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Il vuoto nel sistema dell’esportazione rifiuti

La geopolitica del rifiuto cerca soluzioni facili e costi ridotti all’estero, ma il sistema delle esportazioni è un nervo scoperto per i traffici illeciti















Le due puntate dell’inchiesta relativa all’esportazione dei rifiuti italiani in Tunisia hanno molti elementi di riflessione sia sulla gestione del rifiuto in sé, sia sulla geopolitica del business e della filiera legata allo scarto. L’eredità ingombrante della stagione dell’emergenza rifiuti della Campania, delle ecoballe e della rotta dei rifiuti che segue legislazioni più favorevoli e minori costi di smaltimento è un tema su cui non solo l’Italia ma l’Europa tutta dovrà fare prima o poi veramente i conti. Nasce e prospera una vera geopolitica del rifiuto.

Ma c’è una questione sistemica che in tutta la vicenda emerge sulle altre, ed è quella relativa alle autorizzazioni per l’esportazione dei rifiuti al di fuori del territorio nazionale per un loro eventuale riciclo. Al di là delle tecnicalità complesse (codici CER, fidejussioni e competenze) il nervo scoperto di tutta la vicenda è come sia stato possibile che la Regione Campania abbia potuto autorizzare l’esportazione di un rifiuto reputato riciclabile verso un Paese, nel caso specifico la Tunisia, e verso uno stabilimento di destinazione, sprovvisto delle infrastrutture per trattare e riciclare quello stesso rifiuto. Non solo: dalle note di cui è in possesso IrpiMedia si evince anche come della procedura fosse stato informato anche il ministero dell’Ambiente e le autorità competenti tunisine.

L’inchiesta/1



Arresti eccellenti e aziende fantasma: il traffico di rifiuti tra Italia e Tunisia

Documenti confidenziali mostrano il retroscena di uno scandalo che, partito dalla Campania, ha provocato le dimissioni di un ministro a Tunisi

Le rotte aperte per l’esportazione (legale) dei rifiuti si sono spesso trasformate grazie a filiere che mischiano legale e illegale in corridoi da traffico illecito dei rifiuti. Da una parte grazie a quelle “centrali affaristico-imprenditorial-criminali”, per usare una definizione particolarmente calzante del sostituto procuratore nazionale Antimafia Roberto Pennisi, dall’altra per demerito di un sistema di autorizzazioni che permette quanto successo nella vicenda che abbiamo denunciato con la nostra inchiesta. Un vuoto informativo dal lato italiano e legislativo dal lato tunisino.

L’inchiesta/2


Salerno, Varna e Sousse il triangolo dietro i container di rifiuti bloccati in Tunisia

Intermediazioni, interessi e bolle portano anche in Calabria e Bulgaria: indaga l’antimafia, ma l’inchiesta è ferma per la mancata collaborazione internazionale


Nessuno, dalla Regione al ministero, sembrava sapere se la Tunisia fosse realmente attrezzata per trattare quel tipo di rifiuto: gli unici accertamenti sono stati quelli sulla carta. Dall’altra, l’assenza di una normativa ambientale strutturata ha fatto sì che a Sousse arrivassero rifiuti per cui nessuno stabilimento presente sul territorio era attrezzato. Ed è proprio in questi vuoti che la filiera criminale del rifiuto prospera, usando a proprio favore imprenditori, aziende, norme, funzionari pubblici e procedure. Se realmente l’Italia e l’Europa tengono alla cosiddetta “economia del riciclo”, oltre ai denari degli ambiziosi “piani Marshall” ambientali, vadano a individuare questi vuoti in grado di generare crimini e corruzioni. Col rischio finale che dopo il profitto per pochi il rifiuto venga smaltito in maniera scorretta al Paese di destinazione o torni in Italia bloccato in un porto. Sulle spalle della collettività, in Italia come all’estero.

fonte: irpimedia.irpi.eu


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Il traffico di rifiuti dalla Campania che fa tremare la politica in Tunisia

La vicenda ha generato un grande scandalo politico nel paese nordafricano. Sono 7.900 le tonnellate di rifiuti partite dal porto di Salerno tra maggio e luglio 2020




Un ministro tunisino ci ha rimesso prima la poltrona e poi la libertà. Il console tunisino a Napoli è finito nel registro degli indagati. Un’azienda di Polla, in provincia di Salerno, si è liberata di 7.900 tonnellate di rifiuti. Che sono stati presi in carico al porto di Sousse da un’impresa che dichiara di esportare plastica ma in realtà non esiste. Sono gli ingredienti di un traffico di rifiuti internazionale che tocca Italia e Tunisia tra maggio e dicembre 2020, ricostruito in un’inchiesta dai giornalisti investigativi di IrpiMedia e dagli omologhi tunisini di Inkyfada.

