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Percorso Cobat, un mega cervello contro l’illegalità nell’autodemolizione

Cobat Società Benefit ha sviluppato un software con cui tracciare tracciare ogni singolo componente delle autovetture giunte fine vita. Oggi lo offre liberamente a autodemolitori e case automobilistiche



Per l’autodemolizione inizia una vera e propria rivoluzione, fatta di trasparenza e intelligenza. È Percorso Cobat il nuovo progetto avviato dalla Cobat Società Benefit, piattaforma italiana di servizi per l’economia circolare. La società oggi garantisce un servizio efficiente di raccolta, stoccaggio e avvio al riciclo di un’ampia gamma di rifiuti: dalle batterie ai RAEE passando per gli pneumatici fuori uso. E aiuta le aziende italiane a gestire i rifiuti derivanti dalle proprie attività con una serie i prodotti e servizi ad ed esse dedicate. In questo contesto nasce Percorso Cobat, software certificato per il tracciamento di ogni singolo componente delle autovetture a fine vita. Un programma open, messo a disposizione gratuitamente di case automobilistiche e demolitori per aiutare a promuovere trasparenza e sicurezza.

La soluzione è stata presentata oggi a Roma alla presenza di rappresentati politici, ambientalisti e mondo delle associazioni. E assieme a Certiquality, organismo di certificazione specializzato nella certificazione dei sistemi di gestione aziendale, con cui Cobat collabora ormai da tempo.
Percorso Cobat, un mega cervello al servizio della legalità

La soluzione mira a rivoluzionare il concetto di autodemolizione. Come? Creando un sistema trasparente, affidabile e di qualità. Da un lato, infatti, il software permette agli autodemolitori di inserire i dati e i componenti di ogni veicolo in ingresso; dall’altro dà la possibilità all’industria automobilistica di avere accesso alle informazioni relative ai veicoli a fine vita. La piattaforma – certificata da Certiquality – consente di consultare report, statistiche e schede automezzi, e nel contempo di avere accesso immediato al magazzino, sia del singolo automezzo che all’intera lista ricambi.

L’idea è nata 3 anni fa, in concomitanza con i primi passi della Direttiva Europea 2018/849 sulla gestione dei veicoli fuori uso, pile e RAEE. Il provvedimento in questione, recepito nella legislazione italiana a settembre 2020, chiedeva tra le altre cose di riformare il sistema di gestione dei veicoli da demolire. Nello specifico di individuare forme di promozione e di semplificazione per il riutilizzo di alcuni parti come mezzi di ricambio; e di rafforzare l’efficacia e l’efficienza dei sistemi di tracciabilità e di contabilità dei mezzi e dei loro rifiuti, adeguando anche lo schema di responsabilità estesa del produttore. Per rispondere a queste esigenze Cobat ha deciso di dar vita a Percorso Cobat, trovando un sistema universale in grado di dialogare con la maggior parte dei software già utilizzati dagli autodemolitori.

“Un sistema aperto a tutti, offerto liberamente ad autodemolitori e case automobilistiche – spiega Giancarlo Morandi, presidente di Cobat – Attraverso un uso efficiente dei dati, è infatti possibile ridurre l’impatto sull’ambiente, generare un risparmio di energia e assicurare agli automobilisti un alto livello del servizio. È la creazione del valore condiviso, alla base della mission di Cobat in quanto Società Benefit. Un vantaggio per le aziende, un vantaggio per la società, un vantaggio per l’ambiente”.
Triplo audit per gli autodemolitori

Gli impianti di autodemolizione, per aderire alla piattaforma, vengono certificati da un triplo audit: in back office, sui dati dichiarati da tutti gli iscritti alla piattaforma; periodicamente, tramite un monitoraggio di tutta la documentazione e sul campo, con un’ulteriore verifica dei requisiti.

“Siamo molto lieti della lunga collaborazione tra Certiquality e Cobat – ha detto Cosimo Franco, direttore generale di Certiquality – e dell’importanza che Cobat ha sempre riconosciuto al sistema delle certificazioni quale strumento per valorizzare il proprio impegno per la qualità e la sostenibilità. Insieme alle certificazioni ambientali secondo lo standard internazionale ISO 14001 ed il Regolamento europeo EMAS, Certiquality ha certificato il sistema di gestione della sicurezza dei dati e delle informazioni di Cobat secondo lo standard ISO 27001. Business continuity, sicurezza informatica e sostenibilità, insieme a Industria 4.0, sono temi di assoluta attualità, anche alla luce del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che indirizza gli investimenti in queste direzioni. Il ruolo di CQY come organismo di certificazione indipendentemente – ha aggiunto Cosimo Franco – sarà una ulteriore garanzia per tutti gli stakeholder di trasparenza e qualità del dato della piattaforma”.

fonte: www.rinnovabili.it



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Smaltimento pannelli solari: i rischi delle nuove regole












È online la nuova versione delle “Istruzioni Operative per la gestione e lo smaltimento dei pannelli fotovoltaici incentivati“, aggiornate dal Gestore dei servizi elettrici (Gse) il 26 maggio scorso, ai sensi dell’art. 40 del D.lgs. 49/2014 e dell’art. 1 del D.lgs. 118/2020.

Chi impianta dovrà versare 10 o 12 euro, a seconda del pannello, a garanzia del corretto smaltimento, allo stesso Gse o ai Sistemi collettivi riconosciuti. Per gli impianti antecedenti al 2014, tuttavia, è previsto l’esonero dal versamento purché venga “dimostrato” – con una sorta di autocertificazione – il corretto smaltimento dei moduli.

In buona sostanza, si affida lo smaltimento della maggior parte dei pannelli solari esistenti in Italia alla buona fede degli attori coinvolti, per lo più i grandi gruppi del solare. Una clausola che potrebbe aprire la strada al mercato nero dello smaltimento illegale che da anni è una delle principali preoccupazioni di magistratura e carabinieri del nucleo per la Tutela ambientale.

Gli impianti in Italia

In Italia sono attivi circa 900mila impianti per un totale di circa 100 milioni di pannelli. Il ciclo di vita dei moduli è vent’anni e l’età media di quelli operativi oggi è di 12-13. Questo significa che il Paese si prepara al revamping di 73 milioni di pannelli fotovoltaici, sostenuto anche dagli incentivi della transizione ecologica e dagli investimenti del Pnrr.

Il processo che sarà veloce perché la sostituzione conviene su due fronti: i pannelli che invecchiano producono il -2% di energia l’anno, mentre quelli di nuova generazione sono più piccoli ed efficienti (circa il 30% di energia in più).

Cosa dicono le nuove istruzioni

Il Decreto legislativo 3 settembre 2020, n. 118, introduce modifiche al Decreto legislativo 14 marzo 2014, n. 49. In particolare, all’art. 1 prevede una “Razionalizzazione delle disposizioni per i RAEE da fotovoltaico” la quale stabilisce che “Per la gestione dei RAEE derivanti da AEE di fotovoltaico incentivate ed installate precedentemente alla entrata in vigore del presente decreto relativi al Conto Energia, per i quali è previsto il trattenimento delle quote a garanzia secondo le previsioni di cui all’articolo 40, comma 3, i Soggetti Responsabili di impianti fotovoltaici possano prestare la garanzia finanziaria […] nel trust di uno dei sistemi collettivi riconosciuti. Il GSE definisce le modalità operative ed è autorizzato a richiedere agli stessi responsabili degli impianti fotovoltaici idonea documentazione […]”.

