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Pfas Veneto: il processo ambientale più importante d’Italia.

 



Soprattutto se entrerà in sinergia con il processo gemello di Alessandria contro di Solvay, che sta per partire. A Vicenza il Gup ha rinviato a giudizio 14 manager di diversa nazionalità dell’azienda Miteni e delle multinazionali Mitsubishi Corporation e International Chemical Investors Group, oltre che la stessa Miteni di Trissino. L’accusa è di aver avvelenato con i Pfas (Pfoa ,GenX e C6O4) per decenni, senza soluzione di continuità, le acque sotterranee e di falda di oltre 300 mila abitanti delle province di Padova, Vicenza e Verona, provocando tumori, malformazioni, aborti e malattie del sistema cognitivo, ecc. La prima udienza in corte di assise il primo luglio. Le contestate sono centrate su reati dolosi e non colposi: avvelenamento delle acque, disastro doloso, inquinamento ambientale e bancarotta fraudolenta. Le parti civili costituite sono oltre duecento. Il processo continua una lotta avviata otto anni fa e animata in particolare da “Mamme No Pfas” fin quando nel 2017 è scattata l’emergenza sanitaria, della quale sono state investite le istituzioni, dalla Regione al Governo. Fondamentale saranno le ripercussioni sulla enorme bonifica, con analogia con la vicenda Solvay di Spinetta Marengo.

Anche gli avvocati di Miteni avranno l’impudenza di sostenere che non vi sono certezze nel panorama scientifico sugli effetti nocivi delle sostanze perfluoroalchiliche per l’uomo, con la conseguenza di mancanza di volontarietà da parte degli imputati.

Di seguito, i più recenti “post” sul Sito della “Rete Ambientalista Movimenti di lotta per la salute , l’ambiente, la pace e la non violenza” gestito dal “Movimento di lotta per la salute Maccacaro”.

Vietare una volta per tutte i Pfas, e farlo presto. La posizione Cinquestelle in Parlamento.

A Spinetta Marengo la polvere sui mobili delle case contiene Pfas e altre sostanze tossiche.

La Regione Veneto e la Provincia di Alessandria nascondono alle popolazioni i dati Pfas sensibili alla loro salute. Gli omissis nelle autorizzazioni e gli alimenti avvelenati.

I biberon al bisfenolo. Uno dei sei esposti depositati presso la Procura della Repubblica di Alessandria denuncia: alla Solvay di Spinetta Marengo nel cocktail con i Pfas (PFOA, C6O4, ADV) tra gli interferenti endocrini c’è anche il Bisfenolo.

L’allarme “Pfas e Bisfenolo riducono qualità dello sperma, volume testicoli e …

La chimica che inquina l’acqua


fonte: www.rete-ambientalista.it


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Nel Veneto il 1° impianto integrato di produzione batterie litio d’Italia

L’azienda veronese Midac Batteries Spa, IPCEI sulle batterie di nuova generazione, ottiene un investimento complessivo di 104 milioni di euro per tre progetti innovativi











Nell’Europa attraversata dalla pandemia c’è un’industria che continua a investire e creare posti di lavoro: quella delle batterie agli ioni di litio. Favorendo la transizione dai combustibili fossili verso un’energia più pulita, questa filiera risponde pienamente all’ambizioso obiettivo europeo del Green Deal, che mira alla neutralità climatica nel 2050. Per sostenere questo settore strategico, la Commissione Europea ha dato il via libera alla seconda tranche di finanziamenti per Importanti Progetti di Comune Interesse Europeo (IPCEI) sulle batterie di nuova generazione (2,9 miliardi di euro), attribuiti dopo attenta selezione a 42 aziende europee del settore.

Una di queste è Midac Batteries Spa, fondata da Santo Mastrotto e guidata da Filippo Girardi, presidente e AD, che ha ottenuto il via libera per lo sviluppo di tre progetti innovativi relativi alla produzione, al riutilizzo e alla gestione sostenibile del fine vita delle batterie al litio. Questi progetti permetteranno all’azienda di realizzare il primo impianto di produzione batterie litio integrato in Italia, per un investimento complessivo di 104 milioni di euro. L’azienda così sarà in grado di produrre le proprie batterie al litio con il riutilizzo delle materie prime derivanti dal riciclo delle batterie esauste, conformemente ai principi della circolar economy, garantendo così il rispetto della filosofia “verde” di Midac.

In particolare, il primo progetto riguarda il processo di selezione e recupero delle batterie a fine vita, che consente di inviare quelle non riutilizzabili ad un impianto di riciclo con una capacità pari a 30.000 ton/anno e di utilizzare quelle ancora funzionanti in applicazioni less demanding. In questo modo le batterie possono vivere una seconda vita, riducendo l’impatto ambientale e aumentando le percentuali dei materiali recuperati dal 60% a oltre il 90%. Le attività di riciclo e riuso saranno sviluppate in collaborazione con aziende partner, tra le quali Enel X.

Il secondo progetto riguarda lo sviluppo di un nuovo impianto di produzione delle celle basata sulla tecnologia di terza e quarta generazione, che consentono ricariche più rapide, autonomia e sicurezza maggiori. Queste saranno poi destinate al nuovo reparto di assemblaggio batterie di Soave e a quello di Cremona da utilizzare in applicazioni automotive, Material Handling e di reserve power.


