Un team di ricercatori da 16 paesi ha realizzato la prima valutazione globale della salute degli ecosistemi fluviali e lacustri. In Europa metà dei corsi d’acqua non offre condizioni di vita ottimali per pesci e insetti
La prima fotografia globale dello stato di salute dei fiumi e dei loro ecosistemi non lascia molto spazio all’ottimismo. In metà dei fiumi del mondo l’uomo sta lasciando un impatto profondo sulla biodiversità. E sono davvero pochi quelli dove il fattore umano non ha ancora intaccato le dinamiche naturali.
Lo afferma lo studio più esaustivo condotto finora sull’argomento, a cui hanno lavorato scienziati provenienti da 16 paesi diversi di tutti i continenti. Non si tratta di una vera valutazione globale, però: non perché i ricercatori abbiano limitato di proposito il monitoraggio, ma perché per alcune regioni non sono disponibili dati di alcun tipo.
Gli ecosistemi fluviali e lacustri sono fondamentali per la biodiversità e anche per sostenere la vita dell’uomo sulla Terra. Anche se costituiscono appena l’1% della superficie terrestre, infatti, ospitano più di 17mila specie di pesci, che rappresentano ¼ di tutti i vertebrati. Oltre a essere fonti preziose di acqua dolce, e sostenere in vari modi l’economia umana.
Ma soltanto il 14% dei fiumi ospita delle popolazioni di pesci che si possono dire al sicuro dall’impatto dell’azione umana. E laddove l’uomo è arrivato, i risultati sono decisamente preoccupanti, riassume il team di ricercatori. La biodiversità in più della metà dei siti per cui sono disponibili dati è stata profondamente modificata. Con alcuni picchi, ad esempio in Nuova Zelanda e in Giappone. Nell’arcipelago australe dal 1990 a oggi il 70% delle specie di pesci presenti sono state dichiarate minacciate o in pericolo. Per gli ecosistemi giapponesi la percentuale scende al 42%.
Anche l’Europa però non ha una situazione migliore, nel complesso. Metà dei corsi d’acqua dolce del vecchio continente, infatti, presentano condizioni di vita tutt’altro che ottimali per pesci e macroinvertebrati come gli insetti .
Una ricerca recente, pubblicata alla fine del 2020, spiegava che i fiumi europei a flusso libero sono diventati sempre più rari. La costruzione di dighe, installazioni per il microidroelettrico, o altre opere che alterano il naturale scorrere delle acque e il passaggio di nutrienti e di fauna, sono anzi all’ordine del giorno. Solo in Europa sarebbero 1,2 milioni, con il risultato di frammentare i corsi d’acqua e causare effetti devastanti sugli ecosistemi acquatici.
fonte: www.rinnovabili.it
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I jeans sono uno dei capi più amati e indossati al mondo. Un nuovo studio però ha rilevato che le microfibre del denim sono presenti non solo nelle acque reflue ma anche nei laghi e nei sedimenti marini dell’Artico.
Negli ultimi 100 anni, la popolarità dei blue jeans è cresciuta a dismisura. Molte persone li indossano ogni giorno forse non conoscendo quanto possano risultare dannosi per l’ambiente. Un nuovo studio, pubblicato su Environmental Science & Technology Letters, ha dimostrato che il lavaggio di questo indumento e di altri tessuti rilascia microfibre nelle acque reflue.
Anche se la maggior parte di esse vengono rimosse dagli impianti di trattamento, alcune finiscono comunque nell’ambiente attraverso lo scarico delle acque reflue. Miriam Diamond, Samantha Athey e gli altri autori dello studio si sono chiesti se i blue jeans fossero una delle principali fonti di microfibre di cellulosa per l’ambiente acquatico. I jeans infatti sono fatti anche da fibre di cellulosa di cotone naturale, lavorate con un colorante sintetico indaco e altri additivi chimici.
I ricercatori hanno utilizzato una combinazione di microscopia e spettroscopia per identificare e contare le microfibre in denim color indaco in vari campioni di acqua raccolti in Canada. Il denim indaco costituiva rispettivamente il 23%, il 12% e il 20% di tutte le microfibre trovate nei sedimenti dei Grandi Laghi, dei laghi suburbani poco profondi vicino a Toronto, e nell’arcipelago artico canadese.
Sulla base dei livelli di microfibre presenti negli effluenti delle acque reflue, i ricercatori hanno stimato che gli impianti di trattamento oggetto di studio scaricano circa 1 miliardo di microfibre denim indaco al giorno. Negli esperimenti, i ricercatori hanno scoperto che un singolo paio di jeans usati potrebbe rilasciare circa 50mila microfibre per ciclo di lavaggio.
