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Pfas Veneto: il processo ambientale più importante d’Italia.

 



Soprattutto se entrerà in sinergia con il processo gemello di Alessandria contro di Solvay, che sta per partire. A Vicenza il Gup ha rinviato a giudizio 14 manager di diversa nazionalità dell’azienda Miteni e delle multinazionali Mitsubishi Corporation e International Chemical Investors Group, oltre che la stessa Miteni di Trissino. L’accusa è di aver avvelenato con i Pfas (Pfoa ,GenX e C6O4) per decenni, senza soluzione di continuità, le acque sotterranee e di falda di oltre 300 mila abitanti delle province di Padova, Vicenza e Verona, provocando tumori, malformazioni, aborti e malattie del sistema cognitivo, ecc. La prima udienza in corte di assise il primo luglio. Le contestate sono centrate su reati dolosi e non colposi: avvelenamento delle acque, disastro doloso, inquinamento ambientale e bancarotta fraudolenta. Le parti civili costituite sono oltre duecento. Il processo continua una lotta avviata otto anni fa e animata in particolare da “Mamme No Pfas” fin quando nel 2017 è scattata l’emergenza sanitaria, della quale sono state investite le istituzioni, dalla Regione al Governo. Fondamentale saranno le ripercussioni sulla enorme bonifica, con analogia con la vicenda Solvay di Spinetta Marengo.

Anche gli avvocati di Miteni avranno l’impudenza di sostenere che non vi sono certezze nel panorama scientifico sugli effetti nocivi delle sostanze perfluoroalchiliche per l’uomo, con la conseguenza di mancanza di volontarietà da parte degli imputati.

Di seguito, i più recenti “post” sul Sito della “Rete Ambientalista Movimenti di lotta per la salute , l’ambiente, la pace e la non violenza” gestito dal “Movimento di lotta per la salute Maccacaro”.

Vietare una volta per tutte i Pfas, e farlo presto. La posizione Cinquestelle in Parlamento.

A Spinetta Marengo la polvere sui mobili delle case contiene Pfas e altre sostanze tossiche.

La Regione Veneto e la Provincia di Alessandria nascondono alle popolazioni i dati Pfas sensibili alla loro salute. Gli omissis nelle autorizzazioni e gli alimenti avvelenati.

I biberon al bisfenolo. Uno dei sei esposti depositati presso la Procura della Repubblica di Alessandria denuncia: alla Solvay di Spinetta Marengo nel cocktail con i Pfas (PFOA, C6O4, ADV) tra gli interferenti endocrini c’è anche il Bisfenolo.

L’allarme “Pfas e Bisfenolo riducono qualità dello sperma, volume testicoli e …

La chimica che inquina l’acqua


fonte: www.rete-ambientalista.it


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50 sfumature di greenwashing

Dal colosso del nucleare Westinghouse, già negli anni Sessanta, ai fuoriclasse di Chevron, negli anni Ottanta, arrivando fino a DuPont, solo per fare qualche nome. Quella del greenwashing è una storia odiosa e ricca che continua a rinnovarsi. In Italia, grazie a Teachers for Future si è tornati negli ultimi mesi a parlare delle bugie delle grandi aziende. Nell’anno in cui l’educazione ambientale entra nelle scuole, l’Associazione nazionale dei presidi ha spalancato le porte a Eni: “Non possiamo che prendere le distanze da questa iniziativa – ha scritto Tff – che coinvolge una delle grandi aziende mondiali che causano cambiamento climatico e contaminazione del Pianeta attraverso l’estrazione senza limiti dei combustibili fossili, che è già stata riconosciuta responsabile di immani disastri ambientali, corruzione, sfruttamento dei Paesi poveri e che tenta di dipingere di verde la sua anima nera attraverso costante e pressante attività di greenwashing…”

Tratta da pixabay.com

Il greenwashing rappresenta la pratica aziendale di mostrarsi attenti alla sostenibilità per nascondere un discutibile impegno per la salvaguardia ambientale. L’articolo «The troubling evolution of corporate greenwashing» del quotidiano britannico The Guardian ne ripercorre alcune tappe mettendone in luce gli aspetti più torbidi.

Negli anni Sessanta, il movimento antinucleare metteva in dubbio l’affidabilità delle centrali nucleari, la loro sicurezza e il loro apparentemente basso impatto ambientale. Il colosso americano Westinghouse, e in particolare la sua divisione nucleare, ribatteva con una serie di annunci che proclamavano la pulizia e la sicurezza delle centrali nucleari, avvalendosi di immagini evocative come quella di una centrale nucleare adagiata sulla riva di un lago incontaminato. Alcune delle affermazioni degli spot erano vere: nel 1969, le centrali nucleari della Westinghouse producevano grandi quantità di elettricità a basso costo con un inquinamento atmosferico molto inferiore rispetto alle centrali a carbone concorrenti. Tuttavia le pubblicità sembravano ignorare che solo qualche anno prima si erano verificati due episodi di meltdown nucleare: uno interessò la centrale SL-1 in Idaho nel 1961 e il secondo la centrale Fermi 1 in Michigan nel 1966. Gli annunci della Westinghouse tralasciavano anche le preoccupazioni sull’impatto ambientale delle scorie nucleari, che continuano a essere un problema.