Il terzo progetto è relativo allo sviluppo dell’elettronica di gestione delle batterie, che, grazie all’ausilio dell’intelligenza artificiale, permetterà di allungarne la vita. Le batterie saranno dotate anche di sistemi IoT per facilitarne l’uso da parte dei clienti finali.

Il piano di realizzazione del nuovo impianto, della durata complessiva di 7 anni, rappresenta un’irripetibile occasione per l’azienda e per l’intero comparto italiano ed europeo per ricavarsi un ruolo da protagonista nel settore della tecnologia di accumulo agli ioni di litio, e per sviluppare, anche in Europa, l’intera filiera tecnologica che ruota attorno a questa tecnologia così strategica.

«Siamo entusiasti ed orgogliosi di poter fornire, anche grazie a questo progetto, il nostro contributo per lo sviluppo della filiera tecnologica del litio in Europa – sottolinea il Presidente Filippo Girardi – e di poter continuare a perseguire i nostri obiettivi di innovazione e sostenibilità ambientale nel comparto delle batterie. Ringraziamo il Ministero dello Sviluppo Economico per averci supportato in tutte le fasi del progetto e la Commissione Europea per l’opportunità di crescita che ha offerto alla nostra società con l’approvazione del nostro progetto, avendolo ritenuto degno e utile allo sviluppo dell’intera comunità europea».

fonte: www.rinnovabili.it


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Controllo e riduzione dei rifiuti marini nell’Adriatico

E' partito il progetto MARLESS - MARine Litter cross-border awarenESS and innovation actions, che affronterà il problema dei rifiuti marini “marine litter” nell’Adriatico.





Si è svolto il 28 e 29 luglio il meeting online di avvio del progetto MARLESS – MARine Litter cross-border awarenESS and innovation actions, che affronterà il problema dei rifiuti marini “marine litter” nell’Adriatico, analizzando le cause ed individuando azioni operative per la gestione e riduzione di questa tipologia di rifiuti.

Tecnologie e approcci innovativi

I rifiuti marini sono costituiti per la maggior parte da plastica (75%) e molti provengono dalla terraferma. Nello sviluppo del progetto saranno utilizzate tecnologie e approcci innovativi e sostenibili per il controllo della marine litter coinvolgendo nell’attività rappresentanti del settore turistico e dell’acquacultura. Tra gli obiettivi la raccolta di 250.000 frammenti di microplastiche e 50 tonnellate di rifiuti marini attraverso l’utilizzo di seabin, droni, barriere fluviali ed azioni di “fishing for litter”. Il “seabin” è un apposito cestino che raccoglie i rifiuti che galleggiano in acqua e verrà utilizzato per la raccolta dei rifiuti nei porti. Droni acquatici saranno utilizzati per raccogliere plastiche di diametro superiore a 0.5 mm. Una parte dei rifiuti plastici raccolti sarà poi trattata in un apposito impianto per la trasformazione in combustibile.



Un focus sulle microplastiche

Un focus specifico del progetto sarà dedicato alle microplastiche che, a livello mondiale, ammontano a circa 3 milioni di tonnellate/anno su un totale di 11 milioni di tonnellate/anno di plastiche disperse in mare. I partner di progetto individueranno azioni mirate alla prevenzione e al monitoraggio in mare, con particolare attenzione in corrispondenza delle foci fluviali. Tra queste l’attivazione di una rete di 12 punti di monitoraggio delle microplastiche in mare.
I partner di progetto

MARLESS, finanziato nell’ambito del programma INTERREG Italy – Croatia, coinvolge 13 partner: sette italiani (ARPAV come lead partner, Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, Regione del Veneto, Università di Bologna, Fondazione Cetacea, Regione Emilia Romagna e Regione Puglia) e sei Croati (Ministero dell’Ambiente e dell’Energia, Agenzia di Sviluppo dell’area Dubrovnik-Neretva, Università di Dubrovnik, Istituto Ruder Boskovic, Regione dell’Istria e l’Agenzia per l’Energia Istriana).

Contrastare la marine litter: una strategia per l’Adriatico

ARPAV, in qualità di lead partner, si occuperà della gestione complessiva del progetto e del coordinamento delle attività, oltre a contribuire allo sviluppo di una strategia di monitoraggio condivisa fra le due sponde dell’Adriatico. Oggetto della strategia la marine litter nelle sue diverse forme: rifiuto spiaggiato, rifiuto in mare e microplastiche.
Il progetto durerà 30 mesi e si concluderà nel 2022.

fonte: https://www.snpambiente.it



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Pfas, il Mario Negri individua 20 possibili sostanze alternative. Lo studio promosso dal ministero dell’Ambiente

















