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Mafia & rifiuti

Il focus della relazione semestrale gennaio-giugno 2019 della Direzione Investigativa Antimafia nazionale

























E’ stata da poco pubblicata la consueta relazione semestrale relativa alla prima parte del 2019, della Direzione Investigativa Antimafia (DIA) nazionale.
Nell’articolato documento prodotto dalla DIA è contenuto un interessantissimo focus sul tema “mafia e rifiuti”. Nel focus si evidenzia come già da alcuni decenni le organizzazioni criminali hanno compreso la reale portata del business derivante dalla loro infiltrazione nel ciclo dei rifiuti a fronte di un ampio margine di impunità rispetto ad altri settori criminali.
Questa consapevolezza è sinteticamente espressa nella frase “Trasi munnizza e n’iesci oro” tratta da una intercettazione telefonica di tre decenni fa. Il senso di quella frase – declinata, nel tempo, non solo in siciliano e in altri dialetti, dal nord al sud del Paese, ma anche in perfetto italiano e in diverse lingue straniere – viene ancora oggi rinvenuto, nelle attività tecniche quotidianamente svolte in tema di criminalità ambientale.

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estratto del focus “Mafia & rifiuti” dalla Relazione della DIA
Il Focus si pone l’obiettivo di analizzare l’intera filiera di gestione dei rifiuti, mettendola in relazione (grazie a dati di fatto emersi in indagini ed operazioni di servizio) con l’infiltrazione della criminalità organizzata, per cercare di individuare gli snodi più a rischio, affinché le Autorità preposte possano eventualmente intervenire sul ciclo dei rifiuti. Il rapporto sottolinea come oggi si registra, nel profilo criminale, un modus operandi quasi sempre sovrapponibile, indipendentemente dal contesto territoriale in cui si opera, caratterizzato da una tale specializzazione da consentire, in caso di necessità, l’immediata rimodulazione delle condotte e delle rotte dei rifiuti.
La lunghissima filiera dei rifiuti (produzione – assegnazione dei servizi – raccolta – trasporto – trattamento – smaltimento) vede la contestuale presenza di diversi “attori” – gli enti pubblici che assegnano i servizi di raccolta, i produttori dei rifiuti, gli intermediari, i trasportatori, gli impianti di stoccaggio e di trattamento dei rifiuti, i laboratori di analisi e gli smaltitori.
Un ruolo fondamentale viene svolto dalla figura del produttore del rifiuto, cioè l’imprenditore che ha la necessità di disfarsi dei quantitativi prodotti dalla propria azienda. Non di rado la scelta d’impresa, tesa ad economizzare sui costi e ad imporsi sul mercato, coincide con la volontà di liberarsi illegalmente dei rifiuti per abbattere i costi di produzione e acquisire, così, una posizione di vantaggio rispetto ad altre aziende che, con trasparenza ed onestà, affrontano tutti gli oneri previsti dalle disposizioni di legge. Ma tutti gli altri attori coinvolti nel ciclo dei rifiuti presentano criticità analizzate in dettaglio dal rapporto.
Il focus approfondisce nella prima parte gli aspetti criminogeni della complessa filiera dei rifiuti urbani, speciali e pericolosi – compresi i recenti casi che hanno visto, a macchia di leopardo sul territorio nazionale, numerosi incendi presso aree periferiche e capannoni – tenendo presenti le criticità registrate, negli ultimi decenni, in primo luogo in Campania, punto nodale delle problematiche connesse ai reati ambientali.
Successivamente l’analisi si estende alle altre regioni, a cominciare da quelle a tradizionale presenza mafiosa, basandosi sulle inchieste concluse, nel tempo, dalla DIA e dalle Forze di polizia, sui provvedimenti di scioglimento degli enti locali e sulle interdittive antimafia, che danno conto della complessa azione di contrasto, nel
profilo preventivo e repressivo, sviluppata in tale settore negli ultimi anni.
Già nel dicembre 1994, Legambiente e l’Arma dei carabinieri, con l’Istituto di ricerca “Eurispes”, presentarono il primo Rapporto sulla criminalità ambientale in Italia. In quell’occasione, venne coniato il termine “ecomafia” che entrò cinque anni più tardi nei dizionari della lingua italiana.
La DIA osserva che “il crimine ambientale è un fenomeno in preoccupante estensione proprio perché coinvolge, trasversalmente, interessi diversificati. Il prodotto di tali comportamenti illeciti interferisce sull’ambiente e sull’integrità fisica e psichica delle persone, ledendone la qualità della vita, con conseguenti rilevanti costi sociali.”
Già da quella ricerca emergeva uno scenario preoccupante sull’illegalità ambientale nel nostro Paese e sul ruolo che giocava in questo settore la criminalità organizzata
di tipo mafioso, soprattutto nel meridione d’Italia. Era un quadro che raccontava di rifiuti speciali pericolosi che, dal nord, finivano smaltiti illegalmente nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa (Campania, Puglia, Calabria, Sicilia), in quei territori cioè dove maggiore era il controllo da parte delle organizzazioni criminali.
fonte: https://www.snpambiente.it

I trafficanti di rifiuti intercettano il 13% del mercato (quasi senza rischi)

Nel settore rifiuti opera una selva di microsocietà. Sfruttando le falle nei sistemi di tracciabilità e di controllo drena miliardi al mercato legale





Una fila di 181.287 tir, messi in fila uno dietro l’altro, carichi fino all’orlo con 4,5 milioni di tonnellate di rifiuti, che da Trapani arriverebbe senza soluzione di continuità fino a Berlino. È una delle tante immagini contenute nel Rapporto Ecomafia 2018 di Legambiente per raccontare la pericolosità dei trafficanti di rifiuti. Questo contando solamente i quantitativi di veleni sequestrati in appena 54 inchieste per “traffico organizzato di rifiuti” chiuse nell’arco temporale che corre da gennaio 2017 a maggio 2018

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FONTE: Rapporto Ecomafia 2018

Traffici finiti incollati nelle ragnatele degli inquirenti di ogni parte d’Italia, messi all’indice dal nostro sistema normativo solo dal 2001, anno di entrata in vigore di quello che è stato almeno fino al 2015 l’unico delitto ambientale, quello di traffico organizzato di rifiuti, codificato nell’allora decreto Ronchi all’art. 53bis, poi confluito nell’attuale Testo unico ambientale (art. 236 Dlgs 152/2006) fino al suo recentissimo inserimento nel codice penale all’art. 452 quaderdecies (introdotto con il Dlgs 1 marzo 2018, n. 21).
Il traffico va dove si guadagna di più

Non è mancata la sorpresa, almeno all’inizio, per gli investigatori che hanno messo il naso dentro quei camion o nei piazzali pronti per il carico e scarico. Ci hanno trovato rifiuti raccolti in maniera differenziata, plastica, carta e cartone, metalli (ferrosi e non), parti d’autoveicoli rottamati, Raee, vetro. Mai scarti organici, che rilasciano odori, tracce di percolato e non valgono granché (salvo i rari casi di digestione anaerobica). I trafficanti intercettano frazioni di scarti sottraendoli ai circuiti ufficiali, spesso togliendo le castagne dal fuoco di gestioni inefficienti in mano a società in difficoltà (economiche e logistiche), di piattaforme poco controllate, di bilanci sempre in bilico.


Ogni difficoltà dei circuiti legali è l’occasione propizia per i trafficanti.

Non dovendo rispettare alcuna legge sono imbattibili sul mercato. Offrono servizi a scatola chiusa. Si muovono a colpo sicuro, tanto che è difficile beccarli.


Come operano i trafficanti

Il sistema è sempre quello di falsificare i documenti, i Fir e le bolle di carico e scarico, facendo passare un rifiuti per qualcos’altro, come un ammendante o semplice roccia da scavo. Il mercato nero del riciclo nasce da qui. Nasce e prolifera nelle falle dei sistemi di gestione e nelle zone grigie dei mercati delle materi prime seconde i trafficanti ci mettono lo zampino.


Non è solo la presenza di reti criminali a fare la differenza, determinanti sono i meccanismi di compliance, tracciabilità e trasparenza.

Sotto questo punto di vista le politiche di end of waste se, da una parte, sono l’unica strada possibile per facilitare l’economia circolare, dall’altra aprono ancora di più quelle stesse maglie che i trafficanti hanno sfruttato fino a oggi.