Si potrebbe pensare che le cose nel tempo siano migliorate, ma nel 2013, in mezzo alle preoccupazioni per la disoccupazione e per la sostenibilità energetica, la Westinghouse ha lanciato un nuovo spot. «Lo sapevate che l’energia nucleare è la più grande fonte di energia per l’aria pulita del mondo?», ha chiesto agli spettatori poco prima di affermare che le sue centrali nucleari «forniscono aria più pulita, creano posti di lavoro e aiutano a sostenere le comunità in cui operano». Anche in questo caso l’azienda sembrava sperasse nella breve memoria dei consumatori. Solo due anni prima, infatti, la Westinghouse era stata citata dalla U.S. Nuclear Regulatory Commission – agenzia indipendente che ha lo scopo di garantire l’uso sicuro dei materiali radioattivi per scopi civili benefici – per aver nascosto delle falle nei progetti dei suoi reattori e aver fornito informazioni false alle autorità di controllo. Inoltre, nel febbraio 2016, un altro impianto che utilizza i reattori della Westinghouse, l’Indian Point di New York, ha rilasciato materiale radioattivo nelle acque sotterranee dell’area circostante. Un articolo del The Guardian sulla vicenda riporta che in una località colpita i livelli di radioattività erano aumentati di quasi il 65.000%, passando da 12.300 pCi/L (picocurie per litro) a oltre 8.000.000 pCi/L. Il livello massimo di contaminazione di trizio nell’acqua potabile stabilito dall’Environmental Protection Agency (EPA) è di 20.000 pCi/L, anche se Entergy, la società proprietaria dell’impianto, ha sottolineato che solo le acque sotterranee, e non l’acqua potabile, erano state contaminate.

Un’altra tappa emblematica nella storia del greenwashing fu la campagna pubblicitaria lanciata dalla compagnia petrolifera Chevron a metà degli anni Ottanta. L’azienda commissionò una serie di costosi spot per convincere il pubblico della sua attenzione verso l’ambiente: il titolo era «People Do». Uno spot in particolare mostra un grizzly andare in letargo in una incontaminata grotta di montagna, mentre la voce fuori campo racconta di come i loro dipendenti avrebbero eseguito esplorazioni di petrolio nel sottosuolo, per poi provvedere a ripristinare eventuali danni ambientali in tempo per il risveglio dell’orso.

Molti dei programmi ambientali che la Chevron ha promosso nelle sue pubblicità, come in questo caso, erano stati in realtà imposti dalla legge. Erano anche relativamente poco costosi se confrontati con il budget pubblicitario della Chevron. L’attivista ambientale Joshua Karliner1 ha stimato che, a esempio, la realizzazione della campagna di tutela delle farfalle della Chevron richiedeva 5.000 dollari all’anno, mentre la produzione e diffusione degli annunci pubblicitari per promuoverla costarono milioni di dollari.

Inoltre, nel periodo in cui veniva lanciata la campagna «People Do», la Chevron violava il Clean Air Act, il Clean Water Act, le leggi federali che regolano le emissioni atmosferiche e gli scarichi di sostanze inquinanti nelle acque degli Stati Uniti, in vigore rispettivamente dal 1970 e 1972, e rilasciava petrolio in rifugi dedicati alla fauna selvatica. Gli spot tuttavia furono molto efficaci, come ricorda il Guardian, tanto da vincere il premio pubblicitario Effie advertising award nel 1990, e successivamente essere utilizzati come caso di studio alla Harvard Business School. Ma non passò molto prima che diventassero famosi anche tra gli ambientalisti, che li proclamarono il gold standard del greenwashing.

Da dove nasce la parola Greenwashing

Il termine «greenwashing» è la sincrasi tra «green» e «washing»: una lavata di verde, per nascondere con il marketing attività tutt’altro che sostenibili. Ma quando e come nasce la parola «greenwashing»? Quando, nel 1983, Jay Westerveld – ci ricorda il Guardian – ebbe per la prima volta l’idea del termine greenwashing, non stava pensando all’energia nucleare, ma agli asciugamani. Studente universitario in un viaggio di ricerca a Samoa, si fermò alle Fiji per fare surf. Trovandosi nell’immenso resort Beachcomber, vide un biglietto che chiedeva ai clienti di ritirare i loro asciugamani. In sostanza diceva che gli oceani e le scogliere sono una risorsa importante, e che il riutilizzo degli asciugamani ridurrebbe i danni ecologici e finiva dicendo qualcosa del tipo: «Aiutateci ad aiutare il nostro ambiente». Westerveld in realtà non alloggiava nel resort, ma in una pensione modesta nelle vicinanze, e si era appena intrufolato per rubare degli asciugamani puliti. Rimase colpito dall’ironia della nota: mentre sosteneva di proteggere l’ecosistema dell’isola, infatti, il Beachcomber – che oggi si definisce «la destinazione più ricercata del Pacifico meridionale» – si stava espandendo.

