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Plastica: tutti gli effetti sulla salute degli interferenti endocrini. Il rapporto di Endocrine Society e Ipen

 










Bisfenolo A e analoghi, ftalati, ritardanti di fiamma, per- e polifluoroalchili (Pfas), diossine, stabilizzanti UV e metalli pesanti come cadmio e piombo: è lunga la lista delle classi di sostanze, ciascuna delle quali contiene decine di composti, presenti nelle plastiche. E praticamente tutte hanno un impatto sulla salute umana. Conseguenze di cui a volte si sa molto, in altri casi molto meno, ma che dovrebbero essere tenute in maggiore considerazione. Così almeno la pensa la Endocrine Society, una società scientifica che riunisce decine di esperti di tutto il mondo, i quali hanno appena pubblicato insieme con i colleghi della Ipen (International pollutants elimination network) un dettagliato rapporto su quanto accertato finora.

Nel documento si legge che molti di questi composti sono interferenti endocrini (Edc), e possono causare cancro, diabete, disordini del sistema riproduttivo, danni allo sviluppo neurologico dei feti e dei bambini. Nonostante ciò, sono ubiquitari e sono presenti nel packaging, nei giocattoli, nei cosmetici, nelle auto, nei materiali per la casa, sono usati nella preparazione di alimenti industriali, oppure si sviluppano nella cottura: è praticamente impossibile non incontrarli nella vita di tutti i giorni. 


Gli interferenti endocrini sono presenti nella gran parte degli oggetti e degli imballaggi di plastica

Ecco allora le principali conclusioni su di essi e sulle altre sostanze contenute nel rapporto, in estrema sintesi:
Oltre 140 tra sostanze o classi di sostanze la cui pericolosità per la salute umana è accertata sono normalmente utilizzate nelle plastiche come antimicrobici, coloranti, ritardanti di fiamma, solventi, stabilizzatori UV e plastificanti;
L’esposizione può avvenire in tutte le fasi del ciclo vitale delle plastiche, dalla sintesi industriale (per chi ci lavora) al contatto e allo smaltimento o riciclo (per chi li usa da consumatore);
Gli interferenti endocrini sono ubiquitari e diversi studi hanno dimostrato che virtualmente ogni abitante della terra ne ha quantità più o meno rilevanti nel proprio organismo;
Le microplastiche contengono additivi che possono essere rilasciati ed entrare in contatto con la popolazione. Inoltre possono formare composti tossici con altre sostanze chimiche presenti nell’ambiente, per esempio nei sedimenti o negli scarichi delle fogne, trasformandosi in vettori di composti tossici;
Le plastiche biodegradabili e le bioplastiche, pubblicizzate come più ecologiche di quelle convenzionali, spesso contengono additivi molto simili, a loro volta interferenti endocrini.

Uno dei problemi più gravi, riguarda l’effetto cocktail, perché ogni giorno siamo tutti esposti a decine di queste sostanze, ma le combinazioni porrebbero avere effetti sconosciuti e determinare comunque il raggiungimento di valori soglia molto prima di quanto si immagini. È quindi indispensabile, secondo gli autori, determinare nuovi limiti di esposizione tenendo conto di questo.


Gli interferenti endocrini della plastica, essendo ubiquitari, possono andare incontro ad effetto cocktail

I governi dovrebbero essere più attivi, e come esempio di questo, il rapporto cita l’iniziativa della Svizzera, che nello scorso mese di maggio ha chiesto l’inclusione dell’UV-328, uno stabilizzante usato nelle plastiche per proteggerle dagli effetti appunto dei raggi UV, nella Convenzione di Stoccolma, cioè nell’elenco internazionale di sostanze che vanno valutate, monitorate e quando è il caso vietate perché potenziali o certi pericoli per la salute.

Secondo alcuni degli autori, inoltre, particolare attenzione andrebbe posta alle sostanze plastiche usate nei processi industriali, visto che si prevede una continua crescita del loro utilizzo (del 30-36% nei prossimi sei anni a livello mondiale).

È imperativo – concludono – adottare politiche globali il più possibile standardizzate e omogenee finalizzate all’eliminazione degli interferenti endocrini dalle materie plastiche nelle sintesi, così come al riciclo o all’incenerimento di quanto resta dopo l’utilizzo. Anche perché gli Edc e le altre sostanze pericolose pongono interrogativi molto pesanti sulla salute delle future generazioni, visto che iniziano ad avere effetto già sullo sviluppo fetale e dato che restano nell’ambiente a tempo indeterminato. Ne sanno qualcosa i Paesi più poveri, che pagano il prezzo dell’assenza di regole internazionali stringenti: è lì che molti altri Paesi, più ricchi e industrializzati, trasportano i loro rifiuti dannosi, senza preoccuparsi delle conseguenze sull’ambiente e sulla salute di chi ci abita.

fonte: www.ilfattoalimentare.it


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Metalli pesanti, pesticidi, Pfas & co.: le sostanze chimiche che inquinano le nostre acque.


















Per decenni, fiumi, laghi, acque marine costiere e falde sotterranee sono stati usati come mezzo per smaltire i reflui industriali, agricoli e zootecnici. Ma ancora oggi tonnellate di sostanze chimiche, metalli pesanti e pesticidi vengono emesse nelle acque più o meno legalmente, tanto che, in soli 11 anni, nei corpi idrici italiani sono state riversate oltre 5.600 tonnellate di sostanze chimiche. Ce lo ricorda il rapporto “H2O – La chimica che inquina l’acqua” da poco pubblicato dall’associazione ambientalista Legambiente.

Secondo un rapporto tecnico del Joint Research Centre (Jrc) della Commissione europea, l’inquinamento chimico delle acque è uno dei principali problemi ambientali nel mondo: al mondo esistono ben 131 milioni di sostanze chimiche registrate, ma solo poco meno di 390 mila sono regolate in qualche modo. Tra queste ultime, figurano molte delle 2.700 sostanze definite come “potenzialmente contaminanti”, perché potrebbero avere effetti negativi su ambiente e salute.

Tra il 2007 e il 2017, secondo il registro integrato delle emissioni inquinanti prodotte dalle industrie europee (European pollutant release and transfer register, o E-Prtr), gli impianti industriali italiani hanno riversato nelle acque ben 5.622 tonnellate di sostanze chimiche. Se questi numeri fanno impressione, non bisogna dimenticare che si tratta solo dei composti emessi nelle acque legalmente, cioè in quantità autorizzate.

