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Il diseducatore globale

Foto tratta dal Floker di European Central Bank

Una parte dei processi di devastazione dell’ambiente provocati dai cambiamenti climatici sono ormai irreversibili. Lo dicono anche i governi, adesso. Tutti però lo sapevano da almeno quarant’anni e hanno fatto orecchie da mercante. Perché mercanti sono: i governi, le imprese, i finanziatori e tutti i divulgatori – più o meno scientifici – al loro servizio, che portano gigantesche responsabilità sulle falsità e la diseducazione che hanno fatto prosperare per decenni. Oggi in Europa, con la progressiva eclissi di Merkel e Macron, il principale rappresentante di questo obnubilamento di carattere quasi psichiatrico dell’intelligenza, che consiste nel nascondere la testa di fronte al disastro immanente, è Mario Draghi. Il suo Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, accoppiato agli altri fiumi di denaro che il governo ha deciso di spendere per “non lasciare indietro” nessuno degli aventi causa nella spartizione dei fondi europei, ha dimostrato di non voler deviare di una virgola da una visione che mette il PIL al primo posto. Tanto per ammettere che il pianeta brucia e che, per salvarlo, bisognerebbe fare scelte prima impensabili (e dunque ogni minuto è prezioso per poterlo spiegare al mondo intero) che fretta c’è?

L’IPCC, il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici, scrive...

Culturaintour, comunicare i cambiamenti climatici con il teatro















Culturaintour è una piccola associazione nata una decina di anni fa in provincia di Como, che tramite laboratori didattici, gite e visite guidate, favorisce l’accesso alla cultura e all’arte. Grande spazio è dato alla tematica ambientale, stimolando la partecipazione e la cittadinanza attiva. L’ultimo video è “notizie dal 2050“. Ne parliamo con Margherita Caruso, tra le fondatrici:

Come è nata questa associazione?

È stata un’attività che mi sono creata: avendo 3 bambini piccoli mi ha consentito di stare a casa e lavorare con il pc. Alle iniziative culturali li portavo con me e si divertivano un sacco e invogliavano la partecipazione dei loro amichetti o addirittura della famiglia. Le visite guidate sono sempre in treno, perché vogliamo promuovere il turismo con mezzi pubblici. In pratica comunichiamo ai partecipanti l’orario del treno, (tratta Milano Como), e lungo la corsa le persone salgono dalla stazione a loro più comoda: ci si ritrova tutti “sullo stesso treno nella prima carrozza di seconda classe” (Questa frase per noi e chi ci segue è ormai un rito!). Assieme a mia figlia abbiamo organizzato gite per far conoscere ai cittadini realtà che hanno messo in pratica interventi sostenibili, a favore della qualità della vita e a tutela dell’ambiente e quindi le mete sono aziende oppure centri urbani che rispettano questi criteri.

Come comunicate il tema della crisi ecologica e climatica?

Da due anni come Culturaintour abbiamo deciso di dedicarci sempre di più a tutto ciò che riguarda le tematiche dell’agenda 2030 e rivolgerci principalmente alle scuole. Organizziamo gite didattiche e laboratori innovativi collaborando con il mondo del teatro. Il valore aggiunto di questo progetto è la collaborazione con l’associazione We for the Planet fondata da Lorenzo Carbone con alcuni studenti di un liceo del territorio lariano. È un’associazione studentesca di 40-50 ragazzi attiva all’interno delle scuole superiori con l’obiettivo di sviluppare piani con le dirigenze scolastiche per abbattere l’impronta carbonica all’interno delle stesse strutture. “We for the planet” fuori dalla scuola , a livello locale, si impegna ad accrescere la consapevolezza sui cambiamenti climatici. Avevamo già pronti i laboratori per le scuole e abbiamo dovuto sospendere tutto per la pandemia. Le scuole erano chiuse e quindi assieme a Lorenzo di “We for the Planet”, abbiamo pensato al fare il video “Notizie dal 2050”.




Parlaci di questo video…

L’interprete del video non aveva mai approfondito queste tematiche perciò le abbiamo fornito il materiale su cui studiare e da cui ricavare il copione. La consegna per l’attrice era: fare un testo che comunicasse la situazione climatica mantenendo una sorta di leggerezza per stemperare un po’ l’effetto ansiogeno. Pare ci sia riuscita. Una curiosità: dalla decisione di fare il video fino alla realizzazione è trascorso quasi un anno e a causa del lockdown non ci siamo mai incontrati. Abbiamo fatto tutto comunicando via mail e videochiamate. Anche la registrazione del video è stata fatta in casa di Rossella visto che chi ha curato le riprese e il montaggio è il suo compagno di vita. Il risultato ci pare interessante e crediamo proprio che ci saranno altri video perché dopo la pubblicazione sui social abbiamo ricevuto proposte di collaborazione interessanti. Intanto siamo molto soddisfatti perché il noto scienziato Antonello Pasini, che spesso ha affrontato il tema a proposito della comunicazione della crisi climatica, ha pubblicato il video “Notizie dal 2050” sulla sua pagina Facebook.

fonte: www.envi.info




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L’alibi dello sviluppo sostenibile


L’idea che sia possibile mantenere e far crescere produzioni e consumi in modo “sostenibile”, con fonti energetiche e risorse rinnovabili – impedisce agli abitanti della Terra di vedere l’abisso: lo “stato di avanzamento” della crisi; la radicalità dei cambiamenti che impone; l’irreversibilità ormai raggiunta in molti campi: i ghiacciai e le calotte polari che si sciolgono; l’acqua dolce a disposizione, sempre meno; l’innalzamento dei mari non può essere fermato; la desertificazione di molte terre neppure; lo scioglimento del permafrost che accelera l’effetto serra. Si apre su due fronti – stili di vita e occupazione – un conflitto il cui esito non può essere delegato a un ministro: vanno contenuti i consumi superflui o quelli più necessari? Quelli che generano profitto per pochi o quelli che garantiscono vite decenti alla maggioranza? E soprattutto, si possono sostenere delle produzioni, non perché mettono capo a consumi necessari, ma solo perché generano occupazione?