Per stare sulla breccia sanno di dover cambiare costantemente pelle. Se prima vestivano i panni, semplici, delle società di trasporto e di gestione di discariche o di buche, oggi sono società cartiere, emettono fatture false, controllano impianti di riciclo e inquinano il mercato dell’economia circolare.

Una selva di piccole Srl

L’alto tasso di illegalità nel settore è spiegato, almeno in parte, dalle risorse economiche in ballo. Se il mercato legale dei rifiuti ogni anno supera i 23 miliardi di euro di fatturato, quello illegale – sicuramente più difficile da stimare – supera i 3 miliardi e attira come una carta moschicida vecchi e nuovi trafficanti. In poche parole: controllano almeno il 13% del mercato.

Una selva di società, soprattutto società a responsabilità limitata, con pochi euro di capitali e fideiussioni posticce, si muovo con passi felpati aggirando le regole, mettendo il cuneo nelle falle dei sistemi di regolazione, contando nell’oggettiva impossibilità per le autorità di controllo di poter verificare ogni passaggio che accompagna la gestione degli oltre 160 milioni di tonnellate di rifiuti che produciamo ogni anno, tra speciali, urbani e 
assimilati (agli urbani).16 anni di inchieste sui rifiuti.









FONTE: elaborazione Legambiente su dati del Comando Unità Forestali, Ambientali e Agroalimentari Carabinieri (CUTFAA), Guardia di finanza, Capitanerie di porto, Corpi forestali delle regioni a statuto speciale, Polizia dello Stato, Agenzie delle Dogane e Polizia Provinciale.

Oltre ai danno ambientali e sanitari, i trafficanti drenano risorse economiche importanti.
Eppure il settore del riciclo cresce

Nonostante le loro ruberie, nel 2011 l’industria italiana ha impiegato nei suoi cicli produttivi, dati Istat, circa 35 milioni di tonnellate di materie prime seconde, cioè materie provenienti dal recupero dei rifiuti. Il settore del riciclo negli ultimi dieci anni è aumentato a ritmo vertiginoso: il numero delle aziende è lievitato da 2.183 a 3.034 (+39%), raddoppiando il numero degli occupati, da 12mila a più di 24mila. È anche di questo che stiamo parlando.

fonte: www.valori.it

Senza tracciabilità e controlli, la guerra dei rifiuti non si può vincere

Troppe norme negli anni hanno cancellato strumenti fondamentali al controllo del flusso dei rifiuti. Un favore ai criminali e un danno economico per la collettività


















Dal primo gennaio 2019 verrà soppresso il sistema di controllo e tracciabilità dei rifiuti, il cosiddetto SISTRI che avrebbe dovuto informatizzare la gestione del flusso dei rifiuti speciali a livello nazionale e dei rifiuti urbani della Regione Campania.
Uno strumento semplice ma partito a singhiozzo

Già nel 2000 la Agenzia Ambientale nazionale (ANPA), poi non a caso abolita dal governo Berlusconi, aveva brevettato “CheckRif“, strumento semplice (paragonabile al POS per i Bancomat) che il Comandante dei NOE portò come contributo italiano al G20 ‘Polizie’.



Schermata di accesso al sistema SISTRI



Tale sistema, connesso ai Catasti Regionali Rifiuti e all’Albo Nazionale Gestori, in tempo reale verificava i passaggi dal produttore del rifiuto al trasportatore fini allo smaltitore finale: ogni mese le imprese, anziché dover compilare registri cartacei, avrebbero ricevuto il proprio “estratto conto” circa la movimentazione ed il destino dei propri rifiuti.



Lista delle registrazioni cronologiche SISTRI che evidenziano in tempo reale le operazione di carico e di scarico rifiuti. Ognuna di queste deve essere confermata e firmata dal delegato dell’azienda trasportatrice.
L’abrogazione, attraverso il Decreto “Semplificazioni”, del Sistri, strumento partito a singhiozzo, tra polemiche, ritardi e costi assai elevati, solo tra il 2013 e il 2014, non deve tradursi in resa dello Stato rispetto all’obiettivo prioritario della tracciabilitá dei flussi di rifiuto nella patria delle ecomafie, delle terre dei fuochi e del turismo dei rifiuti.
Si pensi solo al governo e controllo dei flussi di smaltimento dei rifiuti speciali in Italia e all’estero, 4 volte superiori a quelli urbani: 130,6 milioni di tonnellate provenienti dal circuito industriale e produttivo, a fronte di 30 milioni di tonnellate, ogni anno.
Un’abrogazione che fa felice molti
C’è chi plaude all’abrogazione, dopo aver fatto di tutto per non vedere mai entrare in funzione il sistema. Il colonnello Sergio De Caprio (noto ai più come “Capitano Ultimo”) ricorda bene l’aggressione con centinaia di migliaia di accessi telematici il giorno dell’avvio sperimentale del sistema, per farlo collassare, così come il generale Mario Morelli, all’epoca a capo del Comando Logistico Sud dell’Esercito presso le cui officine si montavano gli apparati per il controllo remoto sui camion destinati al trasporto dei rifiuti campani, ricorda bene come in poche ore quegli apparati venissero distrutti a martellate.
A maggior ragione oggi, in piena #guerradeirifiuti, dovrebbe essere evidente, da nord a sud, che non è possibile sconfiggere la sfida allo Stato da parte di ecomafie e tangentari vecchi e nuovi anelanti a profitti criminali da finte emergenze rifiuti, ricorrendo alle proprie discariche illegali, agli obsoleti inceneritori, al giro vorticoso del turismo dei rifiuti, senza un vero sistema di tracciabilità per i rifiuti urbani e speciali.
Il controllo delle banche dati e il controllo del territorio sono la prima arma contro i mali che affliggono la gestione dei rifiuti in Italia: corruzione, ecomafie, crimine d’impresa. Non sostituire nulla ai documenti cartacei che permettono il “giro bolla” e la sostituzione o falsificazione dei codici CER accertata da centinaia di inchieste della magistratura non è un passo avanti nella lotta all’illegalità.


Un business superiore alla cocaina

Intanto, continuano ad andare a fuoco le piattaforme di raccolta dei rifiuti al nord come al sud, dalla Lombardia alla Campania fino alla Capitale.
Il Procuratore Nazionale Antimafia Cafiero De Raho aveva già confermato a Valori, alla presentazione del rapporto Ecomafia di Legambiente che, nel 2018, «i rifiuti rappresentano ancora il maggior business per le mafie, più della cocaina».
Ma tanto rimane da fare, ad ogni livello, se come ha fatto notare la relazione della Commissione Bicamerale sul Ciclo dei Rifiuti,«nell’ambito dei procedimenti penali instaurati, potrebbe risultare di particolare utilità la condivisione di protocolli investigativi, con diffusione su base nazionale delle migliori prassi e omogeneità negli accertamenti e nell’esercizio dell’azione penale».
Concetto ribadito a Valori proprio dal procuratore nazionale della DNA: Il sistema del “crimine d’impresa” è sceso a patti, da nord a sud, con la malavita organizzata, facendo cartello e vincendo appalti, in ogni parte dello Stivale.


Servono intelligence e cittadini attivi

La guerra dei rifiuti si combatte, quindi, con la partecipazione attiva dei cittadini e con l’intelligence, incrociando tutte le banche dati non solo ambientali, ma anche quelle giudiziarie, con i controlli sui quantitativi che vengono strappati al circuito della differenziata e delle sue inefficienze.
Occorrerebbe più trasparenza anche su ciò che entra e ciò che esce dagli inceneritori: le multiutility che gestiscono il maggior numero di impianti in Italia (A2A, Hera, Iren, Acea) per le loro caratteristiche societarie sono escluse, ad esempio, dalla normativa per il Freedom Information Act, la legge che tutela il diritto di accesso agli atti amministrativi.


