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Sull’uso della parola degrowth

Un interessante articolo su Nature Communications di due noti economisti internazionali, Lorenz T. Keyber e Manfred Lenzer, per la prima volta parla esplicitamente di scenari di decrescita a proposito della necessità di seguire nuovi percorsi per ridurre il riscaldamento globale. Tuttavia non possiamo farci ingannare dall’uso della parola “degrowth”, avverte Alberto Castagnola: non siamo di fronte a un’articolata riflessione sulle strade da percorrere per smettere di creare il capitalismo


Tratta da Tratta da unsplash.com

Due noti economisti, Lorenz T. Keyber e Manfred Lenzer, specializzati nella elaborazione di modelli, hanno di recente pubblicato su Nature Communications (12, articolo numero 2676, 2021) un saggio molto ampio e impegnativo, intitolato “Gli scenari di decrescita relativi a 1,5 gradi suggeriscono la necessità di seguire nuovi percorsi di mitigazione” (1.5 °C degrowth scenarios suggest the need for new mitigation pathways). Il loro testo fa riferimento ad un notissimo rapporto dell’IPCC, il Comitato Intergovernativo per il Cambiamento Climatico, intitolato “Riscaldamento globale di 1,5 gradi centigradi” e messo in circolazione circa due anni fa, quindi prima dei ritardi negli incontri del Comitato dovuti alla pandemia ancora in corso. Quel documento aveva un compito ben preciso, cioè difendere in modo scientifico e ben documentato la necessità assoluta di non superare il grado e mezzo di aumento della temperatura del pianeta nei prossimi anni. Questo limite per molto tempo era stato indicato in 2 gradi durante diverse Conferenze delle Parti, cioè gli incontri assembleari dell’IPCC, a causa dell’opposizione di molti dei paesi maggiori inquinatori che pretendevano di avere margini più ampi prima di essere costretti a ridurre le produzioni più dannose.

A seguito di quel conflitto interno, l’ultimo documento emesso dal Comitato indicava ancora il limite dei 2 gradi, ma aggiungeva “e se possibile degli 1,5 gradi” e subito dopo usciva il rapporto sopra indicato, a difesa del limite inferiore, considerato evidentemente dagli scienziati vitale per gli equilibri del pianeta. Una sintesi ampia e molto dettagliata di questo rapporto si trova in italiano nel sito dell’IPCC per l’Italia, nella forma di “Sommario per i Decisori Politici”.

I due economisti già nelle prime righe del saggio formulano una accusa molto precisa: “Gli scenari dell’IPCC si basano su delle combinazioni di emissioni negative e oggetto di controversie e su dei cambiamenti tecnologici senza precedenti, mentre si presume una continua crescita del prodotto interno lordo”. I due economisti hanno infatti scoperto che gli autori del rapporto si sono dimenticati di prendere in considerazione lo scenario della decrescita, poiché il prodotto dell’economia non può che diminuire a causa degli interventi sulle attività produttive volti a mitigare i loro effetti negativi sul clima. Come si può ben comprendere, si tratta di un’accusa non trascurabile, in quanto riduce di molto l’attendibilità scientifica delle migliaia di scienziati che lavorano per l’IPCC.

Dopo questa premessa, i due autori avviano una analisi molto approfondita di tutti i 222 modelli utilizzati dai redattori del rapporto, ed evidenziano il fatto che in nessuno di essi si è tenuto conto di queste riduzioni che incidono molto sulle attività economiche e sulla vita sociale di tutti i paesi coinvolti. Inoltre, non contenti, elaborano una serie di modelli, basati su una gamma di ipotesi alternative, che evidenziano ogni volto una varietà di effetti sulle società e sulle strutture produttive. Questi loro modelli sembrano essere molto semplificati (ad esempio sono elaborati in riferimento alla sola energia da carburanti), mentre invece moltiplicano le combinazioni di fattori presi in considerazione.

L’autore del presente articolo non entra minimamente nel merito del prezioso saggio, oltre che per totale incapacità scientifica, non avendo alcuna competenza in materia di modelli, anche perché è interessato solo ad un ‘aspetto molto particolare, cioè all’uso della parola “degrowth”, traducibile con “decrescita” dall’italiano all’inglese, ma che forse non rappresenta un effettivo riferimento ai tanti significati contenuti nel pensiero della decrescita nel nostro paese.