L’81% delle emissioni è costituito dai metalli pesanti (4.565 tonnellate), soprattutto zinco, nichel e rame. Segue la categoria delle “altre sostanze organiche” (852,8 tonnellate), che rappresenta il 15% delle emissioni registrate e comprende ad esempio fenoli e nonilfenoli. Ci sono poi 192,8 tonnellate di sostanze organiche clorurate (3%), come composti organici alogenati, tri- e diclorometano, e per finire i pesticidi (0,2%, pari a 11,5 tonnellate), soprattutto esaclorocicloesano, Aldrin e Dieldrin.


Secondo un report dell’Agenzia europea dell’ambiente il 46% dei corpi idrici superficiali europei non è in buono stato chimico

Non è una questione esclusivamente italiana. Secondo un report del 2018 dell’Agenzia europea dell’ambiente, il 46% dei corpi idrici superficiali europei non è in buono stato di salute chimica, principalmente a causa di tre categorie di sostanze: il mercurio e i suoi composti, gli idrocarburi policiclici aromatici e i polibromurati difenile.

Ma a contribuire al cattivo stato delle acque ci sono anche i cosiddetti “contaminanti emergenti”, cioè quelle sostanze che potrebbero avere effetti avversi su ambiente e salute, finite sempre più spesso sotto la lente di ingrandimento di controllori e mondo scientifico. Le principali categorie di sostanze emergenti, che la Commissione europea raccoglie dal 2013 in una Watch List aggiornata periodicamente, sono rappresentate dai prodotti farmaceutici, ad uso umano e veterinario, ma anche fitofarmaci, i pesticidi di nuova generazione, gli additivi plastici, i cosmetici e i nuovi ritardanti di fiamma.

A proposito di contaminanti emergenti, dal 2016, in Italia, l’Ispra e le Arpa eseguono un monitoraggio delle sostanze incluse nella Watch List europea (soprattutto farmaci, ormoni, pesticidi e principi attivi delle creme solari). Fino al 2018, sono state condotte 124 campagne su tutto il territorio italiano, che hanno portato in laboratorio un totale di oltre 1.500 campioni di acque. I risultati di queste indagini hanno rilevato che, in generale, la maggior parte delle sostanze riscontrate sono vicine o al di sotto dei limiti. Ci sono però alcune eccezioni, come l’antinfiammatorio diclofenac, gli antibiotici azitromicina e claritromicina, e l’insetticida neonicotinoide imidacloprid, che nelle acque raggiungono concentrazioni nell’ordine delle centinaia di nanogrammi/litro


Il glifosato è piuttosto diffuso nelle acque delle regioni che effettuano il monitoraggio dell’erbicida

Legambiente, nel suo rapporto, raccoglie anche 46 storie italiane di inquinamento delle acque seguite dall’associazione nel corso degli anni, più alcuni casi particolari. Come quello della contaminazione da glifosato, molto diffusa in tutte le regioni che ne effettuano il monitoraggio: in Lombardia, Piemonte, Sicilia, Toscana e Veneto il controverso erbicida era presente nel 68% delle acque superficiali analizzate, e proprio il glifosato e il suo metabolita Ampa erano responsabili del superamento dei limiti di pesticidi rispettivamente nel 24% e nel 48% dei casi. In Emilia-Romagna, che ha iniziato a tenere sotto controllo i livelli di glifosato nelle acque solo a metà del 2018, ben 44 stazioni di rilevamento su 50 superano il limite cautelativo.

Un altro caso emblematico da non dimenticare è quello dell’inquinamento da Pfas (sostanze perfluoroalchiliche), composti usati per la realizzazione di numerosi prodotti, come tessuti impermeabili e pentole antiaderenti. Nel 2011 in Veneto è stata riscontrata una contaminazione da Pfas nelle acque del bacino Agno Fratta Gorzone che interessa un’area di 180 km quadrati tra le province di Vicenza, Verona e Padova (ma in continua espansione) e circa 300 mila persone.

Ma la contaminazione da Pfas non si limita al Veneto. Ad Alessandria, per esempio, c’è il caso del cC604, un composto della categoria dei Pfas prodotto nel Polo Chimico di Spinetta Marengo, che ha contaminato i fiumi Bormida e Tanaro, e da qui ha raggiunto la falda acquifera e il Po. In Lombardia, invece, un monitoraggio di Arpa su Pfos (acido perfluorottansolfonico) e altri cinque Pfas ha rilevato una contaminazione particolarmente estesa. Il Pfos è stato trovato oltre allo standard di qualità nell’80% dei campioni di acque superficiali e nel 51% di quelli prelevati dalle acque sotterranee.

Per leggere il rapporto di Legambiente clicca qui.

fonte: www.ilfattoalimentare.it

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Come la canapa può accelerare la transizione verso l’economia circolare

Il futuro è verde canapa, secondo il giornalista Mario Catania. Lo abbiamo intervistato per capire quanto l’impiego di tale pianta potrebbe favorire lo sviluppo sostenibile.


Era il 18 giugno del 1971 quando Richard Nixon, allora presidente degli Stati Uniti d’America, dichiarava “guerra alla droga”, un’espressione divenuta famosa in tutto il mondo. Molti si ricorderanno quegli anni turbolenti, quando sulla scena faceva il suo ingresso Pablo Escobar, che sarebbe presto divenuto uno dei più noti e ricchi narcotrafficanti a livello globale; altri ne avranno avuto un assaggio appassionandosi alla serie tv Narcos.

E se la cocaina provoca danni all’organismo tali per cui non è possibile smettere di combatterla, con la marijuana molti stati hanno raggiunto una tregua, legalizzando il consumo della cannabis a scopo ricreativo come per uso medico, data l’efficacia dimostrata dei suoi principi attivi nel trattamento degli stati dolorosi, per esempio in malattie infiammatorie croniche. Lo stesso hanno fatto interi paesi, tra cui Canada e Sudafrica per citare gli ultimi.

Di questo abbiamo parlato con Mario Catania, giornalista specializzato nell’ambito, autore del libro Cannabis. Il futuro è verde canapa. Che ci ha spiegato come questa pianta sia in grado di assorbire grandi quantità di CO2, di ripulire i terreni dai metalli pesanti; e quali vantaggi ambientali deriverebbero dal suo utilizzo in settori come l’energia, la moda, l’edilizia e l’alimentazione.

