Visualizzazione post con etichetta #SostanzeChimicheInquinanti. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta #SostanzeChimicheInquinanti. Mostra tutti i post

L’inquinamento da PFAS è diffuso in tutta Europa ma pochi lo sanno

La relazione pubblicata dall’Agenzia europea dell’ambiente presenta una panoramica dei rischi noti e potenziali per la salute umana e l’ambiente legati alle sostanze alchiliche perfluorifluorurate





















Ambiente e cittadini europei risultano esposti ad una vasta gamma di PFAS, sostanze chimiche estremamente tossiche e persistenti. L’allarme – e non è il primo – arriva direttamente dall’Agenzia europea dell’ambiente che, con la pubblicazione della relazione “Emerging chemical risks in Europe — PFAS”, ha tracciato una panoramica sulla situazione attuale definendo cause e pericoli per la salute. 
Ampiamente utilizzati in campo industriale, cosmetico e tessile, i PFAS (acidi perfluoroacrilici) sono catene alchiliche idrofobiche fluorurate, cioè – semplificando –  acidi molto forti caratterizzati da una struttura chimica che ne conferisce una particolare stabilità termica; questo fattore li rendente resistenti ai principali processi naturali di degradazione. Per questo motivo i PFAS vengono utilizzati, per esempio, per aumentare nei materiali la repellenza all’olio e all’acqua, per ridurre la tensione superficiale e per aumentare la resistenza alle alte temperature o ad altri prodotti chimici. Attualmente ne esistono oltre 4.700 diversi tipi: le classi più diffuse sono in particolare il PFOS (perfluorottanosulfonato) e il PFOA (acido perfluoroottanoico), quest’ultimo caratterizzato da un’elevata persistenza nell’ambiente (oltre 5 anni) e nelle persone. 

Come specificato dal rapporto pubblicato dalla EEA, sebbene manchi attualmente una mappatura specifica dei siti europei potenzialmente inquinati da PFAS, le singole attività di monitoraggio nazionali ne hanno rilevato alte concentrazioni in tutta Europa (nel 2013, lo ricordiamo, uno studio del CNR aveva individuato nei comuni compresi tra Padova, Vicenza e Verona elevate concentrazioni di queste sostanze). 
La produzione e l’uso di PFAS hanno infatti portato alla contaminazione di acqua potabile in diversi paesi europei e, come emerso dal biomonitoraggio umano, se ne riscontrano concentrazioni variabili anche nel sangue dei cittadini. Le persone risultano esposte attraverso l’acqua potabile, gli imballaggi per gli alimenti, le creme e i cosmetici, i tessuti ed altri prodotti di consumo su cui vengono applicate tali sostanze.
Sebbene gli effetti sulla salute umana siano ancora sotto indagine – si parla di immunodeficienza, alterazioni del sistema endocrino, insorgenza di tumori a reni e testicoli, sviluppo di malattie tiroidee – ad alte concentrazioni possono comportare un danno non solo per le persone ma anche per l’ambiente e gli ecosistemi. 
I costi sanitari e quelli delle bonifiche ambientali, in Europa, sono stati stimati in decine di miliardi di euro all’anno. Per questo motivo, l’Agenzia suggerisce l’adozione di misure precauzionali per limitarne gli usi non essenziali e la loro sostituzione con sostanze chimiche sicure si dimostrano scelte fondamentali per limitare l’inquinamento futuro dell’intero ecosistema. 
Nel dettaglio, la Commissione europea ha previsto una strategia sulle sostanze chimiche per la sostenibilità che “aiuterà sia a proteggere meglio i cittadini e l’ambiente da sostanze chimiche pericolose sia a incoraggiare l’innovazione per lo sviluppo di alternative sicure e sostenibili”.”Il quadro normativo  – si legge nella comunicazione – dovrà rapidamente riflettere le prove scientifiche sul rischio rappresentato dagli interferenti endocrini, dalle sostanze chimiche pericolose nei prodotti, comprese le importazioni, dagli effetti combinati di diverse sostanze chimiche e da sostanze chimiche molto persistenti”.