Tre anni dopo, nel 1986, Westerveld stava scrivendo una tesina sul multiculturalismo quando si ricordò della nota. Un suo compagno di corso che lavorava per una rivista letteraria gli fece scrivere un saggio al riguardo e, dato che la rivista aveva una grande affluenza di lettori nella vicina New York City, non passò molto tempo prima che il termine prendesse piede nei media più ampi. Il saggio di Westerveld uscì un anno dopo il lancio della campagna «People Do», ma la Chevron non è stata l’unica azienda a cavalcare l’onda del greenwashing.

Questi possono sembrare casi isolati, tuttavia oggi, come afferma Michela Melis intervistata da Asia Moretti – Research Fellow presso GREEN (il Centre for Geography, Resources, Environment, Energy and Networks della Bocconi) – «le strategie di green marketing non sono più, come è capitato in passato, delle strategie di nicchia che si rivolgono a dei segmenti di mercato molto specifici e puntuali, ma stanno diventando sempre più pervasive, lo si vede soprattutto nei mercati dei beni di largo consumo».

Il caso DuPont

Nel 1989 – come raccontava nel 1991 il The Multinational Monitor– l’azienda chimica DuPont presentò le sue nuove petroliere a doppio scafo con una pubblicità che mostrava animali marini battere le pinne e le ali sulle note dell’Inno alla Gioia di Beethoven. Tuttavia, come ha sottolineato l’associazione non-profit Friends on Earth nel suo rapporto «Hold the Applause», la società è stata la più grande inquinatrice degli Stati Uniti. La decennale battaglia legale tra la multinazionale DuPonte l’avvocato Robert Bilott è descritta nell’articolo del New York Times Magazine «The Lawyer Who Became DuPont’s Worst Nightmar», pubblicato nel gennaio del 2016. La vicenda ha inizio nel 1998 quando l’avvocato valuta la condotta dell’azienda dopo la richiesta di un contadino sicuro che questa stesse contaminando i suoi terreni: dopo diverse ricerche, Bilott trova rimandi al PFOA, un composto chimico allora sconosciuto anche all’EPA.

Si stima che tra il 1951 e il 2003 la DuPont abbia riversato quasi 7100 tonnellate di PFOA-C8 nei corsi d’acqua limitrofi al suo stabilimento di Washington Works, fino a contaminare il vicino fiume Ohio. Grazie al report compilato da Bilott e inviato al Dipartimento di giustizia di Washington e all’EPA, nel 2005 l’ente ambientale multò la DuPont per 16,5 milioni di dollari – una cifra irrisoria rispetto al fatturato annuale dell’azienda – per aver insabbiato i rischi legati allo smaltimento del PFOA. Dopo la sentenza Bilott decide di non fermarsi e organizza una class action collettiva che coinvolgesse tutte le almeno 100mila persone entrate in contatto con l’acqua contaminata da PFOA.

Dopo 7 anni di ricerche nel dicembre del 2011 arrivano i risultati, i ricercatori parlano di «probabili legami» tra il PFOA e l’insorgere di cancro ai reni e ai testicoli, disfunzioni della tiroide, picchi del colesterolo e ulcere intestinali. Quando il nesso è evidente, la DuPont cerca di limitare i danni portando in tribunale uno alla volta gli oltre 3500 contenziosi intentati nei suoi confronti. Dopo la vittoria di Bilott nei primi tre contenziosi e i risarcimenti milionari imposti alla DuPont, nel 2017 l’azienda chimica ha deciso di accettare la class action guidata dall’avvocato e di accordarsi per una maxi multa da 671 milioni di dollari. Come si legge nel sito dell’AIRC, l’EPA «ha affermato che i dati oggi disponibili suggeriscono un possibile legame causale tra PFOA (e altri composti simili) e il cancro; l’American Conference of Governmental Industrial Hygienists (ACGIH) ha classificato il PFOA come cancerogeno confermato negli animali, con rilevanza ancora incerta per gli esseri umani». Nel 2016, la stessa AIRC «ha classificato il PFOA nel gruppo 2B, del quale fanno parte le sostanze possibilmente cancerogene per l’uomo».

Anche alla luce di questi accadimenti, dice Michela Melis, «il fenomeno del greenwashing è sotto la lente dell’attenzione anche dalle istituzioni ed è evidente che ci sia un interesse crescente a normare l’utilizzo di questi termini, perché l’abuso e l’uso scorretto da parte delle aziende si traduce da un lato nel danneggiamento dei competitor, e dall’altro in un’informazione misleading sul mercato».

