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Gli orsi esposti a sostanze tossiche per la fusione dei ghiacciai

















Gli orsi polari vengono esposti a sostanze chimiche tossiche che vengono liberate a seguito della fusione dei ghiacci, provocata dal riscaldamento globale. Lo conferma uno studio, pubblicato sulla rivista Environmental Science and Technology, condotto dagli scienziati della Lancaster University, che hanno valutato le concentrazioni di sostanze sintetiche in atmosfera. Il team, guidato da Crispin Halsall, ha scoperto la presenza di composti poli e perfluorurati (PFAS) sul lato inferiore del ghiaccio artico. Gli inquinanti, spiegano gli autori, vengono rilasciati da siti di produzione in aree urbane e trasportate dal vento fino all’Artico, dove si accumulano nel ghiaccio raggiungono poi l’acqua del mare quando il ghiaccio si scioglie. Queste sostanze possono immettersi nelle catene alimentari e raggiungere gli orsi polari, di cui sembrano inibire i sistemi ormonali. Il ghiaccio marino artico tendeva a restare congelato per diversi anni, osservano gli esperti, ma ora si scioglie ogni estate a causa delle temperature medie più elevate. “In un anno – afferma Halsall – il ghiaccio può raccogliere quantitativi ingenti di sostanze inquinanti, che poi interagiscono con il manto nevoso sovrastante. Gli eventi di disgelo e fusione più precoci ei irregolari possono provocare il rilascio rapido dei composti chimici immagazzinati e una conseguente elevata concentrazione di PFAS nelle acque che circondano i banchi di ghiaccio”. “La scienza investigativa di questo tipo – conclude – può aiutarci a comprendere le dinamiche del comportamento degli inquinanti e identificare i rischi chiave, in particolare quelli legati al cambiamento climatico. Di conseguenza, speriamo che queste informazioni possano guidare la legislazione internazionale in modo da vietare l’uso di sostanze chimiche pericolose per l'ambiente e la fauna globale”.

fonte: www.agi.it


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Salute e ambiente, una summer school dell’Università di Bologna

Dal 14 al 18 giugno 2021, in collaborazione con Arpae e Rias.



L’esposizione ambientale a potenziali sostanze tossiche può avvenire ogni giorno attraverso l’aria, il suolo o l’acqua contaminata. La ricerca attuale si concentra sui rischi ambientali, riconducibili ad agenti chimici, biologici e fisici, nei luoghi di lavoro e nella catena alimentare. I metodi di indagine e la valutazione dei potenziali rischi per la salute hanno fatto sensibili passi avanti negli ultimi anni.

L’Università di Bologna (sede di Ravenna), in collaborazione con Arpae Emilia-Romagna e Rete Italiana Ambiente Salute organizza la summer school “Environmental Health” sul tema del rischio da esposizione ambientale a sostanze tossiche.

Il corso è rivolto agli studenti dei corsi di laurea e dei master con basi di biologia, scienze biomediche o ambientali, statistica interessati ad approfondire i temi di tossicologia, epidemiologia e salute ambientale.

Un percorso online di cinque giorni, dal 14 al 18 giugno 2021, nei quali gli studenti acquisiranno competenze sugli aspetti di ambiente e salute, strettamente interconnessi.

Il percorso approfondisce i diversi approcci in uso per la valutazione del rischio da esposizione, oltre a focus specifici dedicati alla tossicologia e all’epidemiologia ambientale. Previste lezioni e sessioni pratiche, di livello intermedio e avanzato.

Le iscrizioni devono essere presentate entro il 4 maggio 2021

Per avere maggiori informazioni form@fondazioneflaminia.it

Bando di ammissione

Programma

https://www.snpambiente.it/wp-content/uploads/2021/04/summer-school_program_.pdf

fonte: www.snpambiente.it


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«Diciamo no a un'Europa tossica»: appello e petizione europea

Appello e raccolta firme, con lo slogan "Say NO to a toxic Europe", diretto al vicepresidente esecutivo della Commissione Europea, Frans Timmermans, per chiedere alla UE che la nuova "strategia" sulle sostanze chimiche protegga la salute dei cittadini e l'ambiente in cui vivono.