Una parte del testo che personalmente mi ha molto colpito è quella che riguarda i trimmigrants. Chi sono?


Ho avuto l’opportunità di scoprire questo mondo durante il viaggio che ho fatto in California e Oregon a fine 2016, in cui ho avuto la possibilità di svolgere sia lavori giornalistici – reportage, interviste e quant’altro – sia di lavorare fisicamente in quella che è la filiera della cannabis.

In California sono andato nella Humboldt county, che è l’epicentro di quello che è chiamato “emerald triangle”, il triangolo smeraldo, che comprende tre contee – Humboldt, Mendocino e Trinity – ed è considerata la zona dove viene coltivata più cannabis pro capite al mondo, dove c’è la più alta concentrazione di coltivatori perché dagli anni Sessanta c’è stato questo fenomeno di persone – il movimento hippie, il movimento che predicava il ritorno alla terra, che rifiutava la guerra in Vietnam – che hanno iniziato a spostarsi in questa zona ricca di foreste, molto protetta per poter condurre una vita comunitaria e iniziare a coltivare cannabis più liberamente di quanto si potesse fare in città.

Così si è sviluppata quell’area dove ancora oggi vengono coltivate ingenti quantità di canapa, e io sono stato lì nel momento in cui si iniziava a preparare una transizione: fino ad allora la marijuana era stata legale solo in medicina, invece nel mese in cui sono stato lì, novembre 2016, è stata legalizzata anche a scopo ricreativo. Fatto sta che in quelle zone, in tutti quei paesini che circondano la valle – uno dei principali è Eureka –, durante la stagione della raccolta della cannabis, che va da inizio estate fino a settembre-ottobre inoltrati, s’incontrano centinaia e centinaia di persone che vanno lì proprio per effettuare questa raccolta. Dalla popolazione vengono soprannominati trimmigrants, che rappresenta l’unione delle parole trimmer (colui che pulisce le cime di cannabis con delle apposite forbicine) ed immigrant.

Il fenomeno non viene visto troppo bene dalla popolazione, perché negli ultimi anni questa massa di gente che va lì a cercare lavoro è aumentata sempre di più, e spesso non c’è nemmeno lavoro per tutti. Fondamentalmente è una massa eterogenea di lavoratori, chiamiamoli stagionali, in cui si trovano giovani freak [fricchettoni, ndr] che arrivano dall’Europa, giovani americani che lo sfruttano come lavoro saltuario per arrotondare lo stipendio, signori di cinquanta/sessanta/settant’anni che lo fanno con lo stesso scopo, immigrati che arrivano dall’America centrale, quindi Messico e zone limitrofe; un sacco di persone che vengono dal Sudamerica, magari in coppia, che fanno questi tre o quattro mesi di raccolta per ottenere una cifra che poi permetta loro di vivere tutto il resto dell’anno, con tranquillità, in Sudamerica: ho visto coppie che raccoglievano in tre, quattro mesi di lavoro dai 10 ai 25mila euro a testa e poi tornavano in Guatemala per trascorrere il resto dell’anno senza fare praticamente nulla. Ho conosciuto anche un ragazzo messicano che puntava a raccogliere 5-10mila dollari perché aveva la ragazza incinta che lo aspettava in Chiapas e quei soldi gli sarebbero serviti per costruirsi una casa. Insomma, è un crocevia incredibile: la pianta con il fiore più magico che c’è attira 
ogni sorta di genio e stravaganza.




Trimmigrant è l’unione delle parole trimmer (colui che pulisce le cime di cannabis con delle apposite forbicine) ed immigrant © Uriel Sinai/Getty Images


C’è chi sostiene che legalizzare la marijuana a scopo ricreativo possa spingere i narcotrafficanti ad abbassare il costo delle droghe pesanti, con un conseguente aumento del consumo. Lei cosa ne pensa?

In realtà è una cosa che, dove la cannabis è stata legalizzata, non sta succedendo. La teoria che probabilmente sta alla base di questo ragionamento è che la marijuana sia una droga di passaggio. È una teoria che però è recentemente stata smentita, sia da nuove branche della psicologia sia da svariate ricerche. Ad esempio in Giappone, dove non c’è un consumo di cannabis, c’è gente che fa uso di altre sostanze senza mai aver utilizzato prima la cannabis. Secondo alcuni psicologi, se bisogna identificare una costante all’inizio, a livello psicotropo probabilmente sono l’alcol e le sigarette molto spesso, e poi c’è tutta una branca della psicologia che oggi non parla più di “teoria del passaggio”, ma analizza le persone e i loro comportamenti identificando quelle che sono più portate ad abusare di sostanze in generale, per la loro storia personale, per mille motivi socioculturali.

Ad ogni modo, è qualcosa che dai dati non si sta verificando in America. L’altra grossa paura dei proibizionisti era che legalizzando potesse aumentare il consumo fra gli adolescenti, ma non sta accadendo nemmeno quello, nel senso che nei casi peggiori il consumo fra gli adolescenti rimane invariato, mentre nei casi migliori, come ad esempio in Nevada, cala addirittura dell’8-10 per cento, fondamentalmente per due ragioni: legalizzando viene meno il fascino del proibito, e con i soldi delle tasse sulla cannabis in America vengono fatte delle campagne molto serie d’informazione sugli stupefacenti nelle scuole.



Denver, Colorado. Alcune persone sono in fila, rigorosamente ad un metro di distanza le une dalle altre, per comprare marijuana © Michael Ciaglo/Getty Images

Lei riporta che le morti per overdose da oppiacei negli Stati Uniti continuano a crescere. “Un’epidemia che – cito le sue testuali parole – può trovare anche nella cannabis un possibile argine”. Come?

La cannabis, più che una “droga di passaggio”, si sta dimostrando un mezzo con cui guarire da altre dipendenze, quella da oppiacei come quella da nicotina, alcol o cocaina. Negli Stati Uniti sta succedendo proprio questo: è un paese dove è molto facile ottenere la prescrizione di oppiacei, una cosa che negli ultimi anni è andata fuori controllo, ci sono stati anche dei processi, per esempio la Johnson & Johnson di recente si è presa una multa da centinaia di milioni di dollari per la pubblicità aggressiva che aveva fatto dei propri farmaci contenenti oppiacei. Quello che sta succedendo in America è che muoiono migliaia di persone di overdose ogni anno perché magari cominciano ad assumere queste sostanze sotto prescrizione medica e poi finiscono a prendere l’eroina per strada.

