe di semi.

Una delle azioni che più sono rimaste impresse nella memoria della città è sicuramente l’intervento su Salita Raffadali, che per un periodo è stata chiusa al traffico, colorata e addobbata con alberi, fiori e ortaggi. Un intervento di riqualificazione che ha avuto una eco nazionale, ma che adesso rappresenta una grandissima delusione per Orto Capovolto e anche per Sos Ballarò, il comitato di quartiere: «È stato un intervento che sarebbe dovuto durare solo quattro settimane – aggiunge Angelica –, poi è piaciuto a tutti e si era deciso di farlo diventare permanente, ma non è stato così, l’amministrazione è scomparsa e la strada è tornata carrabile. Molto spesso i giardini che riqualifichiamo vengono abbandonati, per questo è importante fare innamorare i residenti del progetto».
Un intervento molto positivo è stato invece quello fatto alla Kalsa, in vicolo del Pallone: «Qui gli abitanti si sono messi davvero in gioco e hanno continuato a interagire con il giardino aggiungendo dettagli, come la statua di una madonnina; anche la vicina chiesa se ne prende cura, ha anche celebrato delle messe lì, all’aperto».
«Quello che ci manca di più è lavorare con i bambini», conclude Angelica. «Una cosa che vogliamo assolutamente fare appena torneremo alla vita di prima è mappare le aree urbane di Palermo non destinate a ospitare strutture e infrastrutture e che quindi possano essere dei luoghi di aggregazione dove far nascere delle aree verde e dei giardini condivisi».
fonte: www.italiachecambia.org
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Orti urbani: utili, ma non sufficienti. Lo studio prospettico sulla città di Chicago
Per capire quanto fosse rilevante l’apporto degli orti impiantati nelle aree verdi disponibili e sui tetti, gli autori hanno preso in considerazione la produzione media di 18 nutrienti essenziali derivanti dai vegetali ma anche da fonti animali, e l’hanno messa a confronto con le dosi giornaliere pro capite stabilite dal Dipartimento dell’Agricoltura. Quindi hanno prefigurato due scenari: uno di controllo, simile alla realtà attuale e incentrato su coltivazioni e allevamenti industriali, e uno nel quale tutta la città sfrutti al massimo le coltivazioni urbane, e ricorra alle terre adiacenti. Quindi hanno calcolato quanto dovrebbe estendersi, in queste ultime, l’area coltivata per ottenere quantitativi sufficienti di nutrienti, e hanno così dimostrato che gli orti urbani non bastano. stato calcolato che le rese non sarebbero sufficienti a garantire se non una piccola parte del fabbisogno quotidiano di nutrienti essenziali per gli abitanti di una città come Chicago.
Gli orti urbani negli ultimi anni hanno conosciuto uno straordinario successo, accelerato dalla pandemia
A parte il paradosso di dover ricorrere a supplementi partendo dall’idea di disporre di prodotti più naturali e meno trattati, i quali alimenterebbero, a loro volta, coltivazioni e allevamenti industriali, i numero lasciano poco spazio ai dubbi. Orti e terrazzi sono utili da molti punti di vista, ma assai difficilmente rappresenteranno una soluzione. Oltre a tutto il resto – hanno ricordato gli autori – bisogna anche fare i conti con le scarse rese, perché le terre disponibili nelle città non sono certo le più adatte alle coltivazioni, e gli spazi quali i tetti possono essere sfruttati solo in misura limitata, a meno di non attuare profonde ristrutturazioni e di non ricorrere interamente a sistemi efficienti quali l’idroponica.
Ma lo studio ha anche un’altra conseguenza. Grazie all’analisi approfondita del fabbisogno di ben 28 nutrienti, può costituire un modello per chi vuole progettare orti urbani e, ancora di più, per i decisori che devono pianificare progetti più ampi. Se si tengono in conto le necessità nutrizionali di una certa popolazione (per esempio quella di un quartiere), si possono insediare colture mirate. In questo modo si possono ottenere raccolti bilanciati, che darebbero un contributo migliore all’autosufficienza della zona.
fonte: www.ilfattoalimentare.it
A parte il paradosso di dover ricorrere a supplementi partendo dall’idea di disporre di prodotti più naturali e meno trattati, i quali alimenterebbero, a loro volta, coltivazioni e allevamenti industriali, i numero lasciano poco spazio ai dubbi. Orti e terrazzi sono utili da molti punti di vista, ma assai difficilmente rappresenteranno una soluzione. Oltre a tutto il resto – hanno ricordato gli autori – bisogna anche fare i conti con le scarse rese, perché le terre disponibili nelle città non sono certo le più adatte alle coltivazioni, e gli spazi quali i tetti possono essere sfruttati solo in misura limitata, a meno di non attuare profonde ristrutturazioni e di non ricorrere interamente a sistemi efficienti quali l’idroponica.
Ma lo studio ha anche un’altra conseguenza. Grazie all’analisi approfondita del fabbisogno di ben 28 nutrienti, può costituire un modello per chi vuole progettare orti urbani e, ancora di più, per i decisori che devono pianificare progetti più ampi. Se si tengono in conto le necessità nutrizionali di una certa popolazione (per esempio quella di un quartiere), si possono insediare colture mirate. In questo modo si possono ottenere raccolti bilanciati, che darebbero un contributo migliore all’autosufficienza della zona.
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Innesto, l’orto urbano che riqualifica la periferia educando al verde
Innesto è un progetto di orti urbani a Torino che, in questi anni, sta coinvolgendo la cittadinanza per riscoprire insieme la vera “arte del coltivare”. Qui si recupera il legame con la terra, si educa al verde, si trascorre il tempo insieme, valorizzando un'area periferica della città grazie al potere della collettività.

Riqualificare aree cittadine, sottraendole alla speculazione edilizia, al degrado e all’inquinamento, realizzando orti urbani è già di per sé una risposta concreta a favore della collettività. A Torino c’è un’associazione che fa questo e molto di più: educa al verde, recuperando il legame con la terra e con i cicli della natura.
Come? «Quando all’inizio del 2015, ci siamo ritrovati a immaginare Innesto, – racconta Sara Ceraolo, co-fondatrice e segretario dell’associazione – abbiamo semplicemente pensato a che genere di opportunità di contatto con il verde avremmo voluto nella nostra città e, non trovandone di rispondenti ai nostri bisogni, abbiamo deciso di crearla da zero». L’individuazione dei bisogni è l’azione preliminare per eccellenza, necessaria per la realizzazione di qualsiasi progetto. La chiave per il successo.
La dimensione più innovativa di Innesto è proprio quella di non rientrare in una definizione canonica di “associazione di orticoltura”. Oltre alla sperimentazione nel campo della produzione orto-floro-vivaistica, Innesto si dedica allo sviluppo di progetti a sfondo sociale, finalizzati alla sensibilizzazione della collettività. «Dietro alla possibilità di coltivare un metro cubo di terra in mezzo alla città, – prosegue Sara – si apre automaticamente una dimensione di cittadinanza attiva». Ecco perché tutti i progetti di Innesto includono momenti di aggregazione, come workshop, gruppi di lettura nell’orto, aperitivi e merende.
«Il nostro tentativo – continua – è volto alla creazione di micro-comunità virtuose, ma si tratta di un processo lungo, che va continuamente alimentato». Le iniziative, sempre gratuite e aperte a tutti, creano occasioni di incontro tra gli ortolani che coltivano i cassoni negli spazi gestiti dall’associazione, i cittadini col pollice verde ma anche semplici