La nuova versione del documento disciplina le modalità e le tempistiche con cui i Soggetti Responsabili degli impianti fotovoltaici incentivati in Conto Energia, per cui è previsto il trattenimento delle quote a garanzia ai sensi dell’art. 40 del D.lgs. 49/2014, possono esercitare l’opzione disposta dal D.lgs. 118/2020.

I Soggetti Responsabili possono decidere se prestare la garanzia finanziaria, riferita alla gestione dei moduli fotovoltaici a fine vita, tramite il processo di trattenimento delle quote a garanzia attuato dal GSE, secondo le modalità descritte nelle Istruzioni Operative, o, in alternativa, esercitando l’opzione prevista mediante l’adesione a un Sistema Collettivo, identificato nell’elenco qualificato dal Ministero della Transizione Ecologica (MITE).

L’aggiornamento del documento prevede ulteriori novità derivanti dal confronto con gli stakeholders interessati, come l’esonero, su richiesta del Soggetto Responsabile, dal trattenimento delle quote a garanzia in casi di sostituzione totale dei moduli fotovoltaici installati e l’avvenuto ritiro in garanzia degli stessi dall’azienda produttrice dei componenti.

Le reazioni del settore

Il Gse, interpellato dal Fatto Quotidiano, replica che i documenti richiesti per dimostrare il “corretto smaltimento” sono esplicitamente richiamati nelle nuove istruzioni e comunque che “l’applicazione o meno delle quote a garanzia è definita e regolamentata dal Dlgs 49/2014, che individua il perimetro di impianti fotovoltaici incentivati per i quali applicare le quote”: “Le recenti modifiche introdotte (Dlgs 118/2020) hanno previsto per tali impianti (soggetti al versamento delle quote a garanzia) la possibilità di esonero dal trattenimento attraverso l’esercizio dell’opzione”. In buona sostanza, il Gestore dice di essersi limitato a fare quel che ha deciso l’allora ministero dell’Ambiente.

Forti dubbi e preoccupazioni arrivano dalla filiera del riciclo. Dai moduli, secondo il processo previsto dalla legge, si può recuperare pressoché il 100%: materie prime e seconde di pregio quali vetro, acciaio, silicio, polimeri, persino argento. Il valore di questi materiali – che in larga parte importiamo – secondo Irena arriverà a 15 miliardi entro il 2050: servirà dunque a creare un’industria “verde” in Italia che aiuterà anche la manifattura tradizionale.

Il timore di chi fa parte della filiera sana è che queste linee guida finiscano per essere un assist alle aziende che fanno dumping sul prezzo dello smaltimento. I 10 euro di quota per i pannelli “professionali” lasciano pochissimo margine a chi smaltisce: si guadagna, in sostanza, con la vendita delle materie recuperate, sotto quel prezzo il riciclo difficilmente diventa “ambientalmente compatibile” come prescrive la legge. Il ministero della Transizione ecologica, chiamato in causa dalle imprese del settore, fa sapere che ascolterà tutte le posizioni e se c’è una falla nelle linee guida è disposto a intervenire. Già con il decreto Semplificazioni oggi in Parlamento.

Il mercato nero dello smaltimento illegale

La lista dei sequestri milionari e delle inchieste sullo smaltimento illegale dei pannelli solari è impressionante: dalla Puglia al Veneto, dalla Sicilia all’Umbria fino alla Liguria. Le modalità sono sempre le stesse: una ditta regolare ritira i pannelli e fa finta di smaltirli secondo legge, in realtà li scarica in qualche magazzino-discarica oppure li rivende in Africa e in Asia, dove finiranno come rifiuti abbandonati senza controllo. Il guadagno è garantito a tutti: al produttore di energia che con la certificazione viene rimborsato dal Gse (anche se non sempre le imprese sono consapevoli dell’illecito che si gioca alle loro spalle), all’organizzazione criminale e all’impresa che dismette il materiale a un costo inferiore (un euro o anche meno).

Intervistato dal Corriere della Sera, il capo del nucleo Tutela ambientale dei Carabinieri, generale Maurizio Ferla, ha spiegato che “qui non stiamo parlando di mafia, bensì di un sistema economico che diventa criminale quando cerca un sistema meno costoso di smaltimento”.

“Stiamo parlando di una imprenditoria strutturata, che si avvale di capaci consulenti tecnici, giuridici, e che in linea di principio ha contatti internazionali qualificati. Perché per mandare da 300 a 750 tonnellate di pannelli fotovoltaici in un altro continente, magari per farli finire in una discarica a cielo aperto in Burkina Faso, occorre avere contatti con le organizzazioni locali, con il potere locale; bisogna corrompere funzionari, doganieri…”.

fonte: www.recoverweb.it


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Rifiuti elettrici ed elettronici, le attività illegali allontanano i target UE

Norme inefficaci e poca incisività nella lotta all’illegalità rischiano di allontanare l’Unione europea dagli obiettivi di raccolta e riciclo dei RAEE. L’analisi della Corte dei Conti.




L’Unione europea rappresenta una delle realtà più avanzate nel mondo quando si tratta di gestire i rifiuti elettrici ed elettronici. Le politiche e gli obiettivi comunitari fissati in questi anni hanno dato, infatti, una forte accelerazione alla “circolarità” degli Stati membri. Nonostante ciò, il Blocco rischia di non essere all’altezza dell’ambizione prefissata. A rivelarlo è un’analisi condotta dalla Corte dei conti europea in materia raccolta e riciclo dei RAEE.

Attualmente l’Ue ricicla circa il 40% di tutti i rifiuti elettrici e elettronici prodotti; il resto finisce nell’indifferenziata. Ovviamente le pratiche variano da paese a paese. Nel 2017, la Croazia ha riciclato l’81% di tutti i suoi RAEE, mentre a Malta appena il 21%.

Per aumentare le percentuali, a marzo 2020 la Commissione Europea ha presentato un nuovo piano d’azione per l’economia circolare che ha come priorità la riduzione dell’e-waste. La proposta delinea specificamente obiettivi immediati come, ad esempio, la creazione del “diritto alla riparazione” e il miglioramento della riutilizzabilità in generale. E sarà seguita nell’ultimo trimestre del 2021 da una “Iniziativa per una elettronica circolare”, scritta ad hoc dall’esecutivo.

Ma molti dei problemi che frenano il settore non riguardano la normativa UE, quanto la capacità nazionale di farla rispettare. “Nel tempo la raccolta e il recupero dei rifiuti elettrici ed elettronici sono migliorati nell’UE”, ha dichiarato Joëlle Elvinger, il Membro della Corte responsabile dell’analisi. “Tuttavia, la raccolta, il riciclaggio e il riutilizzo di questi rifiuti non sono realizzati con pari efficacia in tutti gli Stati membri e potrebbero aumentare ancora. Sono state constatate alcune sfide anche nel modo in cui l’UE contrasta la gestione irregolare dei rifiuti elettrici ed elettronici, le spedizioni illegali e altre attività criminose”.