La cannabis medica in tutto questo processo ha rappresentato un game changer: visto che gli oppiacei vengono prescritti in larga parte per la terapia del dolore, e per quanto riguarda la cannabis ormai ci sono decine di studi che la indicano come uno dei trattamenti più adeguati, è accaduto che negli Stati in cui si legalizzava la cannabis per uso medico le persone cominciavano a sostituire gli oppiacei con la cannabis, e diminuivano i casi di overdose. Questo significa che passare dagli oppiacei alla cannabis terapeutica salva decine di migliaia di vite.

fonte: www.lifegate.it


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Le api sentinelle dell’ambiente


















La Giornata mondiale delle api, celebrata il 20 maggio, e quella del 22 maggio dedicata alla biodiversità si completano e si potenziano nel richiamare l’attenzione del mondo su questi due importanti temi che riconducono ad un solo fine: tutelare l’ ambiente e le sue preziose risorse, troppo spesso sottovalutate e mortificate.
L’obiettivo della giornata appena celebrata è quello di dedicare un momento di riflessione per sensibilizzare l’opinione pubblica e i decisori politici sull’importanza di questi insetti, le api, fondamentali per l’equilibrio degli ecosistemi e per la sicurezza alimentare della nostra e di altre specie viventi.
Tra gli insetti impollinatori, le api rappresentano il migliore carrier di polline da una pianta all’altra; esse traggono il nettare dai fiori e in cambio contribuiscono a trasportare il polline anche a lunghe distanze, favorendo la riproduzione delle piante e la conservazione della biodiversità. L’impollinazione entomofila infatti è responsabile del 75% circa dell’impollinazione delle principali colture agrarie, nonché di migliaia di altre specie che arricchiscono e conservano la biodiversità.
Il loro metabolismo e la loro vitalità, dunque la loro “funzione sociale” di impollinatori, è purtroppo fortemente condizionata e troppo spesso minata da ambienti inquinati dove gli ecosistemi, quindi anche le api, rappresentano anche delle sentinelle per la valutazione della nostra qualità della vita.
È per questo che le api e i prodotti apistici (attraverso il polline) hanno anche un’altra importante peculiarità: sono ottimi bioindicatori (si intende una specie animale, e/o vegetale particolarmente sensibile a cambiamenti apportati da fattori inquinanti all’ecosistema in cui vive) e bioaccumulatori (si intende l’accumulo negli organismi di sostanze, solitamente tossiche e persistenti, presenti nell’ambiente).
In questa loro importante funzione, le api ci consentono di avere indicazioni sullo stato dell’ambiente e sulla contaminazione chimica presente. In alcuni casi, accurate analisi di laboratorio hanno consentito di rinvenire sulle api, sul polline e sul miele le sostanze attive presenti in alcuni prodotti fitosanitari utilizzati nelle aree su cui esse effettuano i voli e bottinano, oltre che gli inquinanti presenti in aree industrializzate, quali IPA e metalli pesanti.
L’importanza delle api su questo fronte è stata verificata anche da Arpa Umbria alcuni anni fa nell’ambito di un progetto sperimentale che l’Agenzia ha condotto dal titolo “Monitoraggio biologico mediante api e prodotti delle api (miele) e misure dell’attività biologica del polline”, volto alla valutazione della qualità dell’aria.
Tale indagine ambientale si è incentrata in alcune zone della Conca ternana, tra cui la città di Terni, a ridosso della quale si trova il polo siderurgico TKL-AST, uno dei più rilevanti del centro Italia. Lo studio ha previsto l’istallazione di arnie (come centraline biologiche) in aree a ridosso di questa zona fortemente industrializzata, messe a confronto con arnie posizionate in zone periurbane e in zone collinari, dove la qualità dell’aria è buona/ottima.
Sono state pianificate analisi chimiche e biologiche periodiche sulle api e sui prodotti delle api (miele), ne sono stati studiati anche i comportamenti e verificata la percentuale della moria.
risultati hanno confermato che nelle zone a forte impatto industriale gli insetti vengono danneggiati nel metabolismo, nella vitalità, risultano stressati e aggressivi rispetto a zone dove la qualità dell’aria è buona/ottima. Le analisi chimiche hanno rintracciato metalli pesanti e IPA sulle api analizzate e sul miele. Il monitoraggio chimico effettuato in parallelo mediante le centraline chimiche nelle stesse zone di interesse è risultato concorde, dimostrando che nelle zone in cui i valori di inquinanti erano più elevati le api avevano subito i danni biologici maggiori e il bioaccumolo era maggiore.
fonte: https://www.snpambiente.it


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EM: Ottenuto brevetto Bonifca Terreni



Buongiorno cari amici degli EM, condividiamo con Voi questo grande successo! Che i microrganismi fossero efficaci per la bonifica dei terreni (e non solo...) da sostanze inquinanti quali PCB, diossine, metalli pesanti (e non solo...) lo avevamo già verificato praticamente, con la bonifica di un terreno inquinato nei pressi della famigerata area ex-Caffaro nel bresciano.

Bene, quei risultati hanno portato all'ottenimento di un brevetto, che sancisce l'efficacia del nostro metodo di bonifica dei terreni inquinati!

Eccone l'attestato appena ricevuto!

Ora non ci resta... che continuare il nostro lavoro... grazie agli EM, ma con un riconoscimento in più!


fonte: http://www.italiaem.it



Allarme su cialde e capsule caffè: studio rivela cosa rilasciano nell’acqua (e i rischi per la salute)


