Appello e raccolta firme, con lo slogan "Say NO to a toxic Europe", diretto al vicepresidente esecutivo della Commissione Europea, Frans Timmermans, per chiedere alla UE che la nuova "strategia" sulle sostanze chimiche protegga la salute dei cittadini e l'ambiente in cui vivono.

L'iniziativa è promossa da HEAL (Health and Environment Alliance) e da EEB (European Environmental Bureau) che spiegano: «Vogliamo coinvolgere i cittadini per far sì che la nuova strategia della UE per le sostanze chimiche rispetti la salute e l'ambiente e vada verso un impegno a emissioni zero. La nuova strategia deve basarsi sulle evidenze scientifiche, è molto importante».
«Oggi siamo costantemente esposti ovunque a sostanze chimiche di sintesi che risultano pericolose - spiegano i promotori - dai giocattoli ai materiali utilizzati in edilizia».

«Al momento, i documenti disponibili fanno capire che la UE sta considerando di autorizzare nuove sostanze potenzialmente pericolose nei prodotti di uso quotidiano, anziché provvedere a una maggiore tutela della salute e dell'ambiente».

«Secondo le stesse statistiche europee, i due terzi delle sostanze chimiche prodotte nella UE rappresentano un pericolo per la salute. E secondo i dati dell'OMS, sono andate perdute 1,6 milioni di vite a causa proprio dell'esposizione alle sostanze chimiche solo nel 2016 e pare si tratti di una sottostima».

I promotori della petizione sottolineano anche il ruolo dei cosiddetti ritardanti di fiamma utilizzati nella produzione di arredi, che rappresentano un fattore di esposizione che potrebbe essere eliminato andando verso una conversione della produzione con criteri naturali.

QUI per approfondire e per sottoscrivere l'appello

fonte: www.ilcambiamento.it


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Clima, l’allarme degli scienziati: “Lo scioglimento dei ghiacci porta un’invasione di grandi alghe tossiche”

Lo studio mostra le conseguenze a cascata del riscaldamento globale per ora nel Sud-Est asiatico














Lo scioglimento delle calotte di neve nei ghiacci dell'Himalaya sta provocando la fioritura di alghe tossiche note come Noctiluca scintillans tanto grandi da essere visibili dallo spazio. Lo sostengono, in un articolo pubblicato sulla rivista Scientific Reports, i ricercatori della Columbia University, che hanno osservato la presenza di questi vegetali nelle coste adiacenti al Mar Arabico. «Noctiluca scintillans, un organismo planctonico di dimensioni millimetriche con la capacità di prosperare nelle acque costiere, forma dei filamenti e degli spessi turbinii verdi», afferma Joaquim Goes del Lamont-Doherty Earth Observatory della Columbia University. 
«Si tratta di un organismo resiliente, quasi sconosciuto vent'anni fa, ma che si è moltiplicato a un ritmo allarmante in India, Pakistan e altre nazioni, preoccupando gli esperti e minacciando la sopravvivenza del plancton, che ha un ruolo fondamentale nella catena alimentare. Lo scioglimento della neve nella regione dell'Himalaya tibetana sta aumentando le temperature oceaniche, alimentando così l'espansione della Noctiluca», aggiunge il ricercatore, specificando che le immagini satellitari della Nasa mostrano l'avanzare dell'alga. «Si tratta probabilmente di uno degli effetti più drammatici che abbiamo osservato in relazione ai cambiamenti climatici. Noctiluca è presente ora nel sud-est asiatico, al largo delle coste della Thailandia e del Vietnam fino a sud delle Seychelles e ovunque si manifesti porta dei problemi perché minaccia la catena alimentare già vulnerabile del Mar Arabico, danneggiando la qualità dell'acqua e causa mortalità per i pesci», prosegue Goes.