Una sanzione per ENI

La pubblicità ENI Diesel+, che ha circolato tra il 2016 al 2019, può essere considerato il primo caso di greenwashing in Italia, sanzionato, il 15 gennaio 2020, con una multa da cinque milioni di euro. Sentenza arrivata dopo una denuncia da parte di Legambiente, dal Movimento Difesa del Cittadino e da Transport & Environment (T&E) ed erogata dall’Autorità Antitrust. Come si legge nel comunicato stampa pubblicato il 15 gennaio 2020 dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), ENI è stata sanzionata «per la diffusione di messaggi pubblicitari ingannevoli utilizzati nella campagna promozionale che ha riguardato il carburante Eni Diesel+, sia relativamente all’affermazione del positivo impatto ambientale connesso al suo utilizzo, che alle asserite caratteristiche di tale carburante in termini di risparmio dei consumi e di riduzioni delle emissioni gassose».

Il carburante in questione viene definito dalla multinazionale biodiesel o anche semplicemente green diesel perché promette più attenzione all’ambiente e una riduzione dei consumi e delle emissioni rispettivamente del 4% e del 40%. Secondo l’AGCM «nei messaggi si utilizzavano in maniera suggestiva le qualifiche “componente green” e “componente rinnovabile”, e altri claim di tutela dell’ambiente, quali “aiuta a proteggere l’ambiente. E usandolo lo fai anche tu, grazie a una significativa riduzione delle emissioni”, sebbene il prodotto sia un gasolio per autotrazione che per sua natura è altamente inquinante e non può essere considerato green». Questi green claim deriverebbero dalla presenza, nella sua versione di biodiesel, di una componente di HVO (Hydrotreated Vegetable Oil) che in questo caso provengono dall’olio di palma grezzo. Oltre a questo, ENI giustificherebbe l’aumento del prezzo di questo carburante del 10%, proprio perché sostenibile, bio e rinnovabile.

L’Italia è, al momento, il secondo produttore in Europa di biodiesel da olio di palma. Nel 2018 il 54% di questo olio è stato utilizzato proprio per produrre questo tipo di carburante, utilizzato soprattutto per camion e auto. La maggior parte dell’olio di palma sul mercato, deriva da piantagioni dell’Indonesia e della Malesia, due Paesi in cui il tasso di deforestazione è schizzato alle stelle negli ultimi dieci anni. È quindi da considerare come una delle principali cause della distruzione di foreste pluviali e della perdita di fauna selvatica. Nonostante le campagne e le petizioni di successo per ridurne l’utilizzo nei prodotti alimentari, continua ad aumentare l’utilizzo di olio di palma nei biodiesel. In un rapporto di Legambiente, intitolato «Enemy of the Planet», si legge che «gli studi internazionali hanno dimostrato che il 30% delle nuove coltivazioni di palma e l’8% di quelle di soia, utilizzati per la produzione di biocombustibile poi importato nel nostro Paese per le bioraffinerie di ENI, hanno comportato distruzione di foreste vergini, di brughiere e di praterie. Si stima che un litro di olio di palma determini emissioni indirette di CO2 pari al triplo dell’equivalente di petrolio e un litro di olio di soia il doppio».

La Commissione europea ha quindi deciso di modificare i criteri di sostenibilità dei biocarburanti di prima generazione con la Direttiva Rinnovabili che prevede un congelamento della produzione di biodiesel ai livelli del 2019, per il periodo 2021 – 2023, con l’obiettivo di abbandonare definitivamente l’utilizzo di olio di palma entro il 2030.

Generalizzando la vicenda di ENI, «se comunichi male ti esponi ad una serie di rischi – ricorda Michela Melis – il primo è quello sanzionatorio, che potrebbe anche tradursi in un esborso monetario non previsto che in alcuni casi non impatta troppo sul bilancio dell’impresa; il secondo si porta dietro un inevitabile danno d’immagine e reputazione che è molto più difficile da colmare. A questo bisogna aggiungere che oggi, i consumatori, sono molto più attenti e precisi nelle loro richieste alle aziende rispetto alle loro performance ambientali».

L’Italia è tra i primi paesi al mondo a rendere obbligatorio l’insegnamento annuale alcune ore di educazione allo sviluppo sostenibile. Risulta paradossale che l’Associazione nazionale dei presidi abbia chiesto proprio a ENI di formare i docenti, visto che il core business dell’azienda rimangono ancora i combustibili fossili. Le prime a mobilitarsi sono state le insegnanti di Teachers for Future (un gruppo che fa riferimento ai Fridays for Future) che hanno dichiarato in una lettera che «come Teachers for future Italia non possiamo che prendere le distanze da questa iniziativa che coinvolge una delle grandi aziende mondiali che causano cambiamento climatico e contaminazione del Pianeta attraverso l’estrazione senza limiti dei combustibili fossili, che è già stata riconosciuta responsabile di immani disastri ambientali, corruzione, sfruttamento dei Paesi poveri e che tenta di dipingere di verde la sua anima nera attraverso costante e pressante attività di greenwashing».