Foto di JackieLou DL da Pixabay

La crisi climatica e quella ambientale (incendi e alluvioni) hanno trovato finalmente accesso ai giornali e ai servizi radio e Tv. Contro queste crisi l’Europa è corsa ai ripari: con il NextGenerationEU; l’Italia, con il PNRR; gli Stati uniti di Biden, con il rientro nell’accordo di Parigi; la Cina con piani che sfidano gli Usa.

Ma sono mancati ovunque informazione e confronto per coinvolgere produttori, consumatori, portatori di conoscenze, esperienze e capacità, tutte cose senza le quali è impensabile impostare e poi realizzare una svolta adeguata. Perché le cose da fare – e soprattutto quelle da non fare più – sono molte di più di ciò che i governi sono in grado di mettere in moto.

L’alibi dello “sviluppo sostenibile” – l’idea che sia possibile mantenere e far crescere produzioni e consumi in modo “sostenibile”, con fonti energetiche e risorse rinnovabili – impedisce agli abitanti della Terra di vedere l’abisso: lo “stato di avanzamento” della crisi; la radicalità dei cambiamenti che impone; l’irreversibilità ormai raggiunta in molti campi: i ghiacciai e le calotte polari che si sciolgono; l’acqua dolce a disposizione, sempre meno; l’innalzamento dei mari non può essere fermato; la desertificazione di molte terre neppure; lo scioglimento del permafrost che accelera l’effetto serra.

Contenere la temperatura mondiale sotto i 2°C è ormai una chimera (figurarsi 1,5!), ma va perseguito lo stesso senza remore. Perché molte delle misure di “mitigazione” della crisi climatica servono anche per “l’adattamento” alle condizioni molto più ostiche in cui si troveranno a vivere le future generazioni: un obiettivo che non può che tradursi in una “deglobalizzazione” (Walden Bello) guidata verso comunità il più possibile economicamente autonome. E’ in queste decisioni che cittadine e cittadini devono essere coinvolti. Ora.

Carbone, petrolio e gas vanno lasciati sottoterra; l’economia deve funzionare solo con fonti rinnovabili: con un’impiantistica diffusa a livello locale, in comunità più o meno estese, senza il gigantismo dell’economia fossile (pozzi, miniere, oleodotti e gasdotti, flotte e convogli, impianti di termogenerazione e raffinazione, ecc.) che la turbolenza climatica e le crisi sociali mettono sempre più a rischio; e senza le guerre (e gli armamenti) scatenate per accaparrarsi fonti energetiche inegualmente distribuite nel pianeta, e il cui concorso alle emissioni climalteranti non viene peraltro computato negli Indc.

L’efficienza è fondamentale, ma da sola non basta a sostenere una economia votata alla “crescita”. Consumi di energia e materiali dovranno essere ridotti all’essenziale, attingendo i secondi, per quanto possibile, da risorse rinnovabili e dal riciclo di prodotti scartati, dando spazio a manutenzione e riparazione dei beni durevoli. Ciò non può che riflettersi in un’altrettanta drastica riduzione dei consumi.



Qui si apre su due fronti – quello degli stili di vita e quello dell’occupazione – un conflitto il cui esito non può essere delegato a un ministro: vanno contenuti i consumi superflui (che oggi alimentano larga parte della domanda che sostiene l’economia) o quelli più necessari? Quelli che generano profitto per pochi o quelli che garantiscono vite decenti alla maggioranza? E soprattutto, si possono sostenere delle produzioni, non perché mettono capo a consumi necessari, ma solo perché generano occupazione? Luca Mercalli ha sollevato il problema a proposito dell’intento del ministro Cingolani di salvaguardare la cosiddetta motorvalley, il cui epicentro è la produzione di auto da corsa e di superlusso.

Scendendo di livello, l’auto condivisa per tutti forse sarà ancora praticabile, come complemento di un trasporto pubblico potenziato ed efficiente; ma l’auto individuale, ancorché elettrica e di modeste dimensioni, no. Se non si investe ora su questa prospettiva le comunità di domani si ritroveranno immobilizzate (e la bici non basterà certo a risolvere il problema).

Le conseguenze occupazionali sono pesanti – in parte lo si vede già ora – e la ricollocazione degli “esuberi” a nuove occupazioni richiede tempo e, sicuramente, riduzioni generali dell’orario di lavoro. Di un reddito alternativo c’è invece bisogno subito.

Il cibo dovrà essere prodotto il più vicino possibile a dove viene consumato, con un’agricoltura ecologica, di prossimità, multifunzionale, restituendo a bosco, foreste e riassetto idrogeologico gran parte del territorio oggi impegnato per gli allevamenti. Bisogna consumare molta meno carne.

Si ridimensionerà da sé, per i costi, la paura del contagio, il rischio di rimanere bloccati lontano da casa, la sostituzione con collegamenti on-line, il turismo, soprattutto quello transnazionale: vacanziero, di affari, sportivo, culturale, politico e persino religioso.

La misera fine delle Olimpiadi di Tokyo (che anticipa quella delle Olimpiadi invernali del 2026) è un campanello di allarme.