La guerra dei rifiuti, un costo per le tasche delle famiglie

Tutto questo, oltre che avere ricadute sull’ambiente e sulla salute delle popolazioni, ha forti ripercussioni sul portafoglio dei cittadini, tanto che nel giro di tre anni, ben tre Authority hanno indagato accertando inefficienze e illeciti nella filiera.
La lievitazione dei costi e di appalti truccati ha indotto l’Autorità Nazionale Anticorruzione a introdurre nel Codice degli Appalti un nuovo capitolo interamente dedicato alla gestione dei rifiuti, a breve in Gazzetta Ufficiale.
Arera, la nuova Autorità di regolazione per energia e reti e ambiente, ha in corso l’indagine nazionale per definire «un sistema tariffario certo, trasparente e basato su criteri predefiniti» facendo seguito alla precedente dell’Antitrust del 2016, che già aveva denunciato inefficienze del sistema nella prima indagine conoscitiva sui rifiuti solidi urbani.


Il sistema è ancora troppo complesso

Intanto con l’articolo 206 bis del Testo Unico dell’ambiente sono stati aboliti gli osservatori rifiuti regionali e le funzioni di vigilanza sono state trasferite al Ministero dell’Ambiente, mentre spetta a Ispra e alle Agenzie regionali per l’Ambiente intensificare i controlli grazie all’applicazione delle legge 132/2016. Così come è Ispra, con la sezione Catasto Rifiuti a monitorare e raccogliere in un’unica banca dati le informazioni provenienti da comuni, agenzie per l’ambiente e consorzi di riciclo.
Sempre secondo il Collegato ambientale, all’articolo 199, sono le Regioni che devono pubblicare i piani regionali e il loro stato di attuazione, a partire dalla informazione circa produzione totale e pro capite dei rifiuti solidi urbani suddivisa per ambito territoriale ottimale, se costituito, ovvero per ogni Comune.
Tutta questa mole di dati è raccolta in una sezione del sito del Ministero dell’Ambiente, anche perché la mancata applicazione dei piani regionali è soggetta all’applicazione delle procedure di infrazione dell’Unione Europea.
Monitoraggio dei piani regionali rifiutiUn sistema ancora troppo complicato, che continua a permettere troppi varchi dove malavita, ecomafie e trafficanti possono infiltrarsi. Una cosa è certa: stando così le cose chi perde la guerra dei rifiuti sono lo Stato e i suoi cittadini. In termini economici, di salute e di tutela dell’ambiente.


Walter Ganapini e Rosy Battaglia


fonte: www.valori.it

Raccolta rifiuti, l’Italia sommersa verso la paralisi totale















Il sistema italiano di raccolta dei rifiuti, di raccolta differenziata e riciclo di materiali ricuperabili, di smaltimento sta andando alla paralisi perché alcune città come Roma paralizzano il sistema, perché le quantità riciclabili raccolte nel resto d’Italia sono sempre più alte, ma non cresce il minuscolo mercato dei prodotti riciclati; si potrebbe ricorrere a impianti alternativi di smaltimento come gli inceneritori ma — per le contestazioni nimby e per l’appoggio che i comitati del no trovano in chi fa leggi e norme — non solamente è bloccata la costruzione di qualsiasi impianto ma addirittura sindaci, magistrati e assessori fanno chiudere quelli che ci sono.

Conseguenza: gli impianti di trattamento sono strapieni, i prezzi di trattamento e smaltimento diventano superbi, i rifiuti e i materiali riciclabili non trovano destinazione, sono più facili e pericolosi gli incendi involontari, si dà spazio alla malavita degli smaltimenti abusivi, degli incendi nei capannoni e delle esportazioni clandestine di spazzatura.

Risposte semplici e sbagliate
«Mediamente negli ultimi 3 anni sono bruciati quasi 300 siti di stoccaggio dei rifiuti. Prima non accadeva. C’è qualcosa di strutturale. Le procure e le forze di polizia, in prima fila i carabinieri, stanno indagando», ha detto il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, area Cinquestelle. Al quesito che tormenta il ministro Costa e tanti cittadini c’è una risposta in tre puntate.
Purtroppo la riposta deve essere così complessa perché complesso è il problema e, come amava ripetere lo scrittore irlandese George Bernard Shaw (1856-1950), «per ogni problema complesso c’è sempre una soluzione semplice e sbagliata».
Così a furia di risposte semplici e sbagliate il servizio rifiuti e l’intera raccolta differenziata potrebbero bloccarsi nella crisi della spazzatura più severa mai sperimentata in Italia.

I sintomi della malattia
I prezzi sul mercato dello smaltimento sono sempre più alti e insostenibili, gli impianti si fermano intasati di rifiuti, basta un incidente da nulla per scatenare un incendio colossale di spazzatura accumulata, si dà spazio alla malavita che risolve il problema dei rifiuti con una tanica di gasolio e un accendino che fanno respirare ai polmoni dei cittadini quelle diossine che gli inceneritori non producono.


Oppure ci sono soluzioni semplicissime e sbagliatissime come quelle proposte da persone, mai viste prima nel settore, che avvicinano le imprese o le municipalizzate con problemi di rifiuti e «ho una nave pronta per caricare 1 milione di tonnellate di rifiuti verso una discarica sicurissima in Guatemala» oppure «in Macedonia: dia a noi e bruciamo tutto in una centrale a lignite in Macedonia».

A smaltimento bloccato, le raccolte differenziate stanno per fermarsi.

Non c’è domanda sufficiente di prodotti riciclati
La risposta complessa al problema complesso può essere divisa in tre parti.
Prima risposta: non è ancora decollato il mercato dei prodotti ottenuti da materie prime rigenerate. Decollerà, come viene spiegato più sotto, ma oggi si accumulano materiali che non hanno mercato.

Crescono i materiali da riciclare
Seconda parte della risposta: anche se per molte persone la raccolta differenziata dei rifiuti è immaginata come una soluzione, in realtà la raccolta differenziata è uno strumento e non un fine.
Oggi gli italiani differenziano il 52% della spazzatura. Carta, plastica, vetro, metalli, legno, materiale organico.
Le quantità di materiali da riciclare aumentano di giorno in giorno e ormai per molti settori l’offerta di materiali supera la domanda dell’industria; le vetrerie respingono i camion carichi di vetro usato, le cartiere rimandano indietro i carichi.
I materiali selezionati da aziende e cittadini si accumulano. Basta una scintilla occasionale per scatenare incendi di grandi dimensioni, e si crea spazio alla malavita che offre soluzioni di comodo.


Gli impianti bloccati
Terza parte della risposta complessa. Come si potrà leggere più sotto, oggi non si riesce a costruire alcun impianto per il trattamento dei rifiuti.
Mi correggo: si riescono a costruire solamente gli impianti di compostaggio per produrre ammendante agricolo con i rifiuti organici, cioè i fondi del caffè, l’erba tosata del giardino e gli avanzi della cucina. E stanno per partire alcuni impianti di selezione per plastica di qualità (uno sarà avviato a breve nel Biellese e uno in primavera nel Milanese), che andranno ad aggiungere plastica alla plastica che non trova mercato.
Ma zero inceneritori.
I politici fanno a gara per seminare la paura contro gli impianti e per incoraggiare la chiusura degli impianti di riciclo e smaltimento dei rifiuti, come è appena accaduto per esempio in Sicilia e nel Lazio.
E gli italiani pagano: chi paga i 120mila euro al giorno di multa europea per i 6 milioni di tonnellate di spazzatura accumulate negli anni a Napoli? Noi.

Salvaguardare il paesaggio della raffineria
Dalla Sicilia e da Roma due esempi semplici di come paralizzare il mercato dei rifiuti.

Mentre la Sicilia che si avvia a passo di cavallo verso la peggiore e più drammatica crisi rifiuti della sua storia, il Consiglio dei ministri ha detto no all’inceneritore in progetto per sostituire la vecchia centrale a olio combustibile di San Filippo del Mela (Messina), a fianco della raffineria Q8 di Milazzo.
Il motivo del no?
I Beni culturali si sono opposti e hanno vinto contro l’inceneritore perché — pareri del 2 dicembre 2015 e 11 gennaio 2018 — questo impianto da costruire al posto della colossale centrale termoelettrica potrebbe turbare il delicato paesaggio a fianco della raffineria di petrolio. E alcuni politici locali della regione che avanza di un distruttivo cupio dissolvi della spazzatura hanno stappato (in senso non metaforico) un brindisi di vittoria per avere scampato la «devastazione del territorio».