Durante questo loro lavoro, molto faticoso, indubbiamente complesso, ma anche molto accurato e scientificamente corretto, i due economisti si sono anche convinti che sarebbe molto utile tenere conto delle riduzioni dei livelli di produzione e di reddito determinate dalle misure di mitigazione e di adeguamento, perché aprirebbero la strada a ulteriori interventi di questo tipo, ad esempio a politiche come la intensificazione delle forme alternative di energia (quelle di per se non dannose per l’ambiente) e comunque a scelte industriali veramente attente ad evitare danni all’ambiente, sia riducendo l’uso di certe materie prime, sia evitando inquinamenti derivanti da processi produttivi, sia influendo positivamente su scelte dei consumatori realmente alternative.

Nella discussione finale sui risultati ottenuti dai molteplici modelli da loro elaborati, i due economisti si preoccupano molto di mostrare i limiti dell’approccio da essi adottato, ulteriore dimostrazione della loro correttezza ed elevata professionalità. Le loro indicazioni sono quindi ancora più interessanti in quanto viste in una ottica molto critica. La prima affermazione è di particolare rilievo: “I risultati indicano che il percorso con la decrescita mostra i più bassi livelli di rischio per la fattibilità e la sostenibilità, quando vengono messi a confronto con i percorsi adottati nel Rapporto SR1,5 dell’IPCC utilizzando i nostri indicatori di rischio sociale e tecnologico”. In sostanza, i controlli effettuati dai due economisti mettono in luce le conseguenze negative il troppo peso attribuito alla tecnologia oggi dominante da parte degli scienziati dell’IPCC.

Successivamente, viene sottolineato che i modelli utilizzati dai due ricercatori prendono in considerazione solo l’anidride carbonica e non tengono conto della presenza tra gli inquinanti dell’atmosfera del CH3, cioè del metano e del N2O, cioè del diossido di ozono, “per i quali le mitigazioni tecnologiche sono più problematiche di quelle per l’anidride carbonica”. E concludono affermando che “Includere tutti questi fattori dovrebbe aumentare in misura sostanziale le difficoltà delle mitigazioni. Ognuno di questi aumenti rafforza in misura rilevante l’opportunità di prendere in considerazione gli scenari di decrescita, poiché diventa ancora più rischioso l’affidarsi soltanto alla tecnologia per conseguire livelli più alti di mitigazione” E ancora,”quindi, integrando la tecnologia con delle riduzioni della domanda in una prospettiva spinta più avanti nel tempo attraverso il cambiamento sociale, diventa ancora più necessario se vogliamo che il grado e mezzo rimanga un obiettivo possibile da raggiungere”.

Segue una affermazione molto importante, anche se ancora mantenuta nell’ambito della modellistica: “Pertanto è necessario disporre di una gamma di scenari molto più ampia della nostra, se si vuole arrivare a delineare un quadro più completo della fattibilità. Tuttavia, noi continuiamo ad affermare che tale ricerca dovrebbe prendere esplicitamente in considerazione degli scenari di decrescita, ad esempio con le caratteristiche dello “Scenario di trasformazione Sociale” di Kuhnhem e altri, oppure quelle dello Scenario SSPO proposto dalla Otero e altri. Ancora più esplicita e inequivocabile l’affermazione successiva: “Specie in vista di una fattibilità socio-politica, noi siamo convinti che la mancata esplorazione di questi scenari oggi conduce solo a una profezia che si autorealizza: con una ricerca che in maniera soggettiva giudica fin dall’inizio tali scenari come non realizzabili, essi rimangono margina nei discorsi pubblici e quindi inibiscono il cambiamento sociale, e quindi lasciando che essi appaiano ancora meno fattibili agli scienziati e così via. Come affermano McCollum e altri (1) e Pye e altri, (2) chi elabora i modelli si deve assumere la responsabilità collettiva di valutare l’intero spettro delle possibilità future, ivi compresi scenari comunemente considerati politicamente improbabili”.

I due economisti hanno quindi una visione molta seria del loro lavoro e marcano una distanza molto forte dal folto gruppo di scienziati, oltre 2.500, che sono a disposizione dell’IPCC. E infatti continuano ad evidenziare i limiti del loro lavoro e affermano ancora una volta che secondo le loro conoscenze, non esiste alcuno studio approfondito che esamini i motivi che hanno condotto ad omettere degli scenari di decrescita nei 222 modelli costruiti per l’IPCC.