Inoltre, da ottobre 2019, gli ortolani del gruppo degli “Orti al Centro” hanno raccolto il testimone da Innesto e hanno iniziato ad autogestire il proprio spazio, rimanendo un gruppo informale con due referenti che oggi si interfacciano con il direttore del Parco Commerciale, che continua a coprire le spese del gruppo di ortolani poiché crede molto nel progetto.
Si può creare “un Innesto” in altre città? «Il nostro progetto principale, Orti Dora in Poi, è strettamente legato al contesto di Parco Dora, il territorio nel quale si sviluppa». Con una lettura sensibile, può certamente essere replicato in altri contesti, analizzanndo i caratteri specifici del luogo scelto.
Allora, diamoci da fare!
fonte: www.italiachecambia.org
RifiutiZeroUmbria - #DONA IL #TUO 5 X 1000 A CRURZ - Cod.Fis. 94157660542
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Riqualificare aree cittadine, sottraendole alla speculazione edilizia, al degrado e all’inquinamento, realizzando orti urbani è già di per sé una risposta concreta a favore della collettività. A Torino c’è un’associazione che fa questo e molto di più: educa al verde, recuperando il legame con la terra e con i cicli della natura.
Come? «Quando all’inizio del 2015, ci siamo ritrovati a immaginare Innesto, – racconta Sara Ceraolo, co-fondatrice e segretario dell’associazione – abbiamo semplicemente pensato a che genere di opportunità di contatto con il verde avremmo voluto nella nostra città e, non trovandone di rispondenti ai nostri bisogni, abbiamo deciso di crearla da zero». L’individuazione dei bisogni è l’azione preliminare per eccellenza, necessaria per la realizzazione di qualsiasi progetto. La chiave per il successo.
La dimensione più innovativa di Innesto è proprio quella di non rientrare in una definizione canonica di “associazione di orticoltura”. Oltre alla sperimentazione nel campo della produzione orto-floro-vivaistica, Innesto si dedica allo sviluppo di progetti a sfondo sociale, finalizzati alla sensibilizzazione della collettività. «Dietro alla possibilità di coltivare un metro cubo di terra in mezzo alla città, – prosegue Sara – si apre automaticamente una dimensione di cittadinanza attiva». Ecco perché tutti i progetti di Innesto includono momenti di aggregazione, come workshop, gruppi di lettura nell’orto, aperitivi e merende.
«Il nostro tentativo – continua – è volto alla creazione di micro-comunità virtuose, ma si tratta di un processo lungo, che va continuamente alimentato». Le iniziative, sempre gratuite e aperte a tutti, creano occasioni di incontro tra gli ortolani che coltivano i cassoni negli spazi gestiti dall’associazione, i cittadini col pollice verde ma anche semplici
curiosi.

Ortoterapia? In un certo senso sì, perché il verde risponde a un bisogno, che non è solo legato al contatto con la realtà naturale, ma rivela una profonda connessione con il desiderio di appartenenza a un gruppo, che si riconosce nella condivisione di conoscenze che rischiano di andare perdute.
Innesto fa parte di OrMe, rete degli orti metropolitani di Torino. Durante il lockdown, i decreti in vigore hanno impedito a tutti il raggiungimento dell’orto. Innesto però, insieme agli altri enti della rete, ha discusso con la Città di Torino e con tutti gli attori istituzionali per portare l’attenzione del governo nazionale e locale sul tema dell’orticoltura urbana.
Durante quest’emergenza sanitaria, presto trasformatasi in emergenza sociale, la povertà alimentare, si è presto manifestata e per alcuni l’orto sta rappresentando una chance in più di contribuire a portare sulla propria tavola prodotti freschi e a costi molto ridotti. I mesi di marzo e aprile, tra l’altro, sono fondamentali per la semina e l’impostazione dell’orto.
Dopo diversi tentativi e richieste, la Città di Torino il 20 aprile ha sbloccato gli accessi agli orti di proprietà (o in locazione) e il 10 maggio a quelli associativi (come Innesto), così gli ortolani hanno sono riusciti ad accedere nuovamente ai propri orti. L’organizzazione in rete con le altre realtà di orticoltura urbana ha dimostrato una fondamentale risorsa e punto di forza per l’interlocuzione con le autorità.
Innesto fa parte di OrMe, rete degli orti metropolitani di Torino. Durante il lockdown, i decreti in vigore hanno impedito a tutti il raggiungimento dell’orto. Innesto però, insieme agli altri enti della rete, ha discusso con la Città di Torino e con tutti gli attori istituzionali per portare l’attenzione del governo nazionale e locale sul tema dell’orticoltura urbana.
Durante quest’emergenza sanitaria, presto trasformatasi in emergenza sociale, la povertà alimentare, si è presto manifestata e per alcuni l’orto sta rappresentando una chance in più di contribuire a portare sulla propria tavola prodotti freschi e a costi molto ridotti. I mesi di marzo e aprile, tra l’altro, sono fondamentali per la semina e l’impostazione dell’orto.
Dopo diversi tentativi e richieste, la Città di Torino il 20 aprile ha sbloccato gli accessi agli orti di proprietà (o in locazione) e il 10 maggio a quelli associativi (come Innesto), così gli ortolani hanno sono riusciti ad accedere nuovamente ai propri orti. L’organizzazione in rete con le altre realtà di orticoltura urbana ha dimostrato una fondamentale risorsa e punto di forza per l’interlocuzione con le autorità.

Inoltre, da ottobre 2019, gli ortolani del gruppo degli “Orti al Centro” hanno raccolto il testimone da Innesto e hanno iniziato ad autogestire il proprio spazio, rimanendo un gruppo informale con due referenti che oggi si interfacciano con il direttore del Parco Commerciale, che continua a coprire le spese del gruppo di ortolani poiché crede molto nel progetto.
Si può creare “un Innesto” in altre città? «Il nostro progetto principale, Orti Dora in Poi, è strettamente legato al contesto di Parco Dora, il territorio nel quale si sviluppa». Con una lettura sensibile, può certamente essere replicato in altri contesti, analizzanndo i caratteri specifici del luogo scelto.
Allora, diamoci da fare!
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Orti Dipinti, il giardino condiviso che coltiva socialità e consapevolezza
In un'ex pista di atletica nel cuore di Firenze ha preso vita per iniziativa di Giacomo Salizzoni il progetto Orti Dipinti, community garden e orto urbano e didattico dove si coltivano relazioni e scelte alimentari consapevoli, scoprendo il giardinaggio urbano biologico e le sue applicazioni nella vita quotidiana e nella valorizzazione degli spazi cittadini.
Nel cuore di Firenze, più precisamente in via Borgo Pinti 76, c’è un orto urbano nel quale, oltre agli ortaggi e ai frutti, si coltivano relazioni sociali e idee, si scambiano conoscenze e si sperimentano nuove soluzioni. Stiamo parlando di Orti Dipinti – Community Garden 2.0 nata nel 2013 su iniziativa dell’architetto Giacomo Salizzoni.

Giacomo, dopo aver militato per alcuni anni nel Guerrilla Gardening, movimento di giardinaggio d’assalto che vede i comuni cittadini “assalire” le zone urbane in stato d’abbandono armati di vanghe, semi e piante, ha sentito la necessità di dare maggiore continuità al proprio impegno. «Volevo creare una sorta di presidio che rendesse possibile educare ad una maggiore consapevolezza della natura e ho visto nel format del Community Garden dei modelli interessanti da sperimentare e implementare», ci ha raccontato.
Scovato lo spazio – un’ex pista atletica – e trovato un accordo con l’amministrazione comunale e con la cooperativa Barberi che ne era fruitrice, Giacomo ha dunque iniziato a dare vita ad uno spazio verde laddove di terra non ce n’era, facendo uso di letti rialzati. In linea con lo stile Community Garden, ad oggi perlopiù luoghi d’incontro e di cultura, la socialità è stato un ingrediente fondamentale nell’esperienza di Orti Dipinti. Dunque pranzi, merende e aperitivi sociali, proiezioni e conferenze, laboratori e degustazioni – perché è vero che oggi le persone cercano luoghi nuovi nei quali incontrarsi e intessere relazioni sociali.
Allo stesso tempo, la didattica e la coltivazione di conoscenze hanno rivestito un ruolo centrale sotto forma di lezioni di orticoltura, ambiente e alimentazione, sperimentazioni sulla trasformazione degli scarti o sulle piante. Un prodotto che ad oggi ha sicuramente dato grandi soddisfazioni è stata l’ampolla sub-irrigante di terracotta, che sepolta nel terreno lo idrata dall’interno, consentendo un risparmio idrico fino al 70% senza sprechi – un sistema antichissimo e in uso ancora oggi in paesi come la Cina, il Pakistan, l’India e il Messico che Orti Dipinti ha saputo rispolverare.