Sarà spento l’inceneritore, si aprirà una discarica
E mentre Roma è assediata dalla spazzatura che non riesce a smaltire, il giorno 16 ottobre il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, ha annunciato che rinuncerà all’inceneritore di Colleferro, l’ultima àncora che salva la città.
Sarà spento l’inceneritore e al suo posto bisognerà (le parole che seguono sono di Zingaretti) «individuare in quel sito un impianto moderno che trattando e rimettendo nel sistema i materiali provenienti dai Tmb abbassa la quantità di conferimento. Il rifiuto diventa una risorsa da rimettere nel circolo. Una soluzione innovativa che può essere risolutiva per l’equilibrio del sistema Lazio».
E poi — ecco il passepartout — ci sarà anche una discarica, cui la Regione Lazio aggiunge un rasserenante “di servizio” per far digerire più facilmente il boccone amaro.
Entusiasta il ministro Costa: «Superare il concetto di incenerimento è una cosa che gradisco. Su questo ci siamo avvicinati molto».
E nello stesso giorno in cui ha annunciato un impianto asservito ai Tmb, Zingaretti ha firmato una delibera che proroga sino a fine anno il trasporto di rifiuti non trattati da Roma all’Aquila, 39mila tonnellate romane sulle spalle degli abruzzesi.
In settembre a Roma sono state raccolte 142mila tonnellate di rifiuti, 77.800 indifferenziati e 64.400 differenziati, per un valore medio del 45,3%, ha riferito il direttore operativo dell’Ama, Massimo Bagatti.

La classificazione dei rifiuti
I rifiuti sono classificati in rifiuti urbani (la spazzatura delle famiglie) e speciali (la spazzatura delle attività economiche). I rifiuti urbani devono essere smaltiti nella regione in cui sono stati prodotti. I rifiuti speciali possono essere smaltiti anche in altre regioni.
Poi c’è la categoria dei rifiuti pericolosi, categoria che come è ovvio ha un regime a parte.


Ci sono anche altre categorie, come gli ospedalieri, come la forsu (frazione organica da rifiuti solidi urbani) e come gli assimilati (per esteso: rifiuti speciali assimilati agli urbani). Gli assimilati sono generati dalle attività economiche (sono rifiuti speciali) ma in realtà è immondizia normalissima come i cestini sotto la scrivania degli uffici, la polvere spazzata dal pavimento dei negozi e così via. Gli assimilati seguono il destino dei rifiuti urbani.
Infine ci sono i prodotti della raccolta differenziata delle famiglie e delle imprese, come la carta, i pallet di legno, le plastiche dei grandi imballaggi industriali o le bottiglie della minerale.
L’export di rifiuti è sottoposto a regole severissime.
Secondo il censimento dell’Ispra, nel 2016 l’Italia ha prodotto 125,5 milioni di tonnellate di rifiuti speciali non pericolosi (in media 2.070,9 chili per abitante) mentre la produzione annua dei rifiuti urbani è pari a 497,1 chili per abitante.

La beffa dei Tmb
Gli italiani raccolgono in modo differenziato circa il 52% dell’immondizia. Quel 48% di immondizia che rimane è chiamata “indifferenziata”, ed è il misto marcescente di tutta la spazzatura.
E dove va questa immondizia indifferenziata?
Circa il 40% viene usato come combustibile negli inceneritori che ricuperano energia, come per esempio fanno società come Hera, Iren, Amsa-A2a, Veritas per riscaldare le città al posto delle caldaiette condominiali meno efficienti. Le grandi città come Milano, Torino, Brescia, Venezia e Bologna hanno tassi altissimi di raccolta differenziata.
Poi c’è quel 60% di indifferenziato che finisce in discarica, ma non dovrebbe.
Per legge i rifiuti indifferenziati non possono andare in discarica. Vietatissimo. Buttare nella discarica la spazzatura generica è un’infrazione da procedura europea.
Per poter gettare in discarica la spazzatura mista è stato inventato un modo furbetto che consente di scavalcare il divieto europeo e italiano: il modo è l’impianto Tmb, sigla di trattamento meccanico biologico. A Napoli il nome cambia un poco, si chiama Stir, ma ha la stessa funzione.
I Tmb sono la tecnologia che incatena Roma alla schiavitù dei rifiuti, insieme con l’opportunismo di quei politici pronti ad appoggiare le proteste dei comitati nimby contro la costruzione di impianti.


La beffa del Tmb funziona in questo modo.
L’impianto Tmb è un cilindro rotante e bucherellato. Da una parte entra la spazzatura generica e non differenziata; attraverso i buchi del cilindro cadono i rifiuti “umidi” avanzi alimentari e altra spazzatura più pesante, che vengono stabilizzati per fermarne la fermentazione, mentre dall’altra estremità del cilindro rotante escono i rifiuti più leggeri come plastica e carta.

La parte umida (un misto di bassissima qualità e piuttosto schifoso che non si può usare per produrre compost da spargere sui campi come concime) va negli inceneritori e viene mescolato con i rifiuti secchi dell’inceneritore.

La parte secca e leggera è classificata come rifiuto speciale, non più urbano, e di conseguenza può essere buttata in qualsiasi discarica italiana, anche fuori regione.

I Tmb sono uno strumento di emergenza per situazioni provvisorie, come dovette fare vent’anni fa nell’impianto abbandonato della Maserati di Lambrate l’allora assessore all’Ambiente del Comune di Milano, Walter Ganapini, chiamato dal sindaco leghista Marco Formentini per salvare la città dall’emergenza rifiuti provocata dalla chiusura della discarica di Cerro Maggiore della famiglia Berlusconi.

Ganapini, affiancato dall’allora presidente dell’Amsa, l’economista Andrea Gilardoni, con quei Tmb allestiti in via provvisoria salvò Milano per un soffio; impostò la raccolta differenziata che oggi fa di Milano la metropoli più avanzata ed efficiente d’Europa; dotò la città di un sistema impiantistico poderoso per il compostaggio, il riciclo e il ricupero energetico con l’impianto di Silla-Figino che usa la spazzatura come combustibile per riscaldare interi quartieri al posto delle vecchie caldaie condominiali a gasolio.
Oggi Milano non ha bisogno di discariche.

Invece Roma puntò tutto sul trucco di moltiplicare il numero di Tmb e di renderli definitivi, sorda a ogni proposta di allargare la raccolta differenziata e di realizzare impianti.
Comitati di cittadini sono insorti per bloccare qualsiasi proposta di impianto alternativo ai Tmb e alla discarica monstre di Malagrotta, vicina a Fiumicino, asserendo nei cortei di protesta e nelle lettere indignate ai giornali, sulle pagine social e sui blog che (qualunque impianto fosse e dovunque fosse immaginato) il progetto «devasterà il nostro territorio», distruggerà «il futuro e la salute dei nostri bambini», perché «ben altra è la soluzione» oppure «non è questo il modello di sviluppo che noi vogliamo» e giustificazioni simili.

La crisi: Napoli e Roma
Napoli spedisce ogni settimana una nave carica di 3mila tonnellate di spazzatura verso la Spagna e il Portogallo.
La Roma resa schiava dai Tmb da mesi prova a bandire gare per lo smaltimento dei rifiuti che non riesce a collocare. Silenzio raggelante dalle imprese che potrebbero candidarsi, ormai vanno deserte una gara dopo l’altra, le offerte di gara in gara sono sempre più alte e appetitose ma nessuno si fida a giocare una partita in cui si rischia un processo penale e un fallimento aziendale, e soprattutto non c’è il mercato capace di assorbire l’immondizia dei romani.
La gara più recente è arrivata a offrire ben 207 euro la tonnellata, trasporto compreso. Ma nemmeno 207 euro possono far aprire le porte a impianti intasati di immondizia.

Molti cittadini di Roma danno la colpa al grande complotto, immaginano che le gare vadano deserte per via di un sabotaggio o di un disegno oscuro contro di loro.
No, è una condizione cui la loro città ha contribuito attivamente con anni di arretratezza che ha riempito l’Italia di spazzatura romana, e di cui oggi si sentono gli effetti.
Come i 13 milioni di euro di spesa prevista da settembre a dicembre per esportare la spazzatura di Roma in un’Austria che ha gli impianti sempre più chiusi.