fonte: www.rinnovabili.it

Sostanze inquinanti emergenti: una crescente preoccupazione per i nostri mari

La maggior parte delle sostanze chimiche presenti in un elenco di oltre 2700 potenziali contaminanti marini sono noti come "inquinanti emergenti": sostanze che hanno il potenziale per entrare nell'ambiente e causare effetti avversi sull'ambiente e sulla salute umana, ma sono ancora in gran parte non regolamentate e i loro effetti potenziali non sono ancora chiari



Il Centro unico di ricerche della Commissione Europea (JRC) ha redatto un elenco di riferimento unico di sostanze prioritarie regolamentate e di contaminanti emergenti - più di 2700 sostanze (o gruppi di sostanze) - per supportare la valutazione dei contaminanti nell'ambiente marino.
L'importanza degli inquinanti emergenti nell'elenco evidenzia l'importanza del lavoro per comprendere la loro presenza ambientale e i potenziali effetti, definire le sostanze più significative e prevederle nella futura normativa, se necessario.
I contaminanti hanno il potenziale di degradare le acque marine e causare gravi danni agli organismi e ai processi biologici. Possono arrivare al mare in vari modi, ad esempio attraverso
  • fiumi inquinati,
  • attività industriali,
  • inquinamento da parte delle navi,
  • estrazione di petrolio in mare aperto.
Tra gli inquinanti emergenti elencati figurano prodotti farmaceutici, pesticidi di nuova registrazione, additivi plastici industriali, prodotti per la cura personale e nuovi ritardanti di fiamma.
Sebbene non tutti questi contaminanti elencati siano preoccupanti per l'ambiente marino, questa panoramica generale dovrebbe aiutare a comprendere le diverse opzioni e sostenere ulteriori sviluppi per il monitoraggio e la valutazione dell'inquinamento chimico nelle acque marine del nostro Continente.
fonte: http://www.arpat.toscana.it

Acqua inquinata: l’avvocato che combatte contro i “Pfas”

Robert Bilott ha condotto una battaglia legale durata 19 anni contro il colosso DuPont, in West Virginia, costretto a risarcire 3.550 richieste di lesioni personali dovute a contaminazione da sostanze chimiche tossiche. È stato in Veneto, ospite della rete di realtà vicentine impegnate da anni nella lotta contro l’inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche




