Clima, l’allarme degli scienziati: “Lo scioglimento dei ghiacci porta un’invasione di grandi alghe tossiche”

Il team ha effettuato degli esperimenti in laboratorio, utilizzando dati da indagini sul campo e immagini satellitari dell'agenzia spaziale americana. «Analizzando decenni di dati abbiamo collegato l'ascesa di Noctiluca nel Mar Arabico con lo scioglimento dei ghiacciai e con l'indebolimento dei monsoni invernali, che sono più caldi e umidi. Inoltre sono pochissime le specie che possono nutrirsi della Noctiluca», spiega ancora l'esperto. «La perdita di risorse della pesca ha il potenziale per esacerbare ulteriormente le turbolenze socioeconomiche per i paesi della regione che sono già colpiti dalla guerra e dalla povertà. Il nostro studio mostra le conseguenze a cascata del riscaldamento globale e di come i cambiamenti climatici influiscano sulla biologia degli oceani», conclude Goes. 
fonte: www.lastampa.it

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L’inquinamento da PFAS è diffuso in tutta Europa ma pochi lo sanno

La relazione pubblicata dall’Agenzia europea dell’ambiente presenta una panoramica dei rischi noti e potenziali per la salute umana e l’ambiente legati alle sostanze alchiliche perfluorifluorurate





















Ambiente e cittadini europei risultano esposti ad una vasta gamma di PFAS, sostanze chimiche estremamente tossiche e persistenti. L’allarme – e non è il primo – arriva direttamente dall’Agenzia europea dell’ambiente che, con la pubblicazione della relazione “Emerging chemical risks in Europe — PFAS”, ha tracciato una panoramica sulla situazione attuale definendo cause e pericoli per la salute. 
Ampiamente utilizzati in campo industriale, cosmetico e tessile, i PFAS (acidi perfluoroacrilici) sono catene alchiliche idrofobiche fluorurate, cioè – semplificando –  acidi molto forti caratterizzati da una struttura chimica che ne conferisce una particolare stabilità termica; questo fattore li rendente resistenti ai principali processi naturali di degradazione. Per questo motivo i PFAS vengono utilizzati, per esempio, per aumentare nei materiali la repellenza all’olio e all’acqua, per ridurre la tensione superficiale e per aumentare la resistenza alle alte temperature o ad altri prodotti chimici. Attualmente ne esistono oltre 4.700 diversi tipi: le classi più diffuse sono in particolare il PFOS (perfluorottanosulfonato) e il PFOA (acido perfluoroottanoico), quest’ultimo caratterizzato da un’elevata persistenza nell’ambiente (oltre 5 anni) e nelle persone. 

Come specificato dal rapporto pubblicato dalla EEA, sebbene manchi attualmente una mappatura specifica dei siti europei potenzialmente inquinati da PFAS, le singole attività di monitoraggio nazionali ne hanno rilevato alte concentrazioni in tutta Europa (nel 2013, lo ricordiamo, uno studio del CNR aveva individuato nei comuni compresi tra Padova, Vicenza e Verona elevate concentrazioni di queste sostanze). 
La produzione e l’uso di PFAS hanno infatti portato alla contaminazione di acqua potabile in diversi paesi europei e, come emerso dal biomonitoraggio umano, se ne riscontrano concentrazioni variabili anche nel sangue dei cittadini. Le persone risultano esposte attraverso l’acqua potabile, gli imballaggi per gli alimenti, le creme e i cosmetici, i tessuti ed altri prodotti di consumo su cui vengono applicate tali sostanze.
Sebbene gli effetti sulla salute umana siano ancora sotto indagine – si parla di immunodeficienza, alterazioni del sistema endocrino, insorgenza di tumori a reni e testicoli, sviluppo di malattie tiroidee – ad alte concentrazioni possono comportare un danno non solo per le persone ma anche per l’ambiente e gli ecosistemi. 
I costi sanitari e quelli delle bonifiche ambientali, in Europa, sono stati stimati in decine di miliardi di euro all’anno. Per questo motivo, l’Agenzia suggerisce l’adozione di misure precauzionali per limitarne gli usi non essenziali e la loro sostituzione con sostanze chimiche sicure si dimostrano scelte fondamentali per limitare l’inquinamento futuro dell’intero ecosistema. 
Nel dettaglio, la Commissione europea ha previsto una strategia sulle sostanze chimiche per la sostenibilità che “aiuterà sia a proteggere meglio i cittadini e l’ambiente da sostanze chimiche pericolose sia a incoraggiare l’innovazione per lo sviluppo di alternative sicure e sostenibili”.”Il quadro normativo  – si legge nella comunicazione – dovrà rapidamente riflettere le prove scientifiche sul rischio rappresentato dagli interferenti endocrini, dalle sostanze chimiche pericolose nei prodotti, comprese le importazioni, dagli effetti combinati di diverse sostanze chimiche e da sostanze chimiche molto persistenti”.