I 41 inceneritori italiani
In Italia ci sono 41 inceneritori, la maggior parte dei quali di dimensioni piccole perché concepiti quando, 20 anni fa, l’incentivo della tariffa Cip6 rendeva economici anche gli impianti meno interessanti. Quegli inceneritori non bastano a risolvere il problema: sui 31-32 milioni di rifiuti urbani prodotti dagli italiani, il sistema degli inceneritori ne distrugge circa 5 milioni di tonnellate e ne servirebbero altrettanti, altri 5 milioni di tonnellate. Se si pensa però anche ai rifiuti delle aziende, cioè ai rifiuti speciali, il fabbisogno triplica.
Mentre c’è bisogno di impianti, alcuni di questi inceneritori hanno già delineato un percorso di dismissione, come il termovalorizzatore di Colleferro nel Lazio descritto prima, mentre svaporano altri progetti che erano già programmati, come a Firenze o come quello di San Filippo del Mela a Milazzo raccontato poche righe più su.

I nemici degli impianti
Il riciclo dei rifiuti e lo smaltimento corretto hanno tanti nemici, i quali in modo inconsapevole aiutano la malavita.
Per esempio il riciclo dei rifiuti speciali venne paralizzato nel 2015 quando una “manina” riuscì a inserire nottetempo in una legge un emendamento suo cosiddetti “codici specchio”. La norma che paralizzava il settore del riciclo fu superata in breve da una regola europea.
Ma tentativi simili non si contano, come quando la Regione Marche in estate ha vietato il ricorso all’incenerimento di rifiuti, che così vengono spediti a bruciare nelle regioni confinanti come l’Abruzzo o l’Emilia Romagna.

Gli esempi sono tantissimi.
Per esempio nel marzo scorso una sentenza del Consiglio di Stato riuscì a bloccare non solamente l’impianto sperimentale (e studiato in mezzo mondo) che nel Trevisano ricicla i pannolini per bambini ma anche buona parte del sistema del riciclo basato sulle normative europee End of Waste.
Non a caso di recente il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, ha annunciato un intervento per applicare in Italia le corrette regole End of Waste europee.

Ma casi simili hanno paralizzato impianti di trattamento e riciclo dei rifiuti a Viggiano, a Prisciano in Umbria, a Scarlino in provincia di Grosseto, oppure la discarica di Casal Ser Ugo a Padova, l’inceneritore Hera a Coriano in provincia di Forlì. Titoloni sui giornali, procure in allerta, blocco dell’attività di riciclo e smaltimento; le conseguenze del tamtam mediatico contro gli impianti sono in genere danni all’ambiente, rifiuti gestiti male, parcelle sontuose per legioni di avvocati e manipoli di consulenti; processi che finiscono in nulla.

Per superare il blocco, nel 2014 l’allora Governo Renzi aveva varato il decreto Sblocca Italia che all’articolo 35 prevedeva la costruzione di alcuni inceneritori, soprattutto nel Mezzogiorno. Contestatissimo, l’articolo 35 anche se convertito in legge non ha mai superato lo stadio dell’enunciazione del principio.

Gli impianti contestati
Prima ancora che si profilasse l’ipotesi (non c’era nemmeno il progetto) di realizzare un impianti di compost al posto di una vecchia centrale a carbone spenta, il consiglio comunale di Brindisi è insorto e ha espresso un duro voto: no. No per principio prima ancora che qualcuno proponesse l’idea.
E così non c’è nemmeno alcun cementificio che non sia contestato dal comitato locale non appena c’è il sospetto che voglia usare carta e plastica come combustibile di qualità raffinata al posto del pet-coke, un carbonaccio artificiale che si ottiene da ciò che residua alla fine della raffinazione del greggio.
Pochi cementifici riescono a usare questo Css (combustibile solido secondario) che, quando viene bruciato, fa scendere le emissioni della ciminiera della cementeria, ma se anche si arrivasse a sostituire il 40% del pet-coke con il più file Css non si riuscirebbe a distruggere più di 1 milione di tonnellate l’anno su una produzione teorica di circa 15 milioni di tonnellate di klinker.
In Italia non si arriva al 10% di sostituzione. In Germania si usano rifiuti selezionati per circa l’80% di combustibili di cementeria.
Attenzione: i cementifici italiani adesso stanno marciando a regime bassissimo perché la domanda dell’edilizia è modesta.

La diossina dell’inceneritore e quella di Fuorigrotta
A Napoli l’entusiasmo dei botti e dei razzi produce nella notte del 31 dicembre tanta diossina quanta ne emettono in un anno 120 inceneritori in piena attività. Questi numeri vanno ripetuti: i botti di Capodanno a Napoli producono tanta diossina quanto 120 inceneritori in un anno.
Per esempio l’incendio che si è sviluppato nel deposito di rifiuti Ipb di Quarto Oggiaro, dove erano state accatastate 16mila tonnellate di residui plastici e di altri residui, può aver prodotto tante polveri quante ne potrebbero emettere tutti gli inceneritori italiani in 2.700 anni di funzionamento.

Impianti intasati, capannoni abbandonati
Dal 2014 Il Sole 24 Ore ha potuto censire 343 casi di incendi a impianti o macchinari di lavorazione dei rifiuti.
• Impianti di trattamento rifiuti andati a fuoco: 136.
• Incendi in discariche: 31.
• Fuoco in isole ecologiche, a compattatori, a piattaforme di selezione: 45.
• Impianti di compostaggio danneggiati dalle fiamme: 6.
• Discariche abusive incendiate: 103.
• Ecoballe date alle fiamme in Campania: 5 casi.
• Inceneritori colpiti da incendi: 14.
• Altri eventi: 3.

In qualche caso si è trattato di malavita, come quella scoperta a Corteolona (Pavia). Nell’autunno 2017 gli abitanti della zona avevano segnalato al sindaco e alle forze dell’ordine un singolare viavai di camion in uno stabilimento abbandonato. Sono state disposte le telecamere e avviate le intercettazioni, è stato possibile perfino filmare il giorno in cui uno dei criminali ha chiuso il cancello della fabbrica abbandonata con il nastro colorato che indicava il via libera, ed è stato intercettato anche il messaggio : «La torta è pronta, ho sparso liquore in diversi punti, soprattutto al centro. Domani puoi andare a ritirarla» (intercettazione telefonica del 3 gennaio 2018). E nella notte il “liquore” ha incendiato la “torta”, disseminando diossina. Gli autori sono stati arrestati.

Parrebbe simile il caso dell’incendio a Quarto Oggiaro (Milano), il cui fumo pungente ha spaventato per giorni i milanesi. Più difficile da valutare l’incendio contemporaneo di un deposito di carta da riciclare a Novate Milanese.

Ma non tutti i casi sono riconducibili alla malavita.
Ogni imprenditore del settore dei rifiuti ha, nella sua storia professionale, la testimonianza diretta dello svilupparsi di un incendio involontario e casuale: lo scintillare di un quadro elettrico, lo sfregamento di un cuscinetto di un nastro trasportatore, il miscelarsi di rifiuti infiammabili e di vapori esplosivi.
Alcuni incendi sono scatenati perfino dalle braci della stufa di cui qualche famiglia si è liberata soffocandole in mezzo all’immondizia normale, che riprendono rossore quando il compattatore rivolta la spazzatura.

In condizioni consuete, un’avaria seguita da un incendio si risolvono con l’estintore.
Il problema di queste settimane è il fatto che gli impianti di selezione e riciclo sono strapieni di materiali infiammabilissimi come plastica e carta; un incidente stupido può trasformarsi in un problema ambientale enorme e in un rischio altissimo per chi lavora nell’impianto.

In alcuni casi c’è chi individua capannoni abbandonati e li riempie a dismisura, oppure trasforma in discariche i terreni incolti. Un esempio: il 20 ottobre militari del Nucleo operativo ecologico (Noe) di Lecce hanno sequestrato in località Paglione, nell’agro di Manduria (Taranto), un oliveto abbandonato di circa 5mila metri quadri sbancato per una profondità media di circa 1-2 metri e adibito a deposito illecito di rifiuti speciali non pericolosi come calcinacci da demolizione, plastica, ingombranti e sfalci di potatura.