Quanto vale l’accesso all’acqua non inquinata? In West Virginia, negli Stati Uniti orientali, questo valore è stato calcolato in 671 milioni di dollari, più altri che serviranno a rispondere alle 3.550 richieste di lesioni personali dovute alla contaminazione da acido perfluoroottanoico (Pfoa). È quanto ha dovuto pagare il colosso agroindustriale DuPont (www.dupont.com), ritenuto responsabile dell’inquinamento da questa sostanza chimica tossica usata per fabbricare il Teflon, usato per rivestire le padelle antiaderenti, ma anche nella produzione di vernici e tessili.
Uno dei protagonisti di questa storia è l’avvocato Robert Bilott (www.taftlaw.com/people/robert-a-bilott) che proprio per il suo impegno nella battaglia legale sui Pfoa durata 19 anni contro DuPont ha ricevuto a metà novembre a Copenaghen il prestigioso riconoscimento “Right Livelihood Awards”, un premio nato nel 1980 per “onorare e supportare persone coraggiose e organizzazioni che offrono soluzioni visionarie ed esemplari alle cause profonde dei problemi globali” (http://www.rightlivelihoodaward.org/laureates/robert-bilott/).
Bilott è stato invitato in Veneto da una rete di realtà vicentine (Mamme no Pfas, Gruppo genitori e cittadini attivi stop Pfas di Montecchio Maggiore, Greenpeace, Medicina Democratica e la Rete Gas Vicentina) impegnate da anni nella lotta contro l’inquinamento da Pfas, che coinvolge circa 100 Comuni e una popolazione di 350mila persone. A monte di questa vicenda veneta c’è la Miteni, del gruppo “International Chemical Investors”, che dal 1964 -quando ancora si chiamava RiMar, “Ricerche Marzotto”- ha avviato la produzione di intermedi fluorurati a Trissino (VI) (https://casacibernetica.files.wordpress.com/2017/02/punto_pfas_numero_uno_stampa_def.pdf). L’abbiamo incontrato.
Avvocato Bilott, quando ha iniziato il suo lavoro sui Pfoa in West Virginia?
RB Era il 1991 quando conobbi la storia di un allevatore di Parkersburg le cui mucche stavano morendo una dopo l’altra. Le allevava su un terreno di proprietà della DuPont, che in quella città di 30mila abitanti sulle rive del fiume Ohio, al confine con l’omonimo Stato, aveva una ditta molto grande per la produzione del Teflon, un marchio registrato dalla multinazionale nel 1938. Il Teflon è prodotto a partire dal Pfoa, l’acido perfluoroottanoico (uno dei composti chimici noti come Pfas, le sostanze perfluoroalchiliche, ndr). Fino al 2000 DuPont avrebbe acquistato i Pfoa dalla 3M Company (Minnesota Mining and Manufacturing Company), in Minnesota, per poi iniziare a produrli in proprio dal 2002.
Ho iniziato a studiare i documenti della ditta e ad approfondire il caso: dai primi anni 50 la DuPont usava i Pfoa nello stabilimento del West Virginia e dal 1984 questo composto chimico è stato trovato nell’acqua potabile. Una popolazione di 70mila persone che viveva sui due lati del fiume, tra l’Ohio e il West Virginia, era stata per lunghi anni esposta a queste sostanze, ma c’era allora pochissima informazione, nessuno ne parlava. Mentre le agenzie governative si muovevano molto lentamente, a partire da due comunità locali abbiamo avviato una class action contro DuPont, con la richiesta di avere accesso all’acqua pulita e un’indagine epidemiologica indipendente per verificare lo stato di salute degli abitanti.
L'intervento di Robert Bilott all'incontro pubblico del 1° ottobre 2017 a Lonigo (VI) - © casacibernetica.wordpress.com
L’intervento di Robert Bilott all’incontro pubblico del 1° ottobre 2017 a Lonigo (VI) – © casacibernetica.wordpress.com
Che cosa stavano facendo le comunità esposte all’inquinamento quando le ha incontrate?
RB Al tempo non c’era consapevolezza della gravità del problema, nè informazione su cosa fossero i Pfoa. Con gli abitanti abbiamo iniziato a studiare, approfondire, conoscere gli effetti sulla salute: assicurarsi che la comunità possa avere accesso alle informazioni è stato il primo passo per vincere questa battaglia. Nel 2005 -quando il Governo statunitense iniziava a indagare sulle responsabilità della DuPont- abbiamo fatto 12 diversi test medici e 69 persone hanno partecipato per fornire informazioni mediche a scienziati indipendenti, che hanno lavorato a lungo per capire gli effetti dei Pfoa su chi aveva bevuto negli anni l’acqua inquinata. Dopo sette anni di studi, il gruppo di esperti ha concluso che vi era un legame con sei malattie: cancro ai reni e ai testicoli, colite ulcerosa, malattia della tiroide, ipertensione indotta dalla gravidanza e colesterolo alto. Intanto, dal 2006, la DuPont si era impegnata ad azzerare la produzione e l’uso di Pfoa entro il 2015, obiettivo raggiunto, stando alle dichiarazioni della multinazionale, nel 2013.
Oggi esiste ancora lo stabilimento di Parkersburg?
RB Sì, è una fabbrica molto grande, lunga due miglia, situata sul fiume al confine tra i due Stati. È stata la prima fabbrica di Teflon del mondo. Nel 2015 il settore produttivo del Teflon si è staccato dalla DuPont ed è nata Chemours (www.chemours.com). Questa ditta non produce Pfoa “né li usa in nessuno dei suoi prodotti”, ma nel 2009 DuPont aveva iniziato a convertire la produzione verso una nuova sostanza chimica che potesse sostituirli, il GenX. Il GenX è prodotto a Wilmington, in uno stabilimento nel North Carolina, e poi lavorato a Parkersburg. Ma sulla sicurezza di questo prodotto restano ancora molti dubbi, tanto che lo scorso giugno una comunità del North Carolina ha rilevato inquinamento da GenX nell’acqua (https://theintercept.com/2017/06/17/new-teflon-toxin-found-in-north-carolina-drinking-water/).
Che cosa ci insegna questa storia?
RB Che non possiamo focalizzarci su una sostanza chimica alla volta, ma guardare nel loro complesso a questi prodotti. Non possiamo vincere una causa importante sui Pfoa e, dieci anni dopo, ricominciare da capo a proposito del GenX o di un’altra sostanza che causa danni simili sulla salute. In questo senso, mi sembra che l’Italia stia seguendo la giusta direzione. Sono processi molto lunghi: basti pensare che il caso dei Pfoa in West Virginia è scoppiato nel 2001 e le prime linee guida dell’Epa (l’agenzia federale per l’ambiente, “Environmental Protection Agency”, ndr) sono arrivate nel 2016.