fonte: www.rinnovabili.it

Bisfenolo A nella plastica: una minaccia silenziosa (ma devastante) per la nostra salute e per l’ambiente

È dappertutto, ed è anche causa di problemi di fertilità, sviluppo neurologico e cancro, soprattutto tra i bambini. È il bisfenolo A, una sostanza chimica contenuta nelle plastiche di molti prodotti di consumo. Ma nessuno lo sa, e l’industria nega persino l’evidenza scientifica


Si trova dappertutto: nelle bottiglie d’acqua, nei giocattoli, nei materiali da costruzione, persino nel packaging di molti cibi. Ci veniamo a contatto ogni giorno, pur essendone inconsapevoli. Ma soprattutto, non sappiamo quanto faccia male. Anzi, peggio: lo sappiamo da anni, ma nessuno ha mai fatto niente per toglierlo di mezzo. Sembra la trama di un film distopico, eppure è la realtà.
Parliamo del bisfenolo A, una sostanza chimica usata come ingrediente in diversi tipi di plastiche, dal poliestere al policarbonato, e presente in centinaia di prodotti di consumo, dalle attrezzature sportive ai dispositivi medici, dalle lenti per gli occhiali agli elettrodomestici. Si trova persino nel rivestimento dei biglietti dell’autobus e nei cartoni di carta riciclata della pizza da asporto. Le industrie produttrici di plastica lo utilizzano da più di 50 anni, ma è almeno dagli anni ’30 del secolo scorso che si conoscono i rischi della sua tossicità: le sue proprietà di interferenti endocrini sono infatti responsabili di squilibri ormonali che influenzano la fertilità, lo sviluppo sessuale e intellettivo e provocano lo sviluppo di tumori. Soprattutto tra i bambini: malformazioni alla nascita, malformazioni genitali, problemi dello sviluppo neurologico, ritardi nell’apprendimento, riduzione del quoziente intellettivo e iperattività sono tra i principali disturbi riscontrati in anni di ricerche scientifiche.
Si tratta di effetti devastanti che costituiscono una minaccia per tutti. Eppure, ogni anno milioni di tonnellate di bisfenolo continuano ad essere prodotte soltanto in Europa e ad essere inserite nei prodotti che acquistiamo e consumiamo tutti i giorni. Ora la Corte di giustizia europea ha ufficialmente dichiarato che la mole di ricerche prodotte nel corso degli anni è valida, che il bisfenolo è una sostanza altamente tossica e che dunque i produttori di plastica dovranno chiaramente indicarne la presenza in quelle plastiche che lo contengono. È una buona notizia, se non fosse che si tratta solo della punta dell’iceberg: una sentenza che fa semplicemente il solletico alla reale entità del problema, secondo lo European Environmental Bureau (Eeb), il principale network di organizzazioni ambientali a livello europeo, molto attivo sul fronte delle sostanze chimiche.
«Praticamente abbiamo più ricerca scientifica disponibile sul bisfenolo A che su qualsiasi altro composto chimico sul pianeta, e pur sapendo quanto dannoso sia per l’uomo e per l’ambiente, questo continua ad essere disponibile sul mercato», dice a Linkiesta Tatiana Santos, Policy manager per le sostanze chimiche e le nanotecnologie dell’Eeb. Sì, perché, oltre che all’uomo, naturalmente il bisfenolo è altamente pericoloso anche per l’ambiente: malgrado non presenti la tendenza ad accumularsi, il fatto di essere prodotto in tutto il mondo lo porta a diffondersi nella terra, nell’aria e nei mari. Negli ambienti acquatici, per esempio, diversi studi hanno rilevato come la presenza di bisfenolo abbia portato interi gruppi di pesci a cambiare sesso, “femminilizzandosi”. Una tendenza che, com’è ovvio, mette a repentaglio la stessa sopravvivenza della specie.
Fondamentale sarebbe quindi liberarsi il prima possibile di questa sostanza. Per il momento, la sentenza della Corte europea ha stabilito di inserire il bisfenolo all’interno del cosiddetto “Elenco delle sostanze estremamente preoccupanti candidate all’autorizzazione (Candidate List of substances of very high concern for Authorisation), il che, spiega l’Eeb, di per sé non comporta un divieto o la restrizione immediata. La speranza (e l’aspettativa), però, è che ad un certo punto venga inserito nella lista delle sostanze selezionate per la graduale uscita dal mercato. Com’era intuibile, i rappresentanti dell’industria (riuniti nel network che prende il nome di PlasticsEurope) hanno comunque protestato sonoramente, ed è plausibile che presentino un ricorso. Fino a quel momento, però, l’obbligo da parte delle aziende di indicare esplicitamente la presenza della sostanza nelle materie plastiche che commerciano resta.