Esportazioni bloccate dalle fideiussioni
C’è chi riesce a esportare verso l’Africa Settentrionale o verso i Paesi dell’Est Europa, ma le fideiussioni chieste dalle norme italiane per i Paesi non-Ocse secondo lo standard K2 sono in media 10 volte più salate rispetto alle normali fideiussioni imposte per chi esporta rifiuti transfrontalieri verso Francia o Portogallo.
Nel caso di una spedizione transfrontaliera di 2.500 tonnellate, il divario tra garanzia finanziaria imposta alle imprese italiane è rilevante:
• Applicando il coefficiente K2, si tratta di garantire per 2.667.588 euro.
• Non applicando il coefficiente K2, la garanzia sarebbe invece solo pari a 85.303 euro.

All’estero è diverso. Gli unici 2 Stati membri che, allo stato, risultano fare spedizioni in Paesi non-Ocse con la procedura di notifica e autorizzazione sono la Spagna e la Francia.
•Spagna: 122.500 euro di garanzie
•Francia: 200.000 euro di garanzie.

«Ciò dimostra l’incoerenza dell’approccio italiano, ma anche lo svantaggio competitivo che tale regola comporta per le aziende italiane», osserva l’avvocato d’ambiente David Röttgen.


L’ecotassa inglese sulla discarica paralizza l’Europa
Sono strapieni anche gli inceneritori tedeschi e olandesi. A causa dei rifiuti inglesi. È successo che l’Inghilterra, per arrivare all’obiettivo di chiudere le discariche, ha fissato un’ecotassa altissima, una multa che sale gradualmente con il passare del tempo per arrivare fino a 120 sterline per ogni tonnellata di spazzatura ficcata in discarica.


Di fronte a questa sanzione, agli inglesi diventa conveniente perfino un inceneritore olandese o tedesco.
Così vengono riempite le stive delle navi e l’immondizia inglese va a riempire le linee di combustione degli inceneritori europei.
Ovviamente i prezzi salgono, e rincara anche lo smaltimento dei rifiuti italiani.  

Scarti alimentari come «idrocarburi inquinanti»
Ci sono aziende alimentari che accumulano gli scarti delle lavorazioni.
Sono materiali putrescibili ottimi per diventare compost, ma nessuno li ritira perché gli incendi paralizzano gli impianti, perché il mercato è fermo e perché ci sono le sentenze e le proteste contro l’uso dei fanghi in agricoltura.
Nel caso delle analisi sui “fanghi di depurazione” usati come concime in agricoltura succede che le farine residuali, i composti zuccherini, le melasse dell’industria alimentare, concimi strepitosi per i campi, invece vengono classificate dai nemici dell’ambiente come “idrocarburi” e quindi ci sono fortissimi problemi per quelle aziende alimentari i cui bidoni non trovano destinazione e non vengono svuotati.

Andamenti del mercato
Mentre non si costruiscono nuove discariche, i prezzi dello smaltimento dei rifiuti stanno correndo.
I prezzi di smaltimento in discarica si stanno impennando, ora hanno superato perfino il prezzo del servizio di incenerimento dei rifiuti e in Lombardia arrivano sui 140 euro per tonnellata.

L’allarme dei rigeneratori
Secondo l’associazione delle aziende di riciclo di materiali rigenerabili, l’Unirima, «mentre i dati Ispra evidenziano il costante aumento della produzione di tali rifiuti, le capacità degli impianti di destinazione che devono riceverli si stanno drasticamente riducendo con conseguente esponenziale incremento delle difficoltà da parte delle imprese del nostro settore nell’allocare tali scarti di lavorazione». Il problema sorge anche per carta e cartone provenienti dalle raccolte differenziate dei Comuni, e da altre raccolte differenziate di attività commerciali e industriali, perché «dalle attività di selezione e recupero di questi rifiuti finalizzate alla produzione di materia prima secondaria derivano scarti non riciclabili destinati al recupero energetico (inceneritori) o allo smaltimento in discarica».
Ma non ci sono più spazi nelle discariche o negli inceneritori, i magazzini si riempiono e presto la raccolta si fermerà.


Scrive l’Unirima (un gruppo di ricuperatori che aderisce alla Cisambiente Confindustria) in una nota riservata alle autorità: «Gravissimi problemi logistici, di sicurezza ed ambientali e con la inevitabile conseguenza sul blocco dei conferimenti e quindi delle raccolte differenziate».
Per chi ha bisogno di traduzione, significa che c’è rischio di incendio altissimo, con pericoli per chi vi lavora, e c’è un forte rischio ambientale, e intanto fra un po’ si fermerà la raccolta dei rifiuti, compresa quella differenziata.

Pochi impianti per i rifiuti pericolosi
I rifiuti pericolosi sono in una situazione simile, e spesso devono essere smaltiti nel resto d’Europa. Ci sono quattro inceneritori per distruggere i residui tossici ; il più grande è quello nel polo chimico di Filago (Bergamo), assai più piccoli sono quelli a fianco della Raffineria di Augusta (Siracusa), nel polo industriale di Melfi (Potenza) e nel petrolchimico di Ravenna. Nel Torinese c’è la discarica di Barricalla, la maggiore delle 12 discariche italiane per rifiuti nocivi.

Il malinteso dei piani regionali
La pianificazione nella gestione dei rifiuti spetta alle Regioni, ma come ha dimostrato il caso del Lazio i piani regionali dei rifiuti sono strumenti di propaganda politica e di lubrificazione del consenso. Il classico piano regionale dice che nei cinque anni a venire la raccolta differenziata dei rifiuti farà faville, che ci sarà sempre meno bisogno di impianti. Secondo i piani regionali classici, gli impianti che più disturbano il consenso verranno chiusi o convertiti verso soluzioni innovative di economia circolare e rifiuti zero, il più delle volte inapplicate.

Mercato senza sbocchi: il caso cinese
A inizio 2018 la Cina aveva chiuso le frontiere a carta, plastica e altri materiali riciclabili, riaprendole poi per i soli materiali di qualità migliore e rimandando a casa le navi cariche di rifiuti mal selezionati e pieni di contaminazioni, come quelli che venivano spediti da alcune aziende olandesi.
Non a caso l’Olanda, invasa dai rifiuti inglesi e dai suoi propri materiali che non riescono ad andare in Cina, ormai fatica ad aprire i suoi impianti al materiale italiano.
Nel caso della carta, l’import cinese è crollato da 24 milioni di tonnellate a 18 milioni di tonnellate di carta con standard rigorosi di qualità.


Mercati senza sbocchi: la carta
La carta non trova una collocazione adeguata. La domanda delle cartiere italiane (ed europee) è molto più basso rispetto all’offerta enorme rappresentata dalla carta raccolta con diligenza da noi cittadini.
Le cartiere che usano carta riciclata hanno bisogno di un inceneritore per eliminare la spazzatura che i cittadini disattenti mescolano nei cassonetti della carta (come per esempio le buste di plastica che avvolgono le riviste o come la plastica dei cartoni del latte) e per esempio la cartiera della Pro Gest a Mantova non riesce ad accendersi perché i comitati nimby paralizzano l’inceneritore che le è asservito.

Mercati senza sbocchi: il vetro
Il vetro ormai va in pochissimi impianti e anche in questo caso viene riciclato solamente quello che risponde al fabbisogno, mentre le quantità ingenti di vetro raccolto devono finire in discarica. Veralia e Oi ne consumano, ma le quantità disponibili sono assai inferiori al fabbisogno delle vetrerie.
l consorzio ricupero vetro Coreve, uno dei consorzi del sistema Conai, scrive allarmato a un’azienda: «I lotti rimasti senza aggiudicatario nelle ultime aste ordinarie (n° 26, 27 e 28) e della successiva asta semplificata, che ammontano a 65mila tonnellate su base annua, stanno creando un grava grave situazione di emergenza ambientale». Il consorzio non è più in grado di avviare il vetro al riciclo.
Gli ispettori delle Arpa regionali stanno imponendo la chiusura d’autorità dei raccoglitori di vetro per eccesso di accumulo di rifiuti di bottiglie e si segnalano accumuli lungo le strade.