Si arriva così al punto fondamentale che ha motivato la scrittura del presente articolo. Sempre nelle valutazioni finali, i due economisti affermano che una società della decrescita dovrebbe funzionare in modo molto diverso in confronto alla società attuale:

“Quindi i parametri e le strutture dei modelli basati sul passato potrebbero non essere più validi. Inoltre sarebbe necessario riconoscere che il prodotto interno lordo è un indicatore inadeguato del benessere di una società, almeno nei paesi più ricchi. Invece, il punto focale dovrebbe essere orientato direttamente verso la soddisfazione di bisogni umani multi-dimensionali (3). Tutto ciò è particolarmente importante dato che molte proposte di decrescita comprendono un rafforzamento del lavoro non monetizzato, ad esempio come il lavoro di cura e l’impegno in senso comunitario, nonché una demercificazione dell’economia e delle attività orientate verso la condivisione, il dono e il bene comune”.

È indubbio che i due economisti siano informati su alcuni elementi essenziali di una società completamente alternativa al sistema economico dominante, però ho la sensazione che le loro conoscenze non siano particolarmente approfondite e che manchi una scelta decisamente orientata verso un cambiamento radicale (da effettuare oltretutto in tempi piuttosto rapidi). La mia sensazione si basa su alcuni elementi, che vorrei sottoporre al lettore affinché possa giudicare. In primo luogo, i testi citati sono pochi (vedi nota 3), tre di Kallis, e mancano i testi base del pensiero della decrescita (da Ivan Illich a Georgescu Roegen e Serge Latouche, solo per fare qualche nome) che descrivono in tutta la loro portata e profondità i mutamenti radicali che caratterizzano l’alternativa al sistema capitalistico. In secondo luogo, i due ricercatori esprimono la necessità di tener presenti, in eventuali successivi studi, una pluralità di visioni economiche per conseguire un quadro più completo della realtà socio-economica, ad esempio l’economia postKeynesiana, quella ecologica e quella di tipo Marxista, tra loro molto diverse. Infine, i due economisti ritornano al loro campo di specializzazione e citano le modifiche che si potrebbero apportare ai sistemi adottati dall’IPCC, trascurando il fatto essenziale che tutta l’impostazione di questo Comitato internazionale mira soltanto ad apportare mitigazioni e adeguamenti ai sistemi economici esistenti, in una ottica di pura sostenibilità che non tiene di fatto conto della drammaticità dei fenomeni ambientali indotti dalle attività umane. Cosa suggeriscono i due economisti: “Promettenti sviluppi in questa direzione sono messi in evidenza nella rete dei modelli IAM di MEDEAS, che mette in connessione approfondimenti economici nella biofisica con la dinamica dei sistemi e le analisi input-output. Un altro esempio recente è costituito dal modello EUROGREEN, che combina economia post Keynesiana ed ecologica in un coerente quadro di sistemi dinamici stock e flussi, con lo scopo di valutare le conseguenze sociali ed ecologiche di scenari di decrescita nazionali e di crescita verde”.

Anche nel titolo del saggio si parlava di “suggerire la necessità di seguire nuovi percorsi di mitigazione”, una delle parole chiave per comprendere l’effettivo ruolo dell’IPCC, che pur rappresentando in apparenza un grandioso tentativo di tutti gli Stati di collaborare nella soluzione dei problemi climatici, in realtà è chiaramente la sede di un ulteriore tentativo di mantenere intatte le logiche del sistema economico dominante.

In conclusione, mi sembra che non possiamo farci ingannare dall’uso della parola “degrowth”, traducendola con “decrescita”, come se per la prima volta fossimo in presenza di una accettazione in una importante sede internazionale del pensiero della decrescita. Viceversa, possiamo tentare di trarre una qualche utilità dalla lettura di questo corposo saggio. Sarebbe di estrema importanza che economisti come Keyberg e Lenzen concentrassero i loro sforzi analitici sulla transizione dall’economia dominante a quella descritta dal pensiero della decrescita, evidenziando percorsi di trasformazione, connessioni tra i passi successivi e tempi di realizzazione (imposti dalla crisi climatica). Pur con delle inevitabili imperfezioni e limitazioni, costituirebbe uno strumento di azione e uno stimolo al dibattito politico tra le forze in campo, di cui l’intera umanità ha urgente bisogno.

Nei pochi mesi che ci separano dalla prossima Conferenza delle Parti dell’IPCC e dall’apparizione di nuovi rapporti dei loro scienziati, non dovremo mai trascurare i dati relativi al dissesto del pianeta e al rischio della “sesta estinzione di massa”.

