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MircroganismiEffettivi: Dr Higa EM






Emipiace dalla Natura per la Natura


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Creato enzima “mutante” in grado di riciclare le bottiglie di plastica in poche ore

Riciclare la plastica in poche ore. Una prospettiva che oggi sembra meno lontana grazie a un nuovo enzima batterico, in grado di riciclare il PET producendo nuova plastica riutilizzabile all’infinito.



A crearlo sono stati gli scienziati di Carbios, che hanno sfruttato un enzima batterico originariamente scoperto nel compost delle foglie. Esso infatti aveva ridotto le bottiglie in blocchi chimici poi utilizzati per produrne nuove di alta qualità.

Secondo gli ideatori si tratta di una svolta se si considera che la maggior parte delle tecnologie di riciclaggio esistenti riescono a produrre plastica non di qualità.

Miliardi di tonnellate di rifiuti di plastica stanno inquinando il pianeta, raggiungendo anche gli angoli più remoti, dall’Artico alla fossa delle Marianne e rappresentando un rischio particolare per la vita marina.

Sfruttando le capacità dell’enzima batterico, Carbios ha sviluppato una tecnologia in grado di riciclare il PET e altre materie plastiche creando PET riciclato, equivalente al PET vergine.

“Il processo di riciclaggio di Carbios, il primo nel suo genere, avvia una vera transizione verso un’economia circolare e può prevenire meglio l’inquinamento da plastica che sta danneggiando i nostri oceani e il pianeta” spiega Carbios. “Questa tecnologia innovativa apre anche la strada al riciclaggio delle fibre di PET, un’altra grande sfida nel garantire un ambiente pulito e protetto per le generazioni future”.
Come funziona

Di recente, i dettagli sul nuovo enzima sono stati illustrati da un articolo pubblicato su Nature. Gli scienziati hanno analizzato l’enzima e introdotto mutazioni per migliorare la sua capacità di scomporre la plastica in cui sono prodotte le bottiglie. Lo hanno anche reso stabile a 72° C. A quel punto, il team ha utilizzato l’enzima ottimizzato per abbattere una tonnellata di bottiglie di plastica di scarto, che sono state degradate al 90% in sole 10 ore. Gli scienziati hanno quindi utilizzato il materiale per creare nuove bottiglie di plastica per alimenti.

Di fatto, l’enzima “mutante” suddivide il PET nei suoi blocchi originali, che poi possono essere utilizzati per produrre altra plastica di alta qualità.

“Questa tecnologia brevettata offre il potenziale per riciclare ripetutamente la plastica PET e spianare la strada per il contenuto di PET riciclato al 100% in nuovi prodotti. In effetti, Carbios ha ottenuto un primato mondiale usando la sua tecnologia enzimatica per creare bottiglie in PET da plastica riciclata al 100%. Questo approccio biologico può gestire tutte le forme di PET (trasparente, colorata, opaca e multistrato) e fibre di poliestere” spiega Carbios.

Inoltre, il processo richiede una scarsa quantità di energia e nessun solvente:

“Creando un’economia circolare da materie plastiche e fibre usate, la tecnologia di riciclaggio avanzata di Carbios offre una soluzione sostenibile e responsabile” spiega la società.

Carbios ha stretto un accordo con la società di biotecnologie Novozymes per produrre il nuovo enzima su scala usando i funghi. In questo modo, il costo finale sarà solo il 4% di quello della plastica vergine a base di petrolio.

La tecnologia ha già fatto gola a colossi come L’Oréal, Nestlé Waters e Pepsi che hanno creato un consorzio per velocizzarne l’immissione sul mercato, prevista per i prossimi 4-5 anni.

fonte: www.greenme.it

Per una gestione sostenibile dei rifiuti e dei reflui nei porti

Prosegue l’attività del progetto GRRinPORT




Il progetto GRRinPORT è un progetto Interreg marittimo Italia-Francia della durata di 36 mesi avviato ad aprile del 2018. Il suo obiettivo è quello di migliorare la qualità delle acque marine nei porti, limitando l’impatto dell’attività portuale e del traffico marittimo sull’ambiente.

L’inquinamento delle acque, principale effetto negativo dell’attuale sistema di gestione dei rifiuti/reflui in ambito portuale, deriva soprattutto dalla scarsa informazione e sensibilizzazione dei fruitori del porto, da carenza/assenza delle infrastrutture di conferimento di rifiuti e reflui nei porti, ma anche dalla necessità per i fruitori di doversi adattare a regole/procedure diverse in ogni porto/paese.

In questo scenario, il progetto mira a ricollocare le strutture portuali in un contesto eco-sostenibile ed eco-innovativo con un approccio di cooperazione transfrontaliera, basato su alcuni elementi di innovatività.
Le attività svolte nell'ambito del progetto negli ultimi mesi

Il DICAAR (Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Architettura) dell’Università di Cagliari sta procedendo all’individuazione delle aree su cui installare materiali assorbenti, a basso costo e ridotto impatto ambientale, per il contenimento e la rimozione di idrocarburi e altre sostanze sversati accidentalmente nelle acque dei porti, così come previsto dalla relativa azione pilota.