Le macchinette per il caffè sono ormai sempre più diffuse nelle nostre cucine e stanno rubando sempre più la scena alla tradizionale moka. Il caffè in cialde e in capsule è infatti più comodo e pratico, si prepara più velocemente e spesso risulta più gustoso rispetto al caffè preparato con la caffettiera.
Utilizzare cialde e capsule presenta però anche qualche svantaggio, e non di poco conto. Innanzitutto il caffè in confezioni monodose risulta più costoso di quello ben più economico venduto sfuso macinato o in chicchi; una capsula contiene dai 5 ai 7 grammi di polvere e una tazzina di caffè può arrivare a costare 40 centesimi, contro i 15 di quella preparata con la moka.
In secondo luogo le capsule presentano problemi legati allo smaltimento: le confezioni monodose di caffè sono spesso realizzate in plastica o alluminio che nella maggioranza dei casi non sono riciclabili.
Infine, da una ricerca recente condotta sul caffè preconfezionato sono emerse preoccupazioni sulla salubrità di cialde e capsule.
Lo studio è stato condotto da alcuni ricercatori italiani e ha misurato la quantità di ftalati e metalli pesanti rilasciati dalle capsule di caffè in alluminio, plastica e materiale biodegradabile.
Gli ftalati e i metalli pesanti sono ampiamente riconosciuti come inquinanti, presentano tossicità e interferiscono con alcuni processi chiave dello sviluppo e della riproduzione.
Durante l’estrazione del caffè dalle capsule con acqua ad alta temperatura, queste sostanze possono finire nella tazzina, causando problemi di salute da non sottovalutare.
I risultati dello studio hanno mostrato un rilascio di ftalati in quantità simili nelle diverse capsule analizzate.
Sebbene i livelli di ftalati rilevati siano inferiori rispetto ai limiti giornalieri tollerati dal nostro organismo, va considerato l’effetto additivo che questi potrebbero avere nel tempo.
L’esposizione a queste sostanze chimiche dipende infatti dalla quantità di caffè che si beve nel corso della giornata e dalle altre fonti di ftalati con cui si viene a contatto. Gli ftalati si trovano infatti in molti cosmetici, nelle vernici, nelle plastiche, nei contenitori per alimenti e, di conseguenza, negli alimenti confezionati.
Tornando alle capsule di caffè, per quanto riguarda i metalli pesanti è stata riscontrata la presenza di quantità significative di piombo e nichel: anche per queste sostanze va considerato l’effetto additivo, come per gli ftalati.
Secondo i ricercatori questi risultati sono preoccupanti per via delle molteplici vie di esposizione umana a tali sostanze, della presenza ubiquitaria di questi inquinanti nei prodotti di consumo e dei loro effetti a lungo termine sulla salute umana.
fonte: https://www.greenme.it

Glifosato e metalli nelle api e nel miele

Presentati i dati di Api e orti urbani, indagine di Legambiente che ha evidenziato tracce di glifosato e metalli pesanti nelle api e nel miele prodotto.
















Le api sono da sempre delle sentinelle sullo stato di salute del nostro ambiente, come dimostrano anche i dati del progetto “api e orti urbani” presentati al Fico Eataly World di Bologna. I risultati non sono allarmanti ed escludono il rischio di moria, anche se rilevano il diverso grado di contaminazioni di residui di agrofarmaci e metalli pesanti tra le diverse città prese a campione Torino, Milano, Bologna e Potenza.
Questi orti urbani sono stati delle vere e proprie cartine tornasole per gli studiosi che hanno potuto osservare come le le api percepiscono immediatamente la presenza di pesticidi e metalli e segnalano all’uomo attraverso modifiche del loro modo di comportamento e di vita.
Nei moltissimi campioni analizzati sono state rilevate tracce di glifosato, a Milano nel 2017 e a Bologna nel 2018, mentre tra dieci metalli pesanti ricercati nell’ambiente a Torino, Milano, Bologna e Potenza i più riscontrati sono stati cromo, vanadio, nichel e ferro, seguiti da piombo, rame e zinco.
Tutte le tracce trovate sono riconducibili all’uso di diserbanti stradali o residui agricoli per quanto riguarda il glifosato e dell’inquinamento di fondo dell’area lombardo-piemontese. Alcune amministrazioni hanno rivisto, grazie alla sollecitazione di Legambiente, le loro attività in ottica più green. Come ha spiegato Daniela Sciarra, responsabile campagna agricoltura sostenibile dell’associazione:
Quello che  quest’indagine porta a galla è la potenzialità del metodo di analisi biologico (che prevede l’utilizzo di bioindicatori) e che dovrebbe integrarsi con gli altri metodi chimico-fisici, elettronici, satellitari già diffusi per il controllo dell’inquinamento ambientale nelle nostre città.
Un inquinamento che nel caso delle api riguarda tracce accumulate nell’aria, nel terreno e nell’acqua, tutti elementi con cui entra in contatto l’insetto. L’altro aspetto che emerge è il ruolo delle api in città per la biodiversità, l’impollinazione delle alberate e della flora spontanea presente che si coniuga con il ruolo didattico, sociale e di sensibilizzazione degli orti urbani.
Un progetto che sfruttava la funzione “sentinella” delle api. Nel periodo dell’indagine il livello di mortalità delle api non ha mai superato la soglia critica e quindi non è stato necessario procedere all’analisi chimica delle api morte.

fonte: www.greenstyle.it

Come depurare l’acqua contaminata dai metalli pesanti in pochi secondi

Creata una nuova molecola metallo-organica che può rimuovere rapidamente e selettivamente elevate quantità di piombo e mercurio dall’acqua





















Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, quasi 1 miliardo di persone non ha accesso all’acqua potabile. Nel 2015 risultavano ancora sopra ai 600 milioni gli individui costretti a rifornirsi quotidianamente da fonti definite “non protette” perché contaminate da agenti patogeni e da alti livelli di sostanze nocive. È nel segno della lotta all’inquinamento idrico che si inserisce il nuovo lavoro dei chimici del Politecnico di Losanna. Qui il professore Wendy Lee Queen, assieme a colleghi dell’Università della California a Berkeley e del Lawrence Berkeley National Laboratory, ha messo a punto un nuovo sistema per depurare l’acqua contaminata dai metalli pesanti in pochi secondi.

L’obiettivo della ricerca era creare un dispositivo che unisse efficienza a economia. Gli attuali metodi commerciali per rimuovere questo tipo di inquinanti, infatti, tendono a essere costosi e a consumare parecchia energia, senza però essere, di contro, abbastanza efficienti. Esistono approcci meno convenzionali e più efficaci che sono tuttavia per lo più monouso o producono rifiuti tossici secondari da smaltire.
Per uscire definitivamente da questo aut aut, il gruppo di ricerca svizzero-statunitense ha deciso di impiegare i reticoli metallorganici (MOF), ossia materiali cristallini costituiti da nodi metallici interconnessi da leganti organici rigidi. Queste particolari strutture, ben note al mondo della chimica, offrono un’incredibile porosità: nel loro spazio vuoto posso immagazzinare vapore acqueo, gas come idrogeno o metano e persino i metalli pesanti. Il tutto dipende dalla selettività fornita ai MOF in fase di sintesi. In altre parole, scegliendo le molecole costitutive e l’organizzazione spaziale, è possibile sintonizzare questi materiali per compiti precisi.