Ma il turismo alimenta milioni di imprese da cui dipende la vita di miliardi di persone. E, ma poi viene “il bello”, per molti le vacanze rappresentano l’unica compensazione alla sofferenza di dover lavorare tutto il resto dell’anno. E non vogliamo discuterne?

Guido Viale

fonte: comune-info.net


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Alessandra Prampolini, Wwf Italia. Per salvare la Terra dobbiamo fermare lo sfruttamento nascosto



Quest’anno il tema della Giornata mondiale della Terra è il ripristino degli ecosistemi. Ne abbiamo parlato con Alessandra Prampolini che, dallo scorso gennaio, è direttrice generale del Wwf Italia, prima donna a ricoprire questa carica nell’associazione. Dal consumo di cibo non più sostenibile all’agricoltura, dall’allevamento fino alla deforestazione, Alessandra Prampolini invita ad analizzare la crisi climatica e quella della biodiversità come fenomeni interconnessi, rispetto ai quali vanno messe in campo azioni integrate e trasversali. In quest’ottica, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che l’Italia si appresta a presentare a Bruxelles costituisce uno snodo fondamentale, perché le modalità con le quali decideremo di declinarlo tracceranno il solco lungo il quale ci muoveremo nei prossimi anni.

In occasione della Giornata mondiale della Terra il Wwf ha lanciato la campagna Food4Future. Qual è il messaggio principale che volete veicolare?

Dobbiamo modificare i sistemi agroalimentari sia dal punto di vista della produzione che da quello del consumo. Per come sono oggi, hanno impatti eccessivi sul pianeta e non sono efficienti: né per quanto riguarda la distribuzione – pensiamo al tema dei rifiuti e a quello della fame nel mondo –né per quanto concerne la salute, perché la gran parte del cibo che produciamo non è salutare. I sistemi agroalimentari vanno rivisti alla luce delle necessità umane e dei limiti del pianeta.

Alessandra Prampolini è direttore generale del Wwf Italia dallo scorso mese di gennaio © Giovanna Quaglieri

Quali sono gli impatti negativi sull’ecosistema di un consumo di cibo poco sostenibile?

Clima e biodiversità sono crisi planetarie che rappresentano due facce della stessa medaglia: l’80 per cento della perdita di biodiversità è causata dall’agricoltura e dall’allevamento, che sono responsabili anche del 24 per cento delle emissioni nocive. C’è poi il grande tema del consumo del suolo: abbiamo già consumato i tre quarti delle terre emerse e la prima causa della deforestazione sono proprio le nuove coltivazioni e l’allevamento, che già occupano il 40 per cento delle terre emerse. Un altro punto importante è quello dei cicli biogeochimici: consumiamo fertilizzanti minerali in numero dieci volte maggiore rispetto a 50 anni fa, e ciò si traduce in inquinamento, degrado del suolo e peggiore qualità delle acque. In proposito, l’uso scorretto della risorsa idrica ha portato a un consumo triplicato in 50 anni dell’acqua destinata all’agricoltura, senza dimenticare che l’80 per cento dei laghi italiani versa in uno stato ecologico non buono.
Abbiamo già consumato i tre quarti delle terre emerse e la prima causa della deforestazione sono proprio le nuove coltivazioni e l’allevamento, che già occupano il 40 per cento delle terre emerse.

Il tema della Giornata della Terra 2021 è il ripristino degli ecosistemi. In proposito, un vostro recente report ha quantificato gli impatti sulla deforestazione legati al commercio internazionale. Cosa emerge in particolare da questo lavoro?

Emerge l’enorme impatto della deforestazione importata, nascosta nelle nostre abitudini di consumo e in quello che mangiamo. Un tempo le foreste si utilizzavano principalmente per realizzare utensili in legno o per il riscaldamento domestico, mentre ora la produzione di soia, olio di palma e carne bovina è la principale responsabile della deforestazione. Il Wwf sta lavorando con l’Unione europea a una proposta legislativa per ridurre l’impronta dei consumi, ponendo limiti all’importazione di prodotti che abbiano origine forestale o che siano legati alla deforestazione. Quella nascosta pesa ormai per l’80 per cento rispetto alla deforestazione in tutto il mondo; l’Europa è seconda solo alla Cina in termini di deforestazione importata, e l’Italia figura al secondo posto in Europa.


La deforestazione dell’Amazzonia brasiliana © Mario Tama/Getty Images

Sempre in riferimento anche al cibo che arriva sulle nostre tavole, stiamo perdendo il prezioso esercito degli insetti impollinatori. Qual è il quadro e quali sono le conseguenze?

Si tratta di una delle crisi più drammatiche a livello globale, di un fenomeno che procede a velocità spaventosa e che spesso in passato è stato ignorato. Il numero dei volatori in Europa si è ridotto del 70 per cento negli ultimi 30 anni, e oggi a livello globale il 40 per cento degli insetti più comuni come api selvatiche, farfalle e coleotteri rischiano l’estinzione. Ben l’80 per cento delle 1.400 piante da cui si produce cibo nel mondo richiede l’impollinazione: il venir meno di questo servizio ecosistemico fa crollare le possibilità di portare in tavola alimenti che garantiscono la nostra salute e il nostro sostentamento. La riduzione di cibi legati a una dieta sana come frutta, verdura, noci e semi, aumenta i rischi di diabete e di malattie cardiovascolari; anche perché al contempo si assiste alla crescita di colture alimentari povere di nutrienti come riso, soia, mais e patate.

Tra le principali cause dell’estinzione degli impollinatori ci sono anche i cambiamenti climatici. A livello globale si sta facendo abbastanza per contrastarne gli effetti?