Secondo i ricercatori, non si conoscono ancora gli effetti che le microfibre avranno sulla vita acquatica, un modo pratico per ridurre l’inquinamento da microfibra denim sarebbe quello di lavare i jeans meno spesso. Ma al di là di questo, un aspetto ha allarmato gli scienziati: la presenza di microfibre dei jeans nell’Artico è un potente indicatore dell’impatto umano sull’ambiente.
fonte: www.greenme.it
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Nano e microplastiche hanno effetti importanti sul numero e sulla diversità delle comunità di macroinvertebrati d’acqua dolce. Riscontrati i primi danni a livello dei vermi Naididae, animali che hanno un ruolo chiave nel ciclo del carbonio
L’impatto di nano e microplastiche sull’ambiente è un problema di rilevanza globale, ma “la nostra negligenza rispetto ai suoi effetti in situ è inquietante”. Lo hanno scritto i ricercatori in uno studio pubblicato su Science Advances il 31 gennaio dedicato all’analisi delle comunità bentoniche d’acqua dolce.
L’esperimento è proseguito per oltre un anno sulle creature che vivono nei sedimenti fangosi in acqua dolce e ne ha studiato i comportamenti con diversi livelli di contaminazione da microplastiche. Infatti, come scrivono gli studiosi, era fondamentale iniziare a valutarne gli effetti in quanto, “nonostante le crescenti preoccupazioni per i pezzetti di plastica che riempiono i corsi d’acqua del mondo, gli effetti ambientali a lungo termine di tali inquinanti rimangono oscuri”. Sono stati così valutati in condizioni ecologicamente realistiche gli effetti a lungo termine (fino a 15 mesi) di cinque concentrazioni di nano e microplastiche per quanto concerne la ricolonizzazione naturale dei sedimenti da parte di comunità di macroinvertebrati. Gli effetti sono stati valutati sulla composizione della comunità, sulle dimensioni della popolazione e sulla diversità delle specie presenti nei sedimenti.
Lo studio è stato condotto in acque dolci in quanto particolarmente colpite da questo inquinamento: qui, infatti, i sedimenti accumulano nano e microplastiche a causa della vicinanza alle fonti di produzione delle stesse. I ricercatori hanno incorporato vassoi di sedimenti con diverse quantità di particelle di polistirene – con concentrazioni dallo 0 al 5% di plastica – sul fondo di canali dove insetti, lumache e altre creature avrebbero colonizzato il fango. Dopo 15 mesi nei vassoi con il 5% di polistirene gli organismi viventi erano meno di 300 mentre nei vassoi con microplastiche dallo 0 allo 0,5 percento erano presenti in media 500/800 vermi. In particolare con una concentrazione di plastica al 5% vi era un forte calo nella popolazione di vermi Naididae, come ha sottolineato il coautore dello studio Bart Koelmans, studioso alla Wageningen University & Research nei Paesi Bassi. Questa riduzione dei vermi Naididae suggerisce che l’inquinamento da nano e microplastiche può compromettere gli ecosistemi d’acqua dolce: questa famiglia di vermi funge infatti da preda per altri animali e svolge un ruolo chiave nel ciclo del carbonio mediante la decomposizione della materia organica.
“È un lavoro davvero importante” per Richard Thompson, esperto degli effetti ambientali dell’inquinamento da plastica all’Università di Plymouth in Inghilterra, non coinvolto nello studio. “La nostra comprensione dell’impatto di micro e nanoplastiche sugli ecosistemi proviene i gran parte da studi condotti in laboratorio”, mentre questo esperimento apre la strada a una valutazione degli effetti reali e a lungo termine di questi inquinanti.
Ad oggi, per esempio, il fango del fiume Reno soffre di inquinamento da plastica fino allo 0,1%, ma “è probabile che ci siano luoghi in cui la concentrazione è più elevata”, come ha detto Koelmans aggiungendo che “le concentrazioni di oggi non sono le concentrazioni del futuro”. Infine, nonostante i ricercatori non abbiano osservato effetti significativi da concentrazioni di plastica inferiori sulle comunità di acqua dolce studiate, “non significa che questi effetti non vi siano”, ha affermato Ana Luísa Patrício Silva, ecotossicologa dell’Università di Aveiro in Portogallo. Infatti il semplice censimento degli organismi che vivono nel fango inquinato da nano e microplastiche, ha concluso Silva, non esclude la possibilità che questi inquinanti compromettano il loro ciclo vitale.
L’Istituto presenta alla Camera dei Deputati, il primo Rapporto sul Danno ambientale. Le aree più a rischio sono le acque sotterranee, i laghi e i fiumi
L’Istituto Superiore per la Prevenzione e la Ricerca Ambientale (Ispra) ha presentato oggi alla Camera dei Deputati il primo Rapporto sul Danno ambientale(2017-2018).