Solo nell’ultimo anno, ENI ha prodotto 1,9 milioni di barili di petrolio al giorno e ha speso, nel 2019, 73 milioni di euro in pubblicità e attività di comunicazione; secondo il rapporto Enemy of the Planet, «nel 2018 ha investito solo 143 milioni di euro per investimenti tecnici in sviluppo di progetti rinnovabili, economia circolare e digitalizzazione».
L’azionariato attivo

All’inizio degli anni Novanta, i consumatori erano consapevoli delle preoccupazioni in materia di sostenibilità: i sondaggi hanno mostrato che la condotta ambientale delle aziende ha influenzato la maggior parte degli acquisti dei consumatori. Un sondaggio Nielsen del 2015 ha mostrato che il 66% dei consumatori globali è disposto a pagare di più per prodotti sostenibili dal punto di vista ambientale. Tra i millennial (ovvero le generazioni nate tra il 1981 e il 1996), questo numero salta al 72%. Molte aziende hanno adottato la strategia della sensibilizzazione con lo scopo di coinvolgere i clienti nei loro sforzi di sostenibilità, anche quando il loro modello di business principale rimane insostenibile dal punto di vista ambientale.

Questo interesse per l’ambiente ha portato a una maggiore consapevolezza del greenwashing; alla fine del decennio, la parola è entrata ufficialmente nella lingua inglese con l’inserimento nel dizionario inglese di Oxford. Da allora, la tendenza è solo aumentata. Grazie all’identificazione e alla conoscenza del fenomeno, il consumatore ha aguzzato lo spirito critico e quando nel 2010 la stessa Chevron ha proposto una nuova campagna pubblicitaria dal titolo «We Agree», gli attivisti dell’associazione The Yes Man hanno prontamente risposto. Per screditare la Chevron hanno creato una finta versione della stessa campagna con tanto di sito internet e comunicato stampa, che i giornalisti hanno prese per vere.

I consumatori hanno inoltre sviluppato strategie per riuscire a imporre alle aziende il peso della loro opinione. In molti Paesi, infatti, è nata una nuova forma d’intervento: l’azionariato attivo (o critico). Grazie all’acquisto di azioni (anche in quantitativi simbolici), gli attivisti hanno iniziato a intervenire alle assemblee annuali delle imprese come azionisti, portando all’attenzione dei consigli di amministrazione di grandi società multinazionali le controversie ambientali nelle quali sono coinvolte. L’azionariato attivo ha già dato risultati significativi. Le grandi imprese, molto spesso sorde alle proposte dei consumatori, delle campagne e dei movimenti, sono generalmente più attente alle richieste provenienti dagli azionisti che, in quanto «comproprietari», acquistano il diritto di partecipare alla vita delle società e di ottenere risposte su questioni ambientali o sociali. «È quello che ha fatto Follow This, un’organizzazione che invita chiunque abbia a cuore l’ambiente ad aderire con una quota minima di 32 euro, sufficiente per diventare azionista di Shell», si legge su Lifegate. Il colosso dell’energia ha annunciato che si sarebbe impegnato a dimezzare la propria impronta di carbonio entro il 2050, ma Follow This ha sottoposto a Shell una risoluzione per chiedere obiettivi climatici più ambiziosi.

Il Greenwashing ha sicuramente cambiato forma nell’ultimo decennio, in parallelo alla crescente consapevolezza del consumatore ma rimane un fenomeno molto diffuso e che è bene conoscere per imparare a tutelarsi.
Bibliografia:
[1] Karliner J., The Corporate Planet, Sierra Club Books, 2002

fonte: comune-info.net


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Dagli USA l’incriminazione alla Solvay che potrebbe ripetersi in Italia.







Nel motto Usa “Lady Justice” (latino: Iustitia) è una personificazione allegorica.

Nove documenti nel terzo esposto del “Movimento di lotta per la salute Maccacaro” alla Procura di Alessandria. Tutti i documenti convergono nella richiesta di mettere una pietra tombale sui Pfas.

Nel primo esposto alla Procura (clicca qui) avevamo fatto specifico riferimento alle secretate cartelle cliniche dei lavoratori spinettesi contaminati da PFAS, che riteniamo vadano requisite quali prove processuali. Nel secondo (clicca qui) abbiamo ritenuto che, nei confronti della situazione generata da Solvay di Spinetta Marengo a danno degli abitanti e del territorio di Alessandria e non solo, si debba procedere penalmente come avvenuto nei confronti di Solvay a causa del suo impianto Pfas di West Deptford in New Jersey.

Nel terzo esposto (clicca qui), in esclusiva produciamo il documento originale della incriminazione USA della Solvay, avvenuta anche grazie ad uno scienziato italiano che lavora sulla contaminazione dello stabilimento Solvay a Spinetta Marengo Dai documenti riveliamo che Solvay, nel corso di due decenni, per mezzo dalle segrete analisi del sangue dei lavoratori, conosceva i gravi danni alla loro salute (e delle popolazioni). E che i cosiddetti “sostituti” (C6O4) sono più tossici e cancerogeni del PFOA. Sono prove, nascoste per decenni, che saranno prodotte al processo Miteni in corso a Vicenza e nel prossimo processo Solvay che sarà riaperto ad Alessandria.

fonte: www.rete-ambientalista.it/

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Parte il processo PFAS contro Miteni e rimbomba per Solvay in Alessandria, tra mancate bonifiche, possibili inceneritori, allarmi per alimenti e contenitori, licenziamenti e omertà sindacali. Allarme nazionale.