Il laboratorio di chimica e tossicologia dell’ambiente dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano ha individuato una ventina di composti che potrebbero essere utilizzati in sostituzione dei famigerati Pfas, gli acidi perfluroroalchilici che stanno causando un numero crescente di problemi all’ambiente e alla salute umana. La scoperta è arrivata nell’ambito di uno studio condotto con il ministero dell’Ambiente.
Al di là del dettaglio tecnico, il lavoro ha il pregio di dimostrare che, quando ci sono la volontà e il sostegno economico necessario, è possibile sviluppare composti chimici con caratteristiche analoghe a quelle di altre sostanze potenzialmente pericolose.
I Pfas sono presenti in una quantità incredibile di prodotti perché sono acidi molto forti e quindi particolarmente resistenti ai diversi tipi di degradazione. Sono molto stabili agli agenti chimici e termici, e impermeabili ad acqua e grassi. Si trovano:
  • negli oggetti domestici: nelle pentole come antiaderenti, nei detersivi come emulsionanti, tensioattivi o umettanti, in scarpe e abiti come pellicole invisibili idrorepellenti, e sempre come strati esterni in tappeti e rivestimenti di vario tipo; nei materiali da costruzione;
  • negli articoli medicali: la loro natura inerte li rende utilissimi per le protesi e per tutta una serie di dispositivi sia monouso che permanenti usati in ogni settore della medicina, compresi i camici;
  • nella lavorazione dei metalli, dei minerali e dei petroli;
  • nella carta e negli imballaggi repellenti a olio e acqua;
  • nell’aviazione e nel settore aerospaziale; nelle auto;
  • nei cavi, nei cablaggi e nei materiali elettronici;
  • nei prodotti antincendio.
acqua del rubinetto
I Pfas hanno contaminato le acque sotterranee delle province di Padova e Verona, in Veneto
La loro diffusione ha provocato vere e proprie crisi, perché se non gestiti adeguatamente possono filtrare nelle acque, accumularsi nelle piante ed entrare nella catena alimentare, con conseguenze sulla salute. Sono considerati interferenti endocrini, e anche se gli effetti sono ancora in via di definizione, si ritiene che l’assunzione vada evitata il più possibile. In Italia c’è stato il caso del Veneto, dove dal 2013 è stata segnalata la presenza di Pfas in acque sotterranee delle province di Padova e Verona. Nell’area colpita è stato necessario applicare con urgenza filtri al carbone per l’acqua potabile e, contestualmente, compiere analisi dettagliate e definire limiti della concentrazione accettabile, nonché avviare studio ancora in corso sulle conseguenze a lungo termine. La crisi ha provocato danni che ammontano almeno a 137 milioni di euro.
Nel frattempo paesi come la Danimarca stanno ragionando sul bando ai Pfas negli imballaggi alimentari, e l’Efsa, nel 2018, ha abbassato notevolmente i valori soglia, a riprova della grande preoccupazione attorno a queste sostanze.
Lo studio del Negri dimostra che i Pfas non sono insostituibili e che esistono almeno una ventina di sostanze che potrebbero prenderne il posto. Si legge nel comunicato: “A partire da questa lista il ministero ha l’obbiettivo di fornire degli orientamenti precisi alle aziende che ne fanno maggiore uso.” Si spera che lo faccia al più presto, e che le aziende lo ascoltino.
fonte: www.ilfattoalimentare.it

Inquinamento da PFAS: scoperti batteri che mangiano queste sostanze nocive. Lo studio
















Un’importante scoperta legata ai Pfas, sostanze perfluoroalchiliche che inquinano e sono dannosi per la salute umana, è stata resa nota recentemente dopo uno studio condotto negli Usa dall’Università di Princeton i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Environmental Science and Technology.
In questo studio si è visti come dei comuni batteri presenti nel suolo delle paludi del New Jersey mangiano queste sostanze, i Pfas, e altre simili, nocive per l’ambiente e per l’uomo. Questi microrganismi, in particolare l’acidimicrobium A6, hanno dimostrato di poter rompere il legame chimico carbonio-fluoro e così rimuovere il 60% dei Pfas nell’arco di 100 giorni.
Lo studio nello specifico prevedeva che i batteri fossero stati fatti proliferare in laboratorio, aggiungendo poi due tipologie di sostanze perfluoroalchiliche si notava come i batteri provocassero delle reazioni chimiche nei Pfas rimuovendo da questi gli atomi di fluoro e rendendoli di conseguenza non tossici. Dopo 100 giorni i batteri avevano  eliminato tra il 50-60% dei Pfas presenti nelle colture.
Il passo successivo e più importante sarà quello di provare direttamente dal vivo questa scoperta e vedere se sul campo funziona.

La battaglia contro i Pfas

Mentre in Italia intere famiglie lottano contro l’inquinamento dei Pfas dopo che sono stati trovati alti livelli di sangue nei loro bimbi e in loro stessi, a seguito dell’ inquinamento delle falde acquifere, in Danimarca ne è stato vietato l’uso nei contenitori alimentari affermando che “fortunatamente esistono altri modi per produrre carta impermeabile al grasso e all’acqua che non hanno alcun potenziale cancerogeno”.
Tramite interrogazione con Sara Cunial e le colleghe Veronica Giannone @Gloria Vizzini Silvia Benedetti Portavoce alla Camera è stato richiesto al Ministro competente come intenda agire per tutelare la salute pubblica, vietare finalmente la presenza di queste sostanze in oggetti di uso comune quali pentole, padelle e contenitori alimentari, nonché abbigliamento e giochi per l’infanzia e garantire zero Pfas nelle nostre acque, così come già promesso anche dal Ministro dell’Ambiente in questa stessa legislatura.