Attualmente in Borgo Pinti 76 c’è fermento attorno alla cosiddetta “Erba della Madonna”, pianta dalle notevoli proprietà curative che ancora oggi non si sa bene come estrarre e replicare attraverso creme, gel o magari infusi. Nel Green Market di Orti Dipinti, fra sali aromatici, bombe di semi e vari altri prodotti originali, è già presente il sapone della madonna, e siamo fiduciosi che presto verranno collaudati ulteriori prodotti, sintesi della ricerca e del lavoro di coloro che animano Orti Dipinti. Ma le esperienze di ricerca e le sperimentazioni, in questo laboratorio a cielo aperto, non si fermano certo ai prodotti.
Giacomo, che stima molto il lavoro del botanico e scienziato di prestigio mondiale Stefano Mancuso, ci ha infatti raccontato l’aneddoto che si cela dietro alla più rigogliosa delle piante di limone presenti nel giardino. «Anni fa una nostra vicina ce la portò che non buttava foglie da due anni. Per altri due anni l’abbiamo tenuta e curata, ma è rimasta uno scheletro. Poi l’ho potata, l’ho dipinta e messa in una vasca scrivendo sotto “ALBERO DELLA GRATITUDINE: Scrivi qualcosa per cui sei grato e appendilo qui”. Le persone hanno colto l’invito, e nel giro di tre mesi la pianta si è rinvigorita e ha ricominciato a buttare le foglie, fino a diventare il limone migliore che abbiamo». Un indizio, questo, del fatto che il mondo naturale pare essere ben più sensibile di quanto siamo abituati a credere.
Interrogato sul futuro, Giacomo sembra avere le idee chiare: «La mia ambizione è quella di strutturare il più possibile questo luogo, cercando di fornirgli quella sostenibilità economica che permetterebbe il diffondersi e il consolidarsi di più realtà di questo tipo, così da generare di riflesso lavoro, buone pratiche e valori».
fonte: www.italiachecambia.org
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Nel cuore di Firenze, più precisamente in via Borgo Pinti 76, c’è un orto urbano nel quale, oltre agli ortaggi e ai frutti, si coltivano relazioni sociali e idee, si scambiano conoscenze e si sperimentano nuove soluzioni. Stiamo parlando di Orti Dipinti – Community Garden 2.0 nata nel 2013 su iniziativa dell’architetto Giacomo Salizzoni.

Giacomo, dopo aver militato per alcuni anni nel Guerrilla Gardening, movimento di giardinaggio d’assalto che vede i comuni cittadini “assalire” le zone urbane in stato d’abbandono armati di vanghe, semi e piante, ha sentito la necessità di dare maggiore continuità al proprio impegno. «Volevo creare una sorta di presidio che rendesse possibile educare ad una maggiore consapevolezza della natura e ho visto nel format del Community Garden dei modelli interessanti da sperimentare e implementare», ci ha raccontato.
Scovato lo spazio – un’ex pista atletica – e trovato un accordo con l’amministrazione comunale e con la cooperativa Barberi che ne era fruitrice, Giacomo ha dunque iniziato a dare vita ad uno spazio verde laddove di terra non ce n’era, facendo uso di letti rialzati. In linea con lo stile Community Garden, ad oggi perlopiù luoghi d’incontro e di cultura, la socialità è stato un ingrediente fondamentale nell’esperienza di Orti Dipinti. Dunque pranzi, merende e aperitivi sociali, proiezioni e conferenze, laboratori e degustazioni – perché è vero che oggi le persone cercano luoghi nuovi nei quali incontrarsi e intessere relazioni sociali.
Allo stesso tempo, la didattica e la coltivazione di conoscenze hanno rivestito un ruolo centrale sotto forma di lezioni di orticoltura, ambiente e alimentazione, sperimentazioni sulla trasformazione degli scarti o sulle piante. Un prodotto che ad oggi ha sicuramente dato grandi soddisfazioni è stata l’ampolla sub-irrigante di terracotta, che sepolta nel terreno lo idrata dall’interno, consentendo un risparmio idrico fino al 70% senza sprechi – un sistema antichissimo e in uso ancora oggi in paesi come la Cina, il Pakistan, l’India e il Messico che Orti Dipinti ha saputo rispolverare.

Attualmente in Borgo Pinti 76 c’è fermento attorno alla cosiddetta “Erba della Madonna”, pianta dalle notevoli proprietà curative che ancora oggi non si sa bene come estrarre e replicare attraverso creme, gel o magari infusi. Nel Green Market di Orti Dipinti, fra sali aromatici, bombe di semi e vari altri prodotti originali, è già presente il sapone della madonna, e siamo fiduciosi che presto verranno collaudati ulteriori prodotti, sintesi della ricerca e del lavoro di coloro che animano Orti Dipinti. Ma le esperienze di ricerca e le sperimentazioni, in questo laboratorio a cielo aperto, non si fermano certo ai prodotti.
Giacomo, che stima molto il lavoro del botanico e scienziato di prestigio mondiale Stefano Mancuso, ci ha infatti raccontato l’aneddoto che si cela dietro alla più rigogliosa delle piante di limone presenti nel giardino. «Anni fa una nostra vicina ce la portò che non buttava foglie da due anni. Per altri due anni l’abbiamo tenuta e curata, ma è rimasta uno scheletro. Poi l’ho potata, l’ho dipinta e messa in una vasca scrivendo sotto “ALBERO DELLA GRATITUDINE: Scrivi qualcosa per cui sei grato e appendilo qui”. Le persone hanno colto l’invito, e nel giro di tre mesi la pianta si è rinvigorita e ha ricominciato a buttare le foglie, fino a diventare il limone migliore che abbiamo». Un indizio, questo, del fatto che il mondo naturale pare essere ben più sensibile di quanto siamo abituati a credere.
Interrogato sul futuro, Giacomo sembra avere le idee chiare: «La mia ambizione è quella di strutturare il più possibile questo luogo, cercando di fornirgli quella sostenibilità economica che permetterebbe il diffondersi e il consolidarsi di più realtà di questo tipo, così da generare di riflesso lavoro, buone pratiche e valori».
fonte: www.italiachecambia.org
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Poty, l’orto verticale che permette di coltivare il proprio orto sul balcone
Il progetto è sviluppato da Hexagro, azienda hi-tech specializzata nel vertical farming che coniuga la ricerca tecnologica con progetti ad alto impatto sociale con l’obiettivo di cambiare gli attuali modelli di agricoltura.