Il DiSB (Dipartimento di Scienze Biomediche) dell’Università di Cagliari sta operando la caratterizzazione delle proprietà fisiologiche e dell’ecologia di nuovi ceppi batterici precedentemente selezionati dal Porto di Cagliari nell’ambito del progetto ENPI CBC MED MAPMED.

Le attività in corso stanno dimostrando che si tratta di batteri mai indagati in precedenza e dotati della capacità di degradare idrocarburi tossici che possono persistere molto a lungo nei sedimenti marini. Questi batteri saranno impiegati in GRRinPORT per velocizzare trattamenti di bonifica di sedimenti portuali.

Mediante tecniche di sequenziamento ad alta efficienza, il DiSB sta definendo quali inquinanti antropici (es. metalli, idrocarburi) hanno un effetto sulle comunità batteriche che naturalmente colonizzano le acque ed i sedimenti dei porti con la finalità ultima di identificare metodologie di monitoraggio della qualità delle acque portuali basate sulle comunità batteriche.

Il DICAAR sta inoltre procedendo all’analisi degli interventi da proporre nel Piano d’Azione per la gestione sostenibile dei reflui nei porti: tra questi l’area attrezzata con il sistema per l’aspirazione e il convogliamento dei reflui dalle imbarcazioni per la quale si sta valutando il posizionamento assieme all’Autorità Portuale di Cagliari.

Dopo il Porto di Ajaccio, anche i porti di Livorno e Cagliari avranno le postazioni per la raccolta differenziata degli oli vegetali usati. La localizzazione di queste aree e delle aree di raccolta dei rifiuti differenziati presso i moli e banchine dedicate al diporto a Cagliari, Livorno ed Ajaccio verrà comunicata tramite la App predisposta dalla Fondazione MEDSEA di cui a breve ci sarà un aggiornamento.

Il DESTEC (Dipartimento di Ingegneria dell’Energia, dei Sistemi, del Territorio e delle Costruzioni) dell’Università di Pisa ha ultimato le attività di analisi dei campionamenti dei sedimenti finalizzate all’individuazione di matrici con livelli di inquinamento adatti sia per i test di bonifica effettuati tramite elettrocinesi che per quelli biologici (Enhanced Landfarming) presso il porto di Piombino. Sono inoltre state realizzate due tipologie di prove a scala di laboratorio sia di Elettrocinesi che di Enhanced Landfarming che hanno permesso di condurre studi di ecologia batterica e fungina del processo di degradazione biologica degli idrocarburi pesanti.

Il DESTEC ha inoltre avviato l’allestimento degli impianti da banco e sono in fase di programmazione una serie di test pilota che si svolgeranno nel "box reattori" dedicato presso la sede DESTEC-UNIPI. I lavori di progettazione dell’impianto pilota di elettrocinesi si sono conclusi e sono iniziate le prime prove di collaudo sia in bianco (con un campione di riferimento) che a caldo (terminato il collaudo dell'impianto stesso).

ISPRA ha partecipato ad un tavolo di confronto promosso dal capofila del progetto Sediterra, INSA (Progetto IT/FR Marittimo). Tale riunione, svolta a Lione il 4 e 5 febbraio 2020, ha avuto come finalità un confronto tecnico e analitico con altre realtà partenariali e un’elaborazione specifica dei dati ottenuti dall’applicazione di diverse tecniche di trattamento di sedimenti contaminati durante il quale sono stati presentati anche i risultati analitici scaturiti dalle prove sperimentali di trattamento dei sedimenti portuali, condotte da ISPRA a Livorno mediante l’impianto pilota di separazione meccanica e comparati con quelli effettuati da INSA a Tolone .

fonte: http://www.arpat.toscana.it

Un batterio per metabolizzare i rifiuti di poliuretano, tra i più difficili da riciclare

Alcuni ricercatori tedeschi sostengono di aver identificato un ceppo di batteri in grado di degradare alcuni dei componenti chimici di una delle plastiche più difficili da riciclare: il poliuretano
