L’analisi ha evidenziato una certa difficoltà da parte di alcuni Stati membri a far rispettare le norme sui rifiuti elettrici ed elettronici: ad esempio, secondo la Corte, si possono verificare casi di gestione irregolare del trattamento di tali rifiuti (come la rimozione e il disinquinamento di sostanze potenzialmente tossiche o di altri componenti), spesso riconducibili a ispezioni e controlli sporadici o scadenti. Alcuni Stati membri non dispongono delle risorse necessarie per ispezionare adeguatamente gli operatori e le spedizioni di rifiuti al di fuori dell’UE. Gli incentivi economici per la gestione illegale o non corretta dei rifiuti sono ingenti, mentre è generalmente modesto il rischio di essere scoperti. “Il contrasto all’attività criminosa costituisce quindi una sfida notevole nella gestione dei rifiuti elettrici ed elettronici”.

fonte: www.rinnovabili.it


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Terra dei fuochi: patologie gravissime collegate allo smaltimento illegale dei rifiuti

 










Nella “Terra dei fuochi”, tra Napoli e Caserta, alcune gravissime patologie come il tumore al seno, l’asma, varie forme di leucemie e le malformazioni congenite, sono legate allo smaltimento illegale dei rifiuti. Ad attestarlo è un rapporto prodotto grazie all’accordo stipulato nel giugno 2016 tra la Procura di Napoli Nord, che ha sede ad Aversa (Caserta) e l’Istituto Superiore di Sanità. Non si tratta più di un’ipotesi ma di una relazione causale, o anche di concausa, tra l’insorgenza di queste gravi malattie e lo smaltimento illegale dei rifiuti.

Il report sulla “Terra dei fuochi” è stato illustrato online dal procuratore Francesco Greco, dal presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro e dal procuratore generale di Napoli Luigi Riello. Secondo quanto riferito dall’agenzia Ansa, Silvio Brusaferro ha dichiarato che “è necessario sviluppare un sistema di sorveglianza epidemiologica integrata con dati ambientali nell’intera regione Campania e in particolare nelle province di Napoli e Caserta, così come nelle altre aree contaminate del nostro Paese, in modo da individuare appropriati interventi di sanità pubblica, a partire da azioni di bonifica ambientale“. Secondo il procuratore di Napoli Nord, Francesco Greco, proprio le bonifiche “devono partire immediatamente“, per contrastare “l’emergenza più importante per Caserta e Napoli dopo il Covid“.

La nota del tribunale conclude auspicando interventi specifici per bloccare le attività illecite di smaltimento dei rifiuti, oltre all’opportuna bonifica dell’area e dei siti contaminati e la necessità di avviare un ciclo virtuoso della gestione dei rifiuti, attraverso una piano di sorveglianza epidemiologica permanente.

fonte: www.ilfattoalimentare.it


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Il green deal bulgaro tra oligarchi, frodi e operai sfruttati

Come la transizione energetica nel Paese che produce oltre quattro volte la media europea di anidride carbonica rischia di essere un boomerang sociale









Quando a scuola ci chiedevano di dipingere, disegnavo sempre casa mia sovrastata dall’impianto termoelettrico». Georgi Stefanov, sessantaduenne dall’aria scarmigliata, gli occhi malinconici e un sorriso stanco ma mai forzato, scosta le tende al primo piano della casa di famiglia, dove vive e dove all’epoca sedeva a fare i compiti, mentre i genitori lavoravano nelle miniere poco distanti. Oltre gli alberi da frutto e le file di ortaggi di cui Stefanov si prende cura ossessivamente durante il giorno, l’orizzonte è una linea di terra dura e piatta, su cui si staglia Lei, la centrale di Bobov Dol.

«Se è vero che le sue linee geometriche rendevano il compito abbastanza facile, il motivo principale, per cui mi ostinavo a riprodurre quest’impianto, è perché era al centro della mia vita», dice Stefanov, mantenendo il tono di voce monocorde, tipico dei tanti uomini che, come lui, si sono temprati in tanti anni di socialismo e non smettono di rimpiangerlo. Stefanov è un ex minatore figlio di minatori, e uno dei 420 abitanti rimasti a Golemo Selo, un piccolo villaggio appartenente alla municipalità di Bobov Dol, il cui destino è indissolubilmente intrecciato a quello dell’impianto a carbone più grande del sud-ovest del Paese.

L’attività mineraria in Bulgaria è cominciata nel 1891 nella lingua di terra che da Pernik, città a una trentina di chilometri da Sofia, si estende fino a includere l’intera provincia di Kyustendil, che comprende Bobov Dol e altre sette municipalità. «Quando ci siamo trasferiti in questa casa nel 1970, era tutto un via vai di camion stracolmi di materiale edile», ricorda Stefanov. Uomini provenienti da ogni angolo del blocco sovietico furono richiamati qui per costruire tra il 1973 (anno dell’inaugurazione della prima caldaia) e il 1975 (inaugurazione della terza, e ultima, caldaia) il mega complesso termoelettrico (TPP) ancora attivo. L’unica differenza è che oggi la centrale conta cinque ciminiere per via dell’acquisizione di due nuove unità, dopo che l’impianto è stato dato in concessione all’oligarca Hristo Kovachki nel 2008.

Una foto d’archivio della centrale di Bobov Dol. L’impianto è stato inaugurato nel 1973 e ha attirato lavoratori da tutta l’Unione Sovietica.

Se già allora un Paese marginale sotto ogni punto di vista cominciava ad assicurarsi la sua indipendenza sotto il profilo energetico, oggi il carbone costituisce il 40% del mix energetico e fornisce il 48% dell’elettricità del Paese. In parte, ciò è ancora dovuto alla regione del sud-ovest, ben rappresentata dalle miniere, dalla centrale termoelettrica di Bobov Dol e dal Distretto di Teleriscaldamento di Pernik in mano a Kovachki, il magnate bulgaro dal passato e presente misteriosi.

Indagato a più riprese per evasione fiscale e per riciclaggio di rifiuti illegali provenienti dall’Italia, Kovachki è anche il protagonista della campagna di privatizzazione del settore energetico, avvenuta nei primi anni 2000. Soprattutto, però, l’industria carbonifera bulgara dipende dal distretto di Stara Zagora, 240 km a est di Sofia, che conta diverse miniere e un vasto impianto a conduzione statale, Maritza East, oltre a numerose centrali private (tra cui la più vecchia, gestita da Kovachki stesso).
Bobov Dol, la città degli sfruttati

Camminando per la cittadina di Bobov Dol, che oggi conta non più di 4000 abitanti, non si vede nemmeno una traccia del fermento del passato, durato con alti e bassi fino all’inizio di questo secolo. Lungo il viale principale, i pochi superstiti sono accasciati su panchine traballanti, o si trascinano fino a uno dei due scalcinati bar lungo la piazza principale. La gente non ha più molto da dirsi ed è affidato all’alcool l’ingrato compito di riempire il vuoto che li circonda.

IrpiMedia ha raccolto varie testimonianze tra i residenti di questa e di altre municipalità limitrofe e in molti sembrano discordare su come e quando possa essere iniziato il tracollo economico della regione. C’è chi, soprattutto tra gli anziani ex minatori, non riesce a guardare oltre la fine del socialismo e chi, tra i trenta-quarantenni rimasti senza lavoro e senza speranze, vede nella privatizzazione dell’impianto e nella mancanza di investimenti da parte di Kovachki, l’inizio del declino.

«La fonte della ricchezza di Kovachki rimane un mistero», afferma il report di Greenpeace, Financial Mines, citando un documento confidenziale dell’Ambasciata statunitense in Bulgaria, fatto trapelare a giugno 2009. Grazie a canali preferenziali e a rapporti privilegiati con personaggi chiave del sistema politico e finanziario bulgaro (in primis Ivaylo Mutafchiev della First Investment Bank – FIB), «Hristo Kovachki è emerso come l’attore principale della campagna di privatizzazione del settore energetico», iniziata nel 2000 e terminata nel 2008.