Il documento accerta gravi danni in 30 aree del Paese: ad essere interessate sono soprattutto le acque sotterranee (32%), i laghi e i fiumi (23%), i terreni (19%), l’atmosfera e l’assetto morfologico (13%). Le attività che potenzialmente possono portare a danno ambientale sono risultate essere soprattutto quelle svolte dagli impianti di depurazione e di gestione dei rifiuti, dai cantieri edili e di realizzazione delle infrastrutture e dagli impianti industriali. Dei 30 casi in cui è stato accertato un grave danno o minaccia ambientale, 22 hanno portato all’apertura di procedimenti giudiziari (penali e civili)e 8 extra-giudiziari. In 10 di questi – spiega l’ISPRA fornendo le informazioni su località, danni provocati all’ambiente circostante, lavori di riparazione da eseguire e, laddove disponibili, i costi dell’operazione – il Ministero dell’ambiente si è già costituito parte civile o ha attivato il relativo iter.
Nel dettaglio, i 10 casi di cui sopra fanno riferimento alle discariche di Chiaiano e Casal di Principe in Campania, a quelle di Malagrotta e Anagni nel Lazio, a quella di Bellolampo in Sicilia, alle emissioni della Tirreno Power a Vado Ligure e Quiliano e all’interramento di fanghi e degli scarti di lavorazione a Rende, in provincia di Cosenza.
In generale, i casi segnalati all’Istituto dal Ministero dell’ambiente nel biennio 2017-2018 sono stati 200, con l’avvio di 161 attività istruttorie di valutazione del danno ambientale (verifiche operate sul territorio da SNPA): con 29 istruttorie aperte, la Sicilia svetta come prima regione in Italia, seguita da Campania (20), Lombardia (14) e Puglia (13).
A dare una definizione comune di danno ambientale in Europa – ricorda l’ISPRA – è intervenuta la direttiva europea del 2004 (2004/35/CE) che ha introdotto una disciplina unica in tema di responsabilità e riparazione. L’Italia ha pienamente introdotto nella propria normativa il principio di danno ambientale e ad oggi risulta essere il paese che dichiara più casi in Europa. Restano, tuttavia, da affrontare alcuni importanti temi, come ad esempio stabilire i criteri per definire la procedura amministrativa, la copertura assicurativa del danno, i criteri di accertamento e quelli di riparazione.
Rischi e vantaggi di una soluzione ancora allo stadio sperimentale. Mentre il fotovoltaico sui laghi sta partendo.
Gli impianti offshore potrebbero diventare una nuova frontiera del fotovoltaico, ma per ora ci sono così tante incognite su questa tecnologia, che è molto incerto prevedere se il solare “marino” avrà successo.
Questo, in sintesi, il giudizio di Molly Cox, analista di Wood Mackenzie Power & Renewables, citato da un breve articolo di approfondimento di GTM Research sul fotovoltaico galleggiante.
Intanto il floating PV sta iniziando a decollare per quanto riguarda le applicazioni sugli specchi d’acqua interni, come laghi e bacini idroelettrici: in particolare, la Corea del Sud ha approvato la realizzazione di un super-progetto da 2 GW sul lago di Saemangeum (a oggi l’installazione più grande del mondo prevista in questo segmento del solare), i cui lavori dovrebbero partire nella seconda metà del 2020.
Anche Eni punta a sviluppare un primo parco FV galleggiante utility-scale in Italia, in un bacino idrico dell’area industriale di Brindisi, con una potenza pari a 14 MW (vedi qui).
Ricordiamo che il potenziale del solare flottante (FPV: floating photovoltaic) su scala globale è enorme: si parla di 400 GW su laghi e riserve d’acqua nell’ultimo studio pubblicato dal Solar Energy Research Institute of Singapore (SERIS) in collaborazione con la Banca Mondiale.
Alla fine del 2018 si è arrivati a circa 1,3 GW di capacità cumulativa installata nei parchi galleggianti, con oltre 780 MW aggiunti proprio lo scorso anno.
Ma costruire grandi impianti fotovoltaici in mare aperto è tutta un’altra storia.
La salsedine e la forza delle onde sono due fattori da valutare con molta attenzione in fase di progetto, con la necessità di concepire strutture e ancoraggi capaci di sopportare le condizioni ambientali più avverse. Anche i moduli solari dovranno essere più resistenti alle intemperie e alla corrosione.
Nelle scorse settimane, un consorzio belga che riunisce diverse aziende e l’Università di Gand, ha annunciato di voler realizzare il primo parco solare nel Mare del Nord, in un’area marina che vedrà anche una centrale eolica offshore e un impianto per l’acquacoltura.
In una nota del consorzio si parla di sperimentare soluzioni/tecnologie innovative per questo tipo di installazioni marine.