fonte: altraeconomia.it

Gli interferenti endocrini inquinano un terzo della frutta europea

Più di un terzo della frutta consumata in UE è contaminato da pesticidi che svolgono la funzione di interferenti endocrini, intaccando il sistema ormonale


















Alle porte di un voto cruciale del Parlamento Europeo sugli interferenti endocrini, un nuovo rapporto dell’ONG Pesticide Action Network (PAN) scuote l’opinione pubblica. Secondo il dossier dell’organizzazione, più di un terzo della frutta consumata in UE è contaminato da residui di sostanze che intaccano il sistema ormonale. L’obiettivo della ricerca è influenzare il voto sui controversi criteri, proposti dalla Commissione Europea, che definiranno pesticidi e altri agenti chimici presunti responsabili di impatti negativi sulla salute, dall’aumento dei rischi di cancro, allo sviluppo del feto fino a problemi per il sistema riproduttivo.
PAN afferma che il 68% della frutta europea contiene tracce di pesticidi e nel 34% sono stati reperiti residui di 27 interferenti endocrini. Per le verdure, le cifre sono leggermente più basse ma comunque preoccupanti: la stima è che il 41% non sia immune da residui e il 14% contenga sostanze che agiscono negativamente sul sistema endocrino.


Il rapporto, si basa sui dati raccolti dagli Stati membri nel 2015, e punta il dito principalmente sugli agrumi: il 46-57% di mandarini, arance e pompelmi contiene residui. Seguono pesche, uva e fragole, con il 34-45% di frutti contaminati da interferenti. Le verdure più pericolose sono invece sedano e rucola, con il 35-40% del campione contenente le sostanze incriminate.
I paesi in cui il problema è più grave sono quelli dell’Europa meridionale: Spagna (35% dei prodotti), Grecia (25%) e anche Italia (23%) vanno le maglie nere per la produzione. Tuttavia, sono i paesi del nord Europa – Irlanda (42%), Svezia (34%) e Paesi Bassi (32%) – i principali consumatori di frutta e verdura contaminata da interferenti endocrini.
Oggi i deputati europei decideranno se accettare i criteri proposti dalla Commissione per queste sostanze, criteri respinti dalla commissione Ambiente del Parlamento Europeo (ENVI) la scorsa settimana e criticati da dagli attivisti ambientalisti perché incapaci di proteggere la salute e gli ecosistemi.

fonte: www.rinnovabili.it

RifiutiZeroPiemonte - COMUNICATO STAMPA: “Le scorie dell’inceneritore saranno ceneri per l’edilizia”


 
 
COMUNICATO STAMPA
Commento all’articolo di Andrea Rossi su La Stampa di domenica 9 luglio 2017 “Le scorie dell’inceneritore saranno ceneri per l’edilizia”  Le scorie dell’inceneritore saranno materiale per l’edilizi

 
Dunque la notizia è che gli inceneritori di rifiuti producono, a loro volta, rifiuti.
 