Rispondere alla recente crisi causata dal Covid-19 in modo forte e concreto, per tracciare la rotta verso uno stile di vita più sostenibile e a contatto con la natura creando una community che condivide i medesimi valori. È questa la mission di Poty, prodotto appena lanciato da Hexagro azienda nata nel 2016 e da sempre impegnata ad implementare tecnologie di agricoltura verticale.Poty è un orto verticale fabbricato da materiali riciclati e riciclabili costruito per spazi outdoor anche contenuti, quali balconi o terrazzi, perfetto per essere installato in città. Come una sorta di lego, Poty si presenta come una struttura modulabile verticalmente composta da diversi vasi a quadrifoglio a forma di fiore, che possono contenere fino a 40 piante nella sua “taglia” più grande. Con Poty, infatti, è possibile coltivare piccoli frutti, verdure a foglia e verdure normali e piante aromatiche stagionali.
Una soluzione pensata anche per chi teme di non avere il pollice verde necessario per mettersi alla prova e coltivare autonomamente sul proprio balcone. Poty presenta, infatti, un sistema di irrigazione autonomo, che basterà assemblare guidati dall’assistente digitale integrato. L’orto verticale di Hexagro infatti non è una semplice struttura di vasi bensì è una vera e propria piattaforma dove è presente un chatbot che guida l’utente nelle varie fasi della coltivazione, dando, inoltre, consigli in base a come ci si sente in quel momento. L’assistente digitale infatti, per favorire la ricerca del benessere, consiglia ove richiesto diverse attività di giardinaggio che si possono realizzare con Poty, con l’obiettivo di incrementare il benessere sia mentale che fisico. E se i frutti tardano ad arrivare o le foglie della propria pianticella ingialliscono, basta scattare una foto, inviarla al chatbot ed un agronomo di Hexagro saprà dare il suggerimento giusto. In ultimo suggerisce tutto ciò che serve per coltivare: il catalogo è in costante aggiornamento e arriverà a contare ad oltre 100 varietà di piante entro settembre, e soprattutto come utilizzarle in cucina.
Ogni componente di Poty è realizzato in metallo o in plastica riciclata, l’obiettivo è sviluppare un modello di economia circolare per combattere gli sprechi e riutilizzare ogni materiale. Più in generale Poty punta a creare una community di persone unite dal medesimo stile di vita. Permettere quindi a tutti di potersi coltivare da soli prodotti non sempre reperibili sul mercato, sfruttando spazi minimi, e creando dei veri e propri urban farmer che possono connettersi tra loro, scambiarsi buone pratiche di coltivazione così come i prodotti coltivati o coltivare addirittura insieme.
Non manca poi l’aspetto sociale, che da sempre investe ogni progetto sviluppato con Hexagro. Per ogni Poty venduto l’azienda installa nuovi moduli da installare in progetti sociali attraverso Hexagro Siembra Vertical. Il progetto, attualmente particolarmente attivo in Colombia con il supporto della NGO Fundaces, ha come obiettivo quello di supportare le comunità più vulnerabili al cambiamento climatico e che hanno maggiori difficoltà nell’adottare pratiche di agricoltura sostenibile, attraverso l’installazione di sistemi di vertical farming.
Poty è già disponibile al prezzo di lancio di 149 euro fino a fine luglio.
fonte: www.greencity.it
#RifiutiZeroUmbria - #DONA IL #TUO 5 X 1000 A CRURZ - Cod.Fis. 94157660542
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Rispondere alla recente crisi causata dal Covid-19 in modo forte e concreto, per tracciare la rotta verso uno stile di vita più sostenibile e a contatto con la natura creando una community che condivide i medesimi valori. È questa la mission di Poty, prodotto appena lanciato da Hexagro azienda nata nel 2016 e da sempre impegnata ad implementare tecnologie di agricoltura verticale.Poty è un orto verticale fabbricato da materiali riciclati e riciclabili costruito per spazi outdoor anche contenuti, quali balconi o terrazzi, perfetto per essere installato in città. Come una sorta di lego, Poty si presenta come una struttura modulabile verticalmente composta da diversi vasi a quadrifoglio a forma di fiore, che possono contenere fino a 40 piante nella sua “taglia” più grande. Con Poty, infatti, è possibile coltivare piccoli frutti, verdure a foglia e verdure normali e piante aromatiche stagionali.
Una soluzione pensata anche per chi teme di non avere il pollice verde necessario per mettersi alla prova e coltivare autonomamente sul proprio balcone. Poty presenta, infatti, un sistema di irrigazione autonomo, che basterà assemblare guidati dall’assistente digitale integrato. L’orto verticale di Hexagro infatti non è una semplice struttura di vasi bensì è una vera e propria piattaforma dove è presente un chatbot che guida l’utente nelle varie fasi della coltivazione, dando, inoltre, consigli in base a come ci si sente in quel momento. L’assistente digitale infatti, per favorire la ricerca del benessere, consiglia ove richiesto diverse attività di giardinaggio che si possono realizzare con Poty, con l’obiettivo di incrementare il benessere sia mentale che fisico. E se i frutti tardano ad arrivare o le foglie della propria pianticella ingialliscono, basta scattare una foto, inviarla al chatbot ed un agronomo di Hexagro saprà dare il suggerimento giusto. In ultimo suggerisce tutto ciò che serve per coltivare: il catalogo è in costante aggiornamento e arriverà a contare ad oltre 100 varietà di piante entro settembre, e soprattutto come utilizzarle in cucina.
Ogni componente di Poty è realizzato in metallo o in plastica riciclata, l’obiettivo è sviluppare un modello di economia circolare per combattere gli sprechi e riutilizzare ogni materiale. Più in generale Poty punta a creare una community di persone unite dal medesimo stile di vita. Permettere quindi a tutti di potersi coltivare da soli prodotti non sempre reperibili sul mercato, sfruttando spazi minimi, e creando dei veri e propri urban farmer che possono connettersi tra loro, scambiarsi buone pratiche di coltivazione così come i prodotti coltivati o coltivare addirittura insieme.
Non manca poi l’aspetto sociale, che da sempre investe ogni progetto sviluppato con Hexagro. Per ogni Poty venduto l’azienda installa nuovi moduli da installare in progetti sociali attraverso Hexagro Siembra Vertical. Il progetto, attualmente particolarmente attivo in Colombia con il supporto della NGO Fundaces, ha come obiettivo quello di supportare le comunità più vulnerabili al cambiamento climatico e che hanno maggiori difficoltà nell’adottare pratiche di agricoltura sostenibile, attraverso l’installazione di sistemi di vertical farming.
Poty è già disponibile al prezzo di lancio di 149 euro fino a fine luglio.
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A Torino una vecchia fabbrica si trasforma in orto urbano per le api
Nel quartiere di Mirafiori sud, a Torino, sorge un vecchio edificio industriale, da molti anni dismesso. Dal suo recupero sta nascendo il progetto Orto Wow, non un semplice orto urbano, bensì un’oasi naturale dove si coltivano piante mellifere capaci di attirare le api, che qui potranno contribuire a creare biodiversità in città e stimolare l’apicultura urbana, coinvolgendo i residenti nella cura di questo splendido angolo di natura.

Nel bel mezzo del quartiere di Mirafiori sud, circondata da palazzi ed edifici industriali sorgerà una nuova casa che, a differenza di quelle del circondario, avrà delle ospiti d’eccezione: le api. Ci troviamo in via Onorato Vigliani e proprio qua si trova un vecchio complesso abbandonato, precedentemente adibito alla meccanizzazione agricola e ora in fase di riconversione, che ci dimostra come anche le zone più industriali possono diventare un luogo dove la natura riconquista i suoi spazi.
Tutto questo grazie al contributo di Elena Carmagnani ed Emanuela Saporito, fondatrici di Orti Alti, associazione che, come vi abbiamo raccontato in un precedente articolo, stanno diffondendo a Torino la cultura del verde, attraverso la realizzazione di orti urbani sui tetti di edifici e palazzi.
Qui sta nascendo Orto Wow, con uno speciale giardino in cassoni per piante impollinatrici, un tetto verde coltivato a prato naturale e un grande apiario, per diffondere l’apicoltura nelle nostre città. Il pezzo forte del progetto è il “pollinator garden”, un giardino formato da 16 cassoni in legno disposti a creare percorsi e zone di sosta. Come ci spiegano Elena ed Emanuela, «In questi cassoni è in corso la semina e la piantumazione di piante mellifere, ovvero piante che, insieme al tetto verde, costituiranno il “pascolo” delle api e di altri insetti impollinatori».
Le piante mellifere coltivate, definite in collaborazione con il dipartimento di agronomia dell’Università di Torino, prevedono la semina di molteplici varietà di piante molto apprezzate dalle api come salvia, calendula, tarassaco, borraggine, papavero, senape selvatica, giglio, fiordaliso e iperico, oltre che il trapianto di timo, erba cipollina e menta. «Al suo interno si sperimenta l’utilizzo del “new soil”, un nuovo suolo rigenerato e creato per inserire terreno fertile nei parchi urbani che sono nati dall’abbandono di aree industriali, spesso di scarsa qualità e inadatto a qualsiasi uso».

La realizzazione di Orto Wow rientra nell’ambito di ProGiReg, un progetto europeo finalizzato a sperimentare soluzioni “nature based” per la rigenerazione urbana e sociale delle città. Questi primi interventi infatti vanno nella direzione di avviare la riqualificazione di un complesso abbandonato che può essere rigenerato a partire da una sua nuova vocazione green.
L’apiario è poi parte integrante del progetto e sarà curato dall’associazione Parco del Nobile che da molti anni si occupa di apicultura urbana. L’integrazione dell’allevamento di api per la produzione di miele urbano con la realizzazione di orti e giardini melliferi è fortemente perseguita da OrtiAlti in molte sue realizzazioni. Come ci viene spiegato da Elena ed Emanuela, «Le piante mellifere si combinano perfettamente con le piante orticole e nel caso dell’Orto Wow l’inserimento delle attività di apicultura rientra anche in un programma di Science Education che riguarda tutto il progetto. Inoltre, la presenza del mercato dei produttori di Coldiretti che qui si svolge, può essere messa in relazione con la produzione del miele WOW per innescare micro-economie di quartiere».