Ancora no, purtroppo. Come Unione europea ci siamo posti l’obiettivo della decarbonizzazione al 2050 e target progressivi intermedi con orizzonte al 2030. A fronte dell’Accordo di Parigi, manca però l’implementazione di un piano di azione vincolante per i diversi Paesi: gli obiettivi devono essere legati alla riduzione delle emissioni e a un aumento delle energie rinnovabili, e al contempo serve una chiara scansione temporale per il loro raggiungimento. Lo scorso anno non ha aiutato lo slittamento della Cop26 a causa dell’emergenza pandemica, perché avrebbe rappresentato un importante momento di confronto a cinque anni dagli accordi di Parigi.

L’agricoltura intensiva e il dissennato utilizzo di pesticidi hanno causato un allarmante declino degli insetti impollinatori, tra cui le api © Ingimage

Il Wwf ha rimarcato le “enormi prospettive di collaborazione” che esistono tra uomo e natura nel contrasto ai cambiamenti climatici.
Un aumento delle temperature causa una perdita di biodiversità, ma è bene rimarcare che è vero anche il contrario: ci sono tante specie animali che sono preziose alleate nel contrasto al cambiamento climatico. Faccio qualche esempio. Elefanti, gibboni e macachi svolgono un ruolo essenziale per diffondere i semi di molte specie arboree, e in questo modo contribuiscono all’espansione della biodiversità in habitat anche molto diversi fra di loro. In vita, le balene accumulano carbonio nei tessuti e quando muoiono lo depositano sui fondali marini: ogni balena adulta cattura in media 33 tonnellate di CO2. Anche le formiche, con il loro instancabile lavoro, generano una serie di reazioni chimiche che facilitano assorbimento della CO2 da parte del suolo: i suoli abitati da formiche hanno una capacità di assorbimento 300 volte superiore rispetto agli altri.

Il Next Generation Eu può rappresentare una svolta per la transizione ecologica dell’Europa?

Il Next Generation Eu è lo strumento del secolo e le modalità con le quali decideremo di utilizzarlo daranno l’impronta dei prossimi anni. Rappresenta insomma un’occasione unica e come Wwf stiamo chiedendo che l’approccio sia quello della transizione ecologica, a patto che lo sia realmente. Il primo principio è che il valore della natura deve essere, con un approccio trasversale, incorporato in tutti i processi decisionali.
In Italia si avrebbe entro il 2030 la creazione di 163 mila nuovi posti di lavoro grazie alle rinnovabili © Nicholas Doherty, Unsplash

Alessandra Prampolini, il 30 aprile l’Italia dovrà presentare il Piano nazionale di ripresa e resilienza all’Ue, su cosa si dovrebbe puntare con maggiore decisione?

Almeno il 37 per cento delle risorse deve essere destinato in azioni in difesa del clima e a tutela della biodiversità. In secondo luogo, l’azione di rilancio del nostro Paese deve prevedere un rinnovamento della strategia industriale, il cui fine ultimo deve essere la completa decarbonizzazione: ciò potrà avvenire solo con target di riduzione delle emissioni molto chiari e con investimenti massicci sulle energie rinnovabili. Va infine riqualificata la natura: in Italia abbiamo uno dei patrimoni più importanti in Europa, ma anni di consumo incauto di suolo hanno fatto sì che siano sopravvissute piccole isole di biodiversità, non collegate fra di loro, che oltretutto si stanno riducendo. Servono quindi azioni per la tutela, il ripristino e la riconnessione delle tante aree che il nostro Paese ospita: ciò a vantaggio non solo del turismo, ma anche di attività come l’agricoltura e la pesca.

fonte: www.lifegate.it



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Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma*

 














La Terra è un pianeta azzurro, osservando una foto dallo spazio ci accorgiamo che il nostro globo è ricoperto dall’acqua: mari e oceani occupano circa il 70% della superficie del nostro pianeta e ne determinano il clima e la temperatura, consentendo alla biodiversità di prosperare.

Essi fungono da sistema respiratorio per la Terra: producono ossigeno per la vita e assorbono anidride carbonica e calore. Sono uno dei fattori chiave per la vita sul nostro pianeta: così come una persona non può vivere senza cuore e polmoni in salute, la Terra non può sopravvivere senza oceani e mari sani.

Sono all’ordine del giorno notizie circa gli impatti profondi che le attività umane hanno sugli oceani: li inquiniamo scaricandovi plastiche, reti, scorie radioattive, mascherine (…). Disturbiamo le catene alimentari con pratiche di pesca dannose che devastano i fondali, li acidifichiamo immettendo nel ciclo carbonio derivato dall’utilizzo di combustibili fossili. Siamo inoltre causa di un riscaldamento che avanza a una velocità senza precedenti, attraverso le emissioni di gas serra. Permettiamo che tutto questo accada “a causa dell’idea, radicata nel passato, che gli oceani della Terra e le loro risorse fossero infiniti; e continuiamo a farlo nonostante le valutazioni scientifiche più aggiornate ci abbiano ripetutamente avvertito che era un grave errore. Probabilmente, la cosa peggiore è la rapida accelerazione di questi fenomeni.”

Non ci possiamo fermare a questa constatazione, dobbiamo comprendere che con il diffondersi della deforestazione, la pratica della monocoltura su vasta scala, la deviazione dei fiumi, l’industrializzazione, l’edificazione all’interno di molti ambienti sensibili e così via, l’attacco alla Terra è simultaneo e su più fronti a tutti i principali ambienti della pianeta (marini, di acqua dolce, terrestri e aerei). Tutto ciò non ha davvero precedenti nella storia della Terra. “Il tasso di estinzione dei nostri giorni mostra che il collasso di questi ecosistemi non si verificherà ‘prima o poi in futuro’, ma si sta già verificando”. Così scrive Rohling.