Nel caso in questione, il ricercatore Daniel T. Sun del Politecnico ha progettato un composito MOF / polimero resistente all’acqua utilizzando materiali economici, ecologici e biologicamente compatibili. Il team ha quindi trattato il reticolo cristallino con dopamina. Il risultato finale, denominato Fe-BTC / PDA, si è dimostrato in grado di rimuovere rapidamente e selettivamente elevate quantità di metalli pesanti, come piombo e mercurio, dai campioni d’acqua contaminata. Nel dettaglio, può rimuovere oltre 1,6 volte il proprio peso di mercurio e 0,4 volte il suo peso di piombo. Il Fe-BTC / PDA è stato quindi testato in soluzioni tossiche prelevate direttamente dall’acqua contaminata di Flint, nel Michigan. La sperimentazione ha dimostrato che il MOF può, in pochi secondi, ridurre le concentrazioni di piombo a 2 parti per miliardo, un livello che l’Agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti e l’Organizzazione mondiale della sanità ritengono accettabile.

fonte: www.rinnovabili.it

Metalli nelle unghie dei bambini, pubblicati i dati del monitoraggio ambientale

La percentuale è sensibilmente più alta nella zona dove si trovano anche i due inceneritori
















L’analisi dei 221 campioni di unghie di bambini analizzati dal Laboratorio Eurolab di Torino, nell’ambito dell’iniziativa “Difendiamo l'Ambiente con le Unghie!”, fanno emergere una differenza sostanziale fra la media del contenuto dei metalli pesanti in toto e della loro tipologia dei quartieri Centro-Nord ed Est rispetto a quelli di Ovest e Sud.  Si può evidenziare come a Nord-Est della via Emilia (o della Ferrovia), zona dove si trovano gli inceneritori di Hera e quello ex Mengozzi, il quantitativo dei metalli sia circa il 50-60% in più di quello rinvenuto a Sud-Ovest e che sia caratterizzato da elementi tipici della “produzione industriale” quali Cromo, Ferro, Nichel, Alluminio, Piombo. A comunicarlo è l'associazione Medici per l'ambiente che ha promosso il monitoraggio in collaborazione con i Quartieri cittadini.

http://www.corriereromagna.it

Luca Mercalli: Un ambiente sempre più inquinato. Meno salute, meno qualità di vita














L’adozione di normative ambientali via via più severe nei paesi del primo
mondo ha indotto un calo delle emissioni di diversi inquinanti, tuttavia l’accumulo
di sostanze pericolose per la salute nell’ambiente (in aria, acqua,
suolo) rimane pur sempre preoccupante. Ma oggi è nei paesi in via di sviluppo
che si concentrano alcune tra le situazioni ambientali più critiche,
dovute soprattutto ad attività industriali e minerarie condotte trascurando
ogni rispetto per l’ambiente circostante. Nel 2007 le località più inquinate
del mondo erano individuate in Azerbaigian, Cina, India, Perù, Russia,
Ucraina e Zambia (foto: US Fish and Wildlife Service).


A partire dalla Rivoluzione Industriale e via via con lo sviluppo dell’industria chimica, l’uomo ha riversato nell’ambiente una quantità crescente di composti sia naturali, sia di sintesi, spesso dannosi per la salute: plastiche, idrocarburi, solventi, coloranti, vernici, colle, fertilizzanti, fitofarmaci, metalli pesanti, gas a effetto serra, e così via...

Il registro europeo delle sostanze chimiche in commercio (EINECS, http://ecb.jrc.ec.europa.eu) a fine 2007 contava 100.204 composti, ma il numero
reale di prodotti in uso nel mondo è probabilmente superiore e di fatto sconosciuto.
A causa della circolazione atmosferica e oceanica e delle catene alimentari, gli inquinanti si diffondono ovunque, e pressoché nessun luogo della Terra oggi può definirsi «incontaminato»: tracce di metalli pesanti sono stati ritrovati nel grasso di animali artici, e carotaggi profondi condotti sui ghiacciai del Monte Rosa (Colle Gnifetti, 4480 m, e Colle del Lys, 4240 m) hanno rivelato la presenza di livelli contaminati dal trizio riconducibile ai test nucleari dei primi Anni 1960.

Certamente non dobbiamo scordare che l’inquinamento è il sottoprodotto negativo di uno sviluppo scientifico, tecnologico ed economico che ha portato comunque ricchezza e condizioni di vita migliori almeno a una parte dell’umanità (in cui noi europei rientriamo), ma oggi le schiaccianti evidenze sui pericoli ambientali e sanitari che ne derivano devono
guidarci verso l’utilizzo più consapevole di sostanze meno dannose.

PER SAPERNE DI PIÙ

www.eea.europa.eu - European Environment Agency
http://toxnet.nlm.nih.gov - Banca dati relativa a
sostanze tossiche e salute ambientale
www.blacksmithinstitute.org - Risorse ed esperienze
per contrastare l’inquinamento ambientale

CLIMA ED ENERGIA

Capire per agire

Luca Mercalli 

Api e Terra dei Fuochi: le silenziose paladine protagoniste di un progetto di biomonitoraggio sui metalli pesanti


Api

Riccardo Terriaca, direttore CoNaProA, controlla lo stato di salute delle api all’interno degli alveari campione.