Note
McCollum D.L e altri, Energy modellers should explore extremes more systematically in Scenarios, Nat. Energy 5 104-107 (2020)
Pye e altri, Modellin net-zero emissions energy systemes requires a change in approach, Clim. Policy, 21, 222-231 (2020)

3. Kallis G. e altri, Research on degrowth, Annu. Rev. Eviron. Resour. 43,291-316

(2018)

Kallis G. In defence of degrowth, Ecol. Econ. 70 873-880 2011

Hickel J. E Kallis G. Is gren growth possible? New political economy, 25

469-486 2020

Hickel J. It is possible to achieve a good lif for all within planetaries boundaries?

Third World 40 18-35 2019

Hickel J. Degrowth: a theory of radical abundance, Real World Economics

Revue, 54-68 2019

Jewell J. E Cherp A., On the political feasibility of climate change mitigation

pathways: is it too late to keep warming below 1,5 C ? Wires Climate

Change 11 e621 2020

fonte: comune-info.net



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La nuova batteria senza metalli che si degrada on demand

Un team multidisciplinare di ricercatori della Texas A&M University ha creato una batteria ricaricabile organica che, a fine vita, può semplicemente essere “sciolta” nelle sue componenti originali



Cambiare la chimica delle batterie per renderle più sostenibili e facilmente riciclabili. Questo l’obiettivo della ricerca condotta da un team della Texas A&M University e pubblicata nel numero di maggio di Nature (testo in inglese). Il gruppo ha messo a punto una piattaforma tecnologica per dispositivi d’accumulo privi di cobalto e litio. E il segreto è nuovamente nella chimica organica.

La nuova batteria senza metalli utilizza, infatti, una struttura a radicali polipeptidici. Nel dettaglio, il gruppo ha impiegato catene di amminoacidi elettrochimicamente attive, chiamate polipeptidi attivi redox, per costruire i due elettrodi. “Allontanandoci dal litio e lavorando con questi polipeptidi, che non sono altro che i componenti delle proteine, evitiamo di dover estrarre metalli preziosi. Offrendo anche nuove opportunità per alimentare dispositivi elettronici indossabili o impiantabili”, ha affermato la dott.ssa Karen Wooley, professoressa presso il dipartimento di chimica.

Durante i test, la batteria senza metalli ha soddisfatto un paio di requisiti importanti. Innanzitutto, gli elettrodi hanno svolto il loro lavoro di materiali attivi, rimanendo stabili per tutto il tempo. Inoltre, i componenti della batteria possono essere facilmente degradati, al momento del bisogno, in condizioni acide. Il processo permette di rilasciare gli amminoacidi e re-impiegarli. E in maniera completamente innocua per l’ambiente.

Il risultato sono dunque unità degradabili, riciclabili, non tossiche e più sicure “su tutta la linea”. “Il grosso problema con le batterie agli ioni di litio in questo momento è che non vengono riciclate nella misura di cui avremo bisogno per la futura economia dell’e-mobility“, ha aggiunto dott.ssa Jodie Lutkenhaus. La ricerca è solo allo stadio iniziale, ma il team è convinto di aver compiuto un primo passo promettente nello sviluppo di innovative batterie sostenibili. Il futuro obiettivo? Migliorare ulteriormente il design con l’aiuto dell’apprendimento automatico.

fonte: www.rinnovabili.it


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Bioplastica ottenuta dagli scarti del legno: un'alternativa sostenibile alla plastica tradizionale

Un gruppo di ricerca, guidato da Yuan Yao professore di ecologia industriale presso la Yale School of the Environment (YSE), e Liangbing Hu dell'Università del Maryland, ha creato una bioplastica di alta qualità dai sottoprodotti del legno.






















Uno studio pubblicato su Nature Sustainability, condotto da Yuan Yao professore di ecologia industriale presso la Yale School of the Environment (YSE), e Liangbing Hu dell'Università del Maryland, ha dimostrato che, partendo dai sottoprodotti del legno è possibile ottenere una bioplastica ligno-cellulosica, totalmente biodegradabile e riutilizzabile.

I ricercatori hanno utilizzato una polvere di legno, un residuo di lavorazione solitamente scartato come rifiuto, e hanno decostruito la struttura sciolta e porosa della polvere con un solvente eutettico profondo (DES) biodegradabile e riciclabile.

La bioplastica lignocellulosica risultante mostra prestazioni elevate in vari aspetti, tra cui un'elevata resistenza alla trazione di 128 MPa, resistenza ai raggi UV ed una migliore stabilità termica.