Dunque, comprendere come funzionano gli oceani e i mari è un primo passo necessario e fondamentale, e per capirlo non c’è niente di meglio che seguire il viaggio delineato da Eelco J. Rohling che in Oceani ricostruisce la storia del nostro mare fin dalla sua comparsa su questo pianeta, circa 4,4 miliardi di anni fa.

Il viaggio inizia dalla curiosità di un ragazzino – oggi paleoceanografo e docente all’Australian National University - che viveva in Olanda e rimase affascinato osservando quanto le reti a strascico dei pescatori “catturavano” sui fondali del Mare del Nord: teschi, zanne e ossa di mammut che, scoprì studiando, risalivano alla fase in cui la piattaforma Doggerland era emersa durante l’era glaciale… Dalla preistoria fino ai giorni nostri, l’autore descrive i principali eventi nell’evoluzione degli oceani, non dimenticando gli impatti dell’umanità sulla salute e l’abitabilità del nostro pianeta. Perché non c’è niente di più sbagliato che pensare che l’umanità sia troppo piccola per influenzare i cicli biogeochimici marini. Leggere per credere.

*Legge della conservazione della massa postulata da Antoine-Laurent de Lavoisier nel 1789.

fonte: www.puntosostenibile.it



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Micropolis: Consumo di suolo e crisi dei servizi ecosistemici di Anna Rita Guarducci

 

























































fonte: Micropolis

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L’uscita dalla crisi è circolare. Intervista a Soukeyna Gueye, della Ellen MacArthur Foundation

Per la Ellen MacArthur Foundation l’economia circolare è la strada da seguire. Fondamentale il ruolo dell’Europa con l’European Green Deal e con il Circular Economy Action Plan. La responsabilità dei governi nella gestione dei fondi per la ripartenza post-Covid


L’economia circolare può offrire una soluzione.

Il mondo post-Covid dovrà essere circolare. Ne sono convinti alla Ellen MacArthur Foundation che, dalla sua creazione nel 2010, lavora con aziende, settore pubblico e istituti di ricerca per promuovere e diffondere l’idea di un’economia circolare e creare un contesto economico strutturato in modo da potersi rigenerare. Di fronte alla necessità di ricostruire le nostre economie a seguito di una crisi senza precedenti, la fondazione ha pubblicato una dichiarazione congiunta in cui i firmatari – oltre 50 leader del settore pubblico, privato e non-profit – si impegnano a “ricostruire meglio” con l’economia circolare. Un impegno per l’individuazione di soluzioni per i settori della plastica, della moda, dell’alimentare e della finanza che combina le opportunità economiche con i benefici per la società e l’ambiente. La dichiarazione, dal titolo A Solution to Build Back Better: The Circular Economy, lancia un appello rivolto ad aziende e governi del mondo perché prendano parte al viaggio verso un’economia circolare.

Soukeyna Gueye, Ricercatrice Ellen MacArthur Foundation

“La pandemia ha rivelato la vulnerabilità al rischio del nostro attuale sistema economico – ha detto a EconomiaCircolare.com Soukeyna Gueye, ricercatrice dell’Insight and Analysis Team della fondazione -. Abbiamo visto il mondo diventare sempre più globalizzato e interconnesso e le catene globali di approvvigionamento stanno diventando sempre più economicamente efficienti e questo ci ha portato numerosi vantaggi. Tuttavia, la pandemia di Covid19 ha rivelato che l’efficienza può avere un prezzo in termini di resilienza. In alcuni settori per esempio, abbiamo visto che quando si spezza un anello nella catena, fornitori e clienti a monte e a valle, anche in regioni diverse o dall’altra parte del mondo, possono subirne le conseguenze”. La sfida è ora ricostruire le nostre economie riequilibrandone efficienza e resilienza. Alle priorità immediate, come creare posti di lavoro e garantire sostegno economico a cittadini e imprese, si affiancano obiettivi di lungo termine che consentano di creare modelli economici in grado di resistere a future crisi. “Un’economia resiliente – ha continuato Gueye – è quella che riesce a trovare un equilibrio tra globalizzazione e localizzazione, perché essere troppo dipendenti dall’una o dall’altra ci rende più vulnerabili. Dobbiamo affrontare altre sfide globali che non possiamo perdere di vista, come il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità. Problemi che dovranno essere presi in considerazione all’interno dei piani di rilancio per assicurarci che si possa dare forma a un’economia post-pandemica che non sia solo prospera ma anche climaticamente resiliente”. L’economia circolare garantisce questo equilibrio, consentendo una crescita che non si traduca in depauperamento del sistema. “L’economia circolare può offrire una soluzione – ha detto ancora Gueye – poiché separa la crescita economica dall’uso delle risorse e dall’impatto ambientale, progettando prodotti che non entrano nel ciclo dei rifiuti, mantenendo i materiali in uso e rigenerando i sistemi naturali. In tal modo, non solo contrasta gli impatti negativi dell’economia lineare, ma soprattutto rappresenta un cambiamento sistemico che costruisce resilienza a lungo termine, genera opportunità economiche e commerciali e offre benefici ambientali e sociali”.