Il problema, però, rimane a monte, e va oltre alla sostanza in sé. Di fatto, per anni l’industria chimica ha impedito la regolamentazione della sostanza attraverso l’adozione di studi che contraddicevano l’evidenza di rischi per la salute, instillando il “dubbio” nella comunità scientifica. Un po’ come ha fatto per anni anche l’industria del tabacco. E ha potuto farlo in tutta libertà, essendo deputata essa stessa alla produzione di studi che certificassero la sicurezza dell’utilizzo del bisfenolo. «Le aziende sono responsabili di produrre i test di sicurezza sulle sostanze chimiche, ma posto che esse stesse non hanno un reale interesse a individuarne il livello di rischio, c’è un evidente conflitto di interessi», spiega Santos. «In più, l’industria ha creato un sistema che rigetta automaticamente gli studi provenienti da università e istituti di ricerca indipendenti, perché questi sono basati su peer review invece che sul sistema “GLA - Good Laboratory Practices”, che è molto costoso e che quindi solo l’industria utilizza, sebbene non sia più valido degli altri, perché non misura la qualità dello studio», dice ancora Santos. «Di fatto, hanno creato le proprie regole. Io, che di professione sono un chimico, ero scioccata quando l’ho scoperto».
Ciò nonostante, l’Agenzia europea delle sostanze chimiche, l'istituzione che dovrebbe verificare la validità e l’esaustività degli studi, non è ricettiva sull’argomento: «Dato che gli studi fatti con il metodo delle Good Laboratory Practices seguono tutti la stessa struttura, l’Echa ha risposto che erano più velocemente valutabili». Un approccio decisamente discutibile, che porta ad una sola conclusione: c’è da cambiare l’intero sistema.
In occasione dell’ultima conferenza sul futuro delle politiche chimiche, l’Eeb ha chiesto che i test sulla sicurezza delle sostanze vengano svolti unicamente da laboratori indipendenti, obbligando le aziende chimiche a versare quote all’Echa, per poi distribuire i fondi tra i vari istituti. Ma ci sarebbe da fare ancora di più: dato che la regolamentazione e l’uscita definitiva di una sostanza dal mercato richiede anni, l’industria chimica potrebbe facilmente sostituire il bisfenolo A (Bpa) con il bisfenolo S (Bps), «una sostanza che fa parte della stessa famiglia di componenti chimici, che presenta le stesse proprietà chimiche e che di fatto ha un impatto molto simile sulla salute umana», spiega l’esperta. Posto che occorrerebbero 50 o 60 anni per vietare l’utilizzo anche di quella sostanza, l’industria ha una via di fuga estremamente facile. «Bisognerebbe agire su tutto il gruppo dei bisfenoli», dice l’esperta. Anche perché le alternative ci sarebbero: esiste ad esempio un’azienda che ha scoperto che la vitamina C può essere un valido sostituto per impregnare i biglietti dei mezzi con l’inchiostro della scritta.
L’Eeb e le sue organizzazioni stanno spingendo nella direzione di un cambiamento serio e radicale, ma poiché si tratta di un tema poco alla portata del pubblico (a differenza del tabacco, sui prodotti in plastica che contengono bisfenolo non è presente una scritta del tipo “provoca il cancro”), la gente non è per nulla consapevole dei rischi a cui va incontro. Né tantomeno avrebbe possibilità di scelta, posta la vastità del numero di prodotti di cui fa uso quotidianamente. È proprio per questo che sono in primis le aziende e le istituzioni a doversi fare carico del problema.
«Io spero che il bisfenolo A sia presto designato all’uscita dal mercato e che i suoi usi principali siano vietati il prima possibile. È ancora troppo utilizzato e la posta in gioco è troppo alta. L’evidenza scientifica mostra che per queste sostanze non esiste un livello sicuro di esposizione, quindi non possiamo essere sicuri che anche in concentrazioni contenute le persone, e soprattutto i bambini, non subiscano danni permanenti», conclude Santos. «L’eliminazione dei bisfenoli deve essere presa come priorità e il sistema di valutazione deve essere cambiato in maniera più efficiente. Infine, l’industria deve smettere di negare l’evidenza e assumersi la responsabilità delle sostanze che deliberatamente inserisce nei prodotti di consumo».
fonte: https://www.linkiesta.it