I risultati della LCA, che è stata condotta utilizzando il software OpenLCA 1.10.3, rivelano che la bioplastica lignocellulosica mostra impatti ambientali molto inferiori rispetto alle plastiche a base petrolchimica come PVF e ABS, o altre plastiche biodegradabili come PCL e PBS.

Secondo Liangbing Hu, professore presso il Center for Materials Innovation, la bioplastica può essere impiegata per ottenere sacchetti ed imballaggi di plastica. e, poiché la bioplastica può essere modellata in forme diverse, può essere potenzialmente utilizzata nella produzione di automobili.

Un'area che il team di ricerca continua a indagare è il potenziale impatto sulle foreste in caso di aumento della produzione di questa bioplastica.

Sebbene il processo attualmente utilizzi sottoprodotti del legno nella produzione, i ricercatori affermano di essere profondamente consapevoli che la produzione su larga scala potrebbe richiedere l'uso di enormi quantità di legno, che potrebbe avere importanti impatti sulle foreste.

Tuttavia, Yao afferma che il team di ricerca ha già iniziato a lavorare con un ecologo forestale per creare modelli di simulazione forestale, collegando il ciclo di crescita delle foreste con il processo di produzione.

Il progetto, dunque, rappresenta un ulteriore passo in avanti per l'individuazione di un materiale a basso impatto ambientale e caratterizzato, allo stesso tempo, da proprietà meccaniche simili a quelle della plastica tradizionale.

fonte: www.phyuture.com



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Come il fotovoltaico integrato negli edifici può alimentare l’Italia

Massimo Mazzer (Cnr-Imem) e David Moser (EURAC Research) spiegano su Nature come sostenere l’espansione dell’energia solare senza ricorrere ad ulteriore consumo di suolo. Dai tetti italiani una produzione potenziale di oltre 200 TWh l’anno



La parola d’ordine per accelerare la rivoluzione ecologica senza aumentare l’impatto sull’ambiente? Fotovoltaico integrato negli edifici e nelle infrastrutture.

L’energia solare ha un posto di primo piano nelle strategie nazionali di decarbonizzazione. Eppure, il contributo che il comparto può fornire al mix energetico del futuro è spesso sottostimato. Parte del problema sta nello sviluppo tecnologico, molto più rapido rispetto le valutazioni politiche sul tema. I miglioramenti nell’efficienza e nella resa di celle e moduli avanzano quasi quotidianamente; e già oggi la tecnologia fotovoltaica rappresenta una delle opzioni più economiche per la nuova produzione elettrica su scala utility, in diverse aree del mondo.

Ma come sfruttare al massimo una risorsa così vantaggiosa senza sottrarre nuovo terreno? A rispondere è la la lettera pubblicata in questi giorni su Nature, da Massimo Mazzer (Cnr-Imem), referente italiano nell’Implementation Working Group sul Fotovoltaico del SET Plan Europeo, e David Moser, Responsabile R&D sul Fotovoltaico di EURAC Research. Nell’articolo “Come l’energia solare può alimentare l’Italia senza consumare più suolo (nature.com)“ i due autori vanno diritto al punto. E rimarcano le potenzialità italiane del fotovoltaico integrato negli edifici, definendolo come “la più efficace alternativa al consumo di suolo”.

D’altra parte, l’urbanizzazione si è conquistata una buona quota di terreno. Perché allora non sfruttare superfici già costruite? Precedenti stime valutavano per i tetti italiani un potenziale di produzione fotovoltaica di circa 120 GWp. Dati bastati su un’efficienza del modulo del 15%. Con la tecnologia commerciale attuale (efficienza al 22%) tale potenziale sale automaticamente. “Sulla base di questi dati, i moduli commerciali attualmente disponibili […] genererebbero 200 TWh di elettricità all’anno“, scrivono Mazzer e Moser. Un valore doppio rispetto all’obiettivo nazionale per il fotovoltaico 2030. “Con moduli efficienti al 30%, il potenziale raggiungerebbe 275 TWh/a. Anche le facciate possono contribuire significativamente […] si stima che edifici residenziali e uffici potrebbero integrare impianti fotovoltaici su un totale di almeno 160 km² di superficie di facciate, e contribuire alla generazione di 15-25 TWh/a di elettricità (a seconda della tecnologia fotovoltaica usata)”.