Per questo, a supporto della dichiarazione congiunta, la Ellen MacArthur Foundation ha messo insieme una serie di documenti e studi dedicati a diversi settori, mettendo in evidenza come l’economia circolare sia oggi più rilevante che mai. Questi studi illustrano il ruolo chiave che i decisori pubblici svolgono nell’aiutare ad affrontare i rischi sistemici globali delle nostre attuali economie lineari nel tentativo di fornire più posti di lavoro e una crescita equa a breve termine e ridurre i rischi a lungo termine legati ai cambiamenti climatici e alla perdita di biodiversità . In questo contesto, sono state identificate dieci interessanti opportunità di investimento circolare che si estendono in cinque settori chiave dell’ambiente costruito, mobilità, imballaggi in plastica, moda e cibo.

Ciò è particolarmente rilevante ora che molti governi in tutto il mondo stanno stanziando migliaia di miliardi a livello globale per la ripresa post-Covid. “I governi in questo momento hanno un ruolo fondamentale nella definizione del futuro in cui vivremo, sia nell’allocazione di pacchetti di aiuti economici, sia nella creazione di strategie che nel lungo periodo siano in grado di dare vita ad economie più resilienti. Alla Ellen MacArthur Foundation siamo convinti che l’economia circolare svolga un ruolo fondamentale. L’Europa, in particolare, sta svolgendo un ruolo di leadership in questo sia con l’European Green Deal che con il Circular Economy Action Plan”, ha concluso Soukeyna Gueye.

A fornire un esempio specifico delle opportunità che si aprono è il rapporto Breaking the Plastic Wave di The Pew Charitable Trusts e SYSTEMIQ che ha dimostrato che un approccio globale all’economia circolare per il settore della plastica potrebbe ridurre il volume globale annuale di plastica che finisce nei nostri mari di oltre l’80%, generare risparmi pari a 200 miliardi di dollari all’anno, ridurre le emissioni di gas serra del 25% e creare 700.000 posti di lavoro entro il 2040.

L’economia circolare, adottando un approccio sistemico per affrontare le sfide globali, può contribuire a garantire una ripresa più forte che non sia solo più resiliente e prospera, ma che soddisfi anche molteplici obiettivi strategici sia a breve che a lungo termine, mitigando il rischio di crisi future. Un cambio di passo e di modello che oggi la mobilitazione di fondi per la ricostruzione rende possibile. È allora una questione di volontà, di impegno reale, da parte della comunità internazionale, dei singoli governi, così come del settore privato, a costruire economie in grado di andare oltre la società del consumo e ripensare il capitalismo.

I 50 leader che hanno firmato la dichiarazione lanciata dalla Ellen MacArthur Foundation sono pronti alla sfida. Tra i firmatari del documento, anche il direttore generale del WWF International, Marco Lambertini, che ha commentato a EconomiaCircolare.com: “Questo è un momento cruciale per le aziende e i leader mondiali per ragionare su come adottare nuovi approcci per garantire che la loro risposta all’attuale crisi sanitaria ed economica sia verde e contribuisca direttamente a una ripresa migliore e al raggiungimento di società sostenibili. Ad esempio, dobbiamo assistere a una transizione verso modelli sostenibili di produzione e consumo e verso sistemi alimentari sostenibili che soddisfino i bisogni delle persone, pur rimanendo entro i confini planetari, e c’è bisogno di una trasformazione dei nostri settori economici e finanziari per raggiungere il benessere: questi sono i momenti in cui bisogna guardare in profondità come questi obiettivi possano essere raggiunti. Il WWF sta sollecitando i governi ad adottare approcci sostenibili a lungo termine per assicurarsi che il mondo post Covid19 sia un posto migliore rispetto a prima della crisi”.

Che ci sia una lezione dietro la crisi causata dalla pandemia di Covid19, sono in molti a dirlo. Che la lezione sia nella necessità di cambiare economia, sono sempre in più a pensarlo. In questo autunno in cui dobbiamo imparare a convivere con il virus, agli sforzi per ripartire si accompagnano studi e proposte che cercano l’opportunità nella crisi, l’occasione di ricostruire scegliendo, stavolta, un sistema migliore, meno impattante e più resiliente. Ricostruire meglio è il motto di chi crede che si debba investire oggi per prevenire le crisi di domani. Per raggiungere questo obiettivo è necessario un ripensamento dei modelli economici del capitalismo globalizzato.

Lo ha detto anche il fondatore ed executive chairman del World Economic Forum, Klaus Schwab, che, in un recente saggio, sostiene la necessità di ripensare l’ideologia neoliberista e il capitalismo come lo conosciamo. “Il fondamentalismo del libero mercato ha eroso i diritti dei lavoratori e la sicurezza economica, innescato una corsa al ribasso per la deregolamentazione e una rovinosa concorrenza fiscale e ha consentito l’emergere di nuovi e massicci monopoli globali – scrive Schwab -. Le regole del commercio, della tassazione e della concorrenza che riflettono decenni di influenza neoliberista dovranno ora essere riviste. Altrimenti il pendolo ideologico, che è già in movimento, potrebbe tornare indietro verso il protezionismo su vasta scala e altre strategie economiche lose-lose”.