Cosa sono i Pfas

I PFAS (sostanze perfluoroalchiliche) sono dei pericolosi perturbatori endocrini. Alcuni studi hanno dimostrato come l’esposizione prolungata possa portare all’insorgenza di diversi tumori (ai reni e ai testicoli), così come a malattie della tiroide, ipertensione in gravidanza, colite ulcerosa. L’inquinamento da PFAS sarebbe inoltre correlato a un aumento delle patologie gestazionali e nel feto, con malformazioni congenite.
Inquinamento da PFAS: l’emergenza è solo in Veneto? Al di là dell’attenzione mediatica che ha interessato la Regione guidata da Zaia, l’allarme è diffuso anche in altre regioni. E intanto Greenpeace chiede che le aziende responsabili per la contaminazione paghino i danni per le bonifiche.
È quindi giustificato il livello di allarme registrato in Veneto, regione dove tali sostanze sono state individuate in elevatissime concentrazioni nell’acqua definita ‘potabile’. La situazione è stata resa nota già da diversi mesi. Eppure, ad oggi, pare che il governo sia immobile sulla questione.
fonte: https://www.ambientebio.it

PFAS: rischio contaminazione per 19 milioni di americani. L’Italia fissa limiti nazionali

Mentre uno studio dell’ Environmental Working Group rinviene tracce di perfluorurati in 43 Stati americani, il Ministero dell’Ambiente italiano apre un tavolo per fissare limiti nazionali allo scarico di PFAS a catena lunga.


















Circa 19 milioni di persone negli Stati Uniti rischiano di aver bevuto per anni acqua contaminata da composti perfluorurati e sostanze perfluoroalchiliche, i cosiddetti PFAS: a lanciare l’allarme è uno studio dell’associazione no profit Environmental Working Group supportato dal Northeastern University’s Social Science Environmental Health Research Institute.
Gli agenti contaminanti sono stati rinvenuti in 43 dei 51 Stati a stelle e strisce, con particolare concentrazione nei dintorni del lago Michigan e nelle zone più popolose della costa est e di quella ovest, soprattutto in California.

I PFAS, sono catene alchiliche idrofobiche fluorurate, acidi liquidi resistenti alle alte temperature e ai processi di degradazione in natura. Sono stati usati dagli anni ’40 in svariati settori industriali, dal trattamento delle pelli, alla produzione di contenitori, carta e imballaggi per uso alimentare, dai rivestimenti antiaderenti delle padelle alla realizzazione di abbigliamento tecnico (trattamenti con simili composti rendono i tessuti idrorepellenti).

Nel 2018, il Centers for Disease Control, una delle agenzie per la salute pubblica USA, aveva appurato che l’esposizione ai perfluorurati può aumentare il rischio di cancro, quello di incorrere in malattie che compromettono il sistema immunitario, rischia di diminuire la fertilità femminile e di alzare i livelli di colesterolo oltre a limitare lo sviluppo mentale e fisico dei bambini.

A febbraio 2019, l’Environmental Protection Agency (EPA) aveva annunciato il proprio piano d’azione per contrastare la diffusione dei PFAS sul suolo americano: un mix tra promozione della ricerca scientifica, raccomandazioni per la bonifica e la pubblicazione di nuovi dati aperti a tutti.

In attesa che l’EPA strutturi un piano d’azione più concreto per bonificare le falde contaminate da PFAS, gli esperti dell’Environmental Working Group hanno stilato una breve lista di raccomandazioni per limitare la contaminazione: limitare il consumo di cibi da fast food e quello di popcorn per microonde, il cui packaging viene spesso trattato con perfluorurati, ma anche attenzione all’acquisto di indumenti impermeabili, pentole antiaderenti e moquette antimacchia, tutti prodotti che possono contenere PFAS.

In Italia, lo scandalo della contaminazione nelle provincie di Vicenza, Padova e Verona a causa dell’attività dell’azienda agricola Miteni ha portato alla ribalta il problema dei PFAS: dai primi anni 2000 fino al 2017, quando l’azienda ha chiuso i battenti, circa 350 mila persone sarebbero stati esposti a livelli elevati di sostanze perfluoroalchiliche nelle falde acquifere.
Il primo filone d’indagini della Procura di Vicenza, chiuso lo scorso gennaio, ha notificato l’iscrizione nell’albo degli indagati a 13 manager e tecnici dell’ex azienda agricola, tra cui i dirigenti giapponesi della Mitsubishi Corporation che hanno controllato la Miteni dal 2002 al 2009 e i tedeschi della Icig-International chemical investors subentrati al vertice aziendale dal 2009.

Il Ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, ha annunciato l’apertura di un tavolo istituzionale per porre limiti nazionali allo scarico di PFAS a catena lunga: il progetto vedrà la collaborazione di Minambiente, ISPRA, Snpa, Regione Veneto, Istituto superiore di Sanità e Ministero della Salute.