Proprio alla fine del 2008, però, dopo che la procura statale ha aperto un’inchiesta fiscale nei suoi confronti, Kovachki è stato condannato per evasione e i suoi beni temporaneamente congelati, per essere di lì a poco spostati offshore. Quando una nuova legislazione ha limitato il ruolo di tutti gli enti che, pur operando all’interno del settore energetico bulgaro, risiedevano in paradisi fiscali all’estero, le compagnie di Kovachki sono state trasferite verso imprese di facciata con sede in Inghilterra e a Cipro. Da quel momento, il magnate ha dichiarato di volersi allontanare dal business energetico. Peccato che, in alternativa, si sia dato alla politica e che «a oggi mantenga alcune posizioni chiave, proprio lì dove stanno le miniere e le centrali termoelettriche di sua proprietà», secondo Greenpeace.

Se, continua il report, «in un certo senso, i reclami di Kovachi hanno un fondo di verità – e lui non è il proprietario formale di questo impero energetico (sulla carta le compagnie appartengono, infatti, al Consortium Energy JSC), ne è piuttosto il rappresentante e “parafulmine”». Di fatto, comunque, ad oggi il magnate controlla dodici impianti energetici, di cui più di metà a carbone.

Le ambiguità inerenti alle sue attività non si fermano qui. Anzi, proprio quest’anno il portale investigativo bulgaro Bivol ha rivelato la fitta trama di riciclaggio di rifiuti illegali tra Italia – dove a essere coinvolte sono ‘ndrangheta e Camorra – Romania e Bulgaria, rappresentata proprio da Kovachki e dal suo esteso complesso minerario. La foga dell’oligarca nel lanciarsi in nuovi progetti energetici sembrerebbe legarsi ad alcune delle considerazioni dell’inchiesta lanciata da Greenpeace due anni fa. Secondo la stessa, «l’impero del magnate sta subendo una forte flessione, con accatastamenti di passività che ammontano a 575 milioni di euro e strutture produttive deprezzate e obsolete. La liquidazione di alcuni dei suoi asset è sul tavolo, come già si sta verificando con alcune miniere di carbone, tra cui quelle sotterranee di Bobov Dol».

Come se non bastasse, Greenpeace aveva già previsto allora «come i licenziamenti di massa dei dipendenti avrebbero causato sia la disoccupazione di intere municipalità che la dubbia riabilitazione di vecchie miniere. E come l’azienda non si sarebbe fatta scrupoli a calpestare gli interessi pubblici, nel momento in cui non fosse più riuscita a rimettersi in piedi».

Quando l’impero di Kovachki sembrava ormai spacciato, è arrivata, però, la Commissione Europea a ribaltare ancora una volta la situazione, prima con il Green Deal e poi con svariati miliardi a sostegno di progetti volti a supportare la transizione energetica. È in questo contesto che si inserisce la piattaforma Brown to Green, voluta e sponsorizzata dal braccio destro, nonché volto pubblico e più presentabile, del magnate, Kristina Lazarova.

Una cosa è certa. Il punto di non ritorno è stata la chiusura definitiva delle miniere sotterranee di carbone a dicembre 2018. «Il 98% della nostra economia dipendeva dall’estrazione di carbone, ma invece di trovare delle alternative in tempo, si è pensato bene di chiudere le miniere sotterranee da un giorno all’altro e di abbandonare duemila persone al proprio destino» afferma la sindaca Elza Velichkova, intervallando meccanicamente a ogni tiro di sigaretta un sorso di caffè. «Bobov Dol è l’esempio europeo di quello che non dev’essere fatto».

Se ai massicci tagli del personale si somma l’esodo di tutti quei giovani che sono fuggiti altrove per l’assenza di opportunità, non si fatica a capire il perché dello scenario desolante.
The (un)just transition

«Cosa distingue la nostra dalle altre regioni carbonifere d’Europa?», sbuffa la sindaca Velichkova. «Semplice. Qui la transizione dal carbone non ha avuto nulla di giusto».

A cosa si riferisce Velichkova? Per capirlo, facciamo un passo indietro.



La Bulgaria è uno dei Paesi europei a più alta intensità energetica, ovvero – secondo l’indicatore che rapporta il consumo energetico al Pil – consumerebbe 3,6 volte in più rispetto alla media europea, per convertire l’energia in prodotto interno lordo, e quindi per far funzionare i vari settori e servizi. Inoltre, emette 4,4 volte di emissioni di CO2 in più, principalmente a causa del carbone. Uno spreco energetico, questo, che si traduce in costi spropositati per lo Stato.

La situazione si è fatta particolarmente critica, da quando, con il Protocollo di Parigi, l’anidride carbonica – di cui il carbone è il principale responsabile – è stata identificata come la prima causa del riscaldamento globale e il costo delle emissioni di CO2, a carico dei Paesi e degli impianti che eccedono i limiti, è passato dai 5 euro del 2017 ai 25 euro del 2019 (e ai quasi 30 euro di dicembre 2020).

«All’incirca tre anni fa, quando nessuno in Bulgaria ne parlava, ho sfidato i miei capi, dicendo che era arrivato il momento di affrontare l’elefante nella stanza», racconta Georgi Stefanov, portavoce di WWF Bulgaria, da non confondere con l’omonimo abitante di Golemo Selo. «Non c’era più tempo da perdere; dovevamo focalizzarci sul vero problema, cioè il settore carbonifero, causa dei due terzi delle emissioni di CO2 riportate annualmente nel nostro Paese».

Prendendo esempio da altri Stati, il WWF ha introdotto, primo in Bulgaria, il concetto di transizione verso forme di energia più pulita e, poi, col passare del tempo, di transizione giusta, termine cui fa riferimento anche la sindaca di Bobov Dol, che si riferisce a un cambiamento energetico positivo non solo per l’ambiente, ma anche per l’assetto sociale ed economico delle comunità interessate.

È il 2019 quando il WWF riesce ad attirare l’attenzione di alcuni interlocutori strategici; in primis, di Hristo Kovachki. Le decisioni prese dal magnate fino ad allora, a partire dalla chiusura delle miniere sotterranee a fine 2018, non possono essere ricondotte a politiche verdi ma, piuttosto, a considerazioni di natura economica, essendo diventato il carbone sempre meno redditizio.

«Dopo che Kovachki ha tagliato i suoi dipendenti per ragioni economiche – non sapremo mai di quante persone si tratti, perché lui a Bobov Dol è il dio indiscusso e nessuno osa parlargli alle spalle – siamo riusciti a convincerlo della bontà della transizione», spiega Stefanov del WWF. «Abbiamo iniziato col dirgli che se lui, proprietario di 11 impianti sparsi per il Paese, voleva mantenere un ruolo di primo piano nella produzione energetica, doveva pensare a delle alternative. La svolta è avvenuta, però, quando gli abbiamo riferito che, se si fosse convertito a fonti di energia pulite, la Commissione Europea avrebbe aperto il portafogli».

Per questo, anche il cambio di rotta successivo intrapreso da Kovachki, suggellato con la creazione della piattaforma Brown to Green, sembra avere poco o nulla a che fare con i principi etici. Piuttosto, sarebbe da ricondursi al Green Deal europeo, con l’istituzione del Just Transition Fund a gennaio 2020, e ai 1,1 miliardi di euro stanziati per la Bulgaria, previa consegna di un piano strategico nazionale, da investire nelle due regioni carbonifere di Pernik-Kyustendil e Stara Zagora.