I rifiuti prodotti dagli inceneritori sono un argomento sul quale i sostenitori di questi impianti tendono a sorvolare giacché smentiscono il mantra che “gli inceneritori chiudono il cerchio” (della gestione dei rifiuti ndr) cioè sono lungi dall’essere la soluzione perfetta che essi descrivono.
Tali rifiuti sono un po’ di più della quantità menzionata dall’entusiasta giornalista, circa un 30% delle tonnellate bruciate: di questo 30% una percentuale tra il 3% ed il 5% (le cosiddette ceneri leggere) sono rifiuti pericolosi, mentre il rimanente (le ceneri pesanti o scorie) deve essere periodicamente analizzato per appurare se la quantità di metalli pesanti, diossine ecc. presente sia tale da rendere anch’esso un rifiuto pericoloso o meno, quindi - anche laddove non sia qualificabile come rifiuto pericoloso - presenta percentuali significative di sostanze inquinanti nocive per l’uomo e l’ambiente.
 
Le scorie dell’inceneritore di Torino furono originariamente classificate come rifiuti pericolosi, poi nel 2014 -a seguito di una richiesta di TRM- con una determinazione (141 - 18178/2014) del dirigente provinciale del Servizio Pianificazione e Gestione Rifiuti fu consentito -sentita L’ARPA e valutata la documentazione allegata dal richiedente- di classificarle come non pericolose (il parere dell’ARPA fu che non essendo possibile "attribuire né escludere con certezza alcuna caratteristica di pericolo ai rifiuti in oggetto”, le scorie prodotte potevano essere considerate come non pericolose).

L’idea geniale di infilare le scorie nel cemento invece che pagarne lo smaltimento in discarica in realtà non è affatto nuova.
Il cemento che le contiene si chiama “Portland” ed è in circolazione da tempo. Se nel fare questa meravigliosa mistura ci si lascia prendere troppo la mano dall’entusiasmo per il recupero di materia, il prodotto che ne esce è un po’ troppo ricco in scorie ed è roba che tende a degradarsi ben più del cemento normale compromettendo la stabilità strutturale degli edifici per la costruzione dei quali è stato impiegato, alla faccia delle “proprietà simili alle rocce eruttive come basalto e granito” decantate dal Presidente di TRM Renato Boero, senza contare la dispersione nell’ambiente di sostanze nocive che tutto ciò comportebbe: ma dall’amianto non abbiamo proprio imparato niente?

L’articolo prosegue informando i lettori che TRM ha sottoscritto un accordo con il dipartimento delle Scienze della Terra dell’ Università per lo sviluppo di “tecniche innovative di inertizzazione e recupero degli scarti da termovalorizzazione, sia scorie pesanti sia ceneri leggere”. E tale intesa già dispiega i suoi effetti: “finora” scrive il Rossi “queste ceneri venivano trasportate in discarica e smaltite” cioè il trattare le scorie e le ceneri come un rifiuto fa già parte del passato.
Anzi, verso la fine dell’articolo si riferisce ad esse scrivendo “questi inerti”.
Ma prima ci fa sapere che “il mandato che il nuovo presidente ha ricevuto è chiaro: lavorare per rendere TRM il più efficiente possibile, soprattutto nell’ottica della riduzione dell’inquinamento e del riciclo e riuso dei materiali.” 
 
Cerchiamo di essere seri. Chi vuole riciclare e riutilizzare i materiali innanzitutto non li brucia e non chiama “recupero” una produzione di energia scarsa, esosissima e finanziata con denaro pubblico.
 