Alla vigilia del processo PFOA contro la Miteni di Trissino (11 novembre),
dopo le critiche del “Movimento di lotta per la salute Maccacaro” nella costituzione delle Vittime parti civili nel procedimento penale e il sopraggiungere di nuove testimonianze: clicca qui,
si infittisce la polemica in merito alla bonifica, questione che sarà centrale nel corso del processo: clicca qui.
All’orizzonte della bonifica compare addirittura un inceneritore  che la società Ecoprogetto Venezia  intende realizzare anche a quello scopo nel sito di Fusina-Venezia: clicca qui.
D’altronde, quando si parla di Pfas si intende anche il C6O4 (Pfas a catena più corta) anche esso  trovato nel sangue. A sua volta, l’Istituto superiore di sanità ISS ha divulgato i dati che dentro il corpo dei bambini stanno arrivando  “dosi settimanali” di Pfoa, segno  che il veleno bioaccumulabile viene assunto tanto negli alimenti che dalle confezioni degli alimenti. L’allarme dunque è nazionale: clicca qui.
L’attenzione dunque si sposta di nuovo sulla Solvay di Spinetta Marengo dove il C6O4 ha sostituito il Pfoa, per anni scaricato in Bormida/Tanaro/Po.
Ebbene, ad Alessandria Solvay ha contemporaneamente inaugurato un nuovo impianto e annunciato che intende aumentare del 30% la capacità produttiva di fluoroelastomeri, cioè il Tecnoflon, perciò estendere la produzione e l’uso di C6O4: clicca qui l’autorizzazione AIA Autorizzazione Integrata Ambientale  chiesta alla Provincia,
e contemporaneamente ha annunciato la procedura di licenziamento per 28 persone.
Insomma si offre ai sindacati di convertire i licenziamenti in prepensionamenti in cambio di continuare come struzzi a non sollevare problemi insormontabili sull’utilizzo del C6O4: emissioni in atmosfera, emissione di liquidi e reflui, e relativi effetti sulla salute di lavoratori e cittadini.
Per quanto riguarda liquidi e reflui, altra coincidenza, la notizia di un inceneritore (tra Alessandria e Asti)  grazie ad un colossale finanziamento regionale ad una società mista pubblico-privata. Coincidenza, solo temporale? con l’inceneritore veneto?
Il tutto sta avvenendo coperto dal massimo silenzio delle Istituzioni e dei Sindacati. Silenzio che rompiamo.
DOCUMENTO TRASMESSO A TUTTI GLI ORGANI DI INFORMAZIONE DAL “MOVIMENTO DI LOTTA PER LA SALUTE MACCACARO”

fonte:https://www.rete-ambientalista.it

Inquinamento da PFAS: scoperti batteri che mangiano queste sostanze nocive. Lo studio
















Un’importante scoperta legata ai Pfas, sostanze perfluoroalchiliche che inquinano e sono dannosi per la salute umana, è stata resa nota recentemente dopo uno studio condotto negli Usa dall’Università di Princeton i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Environmental Science and Technology.
In questo studio si è visti come dei comuni batteri presenti nel suolo delle paludi del New Jersey mangiano queste sostanze, i Pfas, e altre simili, nocive per l’ambiente e per l’uomo. Questi microrganismi, in particolare l’acidimicrobium A6, hanno dimostrato di poter rompere il legame chimico carbonio-fluoro e così rimuovere il 60% dei Pfas nell’arco di 100 giorni.
Lo studio nello specifico prevedeva che i batteri fossero stati fatti proliferare in laboratorio, aggiungendo poi due tipologie di sostanze perfluoroalchiliche si notava come i batteri provocassero delle reazioni chimiche nei Pfas rimuovendo da questi gli atomi di fluoro e rendendoli di conseguenza non tossici. Dopo 100 giorni i batteri avevano  eliminato tra il 50-60% dei Pfas presenti nelle colture.
Il passo successivo e più importante sarà quello di provare direttamente dal vivo questa scoperta e vedere se sul campo funziona.

La battaglia contro i Pfas

Mentre in Italia intere famiglie lottano contro l’inquinamento dei Pfas dopo che sono stati trovati alti livelli di sangue nei loro bimbi e in loro stessi, a seguito dell’ inquinamento delle falde acquifere, in Danimarca ne è stato vietato l’uso nei contenitori alimentari affermando che “fortunatamente esistono altri modi per produrre carta impermeabile al grasso e all’acqua che non hanno alcun potenziale cancerogeno”.
Tramite interrogazione con Sara Cunial e le colleghe Veronica Giannone @Gloria Vizzini Silvia Benedetti Portavoce alla Camera è stato richiesto al Ministro competente come intenda agire per tutelare la salute pubblica, vietare finalmente la presenza di queste sostanze in oggetti di uso comune quali pentole, padelle e contenitori alimentari, nonché abbigliamento e giochi per l’infanzia e garantire zero Pfas nelle nostre acque, così come già promesso anche dal Ministro dell’Ambiente in questa stessa legislatura.