Mercati senza sbocchi: la plastica
La plastica è uno dei materiali più esposti alla paralisi del mercato, i consumatori non esigono prodotti di plastica riciclata; veniva scambiata anche per 200 euro la tonnellata e oggi nessuno è più interessato perché non trova più la destinazione del mercato.
Le aziende di selezione e riciclo si riempiono di plastica pulita che non riescono a vendere, ma si trovano pieni anche di tutti i rifiuti che erano mescolati con la plastica nei bidoni della raccolta differenziata, e non trovano inceneritori o discariche disponibili ad accettare quel materiale.
Perfino le imprese aderenti all’
associazione confindustriale dei riciclatori, hanno dovuto lanciare un allarme per il «mancato ritiro degli imballaggi in plastica pressati dai Centri Comprensoriali»:  le aziende selezionano la plastica per darle nuova vita ma nessuno viene a ritirare il materiale.
La plastica che non riesce a finire negli inceneritori viene accumulata dai riciclatori che non trovano acquirenti del prodotto finito, con un rischio grande di incidenti.
Oppure finisce in mano alla malavita, che riempie di plastica di capannoni che bruciano.
È una situazione temporanea perché l’Europa sta spingendo per riuscire a creare un mercato secondario della plastica rigenerata. Ma gli effetti si sentiranno fra anni.


Le aziende di servizi pubblici locali
Per Filippo Brandolini, vicepresidente di Utilitalia «non si tratta più di emergenze locali e regionali sui rifiuti indifferenziati, siamo di fronte ad una crisi generalizzata che riguarda sia i gestori dei rifiuti che il tessuto produttivo fino agli scarti dei materiali riciclati. Il recepimento delle direttive europee sul pacchetto per l'economia circolare, dovrà essere per l'Italia l'occasione per una strategia nazionale sulla gestione dei rifiuti, che individui azioni e strumenti».
Ma ecco Andrea Ramonda, amministratore delegato di Herambiente: «Gli impianti del mercato del riciclo sono strapieni: cartiere, impianti di trattamento e selezione della materia prima seconda, la plastica».
Ha detto Alessandro Bratti, direttore generale dell’Ispra: «È tutto tremendamente semplice. Quando non si riescono trattare e smaltire i rifiuti si bruciano. Prima o poi si capirà?»

Il parere di Claudio Andrea Gemme
Claudio Gemme è presidente del gruppo tecnico industria e ambiente di Confindustria. Ecco il suo parere.
«Le aziende manifatturiere stanno affrontando una crisi senza precedenti. Parliamo di imprese che fanno economia circolare, ma che sono in crisi perché non riescono a collocare lo scarto non riciclabile originato dalle loro attività. I costi per lo smaltimento dei rifiuti stanno diventando insostenibili (in alcune realtà sono più che raddoppiati negli ultimi 2 anni) e gli spazi si stanno esaurendo. Il Paese ha bisogno di impianti e infrastrutture, dobbiamo affrontare con le tecnologie più innovative e con l'informazione la sindrome nimby. Industria, ambiente e salute possono viaggiare nella stessa direzione. A Copenaghen è presente nel centro cittadino un termovalorizzatore che, oltre a non inquinare e produrre energia dai rifiuti a favore della città, dando corrente a 62.500 abitazioni e acqua calda ad altre 160mila, è dotato sul tetto anche di una pista da sci».

Le imprese aderenti a Cisambiente
Dice Enzo Scalia, direttore del gruppo Benfante: «La gestione dello smaltimento assicura canali privilegiati agli “urbani” (che peraltro soffrono di regimi emergenziali e costi insostenibili in diverse aree del paese), finendo per trascurare la questione degli “speciali”. Se a questa miopia strategica si aggiunge una rappresentazione mediatica presbite, otteniamo l’effetto attuale». Nel frattempo, avverte Scalia, «gli stoccaggi di rifiuti crescono, e i rischi di incendio aumentano, sia per le imprese private sia per le imprese pubbliche».
Parola a Roberto Romiti, Lamacart: «Una soluzione temporanea che si potrebbe disporre, sarebbe quella di trovare ulteriori mercati di sbocco rispetto a quelli esistenti, ed in particolare le aziende dei Paesi dell’Est Europeo». Testimonianza raccolta da Cisambiente fra le imprese del Mezzogiorno: «Una possibile soluzione di emergenza per evitare questo? Creare con urgenza, a valle della filiera di trattamento, una serie di grossi centri di stoccaggio temporaneo da parte dei consorzi nazionali di concerto con il ministero dell’Ambiente, per sbloccare gli impianti di selezione ed evitare il crearsi di una nuova, diffusa, terribile emergenza ambientale nelle nostre città, in attesa di trovare la giusta collocazione sul mercato dei suddetti materiali».
Lucia Leonessi, direttrice generale della Cisambiente Confindustria: «Quanto accaduto nell’ultimo anno, con la raccolta di quantità inaspettate di rifiuti, soprattutto da superfici urbane grazie al comportamento virtuoso dei cittadini che hanno scelto la raccolta differenziata come vero e proprio stile di vita, è dovuto a un fermo imprevisto di alcuni canali di smaltimento tale da creare la paralisi e costi immensi per il gestore degli impianti di trattamento dei rifiuti. Gli stessi roghi di rifiuti evidenziano ovviamente il problema, e pongono l'attenzione sulla ricerca di una reale soluzione: impianti di smaltimento che sarebbero anche centro di produzione di energia sana e pulita, contrariamente al rogo».

Verso le soluzioni: usare materiali di riciclo
Oltre agli interessanti materiali biodegradabili come il Mater Bi dell’italiana Novamont, che oggi non sono ancora riciclabili, la tecnologia comincia a individuare le soluzioni per creare la domanda di materiali rigenerati. Per esempio il produttore di plastica Equipolymers, che produce Pet per le bottiglie e per altre applicazioni, ha messo a punto una nuova tipologia di plastica che si presta al contatto con gli alimenti. La formulazione di Pet si chiama Viridis 25, contiene fino al 25% di materia rigenerata e anticipa le raccomandazioni contenute nella Plastic strategy Ue sull’utilizzo di materiali riciclati in nuovi prodotti. A regime la produzione del nuovo grado assorbirà un volume pari a 30mila tonnellate di Pet rigenerato, equivalente al 3% di quello oggi disponibile in Europa.

Gli pneumatici saranno bruciati all’estero
La paralisi ha fatto sì che moltissimi fra gommisti, stazioni di servizio e autofficine abbiano accumulato giacenze di pneumatici fuori uso in eccesso.
Il riciclo di materiale in questo momento ha infatti subìto un rallentamento a causa della sentenza del Consiglio di Stato sull’End of Waste, che ha portato incertezza nella filiera industriale, per il rischio reale che non venga più riconosciuto neppure lo status di prodotti ai granuli e polverini di gomma riciclata, che verrebbero al contrario riportati allo status di rifiuto, con conseguenti indubbie difficoltà di collocazione sul mercato.
«In più, i ritardi e le incertezze circa l’uscita del decreto End of Waste non consentono lo sblocco di molti settori applicativi a oggi fermi in attesa di questo provvedimento», avverte il consorzio di raccolta e riciclo Ecopneus. «Gli pneumatici fuori uso raccolti con questo intervento straordinario saranno dunque avviati in larga parte al recupero energetico all’estero».

Japoco Gilberto


fonte: www.ilsole24ore.com

Terra dei fuochi. Fumo nero su Caivano, rifiuti e interessi criminali ci uccidono




















Mercoledì, tarda mattinata. Un’immensa nuvola di fumo nero oscura il cielo di Caivano e paesi limitrofi. Si vede da Napoli, da Caserta, dall’autostrada. Qualcosa di grave sta succedendo, qualcosa che da anni si ripete in questo nostro territorio martoriato. La gente, per intuito, si chiude in casa, mette al riparo i figli: l’aria in breve tempo si è fatta irrespirabile. 