Il complesso carbonifero di Maritza East, a Stara Zagora, conta all’incirca 12 mila dipendenti (e possibili elettori). Per questo, in zona, il Governo si fa carico dei debiti degli impianti in perdita, pur di non mettere la parola “fine” all’industria carbonifera. Ma nel sud-ovest la situazione è molto diversa. Qui l’impero di Kovachki, tra passività di centinaia di miliardi di euro e strutture produttive deprezzate e obsolete, non avrebbe retto la chiusura delle miniere sotterranee, se non fosse stato per quest’ultima allettante àncora di salvezza.

Ecco perché quella che la sindaca Velichkova definisce come transizione ingiusta è, in realtà, noncuranza del destino della propria gente. Anche in seguito è difficile scorgere in Kovachki e nella sua squadra la volontà di fare del bene alla comunità, quanto, invece, l’ennesima possibilità di arricchirsi. 


fonte: irpimedia.irpi.eu

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In Italia mancano gli impianti per gestire i rifiuti: i costi di smaltimento sono già saliti del 40%

Ref ricerche: «Vincoli di carattere amministrativo e di consenso tendono a ostacolare gli investimenti necessari per adeguare la capacità produttiva. In questo quadro, le istituzioni sono spesso mancate nel loro ruolo di “governo” dei fenomeni»





















In Italia vengono prodotti ogni anno circa 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani e, benché siano spesso lontane dal pubblico dibattito, 138 milioni di tonnellate di rifiuti speciali: se per la prima categoria anche l’Istituto superiore per la protezione ambientale (Ispra) ha voluto sottolineare che «vi sono regioni in cui il quadro impiantistico è molto carente o del tutto inadeguato», la seconda vive ormai in un regime d’emergenza costante. Come documenta Ref ricerche nel rapporto Gestione dei rifiuti: per le imprese costi in aumento, pubblicato oggi per offrire una stima dell’aumento dei costi di gestione dei rifiuti per l’industria, si stima che «l’incremento medio dei costi possa avere superato negli ultimi due anni il 40% e che tale incremento corrisponda, per la sola industria manifatturiera, ad un aggravio di costi di 1,3 miliardi di euro all’anno».
Come mai? Negli ultimi due anni le imprese hanno registrato crescenti difficoltà nella gestione dei rifiuti, e per Ref ricerche «la causa va ricercata nella saturazione della capacità disponibile negli impianti», che a sua volta si ripercuote sulla collettività in termini di competitività del tessuto economico, costi per le imprese e anche per le famiglie. Il “Borsino dei rifiuti” segnala ad esempio un costo di smaltimento pari in media a 160 euro a tonnellata – valore praticamente raddoppiato rispetto a pochi anni fa – con punte di 240 euro a tonnellata, con ampie differenze a seconda delle frazioni di rifiuti considerate: se per i non pericolosi si registra ad esempio un incremento del 35%, per i pericolosi si arriva al +100% negli ultimi due anni.
Le motivazioni alla radice di quest’impennata nei costi di gestione dei rifiuti sono molteplici, e talvolta controintuitive. Si guardi ad esempio all’andamento della raccolta differenziata, ormai in crescita costante anche in aree del Paese – come il Mezzogiorno – che scontano ancora ritardi storici: «L’aumento dei tassi di raccolta differenziata e dei rifiuti avviati a riciclo ha determinato un incremento dei sovvalli destinati a smaltimento e a recupero energetico», ricordano da Ref ricerche dettagliando il caso della plastica: i volumi raccolti sono aumentati del 35% dal 2013 al 2017, e i conseguenti scarti destinabili a recupero energetico sono aumentati di 180mila tonnellate. Ecco perché si parla di “ciclo integrato dei rifiuti” con la necessità dei rispettivi impianti ad ogni step della gerarchia europea, nonostante sia ancora credenza diffusa che una volta raccolti in modo differenziato in qualche modo i rifiuti “spariscano” insieme al bisogno di impianti per trattarli.
Oltre all’aumento delle raccolte differenziate, Ref ricerche individua molteplici tendenze alla radice della crisi in corso: il forte aumento della produzione di rifiuti speciali nel triennio 2014-2017, sostenuta da una ripresa del comparto manifatturiero; la chiusura del mercato cinese alle importazioni di rifiuti a partire dal gennaio del 2018, sottolineando che «gli incendi e le pratiche illegali sono una conseguenza della situazione che si è venuta a creare», come testimoniato anche dalla Direzione investigativa antimafia; la sentenza del Consiglio di Stato del 28 febbraio 2018 ha bloccato la autorizzazioni “caso per caso” rilasciate dalle Regioni per i processi di recupero End of Waste, dato che «le problematiche autorizzative permangono» anche a seguito dell’intervento normativo nel decreto Crisi aziendali; lo stop allo spandimento in agricoltura dei fanghi di depurazione, a seguito di una sentenza del Tar Lombardia del 2018 che «ha gettato tutta l’industria nello stallo, fino al ripristino dei limiti alla concentrazione di inquinanti previsto dal “decreto Genova”, che ha in parte giovato»; l’opposizione delle regioni alla libera circolazione dei rifiuti urbani tal quale destinati a recupero energetico, così come auspicata dall’art. 35 dello “Sblocca Italia” (2014) per assicurare l’autosufficienza nazionale, ha «implicitamente avallato la prassi di trattare i rifiuti urbani al solo scopo di “trasformarli” in speciali, di libera circolazione».
Tutte queste cause vedono un’unica soluzione che possa assecondare i criteri di sostenibilità e prossimità: la realizzazione di nuovi impianti per gestire i rifiuti – compresi gli scarti dell’economia circolare – sul territorio, che richiama alla necessità di una presa di coscienza da parte di istituzioni e politica. Da una parte «occorre ripensare profondamente la gestione dei rifiuti del Paese, superando il dualismo tra rifiuti urbani e speciali e costruendo gli impianti necessari alla loro gestione», come spiegano da Ref ricerche osservando che «lo stesso dibattito in seno alla DG Ambiente della Commissione Ue sta valutando l’introduzione, a partire dal 2024, di target di riciclo/recupero anche per i rifiuti speciali, come riportato dall’art. 11, comma 6 della Direttiva 851/2018». Contemporaneamente  occorre superare quei «vincoli di carattere amministrativo e di consenso» che «tendono a ostacolare gli investimenti necessari per adeguare la capacità produttiva. In questo quadro – sottolineano da Ref ricerche – le istituzioni sono spesso mancate nel loro ruolo di “governo” dei fenomeni, sviando le questioni che le vedono investite direttamente di un ruolo di pianificazione, come per il caso dei rifiuti urbani, e demandando al mercato soluzioni che il mercato stesso non era in grado di trovare».
fonte: www.greenreport.it

Difficile riciclare i materassi. E così vince l’illegalità

















Nonostante la Brexit c’è una cosa che ci lega molto con gli inglesi: anche nel Regno Unito i materassi sono gli oggetti più comunemente scaricati illegalmente in strada. Ora però un’inchiesta del quotidiano The Guardian mette in luce un altro aspetto: la difficoltà tecnica di riciclare i vecchi materassi – sia per via della presenza delle molle sia per le plastiche difficili da disassemblare – che fa a pugni con un vero e proprio boom delle vendite dei materassi che, da Londra a New York ma anche da noi, ora sono offerte con le formule “entro 100 giorni puoi restituirlo senza pagare nulla”.