La Ellen MacArthur Foundation non è sola nello sforzo verso una ricostruzione improntata alla sostenibilità e all’economia circolare. La spinta arriva da più parti. A giugno, l’Organisation for Economic Co-operation and Development, organizzazione internazionale di studi economici composta da 37 paesi, ha pubblicato il documento Building Back Better: A Sustainable, Resilient Recovery after Covid19 in cui il gruppo sostiene che non bisogna semplicemente rimettere in piedi le economie e ritornare ai modelli precedenti, bensì “innescare cambiamenti comportamentali che riducano la probabilità di shock futuri”. Diverse le soluzioni proposte per i diversi settori economici. Obiettivo comune: benessere, inclusività e riduzione della diseguaglianza. Un approccio che mette le persone e le comunità al centro degli obiettivi di ricostruzione, riconoscendo l’interrelazione tra la società umana e l’ambiente. Anche We Mean Business, una coalizione internazionale di aziende contro il cambiamento climatico, ha fatto sentire la propria voce e chiesto ai governi internazionali di impegnarsi ad affrontare la ricostruzione all’impronta della sostenibilità: “Un chiaro segnale da parte dei governi – si legge nel documento pubblicato dalla coalizione – del proprio sostegno alla rapida transizione verso un’economia resiliente a zero emissioni e alla serie di soluzioni climatiche già esistenti aiuterà il settore privato a investire con fiducia nel ricostruire e rilanciare l’economia”.

Negli Stati Uniti, lo slogan Build Back Better è entrato anche nella campagna elettorale per le presidenziali di novembre, con il candidato democratico Joe Biden che ha proposto un piano di ripresa che prevede un sempre maggiore ricorso alle energie pulite e una più equa distribuzione delle risorse. Le idee non mancano, i soldi ci sono e stavolta sembra esserci anche la volontà politica. Fare tesoro della lezione che il Covid ci ha dolorosamente impartito non significa che saremo in grado di evitare crisi future, ma che ci arriveremo più preparati e con un’economia meno vulnerabile.

fonte: economiacircolare.com


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Una politica per l’Antropocene

Sta avvenendo sotto i nostri occhi: la conclusione di un ciclo di civilizzazione lungo e addirittura di un’era geologica che molti scienziati definiscono con il nome Antropocene. Abbiamo bisogno di individuare le cause profonde della crisi ecosistemica, strutturale e di civiltà e di prospettare molte alternative, diverse già sperimentate, per uscire dal miope cinismo economicista e dalle logiche distruttive dell’accumulazione capitalista prevalenti. Ma non non basta avere una coscienza di classe, servono anche la coscienza di genere, di generazione, di luogo, di specie. Abbiamo bisogno di un immaginario comune, di una cosmovisione




C'è chi pensa – vedi il genetista evoluzionista Svante Pääbo, in Elizabet Kolbert, La sesta estinzione, Beat edizioni, 2014 – che ci sia un “gene faustiano” annidato nella mente umana che spinge alcuni individui (maschi, come ci dimostra l’archeologa Marija Gimbutas) a sviluppare comportamenti aggressivi, predatori, distruttivi. Nel corso della storia, si sono creati clan, potentati, elite dominati che sono riusciti a plasmare e organizzare secondo le loro regole le intere relazioni sociali. Come giudicare diversamente, se non folle, ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi, a conclusione di un ciclo di civilizzazione lungo addirittura un’era geologica che molti scienziati vorrebbero definire con il nome Antropocene? (Vedi per tutti, di Jan Zalasiewicz, The Anthropocene as a Geological Time Unit, Cambridge University Press, 2019).

Il sistema energetico fossile modifica la composizione chimica dell’atmosfera, genera cambiamenti climatici catastrofici, acidifica gli oceani, uccide le barriere coralline; il sistema alimentare carnivoro distrugge le foreste primarie, desertifica i mari, elimina la biodiversità, innesca pandemie; il sistema di produzione industriale di beni di largo consumo programmato sull’obsolescenza genera spreco di materie e di risorse naturali non rinnovabili; il modello di insediamento urbano ammassa in megalopoli invivibili metà della popolazione mondiale; il paradigma tecno-scientifico è mirato alla ricerca del superamento dei limiti naturali (i nove Planetary Boundaries individuati dal gruppo di ecologi di Johan Rockström) e alla progressiva artificializzazione dei cicli vitali (bioingegneria alla Frankenstein); il sistema dell’informazione manipola e sorveglia; l’assetto geopolitico è basato sulla potenza imperiale e la violenza militare.

Alessio Giacometti, commentando il libro di Simon Lewis e Mark Maslin, Il pianeta umano, Einaudi, 2019, scrive: “Negli ultimi secoli abbiamo introdotto in natura più di duecento minerali prima inesistenti, disperso particelle carboniose sferoidi e polimeri plastici dalla cima dell’Everest alla Fossa delle Marianne, rivestito la superficie terrestre con una tecno sfera da 30 trilioni di tonnellate di cemento e metallo. Abbiamo condotto all’estinzione l’83 per cento delle specie animali viventi e dimezzato la popolazione di alberi. Abbiamo anche riversato in aria oltre duemila milioni di tonnellate di anidride carbonica, il cui livello di concentrazione in atmosfera è il più alto degli ultimi tre milioni di anni. Se dovessimo estinguerci domani, i nostri prodotti materiali sparirebbero in meno di diecimila anni, ma le alterazioni biogeochimiche dei cicli del carbonio, del fosforo e dell’azoto rimarrebbero per milioni di anni, dopo di noi” (A, Giacometti, Come abbiamo creato l’Antropocene).