Cosa sono i Pfas

I PFAS (sostanze perfluoroalchiliche) sono dei pericolosi perturbatori endocrini. Alcuni studi hanno dimostrato come l’esposizione prolungata possa portare all’insorgenza di diversi tumori (ai reni e ai testicoli), così come a malattie della tiroide, ipertensione in gravidanza, colite ulcerosa. L’inquinamento da PFAS sarebbe inoltre correlato a un aumento delle patologie gestazionali e nel feto, con malformazioni congenite.
Inquinamento da PFAS: l’emergenza è solo in Veneto? Al di là dell’attenzione mediatica che ha interessato la Regione guidata da Zaia, l’allarme è diffuso anche in altre regioni. E intanto Greenpeace chiede che le aziende responsabili per la contaminazione paghino i danni per le bonifiche.
È quindi giustificato il livello di allarme registrato in Veneto, regione dove tali sostanze sono state individuate in elevatissime concentrazioni nell’acqua definita ‘potabile’. La situazione è stata resa nota già da diversi mesi. Eppure, ad oggi, pare che il governo sia immobile sulla questione.
fonte: https://www.ambientebio.it

La Danimarca vieta l’utilizzo dei PFAS nei contenitori alimentari

Il Governo danese è il primo a porre restrizioni sull’uso di sostanze perfluoroalchiliche nel packaging e nei contenitori da asporto.



















La Danimarca diventerà il primo Paese al mondo a vietare le sostanze perfluoroalchiliche (i cosiddetti PFAS) nella fabbricazioni di contenitori ad uso alimentare: il bando, che entrerà in vigore dal luglio del 2020, è stato annunciato lunedì dal Ministro dell’Ambiente, Mogens Jensen.

Il divieto riguarda l’uso di composti PFAS in materiali a contatto con alimenti di cartone e carta. Le sostanze perfluoroalchiliche dovrebbero poter essere ancora utilizzati in contenitori alimentari ma solo a condizione di essere separati dai cibi attraverso una barriera che ne impedisca qualsiasi forma di contaminazione.

I PFAS, sono catene alchiliche idrofobiche fluorurate ovvero acidi liquidi resistenti alle alte temperature e ai processi di degradazione in natura. Sono stati usati fin dagli anni ’40 in svariati settori industriali, dal trattamento delle pelli, alla produzione di contenitori, carta e imballaggi per uso alimentare, dai rivestimenti antiaderenti delle padelle alla realizzazione di abbigliamento tecnico.
Le proprietà idrorepellenti e di resistenza all’assorbimento dei grassi hanno garantito ai PFAS largo utilizzo nell’industria del packaging alimentare e nei contenitori per pasti da asporto, in particolare quelli biodegradabili.

Nel 2018, il Centers for Disease Control, una delle agenzie per la salute pubblica USA, aveva appurato che l’esposizione ai perfluorurati può aumentare il rischio di cancro, quello di incorrere in malattie che compromettono il sistema immunitario, rischia di diminuire la fertilità femminile e di alzare i livelli di colesterolo oltre a limitare lo sviluppo mentale e fisico dei bambini.


“Non possiamo accettare il rischio che sostanze perfluoroalchiliche potenzialmente pericolose migrino dal packaging nei nostri alimenti – ha commentato il ministro danese Mogens Jensen – Queste sostanze rappresentano un tale problema per la salute da non poterci permettere di aspettare le decisioni in materia dell’Ue”.

fonte: www.rinnovabili.it

PFAS: rischio contaminazione per 19 milioni di americani. L’Italia fissa limiti nazionali

Mentre uno studio dell’ Environmental Working Group rinviene tracce di perfluorurati in 43 Stati americani, il Ministero dell’Ambiente italiano apre un tavolo per fissare limiti nazionali allo scarico di PFAS a catena lunga.


















Circa 19 milioni di persone negli Stati Uniti rischiano di aver bevuto per anni acqua contaminata da composti perfluorurati e sostanze perfluoroalchiliche, i cosiddetti PFAS: a lanciare l’allarme è uno studio dell’associazione no profit Environmental Working Group supportato dal Northeastern University’s Social Science Environmental Health Research Institute.
Gli agenti contaminanti sono stati rinvenuti in 43 dei 51 Stati a stelle e strisce, con particolare concentrazione nei dintorni del lago Michigan e nelle zone più popolose della costa est e di quella ovest, soprattutto in California.

I PFAS, sono catene alchiliche idrofobiche fluorurate, acidi liquidi resistenti alle alte temperature e ai processi di degradazione in natura. Sono stati usati dagli anni ’40 in svariati settori industriali, dal trattamento delle pelli, alla produzione di contenitori, carta e imballaggi per uso alimentare, dai rivestimenti antiaderenti delle padelle alla realizzazione di abbigliamento tecnico (trattamenti con simili composti rendono i tessuti idrorepellenti).