C’è anche un consorzio olandese, guidato dalla società Oceans of Energy, che sta lavorando al fotovoltaico offshore al largo di Scheveningen, in Olanda (qui un nostro articolo sull’iniziativa); e alle Maldive sono operativi alcuni piccoli impianti-pilota galleggianti realizzati da Swimsol.
Tra i principali vantaggi delle installazioni in mare, per tornare ai commenti dell’esperta di Wood Mackenzie, Molly Cox, c’è il rendimento più elevato dei pannelli fotovoltaici rispetto ai progetti a terra, grazie al raffreddamento prodotto dall’acqua.
Lo stesso vale per gli impianti su specchi d’acqua interni. Le stime riportate sono intorno al 10% di produzione aggiuntiva dei sistemi FPV ma è ancora difficile, osserva Cox, stabilire esattamente quanto le installazioni offshore siano più efficienti in confronto a quelle sulla terraferma e soprattutto quelle sui laghi, perché manca una base consolidata di progetti con relativi dati sulla generazione di energia.
Il fotovoltaico offshore condivide alcuni vantaggi con gli impianti galleggianti su laghi e riserve d’acqua: oltre alle migliori prestazioni (almeno sulla carta) bisogna ricordare il consumo-zero di suolo e la possibilità dell’integrazione con altre fonti rinnovabili, con l’eolico offshore nel primo caso e con i bacini idroelettrici nel secondo.
E gli impianti marini potrebbero contribuire all’indipendenza energetica delle isole remote, senza dimenticare che ci sono paesi, come l’Olanda, con ampie aree marine relativamente tranquille che potrebbero essere sfruttate con zattere riempite di pannelli solari.
Infine, chiarisce Cox, un sistema FV galleggiante su un bacino interno costa mediamente già un 10-15% in più di un parco sulla terraferma, quindi un progetto in mare aperto, con le sue incognite e i maggiori requisiti di affidabilità e resistenza, con ogni probabilità sarebbe ancora più costoso (oltre che rischioso per gli investitori).
Insomma, la sfida per sviluppare il primo impianto fotovoltaico galleggiante offshore utility-scale di taglia commerciale è appena agli inizi.
Un quadro del monitoraggio svolto a livello nazionale dal Snpa per individuare nelle acque superificiali (fiumi e laghi) i cosiddetti “contaminanti emergenti” (fra cui antibiotici, estrogeni, farmaci antinfiammatori, insetticidi, prodotti chimici industriali, ecc.), con un focus sulla situazione in Umbria.
I microinquinanti, sostanze persistenti e biologicamente attive, sono ormai presenti in tutti i comparti ambientali e antropici e rappresentano un rischio concreto per gli ecosistemi naturali e la salute umana. Negli ultimi anni, la nostra consapevolezza dell’impatto generato da tali sostanze è notevolmente aumentata, grazie anche alla crescente attenzione della politica ambientale europea e all’evoluzione delle tecniche di monitoraggio e analisi.
L’immissione continua di nuove molecole, il cui destino e i relativi effetti restano ancora poco conosciuti, rappresenta una delle sfide più importanti per le Agenzie ambientali che devono fornire risposte adeguate sullo stato di qualità delle varie matrici (acqua, aria e suolo), sempre più compromesse dalle attività antropiche.
In questo contesto, la tutela dell’ambiente acquatico ha fatto molti passi avanti attraverso l’emanazione di norme che, da una parte, prevedono il monitoraggio e la valutazione, secondo precisi standard di qualità, delle sostanze già individuate come pericolose e prioritarie (Direttiva 2013/39/CE) e, dall’altra, stabiliscono criteri per il controllo di “contaminanti emergenti”, ossia di quelle sostanze di cui non è ancora accertata la pericolosità (Decisione 2015/495/CE). La preoccupazione per la presenza di questi nuovi microinquinanti, che includono diversi prodotti farmaceutici, cosmetici, pesticidi e altri prodotti di origine industriale, ha portato all’avvio di attività di controllo mirate, sia nel territorio europeo che in quello nazionale, che consentiranno di valutare l’incidenza di tali composti nelle acque e di capire se essi rappresentano effettivamente un’emergenza a livello comunitario. L’obiettivo finale è quello di ridurre fino ad eliminare la presenza di tali sostanze dagli ecosistemi acquatici, anche attraverso politiche di restrizione della commercializzazione e dell’utilizzo dei prodotti che le contengono.
QUALI SONO I “CONTAMINANTI EMERGENTI”?
Per contaminanti emergenti si intendono quelle sostanze attualmente non regolate né adeguatamente monitorate e per le quali non si dispone di dati sufficientemente affidabili per una corretta valutazione del rischio o per la definizione del grado di pericolosità o tossicità.