La difficoltà nel riciclare alcune tipologie di plastica è uno dei motivi per cui lo smaltimento di questo materiale rimane un problema così serio per il nostro ecosistema. Una soluzione in tal senso potrebbe arrivare dal degrado biologico. Una nuova ricerca, pubblicata su Frontiers in Microbiology, ha identificato un microbo che potrebbe capace di metabolizzare una delle materie plastiche più difficili da riciclare: il poliuretano. 
Dal 2015 l’Europa ha prodotto ogni anno oltre 3,5 milioni di tonnellate di plastica poliuretanica, ampiamente utilizzata come schiuma e materiale isolante in prodotti che vanno dai frigoriferi alle calzature. Volumi così elevati richiedono necessariamente una gestione dei rifiuti ecologica ed efficiente.
Come primo passo, i ricercatori hanno isolato un batterio del suolo da un sito ricco di rifiuti in plastica. “Il ceppo, identificato come Pseudomonas sp. TDA1 […] è stato in grado di crescere su una soluzione PU-diol, un oligomero poliuretanico, come unica fonte di carbonio, azoto ed energia”. Il batterio è riuscito ad adattare il proprio metabolismo per “nutrirsi” di questo tipo di plastica. Lo Pseudomonas sp. TDA1 proviene da un gruppo di batteri, parte della famiglia di microrganismi estremofili noti per la loro capacità di gestire composti organici tossici, che possono sopravvivere negli ambienti più difficili
Per il team di ricerca, però, questa scoperta è solo l’inizio. Prima di poter iniziare a utilizzare lo Pseudomonas sp. TDA1 sui rifiuti di poliuretano saranno necessari studi approfonditi sui processi biochimici alla base del metabolismo di questo batterio. Per il microbiologo Hermann Heipieper, del Centro Helmholtz per la ricerca ambientale, “questa scoperta rappresenta un passo importante nella possibilità di riutilizzare prodotti in poliuretano difficili da riciclare”. Infatti le strategie di valorizzazione dei rifiuti in plastica possono contribuire ad un “uso sostenibile dei polimeri sintetici”. 
In ogni caso l’utilizzo di batteri non è l’unica speranza per i rifiuti di poliuretano. Un altro studio, realizzato dall’Università dell’Illinois, ha sviluppato, ad agosto 2019, un metodo per trasformare questi rifiuti in altri prodotti utili, come ad esempio la colla. Inoltre i sempre maggiori sforzi messi in campo per ridurre l’utilizzo e la produzione di plastica possono essere d’aiuto per far fronte a uno dei problemi più stringenti del XXI secolo. Infatti, come concludono i ricercatori, “le materie plastiche post-consumo rappresentano già un grave problema per l’ambiente e in futuro il loro impatto sarà ancora più grande”. 
fonte: www.rinnovabili.it

Acque sotterranee: arriva un nuovo metodo di decontaminazione

Implementato dall’Università dell’Oregon, il nuovo metodo funziona grazie alla presenza di microbi che producono un enzima che ossida le tossine dei contaminanti e li trasforma in composti innocui.




















Hanno la consistenza di caramelle gommose, ma sono in grado di decontaminare le acque sotterranee e ripulirle da composti organici volatili pericolosi. Si tratta di perle di idrogel, contenenti batteri e fonti di alimentazione a lento rilascio, che potrebbero rappresentare una vera e propria rivoluzione per la manutenzione e la purificazione delle riserve d’acqua.
Realizzate dall’Università dell’Oregon, le perle di idrogel nascono dalla necessità di rendere potabili e sicure quelle riserve d’acqua che spesso presentano delle concentrazioni di prodotti chimici che superano di gran lunga gli standard richiesti. Tra i contaminanti più pericolosi ci sono 1,1,1- tricloroetano, cis-1,2- dicloroetene e 1,4- diossano, sgrassanti comunemente usati nel settore industriale. Spesso, questi prodotti chimici possono infiltrarsi nelle acque sotterranee attraverso serbatoi che perdono o, semplicemente, perché vengono scaricati nel suolo.
Il nuovo metodo di decontaminazione funziona grazie alla presenza di microbi che producono un enzima che ossida le tossine dei contaminanti, trasformandoli così in composti innocui. “Abbiamo creato un processo chiamato co-metabolismo aerobico a lungo termine, un sistema chiuso, passivo e autosufficiente per il risanamento delle acque sotterranee”, ha dichiarato Lew Semprini dell’Università dell’Oregon, “la bellezza di questo sistema è che tutto accade all’interno delle perle.
Fino ad ora, infatti, i processi di decontaminazione delle acque sotterranee richiedevano che prodotti come propano metano – vale a dire i cosiddetti substrati di crescita in grado di nutrire i microbi che producono gli enzimi – venissero aggiunti direttamente nel sottosuolo. Tuttavia, spesso i substrati di crescita competono chimicamente con gli enzimi, inibendo significativamente il processo di ossidazione. Il sistema delle perle idrogel, invece, elimina questa concorrenza“Abbiamo ribaltato il paradigma inserendo il microrganismo all’interno delle microsfere di idrogel e fornendogli una fonte di cibo [i substrati di crescita] a lenta cessione”, ha chiarito Semprini.
Nello specifico il team ha co-incapsulato all’interno delle perle (lunghe appena 2 mm) la coltura batterica Rhodococcus rodocrous insieme ad un substrato di crescita a rilascio lento. Mentre l’acqua sotterranea scorre dalle microsfere, i contaminanti si diffondono al loro interno e il substrato a lenta cessione “nutre” i batteri del Rhodococcus, i quali rilasciano un enzima (monoossigenasi) che trasforma i contaminanti in composti innocui, tra cui anidride carbonica, acqua e ioni cloruro. L’acqua purificata e i sottoprodotti si diffondono quindi dalle perle, che sembrano essere in grado di rimuovere oltre il 99% dei contaminanti.
La longevità del sistema dipende principalmente dalla durata di vita dei batteri, che è a sua volta dipendente dalla durata del substrato: “Questa è una futura domanda di ricerca”, ha detto Semprini, “come realizziamo perle che durano molti anni, o come sviluppiamo sistemi che possono essere facilmente sostituibili?”. Gli attuali metodi di bonifica co-metabolica, infatti, richiedono aggiunte regolari di substrati di crescita per garantire la proliferazione dei microrganismi. Questo significa, però, dover compiere un monitoraggio costante del sito, con gli opportuni adeguamenti biochimici e, ovviamente, costi correlati.
Grazie alle perle di idrogel, invece, un’opzione prevista da Semprini è quella di scavare una specie di trincea nel percorso del flusso delle acque sotterranee e riempirla di perline, creando così una barriera reattiva permeabile e accessibile. “Tutti preferiscono la sostenibilità in questo tipo di sistema: da oggi, possiamo avere qualcosa che funziona senza troppa manutenzione, ha concluso.
fonte: www.rinnovabili.it