Mercoledì, tarda mattinata. Un’immensa nuvola di fumo nero oscura il cielo di Caivano e paesi limitrofi. Si vede da Napoli, da Caserta, dall’autostrada. Qualcosa di grave sta succedendo, qualcosa che da anni si ripete in questo nostro territorio martoriato. La gente, per intuito, si chiude in casa, mette al riparo i figli: l’aria in breve tempo si è fatta irrespirabile. 
L'intervento è davvero difficile (Ansa)
L'intervento è davvero difficile (Ansa)
Sui social compaiono le prime foto. Il rogo è enorme. È andata in fiamme un’azienda che lavora al riciclo della carta e della plastica. In questi ultimi due anni sono centinaia queste aziende che vanno prendendo fuoco. Nessuno può dire se si tratti di un incendio doloso o di un incidente.
Una cosa è certa: l’immondizia, in un modo o in un altro, ci sta rendendo invivibile la vita. Che cosa sta accadendo? Parlando di se stesso, un camorrista dice: faccio parte del “sistema”. Ecco, il sistema. C’è un sistema, un ingranaggio, un modo di ragionare, di agire cui ho aderito. Credo che anche per quanto riguarda la raccolta, lo smaltimento, il trattamento, il riciclo dei rifiuti siamo entrati in una sorta di sistema maledetto che mette al riparo il singolo industriale e rovina l’esistenza a una folla di persone di cui è impossibile sapere il numero.
Che effetti avrà la diossina sprigionatosi per tutto il pomeriggio di mercoledì dalla zona industriale di Caivano? Una volta spento il rogo tutto passerà nel dimenticatoio. Ci sono azioni cattive che vengono punite, altre che resteranno per sempre in una sorta di limbo legale. Io non so se questo ennesimo incendio sia doloso, non sta a me dirlo, dico solo che mi viene sempre più difficile credere, in questi casi, che si tratti di incidenti. 
Le operazioni per spengere le fiamme sono andate avanti a lungo (Kontrolab)
Le operazioni per spengere le fiamme sono andate avanti a lungo (Kontrolab)
La recente legge sugli ecoreati infatti punisce severamente chi appicca i roghi, ma non prevede alcuna punizione se a bruciare sono rifiuti plastici ammassati in quantità enormi, in modo dissennato, in aziende legali in attesa di essere smaltiti o trattati. Per cui viene il sospetto che ai roghi piccoli - che bruciavano all’aperto – si siano sostituiti i roghi giganti, incredibilmente e dolorosamente “legali”. In questa tristissima storia dei rifiuti c’è sempre qualcosa che non torna, una sorta di anello mancante.
L’incendio che ci ha rapinato l’aria e la gioia di vivere mercoledì scorso, se ancora ce ne fosse bisogno, è l’ennesima prova che “Terra dei fuochi” non è più solo un luogo ma un fenomeno che riesce sempre di più ad uscire dalla macchia e ammantarsi di legalità. E non c’è niente di più terribile per il popolo indifeso che essere colpiti e affondati da un nemico “legale”.
Il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, conosce molto bene questo meccanismo perverso. Da lui ci apettiamo molto. Dove c’è la “monnezza”, in un modo o in un altro, c’entra la camorra. Per impaurire, per affossare, per consigliare. A volte degli industriali è nemica e pretende il pizzo, altre volte diventa loro buona amica e il pizzo lo incassa senza far rumore, altre volte ancora arriva ad essere loro socia in affari. 
Il fumo si vede da molto lontano (Kontrolab)
Il fumo si vede da molto lontano (Kontrolab)
Questo nostro popolo ne ha subito tante. È stanco, amareggiato, deluso. È arrabbiato. Ha paura. C’è bisogno di più Stato. O, meglio, c’è bisogno che lo Stato in “Terra dei fuochi” si decida a fare lo Stato. Uno Stato attento, vicino, che sa ascoltare e al momento intervenire. Che punisce severamente chi deve essere punito e si fa custode attento dei suoi cittadini. La domanda è sulla bocca di tutti: come è possibile ammassare tonnellate e tonnellate di materiali altamente infiammabili in un sito senza prevedere un sistema antincendio funzionante e all’avanguardia? I Vigili del fuoco non stanno dietro la porta e le autobotti in questi casi somigliano a minuscoli secchi d’acqua. Occorre bloccare il sistema. È un sistema disumano, che uccide. Ingiusto. Un sistema che premia gli scaltri e abbatte gli onesti.

Don Maurizio Patriciello

fonte: www.avvenire.it

Dentro i veleni della Terra dei Fuochi












I luoghi reali per avere più verità – la zona tra Villa Literno e Baia Verde (Caserta) – una casa colonica abitata da contadini e un piccolo paese intorno, pochi chilometri dove sono tutti in trappola, buoni e cattivi, in quel territorio violato e che si continua a violare. Veleno, il film di Diego Olivares, presentato con applausi e emozione a Venezia 74, evento di chiusura alla Settimana della Critica, in sala dal 14 settembre con Altre Storie, è ispirato alla storia di Arcangelo Pagano, uno dei tanti contadini morti di cancro in quelle Terre dei fuochi contaminate e tossiche dove si continua a morire ancora oggi, più che un eroe un “milite ignoto” come preferisce definirlo il regista. Qui la clip in esclusiva Ansa
Roghi tossici. Oltre mille l’anno secondo i dati della Prefettura di Napoli. Tumori maligni in aumento (14 mila nuovi casi proprio tra la popolazione dell’area a nord di Napoli). Disastri ambientali di cui la Campania detiene il record di reati (dati Ecomafia 2017), oltre 10 al giorno, cioè il 14,7 per cento del territorio nazionale (un affare gestito da 86 clan di camorra). In questo scenario drammaticamente vero si racconta la storia di una coppia, Cosimo (Massimiliano Gallo) e Rosaria (Luisa Ranieri), contadini in quelle campagne avvelenate tra Napoli e Caserta. La discarica in cui il clan locale che nel giovane avvocato Rino (Salvatore Esposito) ha il suo volto presentabile persino alle elezioni è proprio vicino al casale di Cosimo e Rosario e serve per ingrandirsi pure quel terreno atavico. I due rifiutano ogni compromesso, nonostante le minacce, mentre il fratello di Cosimo e sua moglie (Gennaro Di Colandrea e Miriam Candurro) cedono sognando una vita tranquilla in un appartamento di città. A complicare una vita già sotto l’incubo della camorra ci si mette la malattia: un cancro aggressivo causato dal veleno che contamina bestiame, raccolti, acqua. Quel calvario di Cosimo e la determinazione di Rosaria ad andare avanti sono l’esempio delle contraddizioni di una terra abbandonata a se stessa, senza Stato come apertamente si denuncia.























Un film forte, con un cast potente per una storia che volutamente i produttori Gaetano Di Vaio della Bronx Film e Gesco Gruppo di Imprese Sociali mettono in scena senza alcuna censura, senza paura di mostrare la realtà degli affari delle ecomafie. “In questo territorio c’è tanta gente che si oppone, che ha voglia di ribellarsi e ripartire come fa Rosaria-Luisa Ranieri”, dice all’Ansa Salvatore Esposito, il giovane talento conosciuto in tutto il mondo per la serie Gomorra, contattato per nuovi progetti in America e in Francia.

“Lo Stato non c’è, da quando sono emersi gli scandali della Terra dei fuochi ormai dieci anni fa – aggiunge Olivares – niente è cambiato, controlli non ce ne sono. Noi stessi abbiamo girato in una vera discarica proprio a due passi dalla stazione Alta Velocità di Afragola”. Le tesi negazioniste sui terreni avvelenati, le “inaspettate resistenze” sono una sorta di background produttivo, “ma noi non abbiamo fatto un film inchiesta né abbiamo pretese di verità anche se questa storia è verissima. Noi abbiamo raccontato una storia d’amore che è dei due protagonisti ma anche per un territorio, l’amore per la terra che in tanti da quelle parti, impegnati in associazioni, continuano ad avere e che rappresenta l’unico antidoto al veleno, l’unico messaggio di speranza“.
L’idea era di raccontare questa storia “dal basso, facendo emergere l’aspetto umano più che quello criminale”, dice Massimiliano Gallo, uno degli attori italiani più bravi in circolazione (qui a Venezia con altri due film, Gatta Cenerentola e Nato a Casal Di Principe). Luisa Ranieri, la donna coraggio di Veleno (da gennaio al cinema con Ferzan Ozpetek in Napoli Velata), racconta l’emozione e la fatica di “lavorare in una casa vera di contadini in un contesto quotidiano di set privo di scenografie, molto reale, disagi inclusi. È stato un viaggio incredibile in un altro mondo, una bella storia di resistenza“.



fonte: https://comune-info.net