La Comunità Europea ha individuato (Dir 2013/39/CE e Dec 2015/495/CE) un primo Elenco di Controllo di sostanze candidate(Watch List) da monitorare nella matrice acquosa, che viene periodicamente aggiornato in funzione dei riscontri analitici al fine di escludere dal monitoraggio quelle risultate non significative e identificare tempestivamente quelle più pericolose.
La Watch List delle sostanze emergenti
In generale, quindi, si tratta di una grande varietà di composti attivi, potenzialmente immessi da molteplici fonti di rilascio, i cui processi di degradazione sono ancora poco conosciuti. Benché non si disponga ad oggi di un quadro approfondito, la capacità di rimozione degli impianti di depurazione convenzionali sembra ancora limitata e molte delle molecole veicolate nella rete fognaria persistono nelle acque di scarico depurate o si accumulano nei fanghi di depurazione.
In considerazione del potenziale effetto di tali sostanze nelle acque superficiali, la loro determinazione richiede metodi analitici molto sensibili e accurati, in grado di rilevarne la presenza nella matrice acquosa anche in concentrazioni molto basse, come richiesto dalla Decisione europea.
IL MONITORAGGIO A LIVELLO NAZIONALE
Le attività di monitoraggio dell’Elenco di controllo sono state avviate in Italia nella seconda metà del 2015. Nell’ambito di un tavolo tecnico nazionale coordinato da ISPRA che coinvolge tutte le Agenzie ambientali, sono stati stabiliti gli elementi tecnici del piano di monitoraggio, a partire dalla definizione della rete e delle frequenze di campionamento fino all’identificazione del circuito dei laboratori dotati di metodiche analitiche adeguate ai livelli di sensibilità richiesti.
Le stazionida monitorare sono state selezionate sulla base dell’analisi delle pressioni antropiche e tenendo conto della probabilità di dispersione nell’ambiente delle diverse sostanze, privilegiando i siti delle reti regionali già attivi per il monitoraggio ambientale dei corpi idrici. Complessivamente, nel territorio nazionale è stata individuata una rete composta da 25 stazioni, rappresentative di tutte le regioni.
I periodi di campionamento sono stati definiti in relazione ai mesi di maggior utilizzo delle diverse sostanze (es. mesi invernali per antibiotici macrolidi e antinfiammatori, primavera-estate per i pesticidi, ecc.), con frequenzealmeno annuali e tenendo conto dei piani di monitoraggio regionali, allo scopo di non gravare ulteriormente sulle attività di analisi e controllo già in essere.
Le stazioni italiane per il monitoraggio delle sostanze dell’elenco di controllo (Fonte: ISPRA, 2017)
In un’ottica di sussidiarietà, il Sistema SNPA ha stabilito di affidare l’analisi dei campioni raccolti nei diversi territori regionali solo ad alcuni laboratori già dotati di metodiche adeguate e in grado, quindi, di rispettare le scadenze temporali previste dalla Direttiva. Il programma di monitoraggio prevede la ricerca delle sostanze dell’elenco di controllo su un periodo di almeno 4 anni, secondo le modalità illustrate nello schema.
Gli step dell’attività di monitoraggio della Watch List (Fonte: ISPRA, 2017)
Periodicamente, i dati raccolti vengono elaborati e trasmessi da ISPRA alla Commissione Europea per l’aggiornamento dell’elenco di controllo.
LA SITUAZIONE IN UMBRIA
In questo contesto, è stato avviato, anche a livello regionale, il monitoraggio delle sostanze dell’elenco di controllo presso una stazione localizzata nel medio corso del fiume Tevere, in località Pontecuti, poco a monte dell’immissione nell’invaso di Corbara.
Il tratto fluviale selezionato è particolarmenterappresentativo poiché è interessato, nelle aree circostanti, da importanti attività agricole (in prevalenza colture cerealicole, foraggere e industriali) e allevamenti zootecnici anche di grandi dimensioni (suinicoli, avicoli e bovini), nonché dalla presenza di diversi agglomerati urbani, di consistenza anche significativa (>10.000 AE), i cui reflui trattati vengono recapitati nel corpo idrico.
La stazione di campionamento, già attiva nella rete regionale di monitoraggio e da sempre inserita nelle reti di controllo europee, rappresenta inoltre la chiusura del bacino del medio Tevere ed è quindi in grado di fornire una lettura sintetica dei carichi provenienti da buona parte del tratto umbro del corso d’acqua e dei suoi principali affluenti.
L’insieme delle pressioni antropiche gravanti sul tratto determina, in base ai dati raccolti negli anni per il controllo dellaqualità ambientale, moderate alterazioni delle condizioni ecologiche (comunità biologiche e qualità chimico-fisica delle acque) e la presenza in tracce di diversi microinquinanti quali pesticidi, metalli e altri composti di origine industriale.