Inquinamento da PFAS: scoperti batteri che mangiano queste sostanze nocive. Lo studio
















Un’importante scoperta legata ai Pfas, sostanze perfluoroalchiliche che inquinano e sono dannosi per la salute umana, è stata resa nota recentemente dopo uno studio condotto negli Usa dall’Università di Princeton i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Environmental Science and Technology.
In questo studio si è visti come dei comuni batteri presenti nel suolo delle paludi del New Jersey mangiano queste sostanze, i Pfas, e altre simili, nocive per l’ambiente e per l’uomo. Questi microrganismi, in particolare l’acidimicrobium A6, hanno dimostrato di poter rompere il legame chimico carbonio-fluoro e così rimuovere il 60% dei Pfas nell’arco di 100 giorni.
Lo studio nello specifico prevedeva che i batteri fossero stati fatti proliferare in laboratorio, aggiungendo poi due tipologie di sostanze perfluoroalchiliche si notava come i batteri provocassero delle reazioni chimiche nei Pfas rimuovendo da questi gli atomi di fluoro e rendendoli di conseguenza non tossici. Dopo 100 giorni i batteri avevano  eliminato tra il 50-60% dei Pfas presenti nelle colture.
Il passo successivo e più importante sarà quello di provare direttamente dal vivo questa scoperta e vedere se sul campo funziona.

La battaglia contro i Pfas

Mentre in Italia intere famiglie lottano contro l’inquinamento dei Pfas dopo che sono stati trovati alti livelli di sangue nei loro bimbi e in loro stessi, a seguito dell’ inquinamento delle falde acquifere, in Danimarca ne è stato vietato l’uso nei contenitori alimentari affermando che “fortunatamente esistono altri modi per produrre carta impermeabile al grasso e all’acqua che non hanno alcun potenziale cancerogeno”.
Tramite interrogazione con Sara Cunial e le colleghe Veronica Giannone @Gloria Vizzini Silvia Benedetti Portavoce alla Camera è stato richiesto al Ministro competente come intenda agire per tutelare la salute pubblica, vietare finalmente la presenza di queste sostanze in oggetti di uso comune quali pentole, padelle e contenitori alimentari, nonché abbigliamento e giochi per l’infanzia e garantire zero Pfas nelle nostre acque, così come già promesso anche dal Ministro dell’Ambiente in questa stessa legislatura.

Cosa sono i Pfas

I PFAS (sostanze perfluoroalchiliche) sono dei pericolosi perturbatori endocrini. Alcuni studi hanno dimostrato come l’esposizione prolungata possa portare all’insorgenza di diversi tumori (ai reni e ai testicoli), così come a malattie della tiroide, ipertensione in gravidanza, colite ulcerosa. L’inquinamento da PFAS sarebbe inoltre correlato a un aumento delle patologie gestazionali e nel feto, con malformazioni congenite.
Inquinamento da PFAS: l’emergenza è solo in Veneto? Al di là dell’attenzione mediatica che ha interessato la Regione guidata da Zaia, l’allarme è diffuso anche in altre regioni. E intanto Greenpeace chiede che le aziende responsabili per la contaminazione paghino i danni per le bonifiche.
È quindi giustificato il livello di allarme registrato in Veneto, regione dove tali sostanze sono state individuate in elevatissime concentrazioni nell’acqua definita ‘potabile’. La situazione è stata resa nota già da diversi mesi. Eppure, ad oggi, pare che il governo sia immobile sulla questione.
fonte: https://www.ambientebio.it

Produrre idrogeno dai rifiuti, un lavoro di squadra per alghe e batteri

Un gruppo di biochimici ha aumentato la produzione di idrogeno da fonti organiche combinando il lavoro dell’Escherichia coli con quella dell’alga verde Chlamydomonas reinhardtii



















Produrre idrogeno in maniera sostenibile e con un’alta efficienza è uno dei chiodi fissi della ricerca energetica verde. Un passo avanti in tale senso potrebbe essere arrivato in questi giorni dal Dipartimento di biochimica e biologia molecolare dell’Università di Cordova. Qui gli scienziati Neda Fakhimi, Alexandra Dubini e David González Ballester hanno trovato un modo efficace per aumentare la produzione biologica di questo vettore.
L’idea alla base del lavoro – i risultati sono stati pubblicati su Bioresource Technology  (testo in inglese) – era quella di riuscire a far collaborare due differenti tipo di microrganismi sulla sintesi del bioidrogeno, la scelta è ricaduta sulla Chlamydomonas reinhardtii, un’alga eucaristie unicellulare e sul batterio Escherichia coli.