Il vento sfiora le foglie di nocciolo e solleva i vapori che fuoriescono dall’affumicatore davanti alle arnie. Le api cominciano a danzare nella brezza. Sullo sfondo, imperiose vette fanno da confine a distese di campi coltivati, dai colori vividi. È in una campagna di Vairano Patenora (CE), nell’Alto Casertano, a circa 20 km dall’area ex Pozzi di Calvi Risorta, dove nel 2015 è stata trovata la discarica sotterranea più grande d’Europa (25 ettari per 2 milioni di metri cubi di rifiuti), che è stata posizionata una delle dieci stazioni di biomonitoraggio del progetto C.A.R.A. Terra (Caserta Apicoltura Rilevamento Ambientale). Un’iniziativa del Conaproa, consorzio degli apicoltori, con l’Università del Molise e l’Università Federico II di Napoli, per tentare di monitorare tramite le api la quantità di metalli pesanti nel territorio limitrofo a quella che è stata definita Terra dei Fuochi, zona di interramenti di rifiuti da parte della camorra, una delle più inquinate d’Italia.
Riccardo Terriaca, direttore di CoNaProA raccoglie l’affumicatore e apre delicatamente una delle arnie. “C.A.R.A. Terra nasce dall’esigenza delle persone di continuare a operare in un territorio ferito da situazioni di carattere ambientale”, dice mentre controlla che gli insetti stiano bene. Ha lo sguardo orgoglioso e parla animatamente della volontà di restituire dignità a una terra martoriata. Con un tentativo di riscatto: provare a invertire il calo di vendite di prodotti agricoli, che ha segnato il boom mediatico sulla Terra dei Fuochi e mostrare, con l’aiuto dei dati raccolti tramite le api, la possibile sicurezza alimentare delle coltivazioni. “Le api sono state scelte perché riescono a monitorare tutti i comparti ambientali: la vegetazione, intercettano le particelle sospese nell’aria, si abbeverano con l’acqua, toccano il suolo – spiega Antonio De Cristofaro, entomologo e direttore scientifico del progetto, mentre indossa la tuta da apicoltore e si avvicina all’alveare –. Attraverso esami chimici mirati, si controllano gli inquinanti che derivano, in particolare, dalla combustione di rifiuti urbani. I due elementi che possono dare una quantificazione sono soprattutto cadmio e piombo. Ma le analisi sono state estese anche altri elementi chimici”.
Il vento si fa sentire con una folata leggermente più forte, ma le api non sembrano esserne infastidite, entrano ed escono indisturbate dalle arnie. Davanti a due di queste, sono state posizionate le gabbie under basket, contenitori in cui cadono le api quando muoiono, un modo semplice per prelevarle e poi analizzarle in laboratorio. “Controlliamo che il numero degli insetti morti nelle gabbie sia naturale oppure eccessivo, per capire se ci sono fattori esterni che ne compromettono il benessere – spiega Riccardo Terriaca, intento a mani nude a sollevare un telaino -. Campioni di api adulte, pezzi di cera e di miele vengono inviati al dipartimento di agraria dell’Università del Molise, per le analisi”. In termini numerici, si tratta di famiglie di api tra le 10 e le 15mila bottinatrici che svolgono nelle loro perlustrazioni circa 10 milioni di microprelievi nell’aria, tra la vegetazione, nell’acqua e sulla terra, su una superficie di circa 7 km2. “Con le api – aggiunge il professore De Cristofaro – si ottiene in tempo reale la fotografia dell’inquinamento e si rilevano eventuali variazioni. Il progetto ha infatti senso se protratto nel tempo, perché se i livelli di alcuni inquinanti salgono, bisogna allarmarsi”. “Su un apiario, per esempio – spiega il direttore di CoNaProA, mentre ripone gli attrezzi da apicoltore nella sede del consorzio – abbiamo trovato particelle d’oro, che probabilmente provenivano da discariche di materiale informatico. In un’altra di titanio, legate ai residui bellici della seconda guerra mondiale”.



Come “Terra dei Fuochi” si indica il territorio dei 55 comuni tra la parte meridionale della Provincia di Caserta e la parte settentrionale della Provincia di Napoli dove sono stati interrati rifiuti tossici e dove i roghi di rifiuti compromettono aria, terre ed ambiente, secondo la mappatura fornita il 23 dicembre 2013 dal Ministero delle politiche agricole. Sostanze che incidono in modo preoccupante sulla salute delle persone. Gli studi dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss)   dal 2014 hanno documentato in quest’area “un’elevata mortalità per un insieme di patologie” come tumori e presenza alla nascita di malformazioni. Nel 2016, l’Iss ha aggiunto che “la mortalità è in eccesso rispetto alla media regionale”, in particolare per i tumori dell’apparato urinario (ma si parla anche di quelli che colpiscono polmone, fegato, stomaco, vescica, pancreas, rene), che i bambini ricoverati nel primo anno di vita sono troppi e che “le esposizioni a emissioni e rilasci dei siti di smaltimento e combustione illegale dei rifiuti possono avere svolto un ruolo causale o concausale”. Su 51 siti classificati a rischio è stata, inoltre, bloccata la vendita di prodotti ortofrutticoli con ripercussioni sull’agricoltura che sono andate oltre il territorio mappato.



Gennaro Granata, produttore agricolo, controlla le sue mele annurche, prodotto tipico della zona e impollinato dalle api 

I rifiuti di tipo industriale, chimico e urbano sversati in terreni ad uso agricolo – spiega Angelo Milo, direttore di Coldiretti Caserta, all’ombra degli alberi di nocciolo – hanno portato i consumatori a stare attenti ai prodotti provenienti da quelle aree”. Non si può coltivare, per esempio, nella zona della discarica di Calvi Risorta. Per osservarla dall’alto, si viaggia su stradine sterrate costeggiate da erba altissima, con la sensazione di avere gli occhi addosso, anche se non ci sono. Si arriva su un ponte, un piccolo immondezzaio a cielo aperto, in cui è stato gettato un po’ di tutto. Sulla discarica è ricresciuta la vegetazione. Poco più in là, invece, cominciano a notarsi filari di alberi di pesche.
La tutela ambientale è ora più forte” e i controlli sono diventati più stringenti, ha detto il ministro dell’ambiente Gian Luca Galletti pochi giorni fa al margine di un’operazione antinquinamento relativa alle prime due settimane di marzo 2017 nella “Terra dei Fuochi” da parte dei Carabinieri di Napoli e Caserta. Tre le persone scoperte mentre scaricavano rifiuti speciali su un rogo appiccato su un fondo agricolo e altre 134 le persone denunciate per reati relativi a gestione dei rifiuti e inquinamento. Inoltre, 19 aree agricole sono state sequestrate, così come sei discariche abusive, 800 kg di materiali ferrosi e 70 kg di alimenti scaduti. “Sul territorio tra Napoli e Caserta c’è la struttura di polizia specializzata in materia forestale, ambientale e agroalimentare più grande d’Europa”, ha detto Galletti il quale ha sottolineato che è necessario fare prevenzione, per eliminare i danni del passato.