A partire dal 2016 le attività di campionamento sono state integrate con il rilievo delle sostanze emergenti, effettuato dal personale del Laboratorio Multisito di Arpa Umbria secondo le frequenze stabilite dal tavolo nazionale; per la parte analitica, ci si è avvalsi della collaborazione di ARPA Lombardia. Complessivamente, nel triennio di monitoraggio 2016-2018 sono stati effettuati 6 prelievi, 2 per ciascuno degli anni di osservazione. Nel 2016, in entrambi i campioni, è stata effettuata la ricerca di tutti i 17 analiti dell’elenco di controllo, mentre dal 2017 le campagne di prelievo sono state programmate tenendo conto del periodo di maggior impiego delle diverse sostanze, privilegiando i mesi invernali per antibiotici macrolidi e antinfiammatori e i mesi tardo-primaverili per le altre categorie. In sintesi, quindi, per ogni composto sono stati raccolti 4 campioni, come specificato nella tabella seguente.
Periodi di campionamento delle sostanze emergenti in Umbria
I risultati dei campionamenti, trasmessi ad ISPRA per il successivo invio alla Commissione europea, hanno evidenziato almeno una positività in quasi tutti i campioni.
In particolare, 12 delle 68 determinazioni analitiche effettuate (pari al 18% del totale) sono risultate superiori al limite di quantificazione: le categorie interessate comprendono estrogeni (10%), insetticidi neonicotinoidi (5%) e farmaci antinfiammatori (3%).
Per la categoria degli estrogeni le positività rilevate sono relative solo a quelli di origine naturale (17-beta-estradiolo-E2 ed estrone-E1), presenti in tutti i campioni; per la categoria degli insetticidi neonicotinoidi solo l’imidacloprid è risultato positivo in 3 dei 4 campioni raccolti, mentre il diclofenac è stato rilevato in 2 occasioni. Nessuna positività è stata invece evidenziata per gli altri insetticidi neonicotinoidi e pesticidi, né per le categorie dei prodotti per la cura del corpo e per gli altri inquinanti di origine industriale.
Il dettaglio delle positività riscontrate per ciascuna sostanza è riportato nella tabella seguente insieme ai limiti di rilevabilità della metodica analitica (LOQ).
In assenza di valori limite relativi alle concentrazioni di tali sostanze nella matrice acquosa, è possibile effettuare al momento solo un confronto tra i valori misurati e i relativi limiti di quantificazione del metodo analitico utilizzato. Tale confronto mostra come, per le categorie in esame, i massimi rilevati risultino superiori di un ordine di grandezza rispetto al LOQ; particolarmente significative sono le positività riscontrate per l’imidacloprid, che raggiunge anche concentrazioni pari a 3 volte il limite di rilevabilità (25 ng/l).
GLI SVILUPPI FUTURI
I rapporti intermedi inviati alla Commissione Europea dai vari Stati Membri hanno consentito di effettuare un’analisi sulla significatività dei primi dati raccolti e sull’opportunità di eliminare dall’elenco di controllo le sostanze per le quali sono già disponibili informazioni sufficientiper le successive valutazioni di rischio.
I risultati di tali valutazioni sono confluiti nella nuova Decisione 2018/840, che abroga la precedente Decisione 2015/495 e aggiorna la Watch List con l’introduzione di altre tre sostanze potenzialmente pericolose ed emergenti, tra le quali due antibiotici (amoxicillina e ciprofloxacina) e un pesticida (metaflumizone). Parallelamente, sono state eliminate dall’elenco 5 sostanze (diclofenac, ossadiazone, 2,6-diter-butil-4-metilfenolo, tri-allato e 4-metossicinnamato di 2-etilesile) per le quali si può ritenere conclusa la valutazione dei rischi nella matrice acquosa. Il monitoraggio del nuovo elenco verrà avviato a partire dal 2019.
Questo processo dinamico, messo a punto a scala europea e portato avanti a livello regionale, consentirà di tenere sotto controllo il destino di tali contaminanti nel comparto ambientale, anche al fine di predisporre adeguate misure di tutela dei nostri ecosistemi acquatici.
Nell’ambito di tali attività, Arpa Umbria sta lavorando per implementare le proprie capacità analitiche, a fronte di richieste europee sempre più onerose, in modo tale da poter fronteggiare autonomamente le necessità di monitoraggio future.