Quando l’alga lavora da sola, produce idrogeno attraverso la fotosintesi mentre i batteri lo ottengono attraverso la fermentazione dello zucchero. Gli scienziati hanno scoperto che la chiave della sinergia tra questi due microorganismi è rappresentata dall’acido acetico. Questo acido, oltre a fornire il tipico odore e il sapore dell’aceto, è uno dei sottoprodotti del metabolismo batterico; quando si accumula nella cellula, provoca l’arresto del meccanismo di fermentazione e, quindi, anche la produzione di idrogeno. Ed è esattamente in questa fase che entra in gioco la Chlamydomonas reinhardtii: la microalga, infatti, sfrutta proprio l’acido acetico per produrre idrogeno in maniera più efficiente. In altre parole, beneficia di ciò che non serve ai batteri, creando un sistema sinergico.
La ricerca ha dimostrato che produrre idrogeno con questa combinazione biologica comporta un miglioramento del 60% nella resa rispetto alla somma dei singoli processi. Nonostante la risorsa di base, usata nell’esperimento, sia lo zucchero, il team è convinto che il processo possa essere adattato in futuro per lavorare direttamente con i rifiuti. “Questa conoscenza – scrivono gli scienziati – può aprire nuove possibilità per la produzione di bioidrogeno da rifiuti industriali”. L’idea suggerita dai ricercatori è quella di usare scarti e acqua sporca per produrre idrogeno e ottenere al contempo un’efficace azione di decontaminazione.

fonte: www.rinnovabili.it

I batteri da nemici ad alleati

I microorganismi viventi sono in grado di detossificare in maniera naturale sia l’ambiente che il nostro organismo. Proviamo a conoscerli.

