Norme UE sugli inceneritori, gli standard ambientali sono a rischio

Dopo tre anni di lavoro per aggiornare documento di riferimento sulle migliori tecniche disponibili, pochi progressi e molte criticità





















Potrebbe concludersi a breve il Processo di Siviglia, il lavoro tecnico con cui l’Europa intende aggiornare le migliori tecniche disponibili (o BAT, per dirla con l’acronimo inglese) per la prevenzione e il controllo dell’inquinamento. Uno dei documenti in questione è noto con il nome di WI BREF e riporta gli standard ambientali dell’Unione Europea per gli impianti di incenerimento rifiuti. I rappresentanti di Commissione europea, Stati Membri, industria e ong ambientaliste ci stanno lavorando da tre anni con l’obiettivo, almeno in teoria, di migliorare queste norme. Ma secondo l’European Environmental Bureau (EEB) una federazione di oltre 140 organizzazioni ambientaliste non governative, ad oggi la bozza contiene più criticità che progressi. Nel suo report Wasted Opportunity, il gruppo riporta l’impegno dei vari governi nazionali nel processo di aggiornamento degli standard ambientali per gli inceneritori.

Si scopre così che mentre Paesi Bassi, Svezia, Austria e Belgio sono elogiati gli sforzi profusi ad alzare l’asticella,  Germania, Regno Unito, Spagna, Portogallo, Ungheria e Repubblica Ceca stanno remando in senso contrario. Spiega Aliki Kriekouki, esperto tecnico dell’EEB, che ha partecipato alle riunioni dei gruppi di lavoro sul WI BRE “Le persone in Europa si aspettano che l’Unione abbia i migliori standard ambientali del mondo, ma dopo tre anni di lavoro per aggiornare le regole sull’incenerimento dei rifiuti, siamo bloccati con una proposta che compie alcuni passi avanti ma non è in grado di stimolare l’implementazione di tecnologie già disponibili per impedire o ridurre l’inquinamento nocivo”.

Ogni anno vengono bruciati più di 80 milioni di tonnellate di rifiuti in Europa, un dato per gli attivisti incompatibile con l’obiettivo di passare a un’economia circolare europea (Leggi anche Ok al Pacchetto economia circolare: riciclo al 65% entro il 2035). Ma soprattutto gli inceneritori sono responsabili dell’emissione di sostanze nocive per la salute tra cui diossine, metalli pesanti e particolato, noti per causare malattie respiratorie, tumori, danni al sistema immunitario e problemi riproduttivi e di sviluppo. “Per l’inquinamento atmosferico – aggiunge Kriekouki – i livelli massimi di emissioni sono rimasti in gran parte invariati, con l’aumento – al contrario – di alcuni contaminanti critici  come gli ossidi di azoto e il mercurio rispetto agli orientamenti esistenti. Purtroppo, soprattutto per le persone che vivono vicino a questi impianti si tratta di un passo in avanti, due passi indietro”.

fonte: www.rinnovabili.it

Clima: con scioglimento dei ghiacci inquinamento da mercurio tossico

















Mentre il nostro Pianeta si scalda, gli habitat stanno subendo importanti trasformazioni e le regioni del permafrost sono tra le più colpite. Una nuova ricerca pubblicata sul Geophysical Research Letters espone un’altra preoccupante conseguenza che lo scioglimento dei ghiacci, a causa dei cambiamenti climatici, può avere in tutta la Terra: sotto il permafrost si nasconde una quantità enorme di mercurio tossico, che potrebbe essere presto liberato.