La fabbrica dismessa diventerà in questo modo un vero e proprio corridoio ecologico per favorire nuove connessioni e contribuire a riequilibrare gli ecosistemi naturali. Come ci viene spiegato, «Un corridoio ecologico è un’area verde studiata per preservare specie di animali e di piante, permettendo il passaggio graduale di animali e semi da un habitat all’altro. La possibilità di realizzare queste infrastrutture verdi all’interno delle città è fondamentale poichè permette di ripristinare la biodiversità biologica, cioè la variabilità di tutti gli organismi viventi e degli ecosistemi di cui fanno parte».
E saranno proprio gli abitanti del quartiere a prendersi cura e a mantenere il pollinator garden, occupandosi dei cassoni e dell’area dedicata all’orto, utilizzando lo spazio verde per lo svolgimento di attività ludiche. Il tutto grazie alla Fondazione Mirafiori che a pochi passi gestisce la Casa nel Parco, casa del quartiere di Mirafiori sud.

«Purtroppo la situazione Covid ha impedito di partire con il calendario di attività programmate da questo giugno e le iniziative sono state rinviate alla prossima primavera. Intanto però è iniziato un lavoro per la proposta di un patto di collaborazione per la cura dell’area che mette insieme la Fondazione Mirafiori, l’associazione Parco del nobile (che si occupa delle api), Coldiretti e un gruppo informale di cittadini appassionati di api e biodiversità che si chiama Comunità degli Impollinatori Metropolitani».
L’obiettivo è di arrivare nei prossimi mesi alla firma di un patto con la Città per la gestione del giardino in cassoni, avendo a disposizione anche dei locali dell’edificio dove svolgere attività formative intorno ai temi della biodiversità e dell’apicultura urbana.
fonte: https://www.italiachecambia.org
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Nel bel mezzo del quartiere di Mirafiori sud, circondata da palazzi ed edifici industriali sorgerà una nuova casa che, a differenza di quelle del circondario, avrà delle ospiti d’eccezione: le api. Ci troviamo in via Onorato Vigliani e proprio qua si trova un vecchio complesso abbandonato, precedentemente adibito alla meccanizzazione agricola e ora in fase di riconversione, che ci dimostra come anche le zone più industriali possono diventare un luogo dove la natura riconquista i suoi spazi.
Tutto questo grazie al contributo di Elena Carmagnani ed Emanuela Saporito, fondatrici di Orti Alti, associazione che, come vi abbiamo raccontato in un precedente articolo, stanno diffondendo a Torino la cultura del verde, attraverso la realizzazione di orti urbani sui tetti di edifici e palazzi.
Qui sta nascendo Orto Wow, con uno speciale giardino in cassoni per piante impollinatrici, un tetto verde coltivato a prato naturale e un grande apiario, per diffondere l’apicoltura nelle nostre città. Il pezzo forte del progetto è il “pollinator garden”, un giardino formato da 16 cassoni in legno disposti a creare percorsi e zone di sosta. Come ci spiegano Elena ed Emanuela, «In questi cassoni è in corso la semina e la piantumazione di piante mellifere, ovvero piante che, insieme al tetto verde, costituiranno il “pascolo” delle api e di altri insetti impollinatori».
Le piante mellifere coltivate, definite in collaborazione con il dipartimento di agronomia dell’Università di Torino, prevedono la semina di molteplici varietà di piante molto apprezzate dalle api come salvia, calendula, tarassaco, borraggine, papavero, senape selvatica, giglio, fiordaliso e iperico, oltre che il trapianto di timo, erba cipollina e menta. «Al suo interno si sperimenta l’utilizzo del “new soil”, un nuovo suolo rigenerato e creato per inserire terreno fertile nei parchi urbani che sono nati dall’abbandono di aree industriali, spesso di scarsa qualità e inadatto a qualsiasi uso».

La realizzazione di Orto Wow rientra nell’ambito di ProGiReg, un progetto europeo finalizzato a sperimentare soluzioni “nature based” per la rigenerazione urbana e sociale delle città. Questi primi interventi infatti vanno nella direzione di avviare la riqualificazione di un complesso abbandonato che può essere rigenerato a partire da una sua nuova vocazione green.
L’apiario è poi parte integrante del progetto e sarà curato dall’associazione Parco del Nobile che da molti anni si occupa di apicultura urbana. L’integrazione dell’allevamento di api per la produzione di miele urbano con la realizzazione di orti e giardini melliferi è fortemente perseguita da OrtiAlti in molte sue realizzazioni. Come ci viene spiegato da Elena ed Emanuela, «Le piante mellifere si combinano perfettamente con le piante orticole e nel caso dell’Orto Wow l’inserimento delle attività di apicultura rientra anche in un programma di Science Education che riguarda tutto il progetto. Inoltre, la presenza del mercato dei produttori di Coldiretti che qui si svolge, può essere messa in relazione con la produzione del miele WOW per innescare micro-economie di quartiere».

La fabbrica dismessa diventerà in questo modo un vero e proprio corridoio ecologico per favorire nuove connessioni e contribuire a riequilibrare gli ecosistemi naturali. Come ci viene spiegato, «Un corridoio ecologico è un’area verde studiata per preservare specie di animali e di piante, permettendo il passaggio graduale di animali e semi da un habitat all’altro. La possibilità di realizzare queste infrastrutture verdi all’interno delle città è fondamentale poichè permette di ripristinare la biodiversità biologica, cioè la variabilità di tutti gli organismi viventi e degli ecosistemi di cui fanno parte».
E saranno proprio gli abitanti del quartiere a prendersi cura e a mantenere il pollinator garden, occupandosi dei cassoni e dell’area dedicata all’orto, utilizzando lo spazio verde per lo svolgimento di attività ludiche. Il tutto grazie alla Fondazione Mirafiori che a pochi passi gestisce la Casa nel Parco, casa del quartiere di Mirafiori sud.

«Purtroppo la situazione Covid ha impedito di partire con il calendario di attività programmate da questo giugno e le iniziative sono state rinviate alla prossima primavera. Intanto però è iniziato un lavoro per la proposta di un patto di collaborazione per la cura dell’area che mette insieme la Fondazione Mirafiori, l’associazione Parco del nobile (che si occupa delle api), Coldiretti e un gruppo informale di cittadini appassionati di api e biodiversità che si chiama Comunità degli Impollinatori Metropolitani».
L’obiettivo è di arrivare nei prossimi mesi alla firma di un patto con la Città per la gestione del giardino in cassoni, avendo a disposizione anche dei locali dell’edificio dove svolgere attività formative intorno ai temi della biodiversità e dell’apicultura urbana.
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Orti urbani: potrebbero produrre frutta e verdura a sufficienza per il 15% degli abitanti della città. Basta coltivare il 10% delle aree verdi
La produzione di frutta e verdura nelle grandi città potrebbe crescere molto, aiutando così i cittadini a dipendere di meno dai grandi circuiti produttivi internazionali: se si dedicasse a questo scopo il 10% degli spazi disponibili, si potrebbe facilmente arrivare a coprire il fabbisogno giornaliero di frutta e verdura del 15% della popolazione urbana. Le stime arrivano dall’Institute for Sustainable Food dell’Università di Sheffield, in Regno Unito, che ha pubblicato su Nature Food una serie di numeri e di valutazioni molto interessanti relativi alla stessa città.
Nella città inglese i giardini, i parchi, le aiuole ai bordi delle strade, gli orti urbani e quelli sui tetti coprono infatti circa il 45% della superficie comunale, una percentuale simile a quella che si riscontra in molte altre città britanniche. Nello specifico, gli orti ricoprono l’1,3% dello spazio, mentre i giardini delle case il 38%. Inoltre ci sarebbe un altro 15% potenzialmente coltivabile, se si sfruttasse una parte di tutti gli altri spazi verdi esistenti. Se tutto ciò fosse dedicato alla produzione di cibo, la superficie coltivata passerebbe dagli attuali 23 a 98 metri quadrati per abitante. In questo modo si arriverebbe facilmente a produrre la frutta e la verdura necessaria a nutrire, con cinque porzioni al giorno, 709 mila persone, cioè più della popolazione attuale di Sheffield (il 122%). Restando su un più realistico 10% dei giardini delle case, sommato a un altro 10% degli spazi verdi e agli orti urbani già attivi, si raggiungerebbe il 15% del fabbisogno locale, cioè si fornirebbero frutta e verdura a oltre 87 mila persone.