L’inquinamento ambientale e alimentare a cui siamo sempre più sottoposti deve essere conosciuto e approfondito anche dal mondo dei medici, che sono il primo baluardo di difesa nella diagnostica di tutta una serie di patologie che hanno alla loro base tossici alimentari o ambientali. Devono essere conosciuti i meccanismi mediante i quali questi tossici producono il loro effetto biologico e si devono identificare, oltre ai modi di ridurli o eliminarli dalla catena ambientale o alimentare, anche i mezzi per ridurre il danno o la concentrazione a valle del loro uso.
In italiano non esisteva una parola che sinteticamente esprimesse questo concetto, parola che esiste in inglese da anni: bioremediation, tradotta con il termine biorisanamento che sta a indicare la soluzione di problemi di inquinamento ambientale attraverso l’uso di micro organismi viventi, ovvero di batteri.
In medicina l’uso di batteri o probiotici o fermenti è noto da anni soprattutto in pediatria, che li utilizza energicamente da tempo. Tutti abbiamo assunto fermenti nel corso di un episodio diarroico o dopo un trattamento antibiotico. La stessa cosa non si può dire per gli alimenti fermentati ottenuti sia con fermentazione guidata da culture starter che con fermentazione selvaggia. Qui la medicina è fortemente assente e ancora una strettissima minoranza di persone conosce le notevoli proprietà salutistiche del kefir artigianale, dell’aceto di mele non pastorizzato, delle olive non pastorizzate o delle verdure fermentate, solo per citare i più comuni alimenti fermentati.
È sempre più evidente che sia l’ambiente che il nostro intestino possono giovarsi di un biorisanamento a opera di batteri buoni che hanno la capacità di detossificare gli alimenti o il terreno, di predigerire gli alimenti assunti e di difendere e assistere il nostro sistema immunitario per proteggerci dagli aggressori.
Purtroppo la necessità di allungare la shelf life (la durata della vita sullo scaffale) dei prodotti alimentari ha portato a una graduale eliminazione dei cibi fermentati e a una grande diffusione della pastorizzazione, processo fisico che mediante il calore ha come obbiettivo l’eliminazione del maggior numero di batteri contenuti nei nostri alimenti, buoni o cattivi che siano. Ne deriva che le occasioni che abbiamo di introdurre batteri buoni nel nostro corpo è stata gravemente ridotta; ricorriamo ai probiotici come farmaci che non sono però sufficienti. In più la logica imperante di una sanificazione data da disinfettanti chimici nell’ambiente o da antibiotici nell’uomo ha gravemente rallentato lo sviluppo di metodiche di biorisanamento ambientale o umano.
I contadini sanno che alcune avversità sono controllabili attraverso l’uso di batteri; famoso è il bacillus turigensische uccide le larve delle zanzare e alcune malattie dei prodotti ortofrutticoli. Nel 1980 uno scienziato giapponese, il professor Teruo Higa, riunì un cocktail di 80 ceppi batterici costituiti da lattobacilli, lieviti e batteri della fotosintesi in grado di convivere e sopravvivere a lungo in soluzione acquosa e di essere riattivati al bisogno in qualunque ambiente. Inoltre in caso di bisogno di grandi quantità questi possono essere moltiplicati mediante una rapida fermentazione con costi molto ridotti. Il professor Higa registrò questo prodotto con il nome di Effective Microorganism (EM).
Nell’ambiente domestico e agricolo lo sviluppo dei microorganismi effettivi (EM) ha mostrato un’enorme potenzialità ancora non conosciuta e diffusa fra gli operatori del settore e tanto meno nella popolazione. Pochi sanno che gli EM, che si possono trovare a basso costo sul mercato anche se ancora non prodotti in Italia, hanno mostrato grande utilità nella pulizia della casa, nell’eliminazione degli odori sgradevoli nella bonifica degli scarichi fognari o nella pulizia degli animali domestici e negli allevamenti.
Questi EM hanno anche un enorme potere di colonizzare il terreno e aiutarlo, soprattutto se impoverito da anni di agricoltura chimica, a recuperare quella vita microbiologica necessaria per il mantenimento di una fertilità di lungo corso, essenziale per lo sviluppo e il mantenimento di un’agricoltura sostenibile. Possono essere usati anche sulle piante in fase vegetativa perché concorrono a ristabilire il mantenimento di un microbioma superficiale delle piante che altro non è che un analogo del nostro microbioma cutaneo, così come il microbioma radicale è l’equivalente per la pianta del nostro microbioma intestinale, e tutti questi microbiomi sono essenziali per difenderci dalle avversità.
Gli EM costituiti a loro volta da una miscela di lattobacilli, lieviti e batteri della fotosintesi sono in agricoltura quello che lattobacilli, bifidi e lieviti sono in terapia umana. Lo sviluppo di moderne tecniche di tipizzazione genica del materiale batterico attraverso il sequenziamento dell’RNA ribosomiale 16S rRNA sta consentendo inoltre di identificare e classificare nuove specie batteriche, soprattutto anaerobie, che non erano in passato coltivabili e analizzabili. Ci attendiamo enormi sviluppi di queste tecniche che già hanno dato un forte impulso al settore della terapia batterica in campo umano.
Quello che manca è il coraggio e la volontà di spingere su questo settore per l’inerzia del sistema economico che si attarda a utilizzare le vecchie tecniche di disinfezione e sanificazione chimica. Da sottolineare che i costi di questi processi microbiologici sono molto inferiori e questo sembra complicare anziché semplificare il processo.
Non rimane quindi che cercare di sensibilizzare gli utenti finali, e soprattutto gli operatori della sanità che possono svolgere un importante ruolo di stimolo. L’ISDE (International Society of Doctors for Environment), che ha un importante ramo italiano di medici attivi sui temi dell’inquinamento e della lotta ai veleni, ha deciso di promuovere tutti quei comportamenti volti a ridurre l’uso di una chimica inquinante e tossica.
Tra l’altro, recentemente è emerso il tema della resistenza agli antibiotici che sta mietendo vittime negli ospedali di tutto il mondo civilizzato. Si dice che anche in Italia nel 2018 vi siano stati oltre 15.000 casi di morte per sepsi ospedaliera intrattabile e il tema è sotto osservazione in questi mesi. La resistenza agli antibiotici ha fra le proprie cause un abuso di antibiotici oltre che in terapia umana anche in allevamento animale. Un contatto costante di ceppi batterici patogeni con antibiotici seleziona inevitabilmente dei ceppi resistenti che, quando prendono il sopravvento, non trovano più ostacoli sul loro percorso.
Ben vengano allora soluzioni più naturali per aumentare salute, biodiversità e robustezza della flora batterica intestinale la quale è in grado, da sola, di contrastare un grande numero di patogeni. Ben vengano soluzioni che mediante l’uso di un film batterico ambientale sono in grado di contrastare lo sviluppo e la crescita di ceppi patogeni ambientali o addirittura ospedalieri, come studi recenti hanno mostrato.
Occorre solo dare supporto scientifico e spingere in questa direzione cercando di sensibilizzare tutti coloro che sono animati dalla buona volontà di trovare soluzioni a problemi sempre più complessi e che richiedono un cambio radicale del modo di pensare.
Guido Balestra, medico ISDE
fonte: https://www.toscanachiantiambiente.it

Questa studentessa scopre batteri che trasformano la plastica in acqua e CO2



Eterna plastica? Una ragazza di appena 23 anni, Miranda Wang, ha trovato il modo per degradarla ottenendo dei prodotti utilizzabili per molte applicazioni (senza usare il petrolio). Una tecnologia (da cui è stata fondata la compagnia specializzata BioCellection) che su larga scala potrebbe ridurre significativamente la plastica indistruttibile che affligge i nostri mari (e non solo). Ciò le ha appena permesso di conquistare il Rolex Awards for Enterprise 2019.