L’inceneritore di Torino è autorizzato a bruciare, oggi, grazie al famigerato art. 35 del c.d. “Sblocca Italia” 526.500 t di rifiuti delle quali circa 370.000 finiscono in atmosfera e circa 160.000 sono rifiuti da smaltire. Reimmettere in circolazione decine di migliaia di tonnellate di rifiuti che contengono metalli pesanti e diossine usandole per fare cemento, alleggerisce i costi del gestore, ma non dà alcun motivo ai cittadini di accogliere con entusiasmo un escamotage vecchio i cui pericoli per l’uomo e per l’ambiente sono ampiamente documentati da parecchie indagini epidemiologiche.

In ogni caso ora la palla passa al Dipartimento delle Scienze della Terra dell’Università di Torino, che avrà il compito di fornire la patente di inertizzazione, necessaria a dare un aspetto nuovo ad una trovata vecchia (ovviamente a costi che la rendano competitiva rispetto allo smaltimento).
Ma soprattutto all’ Amministrazione. La Sindaca Chiara Appendino -che ha nominato il presidente di TRM Renato Boero- e il Movimento 5 stelle si sono sempre schierati contro l’incenerimento dei rifiuti e tale uso delle scorie.
 
A questo punto ci chiediamo: qual è la posizione dell’Amministrazione 5stelle di Torino rispetto alle dichiarazioni di Boero e soprattutto rispetto alle preoccupanti prospettive ipotizzate in questo articolo di utilizzo di ceneri e scorie prodotte dall’inceneritore in prodotti per l’edilizia?
 


piemonterifiutizero@gmail.com
pec@pec.rifiutizeropiemonte.it

Luca Mercalli: Un ambiente sempre più inquinato. Meno salute, meno qualità di vita














L’adozione di normative ambientali via via più severe nei paesi del primo
mondo ha indotto un calo delle emissioni di diversi inquinanti, tuttavia l’accumulo
di sostanze pericolose per la salute nell’ambiente (in aria, acqua,
suolo) rimane pur sempre preoccupante. Ma oggi è nei paesi in via di sviluppo
che si concentrano alcune tra le situazioni ambientali più critiche,
dovute soprattutto ad attività industriali e minerarie condotte trascurando
ogni rispetto per l’ambiente circostante. Nel 2007 le località più inquinate
del mondo erano individuate in Azerbaigian, Cina, India, Perù, Russia,
Ucraina e Zambia (foto: US Fish and Wildlife Service).


A partire dalla Rivoluzione Industriale e via via con lo sviluppo dell’industria chimica, l’uomo ha riversato nell’ambiente una quantità crescente di composti sia naturali, sia di sintesi, spesso dannosi per la salute: plastiche, idrocarburi, solventi, coloranti, vernici, colle, fertilizzanti, fitofarmaci, metalli pesanti, gas a effetto serra, e così via...

Il registro europeo delle sostanze chimiche in commercio (EINECS, http://ecb.jrc.ec.europa.eu) a fine 2007 contava 100.204 composti, ma il numero
reale di prodotti in uso nel mondo è probabilmente superiore e di fatto sconosciuto.
A causa della circolazione atmosferica e oceanica e delle catene alimentari, gli inquinanti si diffondono ovunque, e pressoché nessun luogo della Terra oggi può definirsi «incontaminato»: tracce di metalli pesanti sono stati ritrovati nel grasso di animali artici, e carotaggi profondi condotti sui ghiacciai del Monte Rosa (Colle Gnifetti, 4480 m, e Colle del Lys, 4240 m) hanno rivelato la presenza di livelli contaminati dal trizio riconducibile ai test nucleari dei primi Anni 1960.

Certamente non dobbiamo scordare che l’inquinamento è il sottoprodotto negativo di uno sviluppo scientifico, tecnologico ed economico che ha portato comunque ricchezza e condizioni di vita migliori almeno a una parte dell’umanità (in cui noi europei rientriamo), ma oggi le schiaccianti evidenze sui pericoli ambientali e sanitari che ne derivano devono
guidarci verso l’utilizzo più consapevole di sostanze meno dannose.