“Diamo una risposta immediata ai cittadini – ha commentato il ministro Costa – Vogliamo che con urgenza vengano fissati i limiti. Il tavolo inoltre lavorerà anche sui limiti dei cosiddetti ‘nuovi PFAS’ con un percorso normativo e tecnico e ascoltando anche il settore produttivo”.

fonte: www.rinnovabili.it

Compost di qualità e tutela del suolo: Arpav e le buone pratiche del compost in agricoltura

Lo scorso 13 aprile i tecnici Arpav hanno partecipato al convegno organizzato a Mira (VE) con l’obiettivo di evidenziare le proprietà del compost e i vantaggi derivanti dal suo utilizzo in termini di risultati finali e di impatto ambientale, con particolare riferimento alla tutela del suolo. Il suolo è una risorsa limitata e non rinnovabile, bene comune di fondamentale importanza per la qualità della vita delle generazioni presenti e future, per l’equilibrio ambientale e per la tutela degli ecosistemi naturali, e, soprattutto, per la produzione agricola.



Il suolo svolge funzioni primarie insostituibili: fornisce cibo, biomassa e materie prime, svolge un ruolo fondamentale come habitat e serbatoio di biodiversità, è un elemento del paesaggio e del patrimonio culturale. Nel suolo vengono stoccate, filtrate e trasformate molte sostanze, tra le quali l’acqua, i nutrienti e il carbonio. Ciò che consente di svolgere queste funzioni è la sostanza organica, che però in molti suoli agricoli della pianura padana, soprattutto dove la zootecnia è scomparsa, ha raggiunto livelli spesso troppo bassi per un buon grado di fertilità, con il rischio che quelle funzioni vengano svolte solo in parte.Compost VenetoPer questo l’apporto delle sostanze organiche riveste un ruolo strategico per la conservazione dei suoli anche in Veneto. In particolare, gli ammendanti organici di qualità, come il compost prodotto negli impianti presenti nella regione, insieme ai letami e liquami dei nostri allevamenti, possono dare un supporto importante per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità ambientale.
In Veneto ogni anno si producono circa 250.000 tonnellate di compost di qualità da impianti controllati e verificati dall’Osservatorio regionale per il compostaggio che la Regione ha istituito ancora nel 1991; ogni anno i tecnici dell’Osservatorio raccolgono campioni di ciò che entra negli impianti e dei compost prodotti che vengono analizzati nei laboratori Arpav allo scopo di verificare la rispondenza ai requisiti individuati dalla normativa regionale e nazionale.
Un sistema di recupero dell’organico reso possibile dal modello di raccolta differenziata che pone il Veneto all’avanguardia in Europa e nel mondo nella gestione dei rifiuti urbani (ogni anno sono raccolti 141 kg per abitante di rifiuto organico), ma che ha bisogno della collaborazione delle aziende agricole per il miglior utilizzo del compost che viene prodotto. Ci sono voluti quasi trent’anni di sforzi congiunti tra Regione, comuni e imprenditori privati per mettere a punto questo sistema, e ciò che è stato creato è in grado di dare massima garanzia sulla qualità del compost che presenta caratteristiche anche migliori del letame, da sempre riconosciuto come il principe dei fertilizzanti.
Gli approfondimenti tecnici svolti in collaborazione con enti di ricerca nel settore agricolo e sanitario sull’utilizzo di questa sostanza organica evidenziano come il Compost Veneto, marchio di qualità istituito dalla Regione del Veneto, rappresenta una sicurezza per la concimazione efficace e sostenibile dei suoli agricoli.


fonte: http://www.arpa.veneto.it

Strade dei veleni: tonnellate di rifiuti tossici interrati nell'asfalto nel Nordest

Nelle strade di 19 comuni del Polesine, in Veneto, sarebbero state interrate quasi 9mila tonnellate di veleni e rifiuti tossici, nella campagna tra le cittadine di Trecenta e Giacciano con Baruchella.
















È quano  emerge dall'indagine partita con un maxi sequestro nel Milanese, a seguito di un incendio avvenuto il 14 ottobre scorso a Milano, che richiese l’intervento di 172 equipaggi dei Vigili del fuoco.
L'inchiesta ha coinvolto due aziende della Bassa Veronese accusate di ricevere, trasportare e gestire abusivamente ingenti quantità di rifiuti, tra cui scorie e ceneri pesanti. Queste sostanze sono state usate per realizzare strade interpoderali in Veneto, Emilia Romagna e Lombardia.
Sono 15 le persone finora arrestate, 8 in carcere, 4 agli arresti domiciliari e 3 con l’obbligo di dimora. Tra loro ci sono imprenditori, amministratori e gestori di società del settore dello stoccaggio e smaltimento dei rifiuti, intermediari e responsabili dei trasporti.
Riporta il Corriere che secondo quanto si legge nell’ordinanza del gip Giusy Barbara, uno degli autisti incaricati "del trasporto illecito dei rifiuti" avrebbe detto a un interlocutore, qualche giorno prima del rogo, che "andava tutto bene e che avrebbero fatto il botto". Il teste ha raccontato di aver conosciuto l’autista nella primavera del 2018, periodo in cui lo aveva informato "di essere alla ricerca di magazzini da adibire a deposito di rifiuti (..)".