La pubblicazione fa parte di un’iniziativa intrapresa a livello nazionale già a partire dal 2017, con la costituzione di specifici gruppi di lavoro misti, composti esperti del mondo della ricerca e industriale. L’obiettivo? Definire il contributo italiano all’Implementation Plan del SET Plan Europeo. Un lavoro che ha prodotto risultati molto importanti sul piano del possibile rilancio di tutta la filiera industriale del fotovoltaico (compresa la parte alta) di importanza strategica per l’Italia e l’UE.

La lettera dedicata al fotovoltaico integrato negli edifici, spiega il CNR, “rappresenta una ulteriore voce dibattito pubblico, rappresentativa di coloro che hanno contribuito alla scrittura del Piano Strategico, per chiarire quanto ampie, diversificate e convenienti siano le potenzialità del fotovoltaico integrato nelle infrastrutture esistenti (a partire dagli edifici) nel nostro Paese”.

fonte: www.rinnovabili.it



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Clima, esplodono le emissioni del super gas ad effetto serra Hfc-23

Il gas Hfc-23, 13mila volte più potente della CO2, era dato in forte calo. Invece, secondo uno studio, ha raggiunto livelli record nell’atmosfera.















Le conferenze internazionali, i rapporti degli istituti di ricerca e le denunce delle ong si concentrano spesso sulle emissioni di biossido di carbonio (CO2). Ovvero il principale gas ad effetto serra di origine antropica, in termini di quantitativo disperso nell’atmosfera terrestre. Ma il processo di riscaldamento di quest’ultima è alimentato anche da altre sostanze. Una di queste, è l’Hfc-23.

Secondo uno studio, il gas Hfc-23 ha raggiunto livelli record nell’atmosfera terrestre

In pochi lo conoscono, anche perché si riteneva che fosse stato sostanzialmente eliminato già negli anni scorsi. Contrariamente ad ogni aspettativa, invece, le concentrazioni di trifluorometano nell’atmosfera terrestre sono cresciute a livelli recordsecondo uno studio pubblicato il 21 gennaio dalla rivista scientifica Nature.
Una notizia drammatica, se si tiene conto del fatto che l’Hfc-23 – prodotto secondario necessario alla fabbricazione dell’Hcfc-22, presente nei condizionatori d’aria di tutto il mondo (ma in particolare nei paesi in via di sviluppo) – ha un potere climalterante 13mila volte maggiore rispetto alla CO2. E permane nell’atmosfera per più di due secoli.

hfc-23 clima gas
L’andamento delle emissioni del potente gas ad effetto serra Hfc-23, secondo uno studio pubblicato su Nature © “Increase in global emissions of HFC-23 despite near-total expected reductions”, Nature, 2020

Le emissioni di Hfc-23 avrebbero dovuto calare dell’87 per cento entro il 2017

Lo studio sottolinea come il problema sia concentrato soprattutto in Cina e in India, nonostante le due nazioni avessero promesso una riduzione drastica. “A partire dal 2015 – scrivono gli scienziati autori del testo – i due stati asiatici che dominano la produzione di Hcfc-22, e dunque sono responsabili anche del derivato Hfc-23, avevano definito dei programmi ambiziosi. Che avrebbero dovuto portare ad un calo dell’87 per cento, a livello globale, entro il 2017”.
Tuttavia, prosegue l’analisi dei ricercatori, “tenuto conto dell’ampiezza dello scarto tra le emissioni attese e quelle osservate, è probabile che gli obiettivi di riduzioni dichiarati non siano stati in realtà centrati. Oppure che esista una produzione importante, non dichiarata di Hcfc-22, in grado di spiegare le emissioni non contabilizzate di Hfc-23”. In attesa di comprendere la causa del problema, ciò che è chiaro è che il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi diventa sempre più difficile.
fonte: www.lifegate.it

'Baby' coralli in declino sulla Grande Barriera





















La deposizione di uova di corallo è precipitata sulla Grande Barriera Corallina dopo i recenti eventi di sbiancamento di massa. E' quanto rivela un nuovo studio dei ricercatori australiani pubblicato sulla rivista 'Nature', gettando dubbi sulla resistenza della bersagliata meraviglia della natura e sulla sua capacità di recupero. La Grande Barriera Corallina, al largo della costa nord-orientale dell'Australia, è il più grande sistema corallino del mondo, che copre un'area più grande dell'Italia, ed è uno degli ecosistemi più biodiversi del Pianeta.