PER SAPERNE DI PIÙ

www.eea.europa.eu - European Environment Agency
http://toxnet.nlm.nih.gov - Banca dati relativa a
sostanze tossiche e salute ambientale
www.blacksmithinstitute.org - Risorse ed esperienze
per contrastare l’inquinamento ambientale

CLIMA ED ENERGIA

Capire per agire

Luca Mercalli 

"La plastica contiene sostanze nocive: in USA 340 miliardi di dollari di danni economici". La ricerca su Lancet

PLASTIC
Alcune sostanze chimiche contenute nella plastica di oggetti di uso comune sono dannose per la salute dell'uomo: secondo una ricerca americana, pubblicata sulla prestigiosa rivista Lancet Diabetes & Endocrinology, l'esposizione a questi agenti non soltanto contribuirebbe a far ammalare la popolazione ma costerebbe agli Stati Uniti, in termini di danni economici, più di 340 miliardi di dollari all'anno.
Bottiglie di plastica, buste, utensili da cucina, cosmetici, scatolame: sono molti gli oggetti con cui entriamo in contatto ogni giorno e che potrebbero essere dannosi. In particolare, ad essere pericolosa sarebbe l'esposizione ai cosiddetti "distruttori endocrini", una vasta categoria di sostanze o miscele di sostanze chimiche che alterano la funzionalità del sistema endocrino, causando effetti avversi sulla salute dell’organismo. Questi interferenti, in genere, sono in grado di legarsi come agonisti o antagonisti ai recettori di vari ormoni, alterando la normale fisiologia e aprendo le porte a patologie croniche o degenerative. Si crede che possano favorire l'insorgenza di cancro, diabete, infertilità, endometriosi e autismo.
L'Unione Europea ha attuato una normativa che limita l'esposizione a queste sostanze, per questo i danni economici si aggirano intorno ai 157 miliardi di euro. La ricerca, condotta da un team del New York University Langone Medical Center e pubblicata su Lancet, invece, ha messo in luce la situazione, ben più grave, negli Stati Uniti, dove i costi dovuti a trattamenti medici o perdita di produttività sul lavoro si aggirano intorno ai 340 miliardi di dollari. I ricercatori hanno analizzato la presenza di queste sostanze chimiche nel sangue e nelle urine di un vasto numero di volontari, hanno poi provato a prevedere i costi di 15 malattie scaturite dall'esposizione e hanno messo a confronto questi dati con quelli ricavati in Europa. "La differenza con l'Unione Europea ci suggerisce la necessità di uno screening anche in USA dei distruttori endocrini e della prevenzione", hanno scritto i ricercatori nello studio.
Se gli effetti nocivi di queste sostanze sono noti da tempo, nuovo è il calcolo preciso degli ingenti danni economici che possono causare alla popolazione colpita da malattie. "La ricerca dà una lezione su quelli che sono gli effetti economici a lungo termine di queste sostanze chimiche nocive", ha commentato Michele La Merill, esperto di tossicologia dell'ambiente alla University of California in Davis. Secondo lo studioso, la ricerca dovrebbe ispirare la politica a prendere delle decisioni incisive e tempestive nella salvaguardia della salute dei cittadini. Intanto il consiglio dei ricercatori è quello di evitare soprattutto i cibi contenuti in involucri di plastica e gli utensili da cucina in plastica e di preferire cosmetici e fragranze naturali.

fonte: http://www.huffingtonpost.it

È ufficiale: vicino alle piattaforme petrolifere il mare è contaminato in due casi su tre

La denuncia di Greenpeace: i dati ufficiali di Ispra e Minambiente, finora tenuti incredibilmente segreti, dicono che sono contaminati più di due campioni su tre

Sostanze chimiche inquinanti e pericolose, con un forte impatto sull’ambiente e sugli esseri viventi, si ritrovano abitualmente nei sedimenti e nelle cozze che vivono in prossimità di piattaforme offshore presenti in Adriatico, spesso in concentrazioni che eccedono i parametri di legge. Lo rivela il rapporto “Trivelle fuorilegge” pubblicato oggi da Greenpeace in cui, per la prima volta, vengono resi pubblici i dati ministeriali relativi all’inquinamento generato da oltre trenta trivelle operanti nei nostri mari.