Quelle strade avvelenate

I rifiuti tossici contenenti nichel, cromo, piombo e cloruro, sarebbero stati interrati nelle strade di ben 19 Comuni polesani. A finire sotto accusa è stato il materiale noto come “concrete green”.
Secondo i documenti della Dda, vi è stato “il conferimento” di questo materiale a Corbottolo di Trecenta, località sulla sponda sinistra del Canalbianco: qui tra il 27 febbraio e il 17 marzo 2014 ne arrivarono ben 7.732 tonnellate. Stessa cosa è accaduta a Barchetta nel febbraio del 2014, dove ne sarebbero state consegnate altre 900 tonnellate. A rischio poi le strade di comuni come Arquà, Badia, Bergantino, Canaro, Canda, Castelmassa, Castelnovo Bariano, Costa di Rovigo, Fratta, Gaiba, Melara, Occhiobello, Pincara, Salara, San Martino, Stienta e Villadose, oltre che di Trecenta e Giacciano.
“Nell'escalation di notizie inerenti gli illeciti in materia di rifiuti ci conforta e dà sicurezza il lavoro eccezionale e sempre puntuale degli inquirenti, ai quali confermiamo sempre la nostra massima collaborazione nella lotta agli illeciti” ha detto l’assessore regionale alla Difesa del Suolo e Protezione Civile Gianpaolo Bottacin.
Una vera e propria banda per fortuna sgominata ma adesso si teme per le conseguenze legate alla salute dei cittadini che vivono nelle cittadine del Polesine.
fonte: www.greenme.it

È allarme sulla gestione dei rifiuti speciali in Veneto

Filiere strategiche in affanno per impianti insufficienti, complicazioni burocratiche, costi raddoppiati. Il sistema di gestione dei rifiuti industriali in Veneto è prossimo al collasso.




















A lanciare l’allarme è Assindustria Venetocentro, che descrive una situazione ormai diffusa a livello nazionale, ma che anche nel Veneto sta assumendo le dimensioni di una vera e propria emergenza, che incide sulla competitività dell'intero comparto manifatturiero della regione e assume proporzioni ogni giorno più gravi. Il problema riguarda i rifiuti prodotti dalle imprese, 14,6 milioni di tonnellate l'anno (18,8% della produzione totale delle regioni settentrionali). Filiere strategiche come meccanica, tessile-calzature, gomma-plastica, legno e cartario sono in affanno per la carenza di impianti in cui smaltire gli scarti di lavorazione, cioè i rifiuti speciali (classificati come “non pericolosi”). E per le regole che paralizzano sia gli impianti sia il mercato, i rifiuti e i materiali da rigenerare non trovano destinazione e si accumulano nei capannoni.
Negli ultimi mesi sono state centinaia le segnalazioni delle aziende associate, inizialmente relative a incrementi dei costi, che per alcune tipologie di rifiuti sono raddoppiati. E poi con ancora maggiore preoccupazione per i ritardi, e in alcuni casi addirittura i blocchi, nel normale servizio di ritiro dei rifiuti, da parte dei soggetti terzi autorizzati. Difficoltà segnalate dal 62,9% degli imprenditori delle due province, secondo un'indagine a campione svolta dall’Associazione degli imprenditori di Padova e Treviso.
"La situazione ha varie concause - dichiara Massimo Finco, Presidente di Assindustria Venetocentro -. La prima è che, a causa del prevalere della politica del “no”, gli impianti presenti nel Veneto e destinati alla gestione, smaltimento e recupero dei rifiuti prodotti dalle aziende sono insufficienti. Fino a poco tempo fa, a questa carenza si è posto rimedio ricorrendo in larga parte al conferimento dei rifiuti in altre regioni o all’estero. Adesso, purtroppo anche gli impianti nazionali sono insufficienti e le soluzioni estere sono diventate sempre più difficili, anche a seguito di scelte operate da paesi come Germania, Austria, Francia, Olanda che hanno limitato i conferimenti. A questo si aggiungono una burocrazia e normative sempre più complesse che rendono più difficile la gestione dei rifiuti. Il risultato è che le imprese devono trattenere i rifiuti in azienda e gli impianti sono ricolmi, con il rischio di finire nell’illegalità se si superano le soglie previste per il “deposito temporaneo”. Oltre il 60% delle imprese conferma le difficoltà e, viste le segnalazioni quotidiane, ritengo che il dato sia in progressivo aumento".
Se fino ad oggi l’attenzione si è prevalentemente concentrata sui rifiuti urbani, la cui produzione in Veneto è di 2.219 milioni di tonnellate (fonte: Arpav 2017), è evidente che il problema dei rifiuti prodotti dalle imprese va affrontato con altrettanta urgenza. "Queste criticità non sono più sostenibili dalle imprese e in assenza di misure urgenti ed efficaci - avvisa Finco - il rischio di blocco è concreto". Da qui l’appello di Assindustria Venetocentro alla Regione, fermi restando gli interventi attesi di stretta competenza del ministero dell'Ambiente.
"Una strategia chiara in materia di rifiuti non può prescindere da una previsione adeguata degli impianti - aggiunge Antonella Candiotto, Vicepresidente di Assindustria Venetocentro con delega all’Ambiente -. In un Paese dove prevale il “no” a prescindere, un confronto responsabile su questo tema è doveroso se vogliamo realmente farci carico del problema e non restare in balia delle decisioni altrui". "In attesa di un piano strategico sulla dotazione di impianti e di un ripensamento del Piano regionale sui rifiuti che, se ha portato a questa situazione, è evidentemente da rivedere - riassume Candiotto - ci sono alcune scelte che si possono attuare nell’immediato per dare risposte alle aziende e al territorio. Vanno agevolate e velocizzate le pratiche autorizzative per poter conferire i rifiuti nei Paesi esteri che ancora li accettano, vanno rimossi ostacoli burocratici e restrizioni aggiuntive, come la norma sulla miscelazione, imposti solo dalla Regione Veneto alla gestione dei rifiuti negli impianti. Bisogna autorizzare con urgenza il prolungamento degli stoccaggi “temporanei” ad almeno 12 mesi in attesa dell’avvio a recupero o smaltimento e consentire alle attività produttive di utilizzare nelle lavorazioni i sottoprodotti provenienti da altre imprese. Su questo abbiamo aperto un confronto costruttivo e propositivo con la Regione Veneto e siamo in attesa di risposte".