La barriera corallina ha visto due eventi di sbiancamento di massa nel 2016 e nel 2017, attribuiti al riscaldamento globale, che ha visto una "perdita senza precedenti di coralli adulti". In seguito, spiegano i ricercatori, il numero di nuove larve di corallo è sceso dell'89% rispetto ai livelli storici.
"I coralli morti non fanno piccoli" ha detto un autore dello studio, Terry Hughes, direttore dell'Arc Centre of Excellence for Coral Reef Studies alla James Cook University (Jcu) nel Queensland. Lo studio ha misurato il numero di coralli adulti sopravvissuti all'estremo stress termico e quanti nuovi coralli hanno prodotto per ripopolare nel 2018.
In alcune delle parti settentrionali della barriera, quelle più vicino all'equatore che ha visto acque più calde, il numero di nuovi coralli è crollato del 95%. Lo studio ha anche rilevato che la composizione dei nuovi coralli è cambiata, il che influirà anche su una ripresa più lenta del normale e sulla capacità di fronteggiare futuri eventi di sbiancamento.
"Il numero di larve di corallo che vengono prodotte ogni anno e dove viaggiano prima di stabilirsi su una scogliera sono elementi vitali della resilienza della Grande Barriera Corallina - ha detto il coautore Andrew Baird - Il nostro studio dimostra che la resilienza della barriera corallina è ora gravemente compromessa dal riscaldamento globale".
I ricercatori affermano che la misura in cui la Grande Barriera Corallina sarà in grado di ristabilirsi rimane incerta, dato il previsto aumento della frequenza degli eventi climatici estremi nei prossimi due decenni.
La Grande Barriera Corallina ha sperimentato eventi di sbiancamento di massa quattro volte negli ultimi 20 anni, tutti attribuiti al riscaldamento globale. Lo sbiancamento dei coralli si verifica quando un aumento della temperatura del mare o l'acidificazione delle acque danneggia le alghe microscopiche, un organismo vivente all'interno dei coralli che fornisce loro energia oltre ai caratteristici colori vibranti e vivaci.
Gli scienziati affermano che se le attuali emissioni di gas serra non vengono frenate, la barriera è destinata a sbiancare due volte ogni dieci anni dal 2035 e ogni anno dopo il 2044.
Il mese scorso, in un altro studio condotto nell'arcipelago di Palau nel Pacifico occidentale, i ricercatori hanno scoperto che i coralli hanno bisogno dai 9 ai 12 anni per riprendersi completamente in seguito a grandi eventi ambientali come sbiancamenti di massa e danni legati alle tempeste. A parte lo sbiancamento dei coralli di massa del 2016-2017, la Grande Barriera Corallina si sta attualmente riprendendo da un focolaio di stelle corona di spine, così come da danni provocati dal Ciclone Debbie nel 2016 e dalle inondazioni degli ultimi mesi che hanno portato detriti, sabbia e acqua di scarsa qualità verso l'oceano.

fonte: https://www.adnkronos.com/

Mari riscaldati più del previsto, ricerca lancia allarme

Assorbito 60% in più di calore in 25 anni rispetto a stime Onu




















Gli oceani negli ultimi 25 anni hanno assorbito il 60% in più di calore solare rispetto a quanto si riteneva finora. Questo significa che il riscaldamento globale nei prossimi anni sarà più intenso di quanto preventivato, con eventi estremi più devastanti. E per rimanere entro i limiti dell'Accordo di Parigi, servirà ridurre le emissioni di gas di un ulteriore 25%. E' questa l'analisi di una ricerca internazionale guidata dall'Università di Princeton e pubblicata sulla rivista Nature, che ha coinvolto studiosi americani, cinesi, francesi e tedeschi.

I ricercatori hanno usato una nuova tecnica per misurare il riscaldamento degli oceani dal 1991 ad oggi. I mari più si scaldano e più emettono ossigeno e anidride carbonica. Gli studiosi hanno calcolato le percentuali di questi gas nell'atmosfera in ciascuno degli anni considerati, e hanno sottratto a queste le quantità emesse sulla terraferma e dalle attività umane. Valutando la quantità di ossigeno e anidride carbonica emessa dai mari, i ricercatori di Princeton hanno stabilito che questi si sono riscaldati del 60% in più rispetto a quanto stimato dal Comitato dell'Onu per i cambiamenti climatici, l'IPCC.

fonte: www.ansa.it

Uno studio australiano collega la mortalità delle tartarughe marine e l'ingestione di detriti di plastica

Rilevata una probabilità del 50% di mortalità dopo che nell'intestino di un animale sono stati trovati 14 pezzi di plastica






