Nel 2018, il Centers for Disease Control, una delle agenzie per la salute pubblica USA, aveva appurato che l’esposizione ai perfluorurati può aumentare il rischio di cancro, quello di incorrere in malattie che compromettono il sistema immunitario, rischia di diminuire la fertilità femminile e di alzare i livelli di colesterolo oltre a limitare lo sviluppo mentale e fisico dei bambini.

A febbraio 2019, l’Environmental Protection Agency (EPA) aveva annunciato il proprio piano d’azione per contrastare la diffusione dei PFAS sul suolo americano: un mix tra promozione della ricerca scientifica, raccomandazioni per la bonifica e la pubblicazione di nuovi dati aperti a tutti.

In attesa che l’EPA strutturi un piano d’azione più concreto per bonificare le falde contaminate da PFAS, gli esperti dell’Environmental Working Group hanno stilato una breve lista di raccomandazioni per limitare la contaminazione: limitare il consumo di cibi da fast food e quello di popcorn per microonde, il cui packaging viene spesso trattato con perfluorurati, ma anche attenzione all’acquisto di indumenti impermeabili, pentole antiaderenti e moquette antimacchia, tutti prodotti che possono contenere PFAS.

In Italia, lo scandalo della contaminazione nelle provincie di Vicenza, Padova e Verona a causa dell’attività dell’azienda agricola Miteni ha portato alla ribalta il problema dei PFAS: dai primi anni 2000 fino al 2017, quando l’azienda ha chiuso i battenti, circa 350 mila persone sarebbero stati esposti a livelli elevati di sostanze perfluoroalchiliche nelle falde acquifere.
Il primo filone d’indagini della Procura di Vicenza, chiuso lo scorso gennaio, ha notificato l’iscrizione nell’albo degli indagati a 13 manager e tecnici dell’ex azienda agricola, tra cui i dirigenti giapponesi della Mitsubishi Corporation che hanno controllato la Miteni dal 2002 al 2009 e i tedeschi della Icig-International chemical investors subentrati al vertice aziendale dal 2009.

Il Ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, ha annunciato l’apertura di un tavolo istituzionale per porre limiti nazionali allo scarico di PFAS a catena lunga: il progetto vedrà la collaborazione di Minambiente, ISPRA, Snpa, Regione Veneto, Istituto superiore di Sanità e Ministero della Salute.

“Diamo una risposta immediata ai cittadini – ha commentato il ministro Costa – Vogliamo che con urgenza vengano fissati i limiti. Il tavolo inoltre lavorerà anche sui limiti dei cosiddetti ‘nuovi PFAS’ con un percorso normativo e tecnico e ascoltando anche il settore produttivo”.

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Snpa al tavolo tecnico per riesaminare i valori limite per lo scarico dei PFAS













l Ministero dell’Ambiente è pronto a riesaminare i valori limite allo scarico per i PFAS e per altre sostanze chimiche. Il ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha convocato a inizio settembre un tavolo tecnico urgente a cui parteciperanno gli istituti scientifici e di ricerca competenti in materia (CNR IRSA, ISS e ISPRA).
Il Gruppo di lavoro tecnico dovrà prendere in esame le Linee Guida per la definizione di valori limite allo scarico per i PFAS e per altre sostanze chimiche.
Al Gruppo di lavoro partecipano dal 2016 tutte le Regioni e le rispettive Agenzie ambientali, a cominciare dalla Regione Veneto e da ARPAV, il cui territorio è purtroppo particolarmente coinvolto nella problematica in questione, oltreché le Autorità di distretto.
Lo scorso mese l’ARPAV segnalava la presenza nelle falde del GenX, una sostanza del gruppo dei PFAS che, da alcuni anni, viene utilizzata in processi industriali di sintesi di composti fluorurati al posto del più noto PFOA.
La presenza dei Pfas interessa comunque l’intero territorio nazionale e le Agenzie regionali protezione Ambiente di Lombardia, Lazio, Toscana, Emilia Romagna, Friuli, Liguria, Sicilia e Umbria stanno effettuando dei monitoraggi sui PFAS, i cui risultati attesi per la fine del 2018 consentiranno di valutare l’estensione del fenomeno e stabilire l’adozione di misure per la salvaguardia ambientale.
“Non possiamo permetterci di ignorare che siamo di fronte a una contaminazione delle falde da PFAS che solo in Veneto interessa almeno 300 mila persone ed è nostra responsabilità intervenire nel rispetto dei ruoli per assicurare la tutela ambientale. Siamo di fronte a un’emergenza che va affrontata con tutti gli strumenti a nostra disposizione, tra cui il tavolo esteso a tutte le Regioni, le quali hanno competenza sui valori limite di queste sostanze negli scarichi – ha affermato il ministro Costa – Le conoscenze scientifiche su queste sostanze sono sempre più solide e questo ci richiama alla necessità di una valutazione più approfondita sui valori limite da adottare e sulla possibile inclusione di nuove sostanze del gruppo dei PFAS”.

fonte: https://ambienteinforma-snpa.it