Ma c’è di più. I ricercatori hanno infatti preso in considerazione anche un’altra modalità facilmente applicabile: la coltivazione idroponica o acquaponica (che comprende anche l’allevamento di pesci in un sistema circolare), da installare sui tetti piatti utilizzando materiali riciclati come supporto, energia rinnovabile per il fabbisogno giornaliero e acqua piovana. A Sheffield ci sono 32 ettari di tetti piatti utilizzabili, pari a 0,5 metri quadri per persona, ma data l’alta resa di questi metodi di coltivazione potrebbero comunque avere un impatto significativo sulla produzione urbana. Per esempio, l’86% dei pomodori attualmente consumati in città è importato, ma se anche solo il 10% dei tetti ospitasse una coltivazione idroponica, si potrebbe rifornire di pomodori l’8% della popolazione, per una delle cinque porzioni giornaliere di frutta e verdura. Un numero che arriverebbe al 60% se fossero utilizzati tre quarti dei tetti disponibili.
Il Regno Unito produce in patria solo il 16% della frutta e il 53% della verdura che consuma, e sta cercando di incrementare la produzione locale non solo a causa della Brexit ma perché vuole essere meno esposta a fattori che possono influire sull’approvvigionamento come quelli climatici, alle malattie veicolate dagli alimenti e alle oscillazioni economiche del mercato globale. Per questo gli autori concludono che “combinando lo sfruttamento delle superfici disponibili con le attuali tecnologie potremmo creare delle Smart Food Cities nelle quali le contadini urbani supporterebbero le loro comunità fornendo cibo sicuro e fresco”.
fonte: www.ilfattoalimentare.it
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A Roma un orto urbano per ogni quartiere: il progetto
L'idea è del gruppo Zappata Romana, che partecipa alla selezione dei progetti finanziabili da parte del Comune di Roma. La proposta che l'associazione avanza è quella di promuovere la realizzazione di un orto urbano per ogni quartiere della capitale. E i cittadini possono votare.
Coltivare e sviluppare nuovi spazi per una “Roma città giardino” promovendo un orto urbano per quartiere, almeno 100 in tutta Roma, nelle aree libere non costruite, nei parchi privi di manutenzione e nelle aree verdi abbandonate: è l'idea dell'associazione Zappata Romana, con cui partecipa alla selezione indetta da Roma Capitale nell'ambito del bilancio partecipativo che permetterà di individuare un certo numero di progetti finanziabili.
«Nella nostra idea, i cittadini che vorranno prendersi cura di una piccola parte del loro quartiere saranno agevolati e sostenuti - dice l'associazione - Le aree riqualificate in orti saranno intese come spazi pubblici, aperte a tutti, dove cittadini, scuole e associazioni potranno coltivare dei piccoli appezzamenti. Queste aree riqualificate miglioreranno i quartieri e contribuiranno a creare luoghi di socialità, integrazione, autoproduzione, biodiversità, sicurezza, educazione ambientale, promozione culturale, incontro, gioco, partecipazione e salute. Il nostro obiettivo è quello di recuperare aree e parchi abbandonati per creare occasioni di socialità e bellezza con il verde. E vorremmo che protagonisti di questo recupero fossero i cittadini di ogni età, le associazioni e le scuole».
L'opportunità che il Comune di Roma sta fornendo ai cittadini è tutt'altro che scontata. «I cittadini e l'Amministrazione decidono insieme, per la prima volta, come investire 20 milioni di euro, su tutto il territorio, per la tutela del decoro urbano» si legge sul sito di Roma Capitale. E i cittadini possono votare i progetti migliori fino al 21 luglio prossimo.
Le proposte che ottengono almeno il 5% dei like complessivamente ricevuti dai progetti che ricadono nello stesso Municipio sono ammesse alla fase successiva di valutazione da parte di un Tavolo dell’Amministrazione che ne esamina la fattibilità tecnico-finanziaria. A ottobre il processo partecipativo si conclude con le votazioni finali online, che porteranno alla formazione di 15 graduatorie, una per ogni Municipio, e di un’ulteriore graduatoria di carattere intermunicipale.
«Un giardino/orto condiviso è anzitutto uno spazio pubblico con finalità socioculturali e ambientali - spiegano da Zappata Romana - A differenza dei giardini pubblici tradizionali, i giardini e gli orti condivisi vedono protagonisti tutti i cittadini perché sono realizzati e/o gestiti dai cittadini stessi riuniti intorno ad un progetto comune per rendere migliore il loro quartiere. Molto spesso un giardino condiviso è lo spunto per fare altro: un luogo di incontro, far giocare i bimbi, avere un po’ di relax, praticare uno sport all’aperto, fare attività culturali, imparare una lingua, fare giardinaggio, coltivare un orto per l’autoconsumo, fare volontariato sociale o educazione ambientale. Il giardino condiviso può essere il fulcro di una comunità delineando nuovi modi di vivere la città».
fonte: http://www.ilcambiamento.it/
Città resilienti, l’agricoltura urbana può produrre il 10% del cibo mondiale
Una ricerca svela che, se implementata, l’agricoltura urbana può arrivare a produrre il 10% del cibo mondiale, causando allo stesso tempo una serie di altri benefici collaterali.
Città: agglomerati brulicanti di edifici, persone, attività. Un bacino che concentra problematiche, sfide, ma anche risorse per approcciare il futuro in un modo differente. In quest’ottica, per la prima volta sono stati mappati i benefici, attuali e potenziali, dell’agricoltura urbana.
Ad occuparsene un team internazionale di studiosi, coordinati dall’Arizona State University, che ha condotto una ricerca, pubblicata sulla rivista Earth’s Future. L’analisi ha indagato il potenziale globale dell’agricoltura urbana stilando una mappatura a partire dalle immagini satellitari di Google Earth, incrociate con dati demografici e meteorologici. Gli esperti hanno concluso che, messa in pratica nelle città di tutto il mondo, l’agricoltura urbana potrebbe produrre fino a 180 milioni di tonnellate di cibo all’anno, pari a circa il 10% della produzione globale di ortaggi, legumi, radici e tuberi.
I ricercatori hanno valutato, inoltre, i servizi ecosistemici che fornirebbero le coltivazioni nelle aree cittadine: riduzione dell’effetto isola di calore, deflusso delle acque piovane, fissazione dell’azoto, controllo dei parassiti e risparmio energetico. Una serie di effetti collaterali virtuosi, che possono rendere l’agricoltura urbana un comparto che vale 160 miliardi di dollari all’anno su scala globale.
“Non solo l’agricoltura urbana può rappresentare una quota importante della produzione alimentare globale, ma presenta una serie di benefici collaterali, a partire dagli impatti sociali”, ha affermato a questo proposito Matei Georgescu, professore di scienze geografiche e urbanistica presso l’Arizona State University. Gli stessi accademici spiegano che l’agricoltura urbana non sfamerà mai il mondo, ma la ricerca dimostra comunque un punto fondamentale: il capitale naturale nelle città può essere enormemente migliorato incentivando questo tipo di agricoltura, con benefici per i cittadini che vanno al di là dell’alimentazione in senso stretto.
Non a caso si parla di città resilienti, connubio che è insieme un obiettivo, una speranza e una necessità. Essere resilienti significa, infatti, avere gli strumenti necessari a superare con successo le difficoltà che si presentano. Una è -lo sottolinea l’UNEP– il riscaldamento globale. La questione alimentare, con milioni di persone che soffrono la fame da un lato, e tonnellate e tonnellate di cibo sprecato dall’altro, non è certo un problema di secondaria importanza.
Se si pensa, poi, che si sta assistendo una fase di urbanizzazione tale per cui entro il 2050 la percentuale di abitanti delle metropoli nel mondo lieviterà al 65%, diventa ancora più necessario puntare i riflettori sui grandi agglomerati, che devono diventare luogo privilegiato di trasformazione e avanguardistico veicolo di cambiamento.
Nell’ottica di avere città davvero resilienti, è giunta l’ora di implementare l’agricoltura urbana che, secondo una recente ricerca, può arrivare a produrre il 10% del cibo mondiale.