Il risultato? Il mercato a livello mondiale è cresciuto fino a 13 miliardi di dollari di fatturato, esistono pochi centri specializzati nel riciclo di questi prodotti e le discariche (ma anche i cassonetti sotto casa) si riempiono di questi manufatti fino ad essere smaltiti illegalmente nello Sri Lanka, come hanno testimoniato i reporter britannici.
Milioni di “pezzi” da smaltire ogni anno


Nel 2017, scrive il Guardian, il Regno Unito ha gettato via oltre 7 milioni di materassi, la maggior parte dei quali è andata direttamente in discarica. Zero Waste Scotland, un’associazione ecologista, ha stimato che “se i 600.000 materassi che la Scozia butta via ogni anno fossero impilati uno sopra l’altro, la pila sarebbe più di 100 volte più alta di Ben Nevis”, la montagna più alta delle Isole Britanniche, che arriva a 1.345 metri. Secondo la National Bed Federation, l’associazione nazionale di categoria, solo il 19% circa dei materassi viene riciclato. La ragione? Sono difficilissimi da riciclare, in primis, a causa delle le molle che inceppano o rovinano i tritovagliatori.


Anche negli Usa il problema è molto sentito: ogni anno si buttano 18,2 milioni di materassi, ma sono disponibili solo 56 strutture dedicate per riciclarli.

Il cambiamento del comportamento dei consumatori, scrive ancora il Guardiana è alla base di questa montagna di materassi in continua crescita. Fino a qualche anno fa secondo la ricostruzione del quotidiano si cambiava materasso ogni 8-10 anni ora invece, il boom di aziende che offrono l’acquisto con “il diritto di ripensamento” entro 100 giorni (negli Usa c’è chi lo estende fino a 365 giorni) sta facendo crescere a dismisura il problema dello smaltimento. Secondo alcune fonti l’acquisto on line di materassi avrebbe un tasso di restituzione del 20%.
I prodotti “ricoperti” e venduti come nuovi

E dove esiste un problema di smaltimento, spunta naturalmente la criminalità organizzata. I giornalista del Guardian raccoantno: “Esitono siti dove i truffutari raccolgono i materassi ‘usati’, selezionano quelli in buone condizioni, sostituiscono l’involucro esterno e quindi avvolgono in nuove coperture che spesso hanno il logo di un produttore noto e li rimettono in vendita come nuovi“.


C’è un altro modo per smaltire illegalmente i materassi usati: vengono esportati nelle discariche dei paesi in via di sviluppo.. Nel luglio 2019, conclude il Guardian, sono stati trovati 100 container di rifiuti britannici nel porto di Colombo, nello Sri Lanka. Erano stati inviati illegalmente lì, con il pretesto di riciclare i metalli.

fonte: https://ilsalvagente.it

Cina: Piano per porre fine allo scarico illegale di sostanze chimiche pericolose

Il Ministero dell’ecologia e dell’ambiente cinese ha annunciato una serie di provvedimenti utili a combattere lo smaltimento illegale di sostanze chimiche e rifiuti pericolosi. Gli obbiettivi saranno raggiunti entro il 2025





La Cina intensificherà i propri sforzi per porre fine allo scarico illegale di rifiuti chimici pericolosi e tutelare gli ecosistemi a rischio. Lo ha dichiarato questo lunedì il Ministro dell’ecologia e dell’ambiente Li Ganjie, elencando una serie di provvedimenti che saranno attuati nei prossimi sei anni. Entro la fine del 2025, ha specificato il Ministero, tutte le regioni dovranno creare un “sistema completo di monitoraggio delle sostanze chimiche”, garantendo al contempo una sufficiente capacità di trattamento e smaltimento dei rifiuti pericolosi. Tale sistema diverrà anche uno dei criteri fondamentali al nuovo meccanismo di credito ambientale aziendale, che porterà alla stesura di una “Black List” pubblica ove saranno iscritte le aziende che violano le regole, alle quali sarà negata ogni sorta di finanziamento pubblico.

Non solo: come riportato da Reuters, le autorità locali dovranno anche elaborare specifici piani per la costruzione di strutture integrate per il corretto smaltimento dei rifiuti ed istituire meccanismi di finanziamento per il loro eventuale trasferimento in altri siti. A tal proposito, ha specificato il Ministero, i governi locali saranno incoraggiati a creare “basi industriali” integrate nei settori dell’industria petrolchimica e siderurgica, con specifico riferimento ai forni e agli altiforni degli impianti per lo smaltimento di rifiuti chimici.

Il settore chimico cinese, va specificato, è stato quest’anno oggetto di un attento esame dopo che un’esplosione, verificatasi in una fabbrica nella provincia di Jiangsu, ha ucciso 78 persone. L’incidente ha provocato un innalzamento dei sistemi di sicurezza a livello nazionale e la conseguente stesura di piano per trasferire l’80% dei produttori di sostanze chimiche tossiche lontano dalle aree residenziali. Per questi motivi, il delta del fiume Yangtze, compreso il centro produttivo di Shanghai e le province limitrofe di Jiangsu e Zhejiang, saranno costretti ad adottare le misure di cui sopra entro la fine del prossimo anno, mentre le regioni lungo lo Yangtze, insieme alle aree economiche di Pechino-Tianjin-Hebei e il delta del fiume Perla, vi si dovranno conformare entro il 2022.

fonte: www.rinnovabili.it

Dal sole alle rottamazioni: ecocriminali senza confini

COLLETTI BIANCHI - ORMAI LA DELINQUENZA ECONOMICA SI AFFIDA A GRANDI GRUPPI IMPRENDITORIALI E FIGURE DI ELEVATA PROFESSIONALITÀ





Il mondo del crimine ambientale si rinnova e amplia il tradizionale campo d’azione, specie nel settore dei rifiuti. Non solo la criminalità organizzata, che accaparra con corruzione e intimidazione lucrosi appalti per la raccolta di rifiuti solidi urbani, specula sullo smaltimento illecito di rifiuti, sull’abusivismo edilizio e sull’esportazione illegale di rifiuti; ma soprattutto la nuova criminalità economica che “fa capo a gruppi imprenditoriali di spessore, con interessi commerciali diversificati, i quali si avvalgono della competenza e delle prestazioni di figure di elevata professionalità, evitando contatti diretti con criminalità organizzata ed esponenti mafiosi”.

L’hanno detto, il 6 marzo, alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali a esse correlati, due persone che di queste cose se ne intendono: il generale Angelo Agovino, comandante dei Carabinieri Unità forestali, ambientali e agroalimentari, e il generale Maurizio Ferla, comandante dei Carabinieri per la tutela ambientale (Noe).

Non solo “ecomafia”, dunque, ma colletti bianchi, anche se spesso tutto finisce nel fumo degli incendi “liberatori” di rifiuti. E così diminuiscono i “roghi tossici” ma aumentano gli incendi di rifiuti regolarmente stoccati. Per dirla con il generale Agovino, “le criminali imprese di settore per il perseguimento dell’illecito profitto acquisiscono ingenti quantitativi di rifiuti anche a prezzi fuori mercato, omettono di sottoporli ai necessari trattamenti e li avviano a smaltimento e/o a riciclo, assegnando codici fasulli attraverso la tecnica del giro bolla o altre questioni che noi conosciamo. L’illecita esasperazione di simili condotte comporta alla fine l’eliminazione con il fuoco dei materiali giacenti”.