Ovviamente, non c’è nulla di geneticamente predeterminato e di inevitabile nella suicida “devastazione dello spazio vitale” (Konrad Lorenz, 1972) intrapresa dall’homo – autodefinitosi – sapiens. Forse, come mi suggerisce il mio amico psicoanalista Alvise Marin, “per trovare spiegazioni bisognerebbe indagare nel mare profondo delle nostre pulsioni e motivazioni inconsce, che sono strutturalmente un impasto di eros e thanatos”. Comunque è certo che altri itinerari e altri esiti sarebbero stati possibili in passato e potrebbero esserlo ancora in futuro. Ed è questo il preciso campo dell’intervento politico, ovvero delle scelte collettive. La politica, invece, “muore” – come affermano da tempo molti politologi, penso al Marco Revelli di La politica perduta, Einaudi 2003) – se non riesce a confrontarsi con le questioni fondamentali dell’esistenza umana, con la dimensione culturale, valoriale ed eco-etica della “battaglia delle idee” che guida le trasformazioni sociali. In assenza di ciò, è inevitabile che a evaporare per prima sia la politica di sinistra, di coloro, cioè, che pur dichiarandosi non contenti dello stato delle cose presenti rimangono inanimi nell’indicare alternative di sistema, ovvero colgono solo elementi parziali e separati delle conseguenze delle politiche di potenza e di oppressione messe in atto dai gruppi di potere dominanti. Tipico in molta parte della cultura del movimento operaio è porre l’accento esclusivamente sulle disparità e sulle ingiustizie patite dai ceti popolari nell’accesso e nella distribuzione della ricchezza. Ma in tal modo rimangono in ombra i sistemi di formazione e di valorizzazione economica delle attività umane e dei “servizi ecologici” forniti gratuitamente dalla natura. Così come noti sono i limiti dell’ambientalismo superficiale – facilmente sussunto dal mercato – che non coglie le logiche distruttive intrinseche dell’accumulazione capitalista. Più pericolose di tutte sono le derive identitarie di qualsiasi tipo (sangue, suolo e patrie), pur giustificate dai centralismi nazionalisti e dalla globalizzazione omologante. Ecco allora che la cultura politica di sinistra dovrebbe saper individuare e riportare a unità la lotta a ogni forma di dominio e di oppressione, facendo perno su un’idea di individuo completo, consapevole e responsabile dei diritti propri, degli altri e di ogni forma di vita. Per dirla a slogan: per fare la rivoluzione non basta avere la coscienza di classe, servono anche la coscienza di genere, di generazione, di luogo, di specie. Secondo il principio (ecologico) della interconnessione, interdipendenza e coevoluzione di tutti i fenomeni naturali (ogni specie è parte del tutto: “Homo sapiens non è che una specie fra molte, il prodotto di una interazione” – Richard Lekey e Roger Lewin, La sesta estinzione. La vita sulla Terra e il futuro del genere umano, Bollati Boringhieri, 1998) e sociali; della inseparabilità della sostenibilità ambientale e della giustizia sociale.

Ragionare alla scala dei cambiamenti geologici sarebbe utile per uscire dal miope cinismo economicista oggi prevalente (quello che afferma: “nel lungo periodo saremo tutti morti”, affermazione ancora più “vera” se consideriamo che la durata media di una specie animale è stata fino ad ora di soli quattro milioni di anni) per valorizzare invece le capacità creative di ogni persona umana e dare un senso anche spirituale allo stare al mondo e alla cooperazione sociale. La Commissione internazionale di stratigrafia della Unione internazionale di scienze geologiche è ancora incerta su quando fissare l’inizio dell’Antropocene: qual’é il point-break, il momento in cui l’homo sapiens comincia ad agire come forza geologica e a lasciare tracce rilevanti e indelebili sul sistema Terra? Con la diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento, 10.000 anni fa? Con l’affermazione del pensiero occidentale antro e andro-centrico della tradizione ebraica e della filosofia greca ellenistica? Cinquecento anni fa con la prima globalizzazione, la colonizzazione europea delle Americhe e la nascita del capitalismo (come suggerisce Jason Moore, Antropocene o Capitalocene? Ombrecorte, 2017)? Con la rivoluzione industriale nell’Ottocento? Il 16 luglio 1945 con la detonazione del primo ordigno nucleare e il fall-out di radio nuclei? Nel maggio di quest’anno, con il picco record di 417 parti per milione di anidride carbonica (come 450.000 anni fa)? Il prossimo fine secolo con il raggiungimento del tetto di esseri umani (10 e più miliardi) e il contemporaneo limite più basso di biodiversità delle specie viventi presenti (“Sesta estinzione di massa”, la quinta interessò i dinosauri, 65 milioni di anni fa)?

Interrogativi con cui sarebbe interessante che la politica riuscisse a confrontarsi per non rimanere insignificante e per poter misurare le coerenze anche delle piccole e quotidiane scelte. Ad esempio, come spendere i denari del Recovery Fund, se vogliamo davvero servano a risanare il pianeta e a sostenere la vita delle “Next generations”. E non semplicemente a riattivare un ciclo economico “espansivo” lucrativo per i detentori dei titoli di credito del debito garantito dalla Banche centrali. Il presente è importante (specie per chi è costretto a lottare con la precarietà della sussistenza), ma lo si può affrontare con qualche speranza di cambiamento solo se si ha la consapevolezza che esso è il punto di incrocio tra l’eredità del passato e le opportunità del futuro. In altre parole, una politica (di sinistra) che non sappia individuare le cause profonde della crisi ecosistemica, strutturale e di civiltà cui siamo giunti e che non sappia prospettare un’alternativa all’altezza della situazione, non sarà mai credibile, non riuscirà mai a convincere le menti e a scaldare i cuori delle persone. “Il” nuovo soggetto sociale protagonista della auspicabile grande trasformazione necessaria nascerà quando maturerà un immaginario comune – una cosmovisione – liberato da tutti i miti di potenza del denaro, della tecnologia, delle armi, della violenza. Per dirla in positivo, quando riusciremo a maturare un atteggiamento di cura della vita di noi stessi, degli altri, della natura.

Paolo Cacciari

fonte: comune-info.net


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