fonte: http://nonsoloambiente.it
La Guida Pratica alla Transizione è online!
Perché una guida introduttiva?
La rete internazionale di Transizione ha dieci anni di esperienza nel supportare iniziative e progetti ispirati a questo modello in più di 50 paesi, città, quartieri, organizzazioni. Negli anni, ci siamo fatti un’idea abbastanza chiara di cosa funziona e cosa non funziona, e vogliamo condividere questa conoscenza, in modo che possiate essere più efficaci possibile, il più velocemente possibile.
Abbiamo creato molte risorse per sostenere i gruppi nello sperimentare e mettere in pratica modelli di transizione. In questa guida di base abbiamo raccolto tutto ciò di cui avrete bisogno nel vostro viaggio per fare qualcosa di straordinario proprio là dove vivete. Pensate a questo come a una sorta di kit di avviamento al cambiamento sociale.
Prendetelo, mettetelo alla prova, divertitevi.
Comincia così il testo di questo agile volumetto, pubblicato dal Transition Network, tradotto e adattato per Transition Italia (grazie Cinzia, Deborah, Flavio, Francesca, Giovanni, Giulio, Marco e Nunzia!), che in 64 pagine, belle e colorate, riassume 10 anni di esperienze ed apprendimenti sulla Transizione. Come cominciare? Che progetti avviare? A cosa prestare attenzione? Che modelli di sviluppo per i gruppi? Che attività e risorse possono aiutare? E, ovviamente, ma che cos’è, la Transizione?
fonte: http://transitionitalia.it
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La città degli orti
“Bergamo città dei Mille Orti”, ovvero un sito su Facebook attraverso cui alcuni cittadini bergamaschi comunicano tra loro scambiandosi informazioni sulle esperienze, informazioni pratiche, risultati raggiunti, prospettive di sviluppo, e perché no? Anche stati d’animo, riguardanti la coltivazione di piccoli appezzamenti di terreno ricadenti nel suolo urbano bergamasco.
In poche parole, il gruppo “Orti nel Parco” è costituito da amici, tutti accomunati dall’hobby di “Cincinnato” che, nel 2013, si sono conosciuti in quanto tutti avevano partecipato a un bando indetto dal Comune di Bergamo relativo alla coltivazione, per un periodo di tre anni, di un orto comune, costituito da 16 piccoli appezzamenti di terreno, situato accanto al Monastero della Val Marina del Parco dei Colli di Bergamo.
Tale gruppo, oltre ad adottare il metodo biologico per la coltivazione del terreno, ha promosso anche iniziative di natura ambientale, rivolte a promuovere la cultura biologica come fonte di benessere personale, collettivo e a difesa dell’ecosistema.
Una tra le prime iniziative organizzate dagli anzidetti orticoltori è stato l’incontro sugli orti Urbani tenutosi nel Monastero della Valmarina nella primavera del 2016, per cercare di mappare gli orti collettivi e scolastici della città con l’intento di fare ordine attraverso una dettagliata documentazione fotografica dei piccoli poderi e, nel contempo, di comunicare, attraverso la rete web, con altri appassionati della terra per discutere di iniziative comuni.
Quest’anno però il bando è scaduto e non è stato più rinnovato dai nuovi membri del consiglio di amministrazione del Parco dei Colli.
Gli amici degli Orti nel Parco però non si sono fermati e hanno deciso di continuare la loro attività cercando altra terra da coltivare e organizzando un secondo incontro dal titolo: Bergamo città dei Mille Orti” che ha avuto luogo al refettorio dell’antico Monastero di Astino l’8 aprile u.s., nel corso del quale si è discusso sui nuovi orti urbani del Comune di Bergamo e sui progetti futuri dell’Orto botanico.
Ospite d’eccezione è stata Mary Clear, che ha presentato “Incredible Edible” – l’esperienza Inglese di Todmorden, la città autosufficiente in frutta e verdura biologiche.
Ha partecipato anche la Comunità del Mais Spinato di Gandino parlando della “Semina partecipata di mais antico del Nord Italia”.
L’incontro della mattinata si è concluso con un aperitivo offerto dal gruppo Orti nel Parco agli intervenuti, in una suggestiva cornice d’altri tempi, e in un contesto naturalistico ancora incontaminato.
fonte: http://comunivirtuosi.org
Buone pratiche contro gli impatti della globalizzazione
Il rapporto dell'Agenzia europea per l'ambiente, in collaborazione con
Eionet, rappresenta un primo tentativo di esplorare i concetti di
transizione e trasformazione sostenibile attraverso l’analisi di alcuni
casi studio
fonte: http://www.arpat.toscana.it
Il rapporto “Sustainability transitions: now for the long term” nasce dalla collaborazione fra l’Agenzia europea per l’ambiente (EEA) e la sua rete europea di partenariato Eionet;
rappresenta un primo tentativo di esplorare ciò che i concetti di
transizione e trasformazione sostenibile vogliano dire, in pratica, e di
come enti e istituzioni possano contribuire a sviluppare le conoscenze
necessarie per sostenere un cambiamento sistemico in Europa.
Gli impatti ambientali della globalizzazione sui sistemi di produzione e consumo stanno portando ad una crescente preoccupazione per la sostenibilità degli stili di vita che prevedono un alto consumo di risorse, mentre al contempo, in molti paesi, la più profonda crisi economica mai vista da generazioni ha avuto un impatto devastante per l’occupazione, il reddito e le risorse del settore pubblico.
I governi europei, e non solo, stanno provando a dare nuovo impulso alle loro economie, creando posti di lavoro e aumentando la produttività, mentre cercano di affrontare le sfide della sostenibilità come i cambiamenti climatici e il degrado degli ecosistemi.
La storia recente, tuttavia, suggerisce come sia altamente improbabile che questo si possa verificare entro i modelli di produzione e consumo attuali e anche l’EEA ha recentemente ribadito nei suoi rapporti che il progresso in Europa nel dissociare le pressioni ambientali dalla crescita economica degli ultimi anni è stata solo incrementale, piuttosto che radicale. Inoltre, questi guadagni sono stati solo parzialmente tradotti in una migliore capacità di recupero degli ecosistemi e benessere umano, per cui in un contesto globale in rapido cambiamento, le prospettive per i prossimi decenni sono preoccupanti.
Per questo, il raggiungimento degli obiettivi fissati nel programma dell’Unione Europea “Vivere bene entro i limiti del nostro pianeta” richiederà un deciso cambiamento dei percorsi di sviluppo; inoltre anche nell'iniziativa della Commissione Europea “Oltre il PIL“ viene sottolineato come solo uno sviluppo economico che includa la resilienza ambientale e che migliori la coesione sociale possa ambire a sostenere una popolazione di 9-10 miliardi di persone entro il 2050.
Molto resta ancora da fare per collegare gli interessi pubblici a quelli privati e un ruolo importante lo possono rivestire anche le reti quali EIONET che nel 2015, insieme all’EEA, ha istituito un gruppo di lavoro che ha elaborato un documento di lavoro e un questionario online che è stato somministrato a tutti i centri tematici di riferimento dei 39 paesi aderenti al network.
Dalle risposte sono stati presi in esame una serie di casi studio che sono stati presentati nel corso di 3 workshop organizzati dall'Agenzia europea per l'ambiente e dall'Agenzia per l'ambiente tedesca e che sono illustrati anche in questo report.
Tre esempi di casi studio
Da Brest: zero-rifiuti alimentari
Nel 2012 il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione su come evitare gli sprechi alimentari che in Francia ha portato all’approvazione, nel febbraio 2016, di una nuova legge che vieta la distruzione di cibo commestibile nei supermercati.
Il valore dei prodotti invenduti in Francia è stimato essere pari a 5,7 miliardi di euro per anno, per cui il problema dei rifiuti alimentari è da qualche anno al centro di molte iniziative, fra cui quella lanciata nel 2012 da due studenti della Business School (BBS) e della Facoltà di Ingegneria (ENIB) di Brest per affrontare il problema dei rifiuti alimentari nei supermercati.
I due studenti hanno identificato due esigenze specifiche:

Hanno perciò creato il sito Web e l'App Zero-gâchis (Zero-rifiuti) per fornire ai consumatori informazioni, in tempo reale, sui negozi aderenti e le riduzioni di prezzo applicate, mentre ai commercianti, Zero-gâchis dà l’opportunità di mantenere il prezzo “dinamico”. Inoltre è conveniente e facile da adottare anche per i negozi più piccoli e potenzialmente consente di attrarre nuovi clienti.
Si stima che fra il lancio di Zero-gâchis nel 2012 e Ottobre 2015, i consumatori abbiamo risparmiato un totale di 1,2 milioni di euro, per un totale di 315 tonnellate di prodotti salvati dalla distruzione - equivalenti a 630.000 pasti completi.
La rete di Zero-gâchis è ancora abbastanza piccola essendo composta da soli 89 punti vendita su un totale nazionale di 17.500 ma ha una forte presenza in Bretagna ed è in espansione in tutta la Francia, il Belgio e la Spagna.
Da Berlino: I giardini della principessa
Nell'estate del 2009, la società no-profit Nomadisch Grün (Verde nomade) ha lanciato l’iniziativa Prinzessinnengarten (I giardini della principessa) affittando 6.000 metri quadrati di deserto urbano nel quartiere di Kreuzberg a Berlino dove gli abitanti, dopo aver ripulito il sito dai rifiuti, hanno creato uno spazio aperto per “l’agricoltura mobile”.
Oggi diverse piante e verdure sono coltivate in sacchi di riso, grosse casse e containers e i giardini sono diventati un luogo popolare d'incontro per l'apprendimento condiviso sull’agricoltura urbana e i sistemi alimentari, così come sulla biodiversità e sulla vita urbana sostenibile.
Dal 2015 I giardini della principessa ospitano conferenze pubbliche, laboratori, corsi di cucina e proiezioni di film, inoltre la Nomadisch Grün ha contribuito a costruire circa 1.000 giardini nelle scuole, asili e altri luoghi.
Dalla Finlandia: Comuni uniti contro il gas serra
In Finlandia, i comuni stanno collaborando per frenare le loro emissioni di gas serra oltre gli obiettivi e programmi della UE. Il progetto “HINKU: i comuni verso zero-emissioni” riunisce autorità locali, imprese, esperti e cittadini per trovare soluzioni in grado di ridurre le emissioni, soprattutto nel settore alimentare, trasporti e alloggi. L’obiettivo è quello di abbattere, entro il 2020, le emissioni del 80% rispetto ai livelli del 2007.
Quella che era iniziata nel 2008 come un’aggregazione di cinque piccoli comuni con 36.000 abitanti è oggi una rete di 33 comuni per un totale di oltre 630.000 cittadini. I risultati sono positivi, con emissioni di gas serra ridotte dal 7-67% tra i Comuni HINKU, con una media del 20% e la maggior parte della riduzione è nella produzione di energia e nel consumo di energia per gli edifici comunali.
Gli impatti ambientali della globalizzazione sui sistemi di produzione e consumo stanno portando ad una crescente preoccupazione per la sostenibilità degli stili di vita che prevedono un alto consumo di risorse, mentre al contempo, in molti paesi, la più profonda crisi economica mai vista da generazioni ha avuto un impatto devastante per l’occupazione, il reddito e le risorse del settore pubblico.
I governi europei, e non solo, stanno provando a dare nuovo impulso alle loro economie, creando posti di lavoro e aumentando la produttività, mentre cercano di affrontare le sfide della sostenibilità come i cambiamenti climatici e il degrado degli ecosistemi.
La storia recente, tuttavia, suggerisce come sia altamente improbabile che questo si possa verificare entro i modelli di produzione e consumo attuali e anche l’EEA ha recentemente ribadito nei suoi rapporti che il progresso in Europa nel dissociare le pressioni ambientali dalla crescita economica degli ultimi anni è stata solo incrementale, piuttosto che radicale. Inoltre, questi guadagni sono stati solo parzialmente tradotti in una migliore capacità di recupero degli ecosistemi e benessere umano, per cui in un contesto globale in rapido cambiamento, le prospettive per i prossimi decenni sono preoccupanti.
Per questo, il raggiungimento degli obiettivi fissati nel programma dell’Unione Europea “Vivere bene entro i limiti del nostro pianeta” richiederà un deciso cambiamento dei percorsi di sviluppo; inoltre anche nell'iniziativa della Commissione Europea “Oltre il PIL“ viene sottolineato come solo uno sviluppo economico che includa la resilienza ambientale e che migliori la coesione sociale possa ambire a sostenere una popolazione di 9-10 miliardi di persone entro il 2050.
Molto resta ancora da fare per collegare gli interessi pubblici a quelli privati e un ruolo importante lo possono rivestire anche le reti quali EIONET che nel 2015, insieme all’EEA, ha istituito un gruppo di lavoro che ha elaborato un documento di lavoro e un questionario online che è stato somministrato a tutti i centri tematici di riferimento dei 39 paesi aderenti al network.
Dalle risposte sono stati presi in esame una serie di casi studio che sono stati presentati nel corso di 3 workshop organizzati dall'Agenzia europea per l'ambiente e dall'Agenzia per l'ambiente tedesca e che sono illustrati anche in questo report.
Tre esempi di casi studio
Da Brest: zero-rifiuti alimentari
Nel 2012 il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione su come evitare gli sprechi alimentari che in Francia ha portato all’approvazione, nel febbraio 2016, di una nuova legge che vieta la distruzione di cibo commestibile nei supermercati.
Il valore dei prodotti invenduti in Francia è stimato essere pari a 5,7 miliardi di euro per anno, per cui il problema dei rifiuti alimentari è da qualche anno al centro di molte iniziative, fra cui quella lanciata nel 2012 da due studenti della Business School (BBS) e della Facoltà di Ingegneria (ENIB) di Brest per affrontare il problema dei rifiuti alimentari nei supermercati.
I due studenti hanno identificato due esigenze specifiche:
- creare nei negozi delle aree dove trovare a colpo d’occhio i prodotti alimentari sottocosto perché vicini alla data di scadenza
- implementare e coordinare l’introduzione di tali spazi dedicati.
Hanno perciò creato il sito Web e l'App Zero-gâchis (Zero-rifiuti) per fornire ai consumatori informazioni, in tempo reale, sui negozi aderenti e le riduzioni di prezzo applicate, mentre ai commercianti, Zero-gâchis dà l’opportunità di mantenere il prezzo “dinamico”. Inoltre è conveniente e facile da adottare anche per i negozi più piccoli e potenzialmente consente di attrarre nuovi clienti.
Si stima che fra il lancio di Zero-gâchis nel 2012 e Ottobre 2015, i consumatori abbiamo risparmiato un totale di 1,2 milioni di euro, per un totale di 315 tonnellate di prodotti salvati dalla distruzione - equivalenti a 630.000 pasti completi.
La rete di Zero-gâchis è ancora abbastanza piccola essendo composta da soli 89 punti vendita su un totale nazionale di 17.500 ma ha una forte presenza in Bretagna ed è in espansione in tutta la Francia, il Belgio e la Spagna.
Da Berlino: I giardini della principessa
Nell'estate del 2009, la società no-profit Nomadisch Grün (Verde nomade) ha lanciato l’iniziativa Prinzessinnengarten (I giardini della principessa) affittando 6.000 metri quadrati di deserto urbano nel quartiere di Kreuzberg a Berlino dove gli abitanti, dopo aver ripulito il sito dai rifiuti, hanno creato uno spazio aperto per “l’agricoltura mobile”.
Oggi diverse piante e verdure sono coltivate in sacchi di riso, grosse casse e containers e i giardini sono diventati un luogo popolare d'incontro per l'apprendimento condiviso sull’agricoltura urbana e i sistemi alimentari, così come sulla biodiversità e sulla vita urbana sostenibile.
Dal 2015 I giardini della principessa ospitano conferenze pubbliche, laboratori, corsi di cucina e proiezioni di film, inoltre la Nomadisch Grün ha contribuito a costruire circa 1.000 giardini nelle scuole, asili e altri luoghi.
Dalla Finlandia: Comuni uniti contro il gas serra
In Finlandia, i comuni stanno collaborando per frenare le loro emissioni di gas serra oltre gli obiettivi e programmi della UE. Il progetto “HINKU: i comuni verso zero-emissioni” riunisce autorità locali, imprese, esperti e cittadini per trovare soluzioni in grado di ridurre le emissioni, soprattutto nel settore alimentare, trasporti e alloggi. L’obiettivo è quello di abbattere, entro il 2020, le emissioni del 80% rispetto ai livelli del 2007.
Quella che era iniziata nel 2008 come un’aggregazione di cinque piccoli comuni con 36.000 abitanti è oggi una rete di 33 comuni per un totale di oltre 630.000 cittadini. I risultati sono positivi, con emissioni di gas serra ridotte dal 7-67% tra i Comuni HINKU, con una media del 20% e la maggior parte della riduzione è nella produzione di energia e nel consumo di energia per gli edifici comunali.
fonte: http://www.arpat.toscana.it
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