E ormai l’illegalità investe sempre più spesso anche la filiera dei rifiuti urbani il cui flusso cresce specie nel Nord. Con il coinvolgimento diretto di imprenditori titolari di impianti autorizzati, utilizzati come specchietto per le allodole, al fine di acquisire commercialmente le commesse sui rifiuti, per poi smaltirli abusivamente tal quali in capannoni dismessi, dislocati soprattutto in Piemonte, Lombardia e Veneto, “di fatto delle discariche abusive che diventano poi bombe ecologiche” dove, spesso, il ciclo si chiude con il fuoco che cancella tutto. Perciò, s’assiste ormai a una ricerca “spasmodica” di capannoni in disuso.

Questo, a volte, con l’aiuto involontario di qualche legge, come lo Sblocca Italia: se prima i rifiuti solidi urbani potevano esser trattati solo all’interno del bacino di produzione, ora il decreto “ha aperto tali confini per supportare i bacini in situazioni d’emergenza nelle aree del Centro e del Sud e ha consentito l’esportazione in altre regioni, dove vengono stoccati in hangar dispersi sul territorio in quantità e modalità che non rispettano le norme”. Invertendo così il flusso dei rifiuti che prima andava dal Nord al Sud.

E l’illegalità aumenta, giungendo a lambire il settore delle energie alternative: il fotovoltaico, soprattutto, dove spesso gli ecocriminali, quando un pannello giunge a fine vita, “fanno una dichiarazione fasulla di sottoperformanza e quindi non è più un rifiuto, ma è un pannello che si può vendere come usato in altre parti del mondo, per cui si sono aperte rotte commerciali verso Paesi del terzo mondo”.

Anche nel settore della rottamazione auto dove, alle illegalità esistenti, s’è aggiunto il “canale di demolizione illegale” per la “cannibalizzazione” di veicoli a fine vita, quando parti di veicoli illegalmente demoliti vengono dichiarate materiale usato, nascoste in container sotto pezzi di ricambio veri e mandate in Paesi terzi insieme a “rifiuti elettronici, batterie, oli usati, etc”.

Così vengono al pettine anche le carenze della nostra legge sugli ecoreati quando punisce l’inquinamento e il disastro ambientale solo se vengono provocati “abusivamente”. Delitti che, come dice il generale Ferla, “restano lettera morta o quasi, perché formulati con un preliminare ‘abusivamente’ che sta bloccando molte Procure, autorità e polizia giudiziarie…”.

Gianfranco Amendola

magistrato, esponente dei Verdi

fonte: www.ilfattoquotidiano.it

Strade dei veleni: tonnellate di rifiuti tossici interrati nell'asfalto nel Nordest

Nelle strade di 19 comuni del Polesine, in Veneto, sarebbero state interrate quasi 9mila tonnellate di veleni e rifiuti tossici, nella campagna tra le cittadine di Trecenta e Giacciano con Baruchella.
















È quano  emerge dall'indagine partita con un maxi sequestro nel Milanese, a seguito di un incendio avvenuto il 14 ottobre scorso a Milano, che richiese l’intervento di 172 equipaggi dei Vigili del fuoco.
L'inchiesta ha coinvolto due aziende della Bassa Veronese accusate di ricevere, trasportare e gestire abusivamente ingenti quantità di rifiuti, tra cui scorie e ceneri pesanti. Queste sostanze sono state usate per realizzare strade interpoderali in Veneto, Emilia Romagna e Lombardia.
Sono 15 le persone finora arrestate, 8 in carcere, 4 agli arresti domiciliari e 3 con l’obbligo di dimora. Tra loro ci sono imprenditori, amministratori e gestori di società del settore dello stoccaggio e smaltimento dei rifiuti, intermediari e responsabili dei trasporti.
Riporta il Corriere che secondo quanto si legge nell’ordinanza del gip Giusy Barbara, uno degli autisti incaricati "del trasporto illecito dei rifiuti" avrebbe detto a un interlocutore, qualche giorno prima del rogo, che "andava tutto bene e che avrebbero fatto il botto". Il teste ha raccontato di aver conosciuto l’autista nella primavera del 2018, periodo in cui lo aveva informato "di essere alla ricerca di magazzini da adibire a deposito di rifiuti (..)".

Quelle strade avvelenate

I rifiuti tossici contenenti nichel, cromo, piombo e cloruro, sarebbero stati interrati nelle strade di ben 19 Comuni polesani. A finire sotto accusa è stato il materiale noto come “concrete green”.
Secondo i documenti della Dda, vi è stato “il conferimento” di questo materiale a Corbottolo di Trecenta, località sulla sponda sinistra del Canalbianco: qui tra il 27 febbraio e il 17 marzo 2014 ne arrivarono ben 7.732 tonnellate. Stessa cosa è accaduta a Barchetta nel febbraio del 2014, dove ne sarebbero state consegnate altre 900 tonnellate. A rischio poi le strade di comuni come Arquà, Badia, Bergantino, Canaro, Canda, Castelmassa, Castelnovo Bariano, Costa di Rovigo, Fratta, Gaiba, Melara, Occhiobello, Pincara, Salara, San Martino, Stienta e Villadose, oltre che di Trecenta e Giacciano.
“Nell'escalation di notizie inerenti gli illeciti in materia di rifiuti ci conforta e dà sicurezza il lavoro eccezionale e sempre puntuale degli inquirenti, ai quali confermiamo sempre la nostra massima collaborazione nella lotta agli illeciti” ha detto l’assessore regionale alla Difesa del Suolo e Protezione Civile Gianpaolo Bottacin.
Una vera e propria banda per fortuna sgominata ma adesso si teme per le conseguenze legate alla salute dei cittadini che vivono nelle cittadine del Polesine.
fonte: www.greenme.it

I trafficanti di rifiuti intercettano il 13% del mercato (quasi senza rischi)

Nel settore rifiuti opera una selva di microsocietà. Sfruttando le falle nei sistemi di tracciabilità e di controllo drena miliardi al mercato legale





Una fila di 181.287 tir, messi in fila uno dietro l’altro, carichi fino all’orlo con 4,5 milioni di tonnellate di rifiuti, che da Trapani arriverebbe senza soluzione di continuità fino a Berlino. È una delle tante immagini contenute nel Rapporto Ecomafia 2018 di Legambiente per raccontare la pericolosità dei trafficanti di rifiuti. Questo contando solamente i quantitativi di veleni sequestrati in appena 54 inchieste per “traffico organizzato di rifiuti” chiuse nell’arco temporale che corre da gennaio 2017 a maggio 2018

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FONTE: Rapporto Ecomafia 2018

Traffici finiti incollati nelle ragnatele degli inquirenti di ogni parte d’Italia, messi all’indice dal nostro sistema normativo solo dal 2001, anno di entrata in vigore di quello che è stato almeno fino al 2015 l’unico delitto ambientale, quello di traffico organizzato di rifiuti, codificato nell’allora decreto Ronchi all’art. 53bis, poi confluito nell’attuale Testo unico ambientale (art. 236 Dlgs 152/2006) fino al suo recentissimo inserimento nel codice penale all’art. 452 quaderdecies (introdotto con il Dlgs 1 marzo 2018, n. 21).
Il traffico va dove si guadagna di più

Non è mancata la sorpresa, almeno all’inizio, per gli investigatori che hanno messo il naso dentro quei camion o nei piazzali pronti per il carico e scarico. Ci hanno trovato rifiuti raccolti in maniera differenziata, plastica, carta e cartone, metalli (ferrosi e non), parti d’autoveicoli rottamati, Raee, vetro. Mai scarti organici, che rilasciano odori, tracce di percolato e non valgono granché (salvo i rari casi di digestione anaerobica). I trafficanti intercettano frazioni di scarti sottraendoli ai circuiti ufficiali, spesso togliendo le castagne dal fuoco di gestioni inefficienti in mano a società in difficoltà (economiche e logistiche), di piattaforme poco controllate, di bilanci sempre in bilico.