Nelle aule accademiche dell’Università del Molise a Campobasso, le ricerche di laboratorio – in questo caso relative al biomonitoraggio nel periodo tra maggio 2014 e luglio 2015 – hanno rilevato metalli pesanti e micro polveri. “Si lavora su campioni di miele e di api incenerite”, spiega Giuseppe Palumbo, professore di chimica agraria all’Unimol, mostrando provette di vetro e macchinari, con i quali dà vita agli esperimenti. Gli esami si sono concentrati nella ricerca, tra gli altri, di livelli di cadmio, nichel, zinco, cromo, manganese, alluminio, ferro, magnesio e piombo. “Tutti i mieli analizzati non presentano valori di elementi chimici superiori a quelli ritenuti accettabili in altri prodotti alimentari” precisa il direttore scientifico De Cristofaro, il quale evidenzia che per avere un quadro più completo è necessario ripetere il biomonitoraggio per almeno tre anni “nella consapevolezza che indicazioni di maggior valore potranno scaturire solo dall’analisi delle oscillazioni delle quantità di eventuali inquinanti nel tempo”. Le ricerche sono state incentrate su 28 elementi, tra cui 14 metalli pesanti, dei quali  mercurio, cromo, cadmio e piombo sono considerati tra i più pericolosi per la salute. In una relazione conclusiva il direttore scientifico afferma che “nei terreni biomonitorati dalle api non sono state rilevate presenze inquinanti biodisponibili in quantità tali da pregiudicare la sicurezza delle produzioni agroalimentari locali”. I campioni sono stati prelevati con cadenza mensile nelle 10 stazioni posizionate sui diversi terreni. E i livelli di metalli rilevati dal miele e dalle api sono stati comparati con quelli di altre aree, nel caso specifico del Basso Molise. I risultati non sono ancora stati pubblicati su riviste scientifiche, in quanto il progetto è in attesa di ulteriori finanziamenti.




Gennaro Granata, giovane coltivatore di mele annurche, passeggia tra i suoi alberi raccontando soddisfatto che questo frutto ha una storia millenaria, tanto da essere raffigurato in una delle case di Pompei. Grazie all’introduzione di api nel meleto durante le fioriture, ha notato un aumento della qualità e quantità delle coltivazioni. “Le mele sono migliori – dice – e grazie alle api abbiamo anche un’omogeneità di calibri”. Gli insetti impollinatori sono termometri dell’ambiente e alla natura portano benefici, che toccano anche produzioni non direttamente collegabili alla vegetazione, come le mozzarelle di bufala. A pochi chilometri da Vairano Patenora, Davide Letizia ha un allevamento di circa 1500 bufale, che donano 250 quintali di latte al giorno. Vivono in capannoni aperti e osservano con sguardo curioso, si avvicinano, annusano cordiali. Si trovano a Pietramelara (CE), il cui nome, si dice da queste parti, deriva dalle montagne porose che circondano il paese, tra le quali le api andavano a fare il miele. D’altronde sullo stemma del Comune sono disegnate tre api d’oro. Le bufale si nutrono di foraggi che vengono prodotti nella stessa azienda e che sono per lo più a base di erba medica, cereali e insilati di mais. “L’erba medica, che per crescere ha bisogno dell’impollinazione – spiega Davide Letizia – è usata per fornire fibre e proteine all’alimentazione dell’animale ed è indispensabile, dunque, per la produzione di latte. Grazie alle api aumentano le rese di erba medica e otteniamo un foraggio di buona qualità, che influisce sul miglioramento qualitativo delle mozzarelle, esportate in tutto il mondo”.  


 

L’entomologo Antonio de Cristofaro e direttore scientifico del progetto C.A.R.A Terra, vicino la discarica di Calvi Risorta, considerata la discarica sotterranea più grande d’Europa


E se le api sono sensori di ciò che accade nell’ambiente, esperimenti sull’incidenza dell’inquinamento ambientale sulla salute emergono dal progetto di ricerca “Eco Food Fertility”, che parte dall’analisi sugli spermatozoi umani e che di recente è stato citato dall’inchiesta della trasmissione “Presa Diretta” sull’aumento dell’infertilità maschile. È nato proprio nel cuore della Terra dei Fuochi. “Una prima fase dello studio ha messo in evidenza che chi vive nella Terra dei Fuochi accumula più metalli pesanti nel sangue e nello sperma, – spiega l’ideatore del progetto, l’andrologo Luigi Montano – con una riduzione delle difese antiossidanti, che rendono l’organismo più suscettibile alle malattie”. Una seconda fase del progetto riguarderà la ricerca sull’alimentazione e su come elevati consumi di vegetali e alimenti biologici possano ridurre gli effetti negativi dell’inquinamento.
Ci sono dunque tentativi diversi di restituire sicurezza alimentare a un territorio gravato dal problema ambientale. Un problema complesso e che non tocca, seppure per origini variegate, solo la Terra dei Fuochi. Il progetto di biomonitoraggio con le api, come rilevatrici di sostanze inquinanti, è stato esteso, per esempio, anche su alcuni comuni del Molise e sul nucleo industriale di Venafro – Pozzilli, in Provincia di Isernia, al confine con l’Alto Casertano. Il 14 gennaio 2017, a Venafro, considerata la città più inquinata del Molise per le polveri sottili, circa 5mila persone sono scese in piazza per manifestare i problemi di inquinamento e chiedere soluzioni. In prima linea anche le Mamme per la salute e l’ambiente Onlus, che da circa 10 anni chiedono alle istituzioni un monitoraggio approfondito di tutte le matrici ambientali e di capire, con dati scientifici alla mano, l’incidenza sulla salute delle persone. “Fino ad oggi abbiamo ottenuto solo documenti stringati – commenta l’associazione delle Mamme per la salute – chiediamo invece analisi più approfondite”.
I metodi per monitorare l’ambiente sono diversi, ma le api, silenziose sentinelle, possono essere valide alleate, anche per mettere luce sulla necessità di risanamento delle zone avvelenate del nostro Paese e sulla consapevolezza che salubrità del territorio, alimentazione e benessere delle persone sono legate in modo indissolubile.
Adelina Zarlenga, Monica Pelliccia
Questo reportage fa parte del progetto giornalistico #Hunger4Bees realizzato grazie al supporto del programma Journalism Grant Innovation in Development Reporting Grant Programme (IDR) del Centro Europeo di Giornalismo.


fonte: www.ilfattoalimentare.it