“Impossibili da valorizzare”

L’arrivo di 282 container carichi di rifiuti al porto di Sousse ha generato un’onda che settimana dopo settimana è cresciuta fino a travolgere in uno scandalo politico di prim’ordine il ministro per l’Ambiente del paese africano, Mustapha Laroui. I primi sospetti che si tratti di un traffico di rifiuti internazionale, poi il 2 novembre Laroui annuncia che è aperta un’indagine della magistratura tunisina. Passano nemmeno 2 mesi e il ministro è costretto alle dimissioni. Arriva il 21 dicembre e per Laroui scattano le manette. Insieme a lui sarebbero coinvolti anche il suo capo di gabinetto e diversi funzionari statali.

Ma cosa c’è dentro i 282 container? “Scarti di rifiuti urbani e misti, impossibili da valorizzare”, denuncia un rappresentante del ministero dell’Ambiente di Tunisi. Ma dalle carte di cui è entrata in possesso IrpiMedia è chiaro che non è quello che è stato dichiarato al porto di origine, cioè quello di Salerno. Il documento è redatto dalla Sviluppo Risorse Ambientali, un’azienda di Polla. Cosa c’è nei container? Rifiuti derivati dalla lavorazione industriale dell’immondizia differenziata, risponde l’impresa salernitana. E perché la spedizione in Tunisia? Per un secondo trattamento di valorizzazione, visto che a Tunisi si ha “maggior economicità del processo di recupero rispetto al paese d’origine”, si legge nelle carte viste da IrpiMedia.

Chi c’è dietro il traffico di rifiuti tra Salerno e Sousse

Peccato che la Soreplast, l’azienda tunisina che dovrebbe farsi carico dei rifiuti e riciclarli, non ne ha la capacità. Non ha impianti, ma solo due depositi temporanei. Secondo l’accordo con l’azienda salernitana, che ha ricevuto l’ok della regione Campania, Soreplast avrebbe dovuto riciclare la frazione in plastica e avviare a discarica solo quella non ulteriormente differenziabile e recuperabile. Il sospetto è che abbia invece smaltito tutto in discarica. Non tutto: solo 70 container hanno lasciato il porto di Sousse. Gli altri sono ancora lì e costano più di 20mila euro al giorno alla Campania.

A luglio 2020 le autorità tunisine iniziano a sospettare che la faccenda nasconda un traffico di rifiuti. Soreplast ha truccato le dichiarazioni alla dogana. A ottobre vengono avvisate le autorità italiane e a inizio novembre lo scandalo scoppia pubblicamente. La Tunisia chiede alla Campania di riprendersi i rifiuti ancora bloccati al porto, quindi 212 container. La regione lo chiede alla Sviluppo Risorse Ambientali. Il proprietario di Soreplast è sparito dal paese e si è rifugiato in Germania. L’azienda di Polla si rifiuta di procedere senza garanzie di venire rimborsata dall’Italia o dalla Tunisia. Lo stallo al porto di Sousse continua, con il dossier che adesso è passato dai tecnici ai ministeri degli Esteri dei paesi sulle due sponde del Mediterraneo.

fonte. www.rinnovabili.it


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Mezzogiorno, i “viaggi dei rifiuti” costano 75 milioni di euro l’anno di Tari

Malissimo anche l’impatto ambientale: 14mila tonnellate di CO2 equivalente per colpa dei 25 mila tir impiegati annualmente per portare la spazzatura in giro per l’Italia












Non costruisci impianti per la corretta gestione integrata dei rifiuti? Male, molto male, perché dato che gli scarti continuiamo a produrli, solo nel 2018 dal Sud Italia sono partiti 25mila i tir verso gli impianti del Nord, e altri 10mila si sono mossi tra regioni del Sud. Lo rivela Utilitalia, la federazione che riunisce le aziende di servizio pubblico, che precisa: ciò si è tradotto in 22 milioni di chilometri percorsi, con importanti costi: dal punto di vista ambientale, con l’emissione di 14mila tonnellate di CO2 equivalente, ed economico, con 75 milioni di euro aggiuntivi sulla Tari pagata dai cittadini. Si perché come dovrebbe essere noto, più gli impianti sono lontani e più la Tari sale.

“La carenza e la non equilibrata dislocazione degli impianti – spiega il vicepresidente di Utilitalia, Filippo Brandolini – è la prima causa dei viaggi dei rifiuti lungo la Penisola. Il paradosso è che i cittadini dei territori nei quali non ci sono sufficienti impianti sono costretti a pagare le tariffe dei rifiuti più alte ed hanno una qualità ambientale più bassa. E’ un classico caso di servizio inefficiente a fronte di tariffe più alte per la cittadinanza, e al contempo un esempio di quali siano i costi del non fare: al contrario gli impianti sono investimenti in grado di produrre ricchezza negli stessi territori che attualmente spendono risorse in maniera improduttiva”.