La risposta della Regione Veneto non si fa attendere e le rassicurazioni arrivano dall'assessore regionale all'ambiente Gianpaolo Bottacin: "La Regione raccoglie la richiesta di aiuto lanciata da Assindustria Venetocentro sulla gestione dei rifiuti speciali e sta già cercando di fare tutto il possibile per trovare una soluzione al problema di cui siamo consapevoli, ma che è di carattere nazionale". "Per quanto riguarda i rifiuti solidi urbani – fa presente Bottacin – la normativa prevede che ci sia l’autosufficienza dello smaltimento a livello regionale. Lo stesso non vale invece per i rifiuti speciali per i quali è prevista la libera circolazione in Italia e all’estero. Può quindi accadere, e accade, che rifiuti provenienti da altre regioni vengano smaltiti in Veneto riducendone la capacità di smaltimento complessiva e finendo per penalizzare le realtà locali". "E’ uno dei temi – aggiunge l’assessore all’ambiente – presenti nella trattativa con il governo per forme di maggiore autonomia alle Regioni che, come il Veneto, l’hanno richiesta. Se ci fosse riconosciuta, potremmo dire di no al conferimento di rifiuti speciali provenienti da fuori regione. Ci avevamo provato con una legge regionale di qualche anno fa, introducendo un limite massimo del 15%, ma la norma ci fu impugnata dal governo e la Corte Costituzionale gli diede ragione. Ora ci stiamo battendo per avere autonomia anche nelle materie ambientali”. “La situazione si è acuita – conclude Bottacin – anche perché, mentre fino a poco tempo fa altri Paesi esteri accoglievano i rifiuti speciali a prezzi convenienti, adesso non è più così. E’ un problema che ha una valenza nazionale e per questo abbiamo richiesto l’interessamento del Ministero dell’Ambiente”.

fonte: https://www.recyclind.it

Il video-appello delle mamme NoPfas ai ministri europei: «Fermate questi veleni»

Sono arrivate alla Camera dei Deputati, hanno incontrato il ministro dell'Ambiente Sergio Costa poi hanno presentato alla stampa il loro video-appello in cui trenta famiglie chiedono ai ministri europei di fermare l'avvelenamento delle acque dovuto ai Pfas, gli acidi perfluoroalchilici, dramma che nel solo Veneto colpisce 350mila famiglie ogni giorno.



















I Pfas, gli acidi perfluorolchilici, sono sostanze chimiche note da anni, ma sulle quali non venivano eseguiti controlli e che secondo diversi studi causano danni irreversibili all'organismo. Il Veneto è stato particolarmente colpito a causa soprattutto della presenza di un'azienda chimica che si è rivelata altamente inquinante, la Miteni. Proprio ieri, 15 gennaio, si sono chiuse le indagini preliminari condotte dalla magistratura vicentina che ha portato a tredici indagati tra manager e tecnici dell'azienda.
Nelle province di Vicenza, Verona e Padova le persone interessate sono circa 350mila, pari alla popolazione che ha usato l’acqua inquinata, proveniente da acquedotti e pozzi artesiani. I magistrati vicentini contestano i reati di avvelenamento delle acque e “disastro innominato”, per fatti accaduti fino al 2013. Ma è già aperto un filone per i fatti accaduti in epoca successiva. 
Intanto, qualche giorno fa il comitato Mamme No Pfas, che nei mesi scorsi si era spinto fino a Bruxelles per far sentire la propria voce ai vertici dell'Unione Europea, ha presentato il video-appello dal titolo Recast Directive Quality of WATER, contenente gli interventi di 30 mamme che parlano a ciascun Ministro dell’Ambiente europeo portando le loro testimonianze di cosa significhi vivere con la consapevolezza di avere sostanze tossiche nel sangue, assunte attraverso l’alimento primo e fondamentale: l’acqua. Il video è anche stato inviato ai deputati del consiglio dell'Unione Europea