La plastica nell'ambiente marino è un problema sempre più significativo.
Le tartarughe marine sono ad alto rischio di ingerire detriti di plastica in tutte le fasi del loro ciclo di vita, con conseguenze potenzialmente letali.
Uno studio svolto in Australia, e pubblicato sulla rivista Nature, ha verificato la relazione tra la quantità di plastica che una tartaruga ha ingerito e la probabilità di morte, trattando animali morti per cause note non correlate all'ingestione di plastica come gruppo di controllo statistico.
I ricercatori hanno utilizzato due set di dati: uno basato su necropsie di 246 tartarughe marine e un secondo con 706 record estratti da un database di dati nazionali.
Conceptual framework for estimating the probability of death due to plastic debris ingestion.
Animali che muoiono per cause note non correlate all'ingestione di plastica avevano meno plastica nel loro intestino di quelli che sono morti per cause indeterminate o per ingestione di plastica direttamente (ad esempio attraverso l'intestino e la perforazione).
È stata rilevata una probabilità del 50% di mortalità dopo che un animale aveva 14 pezzi di plastica nel suo intestino.
fonte: http://www.arpat.toscana.it/

Qualcuno sta continuando a emettere il gas che causa il buco dell’ozono

Una ricerca pubblicata su Nature afferma che le emissioni del gas messo al bando nel 2010 per proteggere lo strato d'ozono, hanno ricominciato a crescere. E non se ne conosce il motivo.

















Non dovrebbe essere presente nella stratosfera, o comunque la sua concentrazione non dovrebbe certo salire, dato che la produzione è vietata dal 2010. Si tratta del triclorofluorometano o Cfc-11, gas impiegato negli aerosol o nei solventi e vietato dal protocollo di Montreal e che negli anni ha contribuito ad alimentare quello conosciuto come “buco” dell’ozonoIl gas continua però ad essere presente nell’atmosfera, con concentrazioni via via più elevate, misurate a partire dal 2012.


















Lo rendono noto i ricercatori della Noaa (Amministrazione nazionale oceanica ed atmosferica) che in uno studio pubblicato su Nature, spiegano che la riduzione della concentrazione di Cfc-11 misurata è stata costante dal 2002 al 2012, ma che ha subito un deciso rallentamento (di quasi la metà) a partire dallo stesso anno. Aumento che si è registrato per lo più nell’emisfero meridionale, che in quello settentrionale, cosa che fa supporre ci possa essere stata una ripresa della produzione in Asia, ma non esistono ovviamente conferme.
“Gli attuali modelli scientifici mostrano che lo strato di ozono rimane sulla buona strada per il recupero entro la metà del secolo, ma il continuo aumento delle emissioni globali di Cfc-11 metterà a repentaglio tali progressi”, ha scritto l’Agenzia per l’ambiente delle Nazioni Unite in una nota. “Finché gli scienziati rimarranno vigili, la nuova produzione o l’emissione di sostanze chimiche che riducono lo strato di ozono non passeranno inosservate”.




Perché il cloro è pericoloso per l’ozono

Tutta la classe dei clorofluorocarburi una volta rilasciati in atmosfera vanno ad interagire con le molecole di ozono (O3): il cloro reagisce con l’ozono sottraendogli una molecola d’ossigeno e formando così monossido di cloro (ClO) con liberazione di ossigeno (O2). La molecola di monossido di cloro, a sua volta, si scinde una volta in contatto con l’ossigeno, liberando nuovamente il cloro. E il ciclo ricomincia, causando appunto il decadimento graduale dello strato di ozono.

L’ozono stava tornando ai livelli normali

È stato per anni l’esempio di come le politiche a favore dell’ambiente potessero effettivamente risolvere un problema fondamentale per la sopravvivenza della nostra specie sul pianeta. Con una scelta condivisa si mise al bando la causa, scientifcamente provata, per il bene comune.
Lo scorso gennaio era stata la stessa Nasa ad annunciare che le misurazioni dimostravano come la riduzione del cloro in atmosfera, avesse ridotto di circa il 20 per cento il decadimento dell’ozono durante l’inverno antartico, rispetto ai livelli misurati nel 2005, anno in cui si iniziarano le misurazioni satellitari. Insomma, il bando funzionava.
Ma oggi pare che le leggi del profitto, o forse della scarsa conoscenza scientifica, continuino ad avere la meglio. “Se queste emissioni continuano senza sosta, avranno il potenziale per rallentare il recupero dello strato di ozono”, scrive l’Agenzia. Sarà quindi necessario identificarne le cause, e adottare le misure necessarie quanto prima.
fonte: www.lifegate.it