Questo dimostra che "il problema del marine litter, e in particolare l'invasione della plastica, non riguarda soltanto i mari e gli oceani, ma anche fiumi e laghi" osserva Legambiente in chiusura della 13/a edizione della campagna Goletta dei Laghi, realizzata in collaborazione con il Conou (Consorzio Nazionale per la gestione, raccolta e trattamento degli oli minerali usati) e Novamont, che fa il punto sulle principali criticità che minacciano i nostri laghi e i loro ecosistemi: scarichi non depurati e inquinanti, rifiuti in acqua, perdita di biodiversità, cementificazione delle coste legale e illegale, captazione delle acque, incuria.
Dopo la plastica, tra i materiali più trovati c'è il vetro/ceramica (10,3%), seguito da metallo (4,7%) e carta/cartone (4,1%). Sul podio dei rifiuti più trovati ci sono, invece, i mozziconi di sigaretta, al primo posto con una percentuale del 29,4%; poi frammenti di plastica, ovvero i residui di materiali che hanno già iniziato il loro processo di disgregazione; a seguire bottiglie (e pezzi) di vetro (7,4%); sacchetti di patatine e dolciumi (5,6%); bastoncini per la pulizia delle orecchie (3,5%); frammenti di carta (3,34%).
"La cattiva gestione dei rifiuti urbani resta la causa principale della presenza dei rifiuti sulle sponde dei laghi monitorati (il 63% degli oggetti è riconducibile ad essa) - spiega Legambiente - Questa categoria di rifiuto è rappresentato per lo più da imballaggi alimentari (sacchetti di dolciumi e bottiglie, ad esempio), in primis, e da rifiuti da fumo, principalmente mozziconi di sigaretta ma anche accendini, pacchetti di sigarette e imballaggi dei pacchetti".
Sono 24 i "malati cronici", i punti più inquinati e segnalati ormai da anni, nei 17 bacini lacustri monitorati dalla Goletta dei laghi. Anche quest'anno, spiega Legambiente, "i risultati confermano che i laghi italiani continuano a essere minacciati da scarichi fognari non depurati: il 55% dei campionamenti eseguiti in 17 bacini evidenziano la presenza di cariche batteriche oltre i limiti di legge".
I tecnici hanno prelevato campioni di acqua in 68 punti in sei regioni (Piemonte, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Umbria e Lazio) e li hanno sottoposti ad analisi microbiologiche: "Ben 38 sono quelli giudicati 'fortemente inquinati' e 'inquinati' - osservano - Punti critici spesso denunciati da anni, come nel caso dei 24 'malati cronici' segnalati dall'associazione ad ogni edizione della campagna partita nel 2006". I tecnici di Goletta dei Laghi hanno prelevato campioni di acqua in diversi punti considerati sensibili sia per l'elevata attività antropica che per la l'affluenza di scarichi nel bacino, spesso segnalati dai cittadini tramite il servizio Sos Goletta. La carenza dei sistemi depurativi, assieme alla pessima abitudine di usare il wc e gli scarichi domestici come una pattumiera, "è causa della presenza del 5,4% dei rifiuti presenti" nei laghi.
Migliora la qualità ambientale dei corpi idrici d’Europa, ma per la maggior parte di loro la classificazione “buono stato” è ancora un sogno
Basta un veloce sguardo alla cartina che mostra lo stato ecologico dei corpi idrici superficiali per comprendere la situazione: la maggior parte di sorgenti, laghi e fiumi europei non passa la prova ambientale. Nonostante gli sforzi per migliorare la qualità delle acque, messi in campo dai Ventotto in questi anni, allo stato attuale più della metà di queste risorse idriche non raggiunge neppure il “buono stato ecologico”, lo standard minimo fissato dall’Unione Europea. A mostrare la realtà dei fatti è il nuovo rapporto dell’Agenzia europea per l’Ambiente (AEA) dal titolo «Acque europee – valutazione della situazione e delle pressioni 2018». Il documento fornisce una valutazione aggiornata dello stato di salute di oltre 130mili corpi idrici superficiali e sotterranei sulla base dei dati acquisiti e riportati da oltre 160 dei cosiddetti piani di gestione dei bacini idrografici nazionali relativi al periodo dal 2010 al 2015.
I numeri parlano chiaro: in molti distretti idrografici dell’Europa centrale, la cui densità di popolazione è più elevata e l’agricoltura maggiormente intensiva, si riscontra la più alta percentuale di acque che non raggiungono un buono stato ecologico. Una situazione che riguarda da vicino anche l’Italia: degli oltre 6100 corpi idrici superficiali monitorati, più del 10% ha fallito il test.