Ogni difficoltà dei circuiti legali è l’occasione propizia per i trafficanti.

Non dovendo rispettare alcuna legge sono imbattibili sul mercato. Offrono servizi a scatola chiusa. Si muovono a colpo sicuro, tanto che è difficile beccarli.


Come operano i trafficanti

Il sistema è sempre quello di falsificare i documenti, i Fir e le bolle di carico e scarico, facendo passare un rifiuti per qualcos’altro, come un ammendante o semplice roccia da scavo. Il mercato nero del riciclo nasce da qui. Nasce e prolifera nelle falle dei sistemi di gestione e nelle zone grigie dei mercati delle materi prime seconde i trafficanti ci mettono lo zampino.


Non è solo la presenza di reti criminali a fare la differenza, determinanti sono i meccanismi di compliance, tracciabilità e trasparenza.

Sotto questo punto di vista le politiche di end of waste se, da una parte, sono l’unica strada possibile per facilitare l’economia circolare, dall’altra aprono ancora di più quelle stesse maglie che i trafficanti hanno sfruttato fino a oggi.

Per stare sulla breccia sanno di dover cambiare costantemente pelle. Se prima vestivano i panni, semplici, delle società di trasporto e di gestione di discariche o di buche, oggi sono società cartiere, emettono fatture false, controllano impianti di riciclo e inquinano il mercato dell’economia circolare.

Una selva di piccole Srl

L’alto tasso di illegalità nel settore è spiegato, almeno in parte, dalle risorse economiche in ballo. Se il mercato legale dei rifiuti ogni anno supera i 23 miliardi di euro di fatturato, quello illegale – sicuramente più difficile da stimare – supera i 3 miliardi e attira come una carta moschicida vecchi e nuovi trafficanti. In poche parole: controllano almeno il 13% del mercato.

Una selva di società, soprattutto società a responsabilità limitata, con pochi euro di capitali e fideiussioni posticce, si muovo con passi felpati aggirando le regole, mettendo il cuneo nelle falle dei sistemi di regolazione, contando nell’oggettiva impossibilità per le autorità di controllo di poter verificare ogni passaggio che accompagna la gestione degli oltre 160 milioni di tonnellate di rifiuti che produciamo ogni anno, tra speciali, urbani e 
assimilati (agli urbani).16 anni di inchieste sui rifiuti.









FONTE: elaborazione Legambiente su dati del Comando Unità Forestali, Ambientali e Agroalimentari Carabinieri (CUTFAA), Guardia di finanza, Capitanerie di porto, Corpi forestali delle regioni a statuto speciale, Polizia dello Stato, Agenzie delle Dogane e Polizia Provinciale.

Oltre ai danno ambientali e sanitari, i trafficanti drenano risorse economiche importanti.
Eppure il settore del riciclo cresce

Nonostante le loro ruberie, nel 2011 l’industria italiana ha impiegato nei suoi cicli produttivi, dati Istat, circa 35 milioni di tonnellate di materie prime seconde, cioè materie provenienti dal recupero dei rifiuti. Il settore del riciclo negli ultimi dieci anni è aumentato a ritmo vertiginoso: il numero delle aziende è lievitato da 2.183 a 3.034 (+39%), raddoppiando il numero degli occupati, da 12mila a più di 24mila. È anche di questo che stiamo parlando.

fonte: www.valori.it

RAEE: 765 mila tonnellate gestite da Ecodom in 10 anni. Italia fanalino di coda


















I RAEE sono, senza dubbio, i rifiuti più caratterizzante della nostra epoca. Tutti noi abbiamo in casa frigoriferi, lavastoviglie, cellulari, televisori, lampadine e chi più ne ha, più ne metta. È dunque logico che questi apparecchi, arrivati a fine vita, debbano essere smaltiti, in modo ambientalmente ed economicamente sostenibile, andando a estrarne le materie prime seconde, utilissime per la costruzione di nuovi apparecchi, in piena logica circolare. Ecodom, il più grande Consorzio Italiano per il Recupero e Riciclaggio Elettrodomestici, è stato in questa attività un vero e proprio pioniere, vantando ben 10 anni di attività in cui ha gestito 765 mila tonnellate di elettrodomestici dismessi, riciclando la bellezza di 668 mila tonnellate di materie prime seconde. Solo per fare un esempio, il ferro estratto dagli elettrodomestici gestiti da Ecodom in questa decade è arrivato a 460 mila tonnellate, una quantità pari a oltre mille treni Frecciarossa.
Un bilancio dunque molto positivo per il consorzio, che oggi ha celebrato questo traguardo decennale presentando a Roma il nuovo rapporto di sostenibilità 2017 (consultabile online su www.ecodom.report/it) e un libro che ne ripercorre la storia di successo, “L’era dei RAEE – 10 anni di Ecodom, scritto dal giornalista Marco Gisotti. Ma oltre alle tante luci, frutto del bvuon lavoro svoloto dal consorzio, Ecodom ha anche restituito una fotografia precisa (e impietosa) dei numeri complessivi dell’Italia nella raccolta dei RAEE dove il Belpaese non ne esce affatto bene. Con circa 5 kg per abitante di Rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche (RAEE) raccolti ogni anno l’Italia è il fanalino di coda in Europa, superata di gran lunga da paesi come Francia, Regno Unito, Irlanda, Austria e Belgio che si attestano su oltre 8 kg e surclassato da Svizzera e Norvegia con ben 15 kg raccolti per abitante.
Il motivo di questo gap purtroppo va individuato nella vasta presenza nel nostro paese di sistemi di smaltimento illegali e nella mancata emanazione di leggi che impongano una qualità elevata nel trattamento dei RAEE. Giorgio Arienti, direttore generale di Ecodom, ha ben sintetizzato questa problematica nelle sue dichirazioni:


Considerando che la Comunità Europea ha fissato il target pari al 65% dell’immesso sul mercato per il 2019 è importante che lo Stato italiano inizi a cercare attivamente i flussi di RAEE nascosti, gestiti al di fuori del controllo dei Sistemi Collettivi. Sono necessarie attività investigative sui flussi illegali di RAEE, cui faccia seguito l’applicazione di sanzioni amministrative e penali commisurate all’entità sia dei profitti illeciti sia dei danni ambientali e sociali provocati. E’ inoltre indispensabile – conclude Arienti – che nel 2018 venga approvato il Decreto sulla qualità del trattamento dei RAEE e che l’iter di recepimento delle Direttive Comunitarie contenute nel pacchetto di Economia Circolare sia l’occasione per semplificare e rendere più praticabile la normativa italiana sui rifiuti”.

A margine del convegno sui dieci anni di Ecodom abbiamo rivolto alcune domande proprio a Giorgio Arienti, che ci ha illustrato lo stato della raccolta dei RAEE in Italia, e a Marco Gisotti, autore del libro “L’era dei RAEE – 10 anni di Ecodom”:




fonte: www.greenstyle.it