«Le Mamme no Pfas, quali rappresentanti di una vasta popolazione veneta che vive in prima persona quotidianamente gli effetti della contaminazione, chiedono ai deputati italiani e al Ministro Costa un coraggioso e doveroso intervento normativo nazionale che regolamenti le sostanze perfluoroalchiliche non aspettando che tali norme, ci vengano imposte dall’Europa - hanno detto durante la conferenza stampa alla Camera dei Deputati - Riteniamo che l’attuale versione della Direttiva sulle Acque per il consumo umano redatta a livello comunitario non garantisca e protegga la salute e l’ambiente: i limiti posti per i composti perfluoroalchilici a catena lunga sono molto più elevati di quelli della Regione Veneto e per i Pfas a catena corta non viene posta soglia alcuna. Questa nuova generazione di Pfas è documentato essere anch’essa pericolosa e bioaccumulabile».
«La mancanza di limiti nazionali crea un buco normativo che mette in grossa difficoltà la Procura della Repubblica - hanno aggiunto le Mamme No Pfas - L’adulterazione dell’acqua è già un reato in Italia, quello che manca è la correlazione tra inquinamento e patologia. In futuro altre zone d’Italia in prossimità di cartiere, industrie di zincatura e coloritura di tessuti potrebbero avere l’acqua inquinata da Pfas ed essere impotenti come lo siamo noi ora: senza riferimenti di norma chiari mancano gli strumenti per colpire i responsabili di simili contaminazioni. I limiti a zero pfas saranno l'unica scelta possibile per garantire l'innocuitá di queste sostanze».
«La nostra è un'emergenza sanitaria senza precedenti in Italia, e lo Stato ha il dovere di proteggere la popolazione per prevenire queste situazioni - hanno proseguito - Da due anni chiediamo che siano posti dei limiti nazionali e il Ministro Costa, nell'incontro con i gruppi No Pfas del Veneto dell' 11 settembre 2018, li aveva promessi davanti a vari gruppi e associazioni. La regione Veneto li ha stabiliti nel 2017. L’Italia, che nella Regione Veneto ha potuto toccare con mano la preoccupante pericolosità di queste sostanze, dovrebbe aver già provveduto a fissare i suoi limiti nazionali, diventando esempio credibile per le altre nazioni europee. Ovviamente i limiti che chiediamo sono pari a ZERO perché un limite diverso implica che continueremo giorno dopo giorno ad accumulare queste sostanze di sintesi nel sangue e nei tessuti che il nostro corpo scambia per ormoni e possono causare tante patologie correlate».

fonte: www.ilcambiamento.it

L’Efsa riesamina i Pfas e riduce notevolmente le dosi massime tollerabili. Hanno contaminato le acque e la catena alimentare in Veneto















L’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) ha pubblicato il primo dei due pareri richiesti dalla Commissione europea sui Pfas (sostanze perfluoroalchiliche). Questi composti hanno inquinato le falde acquifere di una sessantina di comuni del Veneto e sono entrate nella catena alimentare, probabilmente a causa degli scarichi della fabbrica Miteni, che poche settimane fa ha dichiarato fallimento e cesserà l’attività entro la fine dell’anno.
Questo primo parere dell’Efsa riguarda i rischi per la salute umana legati alla presenza del Pfos (perfluorottano sulfonato) e del Pfoa (acido perfluoroottanoico) negli alimenti, mentre il successivo parere riguarderà gli altri composti che fanno parte del gruppo dei Pfas. Pfos e Pfoa, ricorda l’Efsa, sono due sostanze chimiche artificiali ampiamente utilizzate in ambito industriale e nei beni di consumo a partire dalla metà del XX secolo, che persistono nell’ambiente a causa del loro lento degrado. Possono inoltre accumularsi nell’organismo umano, quindi possono passare molti anni prima di poterle eliminare.
Per il Pfos, gli elementi critici sono stati individuati nell’aumento del colesterolo totale nel siero per gli adulti e nella diminuzione della risposta degli anticorpi alla vaccinazione nei bambini. Per il Pfoa, è stato identificato un aumento del colesterolo totale nel siero e un incremento delle percentuali di soggetti con alti livelli dell’enzima epatico alanina aminotransferasi (ALT) nel siero, con rischio di danni al fegato. Per entrambe le sostanze è stata osservata anche una riduzione del peso alla nascita
Di fronte a questi effetti nocivi, l’Efsa ha abbassato notevolmente, rispetto al suo precedente parere del 2008, le dosi tollerabili, cioè la stima della quantità di sostanza che può essere ingerita nell’arco di una vita senza rischi apprezzabili per la salute.

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L’Efsa ha abbassato la dose tollerabile di alcuni Pfas, sostanze perfluoralchiliche che hanno contaminato le acque in alcune zone della Regione Veneto

Per quanto riguarda il Pfoa, nel 2008 l’Efsa aveva fissato una dose giornaliera tollerabile di 1.500 nanogrammi per chilogrammo di peso corporeo al giorno. Adesso, invece, indica una dose settimanale tollerabile pari 6 nanogrammi per kg di peso, corrispondenti a 0,86 nanogrammi al giorno. Per il Pfos, nel 2008 l’Efsa aveva fissato una dose giornaliera tollerabile di 150 nanogrammi al giorno per kg di peso corporeo. Adesso, invece, indica una dose settimanale tollerabile pari 13 nanogrammi per kg di peso, corrispondenti a 1,86 nanogrammi al giorno.
Per entrambi i compostiosserva l’Efsa, l’esposizione di una parte considerevole della popolazione europea supera le nuove dosi settimanali tollerabili indicate. L’Efsa afferma che si tratta di conclusioni provvisorie, che verranno riviste durante il completamento della seconda parte della valutazione dei rischi dei Pfas.
fonte: www.ilfattoalimentare.it