I dati elaborati da Greenpeace mostrano una contaminazione ben oltre i limiti previsti dalla legge per almeno una sostanza chimica pericolosa nei tre quarti dei sedimenti marini vicini alle piattaforme (76% nel 2012, 73,5% nel 2013 e 79% nel 2014). Ancor più: i parametri ambientali sono oltre i limiti per almeno due sostanze nel 67% dei campioni analizzati nel 2012, nel 71% nel 2013 e nel 67% nel 2014. Anche nelle cozze la presenza di sostanze inquinanti ha mostrato evidenti criticità.

«Il quadro che emerge è di una contaminazione grave e diffusa», afferma Giuseppe Ungherese, responsabile campagna Inquinamento di Greenpeace. «Laddove esistono dei limiti fissati dalla legge, le trivelle assai spesso non li rispettano. Ci sono contaminazioni preoccupanti da idrocarburi policiclici aromatici e metalli pesanti, molte di queste sostanze sono in grado di risalire la catena alimentare fino a raggiungere gli esseri umani. Nei pressi delle piattaforme monitorate si trovano abitualmente sostanze associate a numerose patologie gravi, tra cui il cancro. La situazione si ripete di anno in anno ma ciò nonostante non risulta che siano state ritirate licenze, revocate concessioni o che il Ministero abbia preso altre iniziative per tutelare i nostri mari», conclude Ungherese.

Lo scorso luglio Greenpeace aveva chiesto al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, tramite istanza pubblica di accesso agli atti, di ottenere i dati di monitoraggio delle piattaforme presenti nei mari italiani. Il Ministero aveva risposto fornendo soltanto i dati di monitoraggio di 34 impianti, relativi agli anni 2012-2014, dislocati davanti alle coste di Emilia Romagna, Marche e Abruzzo. Delle altre 100 e più piattaforme operanti nei nostri mari, Greenpeace non ha ricevuto alcun dato: o il Ministero non dispone di informazioni in merito (e dunque questi impianti operano senza piani di monitoraggio), oppure lo stesso Ministero ha deciso di non consegnare a Greenpeace tutta la documentazione in suo possesso.

Alla scarsa trasparenza del Ministero e al quadro ambientale critico si aggiunge il fatto che i monitoraggi sono stati eseguiti da ISPRA (l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, un istituto di ricerca pubblico sottoposto alla vigilanza del Ministero dell’Ambiente) su committenza di ENI, proprietaria delle piattaforme oggetto di indagine. In pratica, l’organo istituzionale (ISPRA) chiamato a valutare i risultati del monitoraggio sul mare che circonda le piattaforme offshore – e di conseguenza verificare la non sussistenza di pericoli per l’ambiente e gli ecosistemi marini – opera su committenza della società che possiede le piattaforme oggetto d’indagine (ENI), cosicché il controllore è a libro paga del controllato.

«Con questo rapporto dimostriamo chiaramente che chi estrae idrocarburi nei nostri mari inquina, e lo fa oltre i limiti imposti dalla legge senza apparentemente incorrere in sanzioni o in divieti», dichiara Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace. «Quel che a nessun cittadino sarebbe concesso, è concesso invece ai petrolieri, il cui operato è fuori controllo, nascosto all’opinione pubblica e gestito in maniera opaca. Sono motivi più che sufficienti per spingere gli italiani a partecipare al prossimo referendum sulle trivelle del 17 aprile, e a votare Sì per fermare chi svende e deturpa l’Italia».

fonte: www.lastampa.it