Pare che vi siano oltre 15 milioni di galloni (58 milioni di litri) di mercurio sepolti nel permafrost dell’emisfero settentrionale, ovvero circa il doppio del mercurio che si può trovare nel il resto dei suoli della Terra, oceano e atmosfera messi insieme. Se le temperature globali continuano a salire, tutto quel mercurio potrebbe essere rilasciato nell’oceano e avere conseguenze disastrose sugli ecosistemi anche a migliaia di chilometri di distanza.

In geologia, il permafrost è definito come qualsiasi terreno che è stato congelato per più di due anni. Tanto per capirne meglio l’estensione, nell’emisfero settentrionale, il permafrost si estende per circa 22,79 milioni di km quadrati, circa il 24% della Terra. In una dichiarazione rilasciata in occasione dei risultati emersi con la ricerca, Paul Schuster, idrologo presso l’US Geological Survey di Boulder, in Colorado, ha spiegato che:
Non ci sarebbe alcun problema ambientale se tutto fosse rimasto congelato, ma sappiamo che la Terra si sta riscaldando. Questa scoperta rappresenta un punto di svolta.


I ricercatori hanno già osservato lo scongelamento del permafrost indotto dai cambiamenti climatici e se si continuerà in tal senso, l’enorme quantità di mercurio ora intrappolato nel permafrost sarà riversata nell’acqua, provocando uno scenario assolutamente non auspicabile: se ciò accadrà, il mercurio potrà essere assorbito da microrganismi e trasformato in metilmercurio, una tossina pericolosa che causa effetti neurologici e riproduttivi sugli animali.

fonte: http://www.greenstyle.it

Oceani tossici: sostanze chimiche proibite nella fossa delle Marianne

Sui fondali e nei crostacei che vivono nelle profondità dell’oceano trovati livelli di inquinanti organici persistenti 50 volte più alti di quelli dei peggiori fiumi della Cina














Fossa delle Marianne, uno squarcio profondo 11mila metri negli abissi dell’Oceano Pacifico. Uno dei luoghi più inaccessibili al mondo. Ma non il più incontaminato. Tutt’altro. Gli esemplari di piccoli crostacei che vivono sul fondale presentano livelli di contaminazione da sostanze chimiche prodotte dall’uomo 50 volte più alti dei loro simili che abitano i fiumi più inquinati della Cina. Un risultato scioccante, così l’hanno definito senza giri di parole gli scienziati del team che ha condotto la ricerca sull’inquinamento dei mari più profondi, appena pubblicata sulla rivista Nature Ecology and Evolution.
“Pensiamo ancora che le profondità dell’oceano siano un regno remoto e primordiale, al sicuro dall’impatto dell’uomo, ma la nostra ricerca mostra che, tristemente, nulla potrebbe essere più lontano dal vero”, commenta Alan Jamieson dell’università di Newcastle, autore dello studio.



















Il suo team ha identificato in particolare due sostanze chimiche di produzione industriale, che sono state in commercio tra gli anni ’30 e gli anni ’70 del secolo scorso. Si tratta dei policlorobifenili (PCB), usati nei trasformatori e nelle vernici, e dei polibromodifenileteri (PBDE), impiegati principalmente nei ritardanti di fiamma. Entrambi fanno parte della categoria degli inquinanti organici persistenti (POPs), che non si degradano nell’ambiente e possono danneggiare gravemente il ciclo riproduttivo degli animali.

I ricercatori spiegano che si aspettavano di trovare questi inquinanti, proprio a causa della loro natura persistente, ma che la vera sorpresa è stata rinvenire concentrazioni così alte. Nel caso dei PCB, ad esempio, i valori sono uguali a quelli registrati nella baia giapponese di Suruga, un’area particolarmente nota per l’elevato inquinamento.

Il monitoraggio è stato ripetuto anche nella fossa di Kermadec, al largo della Nuova Zelanda, con risultati paragonabili. Come nella fossa delle Marianne, anche in questo caso sono stati prelevati sia esemplari di diverse specie di crostacei, sia campioni del fondale marino. Gli agenti inquinanti, hanno rivelato le analisi, erano presenti ovunque, sia negli animali che nell’ambiente, a prescindere dalla profondità.

fonte: www.rinnovabili.it