Le materie plastiche sono fatte di lunghissimi polimeri, ovvero catene di composti chimici tutti uguali, quasi mai biodegradabili e quindi quasi permanenti nell’ambiente. Ma la chiave per la loro “distruzione” sembra essere l’utilizzo di un catalizzatore, ovvero di una molecola che rende la reazione di “taglio” molto più rapida ed economica.
I batteri presenti naturalmente non ce la fanno e anche per la chimica ci sono diversi problemi, salvo qualche caso in fase di studio che coinvolge l’utilizzo di enzimi. Il problema nasce dalla difficoltà di spezzare le catene fatte da legami tra atomi di carbonio molto stabili. Per riuscirci sono necessarie alte temperature, ma queste implicano costi elevati ed emissioni in atmosfera non molto amiche dell’ambiente.
La soluzione (forse)?“Abbiamo identificato un catalizzatore che taglia le catene polimeriche per innescare una reazione a catena intelligente, a pressione atmosferica e ad una temperatura che può essere gestita da un bollitore– si legge sul sito della società –Una volta che il polimero si rompe in pezzi con meno di 10 atomi di carbonio, l’ossigeno dell’aria si aggiunge alla catena e forma preziose specie di acidi organici che possono essere raccolte, purificate e utilizzate per realizzare i prodotti che amiamo”.
I catalizzatori sono molecole che facilitano reazioni molto complesse, agendo in diversi modi ma con un medesimo principio di base, ovvero modificandone il meccanismo. Procedendo in maniera diversa tutto cambia e, se il catalizzatore è veramente efficace, si registra una velocità maggiore, magari con temperature e pressioni più basse, quindi con costi inferiori. Ulteriore vantaggio: il catalizzatore può essere recuperato a fine reazione per molti cicli consecutivi.
plastica catalizzatore
La tecnologia proposta da Miranda Wang promette inoltre apparati semplici e quindi potenzialmente industrializzabili, nonché il recupero di prodotti utili per altre applicazioni e soprattutto non derivati dal petrolio, aggiungendo un altro vantaggio per l’ambiente.
“Il nostro prodotto è una miscela di esteri dibasici contenenti da 4 a 9 atomi di carbonio– si legge ancora sul sito –Nessun altro team ha creato tali prodotti dai rifiuti di plastica post-consumo! Gli eteri sono prodotti oggi utilizzando petrolio e sono essenziali per ottenere svariati tessuti e materiali. La nostra innovazione utilizza i rifiuti di plastica sostituendo il petrolio come risorsa per filiere sostenibili.
La società condurrà una dimostrazione pilota del proprio processo il prossimo ottobre convertendo 17 tonnellate di rifiuti di plastica in 6 tonnellate di sostanze chimiche di valore in 3 mesi. Successivamente il team ha in programma di costruire un apparato più grande per continuare a riciclare i materiali ed espandere la propria ricerca includendo il riciclo anche di altri materiali plastici.

Conquistato il Rolex Awards for Enterprise 2019

Grazie alla sua scoperta, Miranda Wang si è aggiudicata il premio di 10mila franchi svizzeri e un rolex istituito dalla Casa della Corona nel 1976. Il riconoscimento è dedicato a persone di età compresa tra i 25 e i 49 anni.
Tra gli altri vincitori, il brasiliano Joao Campos-Silva, il francese Grégoire Courtine, l’ugandese Brian Gitta e l’indiana Krithi Karanth.
fonte: www.greenme.it

David Suzuki: La crescita esponenziale dei batteri


























Alla fine c’è una domanda.

In una provetta con tutte le necessarie sostanze nutritive metto un batterio che cresce e si divide, quindi il secondo minuto nella provetta ho due batteri. Ogni minuto la popolazione di batteri raddoppia, quindi al terzo minuto nella provetta avremo 4 batteri, al quarto minuto 8 batteri e così via. Al 60esimo minuto si osserva che con la sua crescita la popolazione di batteri ha riempito tutta la provetta, esaurendo tutte le sostanze nutritive presenti in quella provetta.
La domanda è: quanti minuti prima del 60esimo minuto la popolazione ha riempito a metà la sua provetta? Rispondete alla domanda prima di continuare a leggere.
La provetta e ‘ la nostra biosfera - dove c’è vita, uno strato davvero sottilissimo intorno alla terra.
Al 59esimo minuto la provetta è mezza piena/ al 58esimo minuto i batteri avevano consumato il 25% delle sostanze nutritive/al 57esimo minuto ne avevano consumate il 12,5%/ al 56esimo minuto è stato consumato il 6,25% delle sostanze nutritive/ al 55esimo minuto sono state consumate il 3,% delle sostanze nutritive.
Qui un batterio scienziato dice: ragazzi qui abbiamo un problema di troppi consumi/ gli rispondono in coro: MA CHE DICI! sono 55 minuti che siamo qui e abbiamo a disposizione ancora il 97% delle risorse della provetta. In fondo c'è il video in cui il Dott. David Suzuki parla della crescita esponenziale