Percentuale di corpi idrici superficiali che non sono in un buono stato ecologico né attuale né potenziale per ogni bacino idrografico
Nel complesso solo il 38 per cento dei laghi e fiumi europei risulta essere in buono stato chimico, ossia con concentrazioni di inquinanti non superiori agli standard UE. Nel restante 62 per cento è disciolto un mix di contaminanti, su cui primeggia il mercurio, seguito da vicino dal cadmio. Non è solo l’inquinamento a preoccupare: dighe, grandi e piccole, e l’eccessivo prelievo restano tra le principali minacce per la salute nel lungo termine dei corpi idrici. Rispetto alle acque di superficie, le sorgenti sotterranee presentano generalmente uno stato migliore. Il 74 per cento dell’area delle acque sotterranee ha raggiunto un buono stato chimico, mentre l’89 per cento ha raggiunto un buono stato quantitativo. In questo caso, tuttavia, l’Italia registra un risultato pessimo con uno stato chimico addirittura inferiore alla media UE.
“Grazie all’attuazione della normativa europea sulle acque negli Stati membri – spiega Karmenu Vella, commissario europeo per l’Ambiente, gli affari marittimi e la pesca – la qualità dell’acqua dolce in Europa sta gradualmente migliorando, ma occorre ancora fare molto di più prima che tutti i laghi, i fiumi, le acque costiere e i corpi idrici superficiali siano in buono stato. La lotta all’inquinamento agricolo, industriale e domestico richiede sforzi congiunti da parte di tutti gli utenti delle acque d’Europa”.
La salute delle acque che scorrono in superficie e sotto, nelle falde del nostro paese, continua ad essere incerta e per certi versi preoccupante. Tra gli inquinanti una parte importante spetta ai pesticidi, come il glifosato. A dirlo è l’annuario dei dati ambientali dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), appena pubblicato insieme al Rapporto ambiente. Tra i temi affrontati nei report ci sono anche agricoltura, energia, trasporti, biodiversità, clima, inquinamento atmosferico, consumo di suolo, e rifiuti. In che condizioni versano le nostre acque? Solo il 43% dei fiumi e il 20% dei laghi raggiungono l’obiettivo di qualità per stato ecologico (equilibrio dell’ecosistema); mentre 1 fiume su 4 e più della metà dei laghi (52%) non raggiungono l’obiettivo di qualità per lo stato chimico (presenza di pesticidi e sostanze chimiche).
Le zone più contaminate
Colpisce il dato relativo alla contaminazione da pesticidi. L’Ispra spiega: “Inquinati 370 punti di monitoraggio (23,8% del totale) di acque superficiali, con concentrazioni superiori ai limiti di qualità ambientali; nelle acque sotterranee, 276 punti (8,6% del totale) registrano tale superamento. Permangono, tuttavia, sensibili differenze tra le regioni, dovute a un monitoraggio degli inquinanti ancora disomogeneo sul territorio nazionale”. E in effetti, mentre il picco di acque pulite spetta alla Sardegna, il maggior numero di punti con superamenti degli standard di qualità si registrano nelle aree della pianura padano-veneta (arco di tempo 2010-2014). “Tale stato è legato ovviamente alle caratteristiche idrologiche del territorio in questione e al suo intenso utilizzo agricolo – spiega Ispra – ma dipende anche dal fatto che le indagini sono più complete e rappresentative nelle regioni del Nord. D’altra parte, l’aumentata copertura territoriale e la migliore efficacia del monitoraggio sta portando alla luce una contaminazione signi cativa anche al Centro-Sud”.
Il glifosato in Toscana
In generale, fortunatamente, nelle acque superficiali, il valore del superamento degli standard registra un aumento pressochè regolare in tutto l’arco temporale considerato (2010-2014), raggiungendo il suo valore massimo nel 2014 (21,3%), mentre nelle acque sotterranee tra il 2010-2014 il valore del superamento è pressochè stabile (circa il 7%). In particolare, l’Arpa Toscana ha rilevato la presenza di glifosato nelle acque regionali, identificando tra quelle superficiali, ben cinque tra fiumi e invasi con concentrazione media di Glifosato superiore allo standard di qualità ambientale: Invaso Penna, fiume Arno Valdarno Inferiore, fiume Greve Valle, fosso Reale – Torrente Rimaggio e fosso Serpenna. Dati critici anche nella zona a vocazione “vivaistica” in provincia di Pistoia dove, in alcuni torrenti, sono state trovate concentrazioni medie annue ben superiori allo standard di qualità ambientale.
Prodotti fitosanitari e avvelenamento
In Italia, nel 2014 si sono verificati 614 casi di avvelenamento acuto legati ai prodotti fitosanitari. Il monitoraggio condotto dall’ISS afferma che la maggior parte dei casi (84%) non è correlata a effetti gravi e che le sostanze attive più frequentemente coinvolte includono metam sodio, glifosato, metomil, solfato di rame, clorpirifos metile e dimetoato. Tutte le informazioni e i report sono scaricabili al sito www.isprambiente.gov.it. Per effettuare ricerche statistiche sugli indicatori vedi anche http://annuario.isprambiente.it