Al 59esimo minuto i batteri incominciano un pochino a preoccuparsi, che facciamo si chiedono, essendo i batteri economisti della crescita continua un pochino screditati,preferiscono rivolgersi ai batteri quelli scienziati-quelli che prima non erano stati ascoltati- mettono a loro disposizione risorse economiche immense e gli scienziati batteri incredibilmente in poco tempo riescono ad inventare....
altre tre provette tutte piene di tutte le risorse necessarie, ma.......
ormai lo sapete già come va a finire......
Al 60 esimo minuto viene riempita la prima provetta, quella iniziale/la prima delle 3 provette nuove è completa al 61esimo minuto/le altre due al 62esimo minuto.

Mi pare che qui la situazione è che i batteri economisti propongono come soluzione dei problemi di inquinamenti risorse limitate ecc ecc di intensificare tutte le attività che hanno portato alle crisi in atto.

Per me il senso di questa storiella di batteri è che sbagliano gli economisti che propongono la crescita infinita in un pianeta con risorse necessariamente limitate, non si può continuare con questo modello di sviluppo basato sulla crescita esponenziale, sull’uso illimitato delle risorse che peraltro vengono inquinate senza riguardi (con le nostre emissioni abbiamo cambiato la composizione dell'atmosfera/abbiamo inquinato le falde acquifere che servono per irrigazioni e usi domestici con pesticidi e altri inquinanti dannosi per la salute umana/abbiamo alzato la temperatura e acidificato le acque degli oceani e molti altri danni all'ambiente, alla biodiversità, alla nostra stessa specie). Afferma Suzuki che siamo al 59esimo minuto. Dobbiamo cambiare il nostro modello economico, persino se gli scienziati riuscissero a creare nuovi pianeti non si otterrebbe altro che spostare di un pochino in avanti il momento delle crisi, dobbiamo trovare modi per vivere non in crescita continua ma in equilibrio con la natura, con l’utilizzo delle risorse, il modello attuale economico fondato sulla crescita infinita, lo sfruttamento persino distruttivo delle risorse limitate di cui disponiamo deve cessare.

Qui sotto c'è un breve video in cui il Dott. David Suzuki spiega la crescita esponenziale,

David Suzuki è uno scienziato canadese, è un ambientalista, ha insegnato genetica in università canadesi, è una personalità tv ( 30 anni in programmi tv vari, nota sua serie tv La natura delle cose )ed è uno scrittore ( ha pubblicato più di 50 libri in gran parte su temi di genetica e di scienze ecologiche + centinaia di articoli ecc). È impegnato tramite la Fondazione David Suzuki nella conservazione ambientale e studia la perdita di biodiversità e in che modo si può proteggere la vita; è da molti anni impegnato nella lotta contro il cambiamento climatico.

Ha ricevuto decine di riconoscimenti e premi per il suo lavoro, tra cui una medaglia dell’UNEP e un premio UNESCO



Nadia Simonini

Rete Nazionale dei Comitati Rifiuti Zero     

Plastica: forbici molecolari per distruggerla, ricreati i super-batteri

Nuova e più efficiente struttura per i batteri mangia-plastica, la novità dalla Germania: i rifiuti potranno essere scoposti e usati per nuovi oggetti.















Distruggere la plastica grazie a dei super-batteri. Alcuni ricercatori tedeschi hanno messo a punto delle cosiddette forbici molecolari, “strumenti” in grado di attaccare i materiali plastici rendendoli biodegradabili. Alla base della novità due enzimi scoperti nel 2016, come riferito dai ricercatori della University of Greifswald e dell’Helmholtz-Zentrum-Berlin sulla rivista scientifica “Nature Communications“.
Si tratta, come spiegato dai ricercatori, di una struttura appositamente studiata per migliorare la creazione di varianti di batteri mangiaplastica in grado di consumare il materiale in maniera più efficiente.
Alla base dell’innovazione la scoperta fatta nel 2016 presso il Kyoto Institute of Technology, dove gli studiosi nipponici hanno individuato gli enzimi capaci di degradare la plastica: il Petase e Mhetase. Come dichiarato da Uwe Bornscheuer, ricercatrice presso l’Helmholtz-Zentrum-Berlin:
Scoprire la struttura dei due enzimi ci permetterà di programmare, produrre e descrivere delle varianti biochimiche molto più attive di quelle naturali.
I due enzimi scoperti in Giappone sono stati ora riprodotti in laboratorio dai ricercatori tedeschi, aprendo la porta a una più agevole gestione dei rifiuti plastici. In prima battuta a intervenire è il Petase, che frammenta la plastica, mentre il Mhetase mette in atto la scomposizione finale in acido tereftalico e glicole di etilene. Grazie a questi due elementi sarà possibili produrre nuovi materiali senza il ricorso a fonti fossili.

fonte: www.greenstyle.it