Si chiamano “viaggi dei rifiuti” e comportano gravi costi economici e ambientali, nonché un eccessivo ricorso alla discarica: nel Mezzogiorno il 41% dei rifiuti viene ancora smaltito in questo modo (mentre l’UE impone di scendere al di sotto del 10% entro il 2035), e al contempo la vita residua delle discariche in esercizio si stima che arrivi solo fino al 2022.

Gli impianti di trattamento sono infrastrutture essenziali e non più differibili, la cui realizzazione porterebbe notevoli vantaggi economici, ambientali e sociali: investimenti in grado di produrre ricchezza in quegli stessi territori che attualmente spendono risorse in maniera improduttiva. Sono questi alcuni degli elementi che emergono dalla ricerca “I fabbisogni di trattamento dei rifiuti urbani nel Sud” realizzata da Utilitalia e presentata in occasione del Green Symposium di Napoli; nello studio viene scattata una fotografia della situazione attuale e allo stesso tempo disegnato lo scenario al 2035.

Se si pensa che la questione sia solo del Sud, però, ci si sbaglia di grosso: l’economia dei rifiuti al Nord risulta maggiormente integrata in un mercato più ampio, anche sovranazionale, in linea con l’ampia disponibilità e varietà impiantistica che caratterizza la macroarea, ma il minore grado di autosufficienza si riscontra anche nel Centro Italia, da dove quasi 5 Mt nel 2016, corrispondenti al 14% del totale movimentato, vengono trasferiti verso altre macro-aree.

Per quanto riguarda invece le 8 regioni del Sud, nel 2018 erano operativi 69 impianti di trattamento del rifiuto organico, 51 impianti di trattamento meccanico biologico (TMB), 6 inceneritori, 2 co-inceneritori e 46 discariche. Il Mezzogiorno ha esportato verso le regioni del Centro-Nord 420mila tonnellate di organico (il 30% della produzione), mentre altre 80mila sono state movimentate all’interno del Sud stesso; per quanto riguarda il rifiuto indifferenziato e trattato nei TMB ai fini del recupero energetico, sono state esportate 190mila tonnellate (il 18% di quanto è stato trattato nei termovalorizzatori del Mezzogiorno), mentre altre 70mila tonnellate si sono mosse all’interno della macroregione.

Secondo l’analisi di Utilitalia – che tiene conto dei target fissati dal Pacchetto Ue sull’economia circolare al 2035, e in particolare del raggiungimento del 65% di riciclaggio e dell’uso della discarica per una quota al massimo del 10% – considerando la capacità attualmente installata, se si vuole annullare entro quella data l’export dei rifiuti, servono investimenti pari a 2,2 miliardi di euro, oltre a quelli per lo sviluppo delle raccolte differenziate e dell’applicazione della tariffa puntuale: ciò per soddisfare il fabbisogno di trattamento della frazione organica per ulteriori 2 milioni di tonnellate, e di incenerimento con recupero di energia per ulteriori 1,3 milioni di tonnellate.

L’economia circolare infatti non gira da sé, e senza una politica industriale a supporto e senza la dotazione impiantistica necessaria sul territorio, gli unici a girare sono i rifiuti in cerca di una destinazione (legale, quando va bene) dove essere smaltiti.

Nello specifico, nel Mezzogiorno la realizzazione degli impianti di trattamento del rifiuto organico, oltre a chiudere il cerchio dei rifiuti a livello macro-regionale, permetterebbe di produrre 140 milioni di metri cubi l’anno di biometano: un quantitativo in grado di soddisfare la necessità di riscaldamento di 140mila famiglie, con un risparmio di 260mila tonnellate di CO2 l’anno.

fonte: www.greenreport.it

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Rifiuti sanitari, Italia “campione” di stoccaggio ed export

Nel 2018 gli ospedali nazionali hanno prodotto circa 180mila tonnellate ma è previsto un boom generato dalle misure sanitarie conseguenti all’emergenza Covid-19






Se ci sono dei rifiuti speciali più negletti tra i negletti, questi sono certamente quelli sanitari. Tutti li dimenticano, ma se anche non saranno milioni di tonnellate, sono quasi tutti pericolosi e per legge debbono essere inceneriti. L’Italia in realtà “preferisce” stoccarli e poi spedirli per larga parte fuori dai confini delle regioni di produzione, incenerendo il minimo indispensabile. Una strategia che a livello ambientale è discutibile, in quanto non è mai un bene far viaggiare troppo i rifiuti per quando dovrebbero essere gestiti secondo logica di sostenibilità e prossimità.

Detto questo, Ecocerved fornisce i dati italiani aggiornati al 2018, ai quali però vanno aggiunti – per una corretta analisi – gli ipotetici numeri generati dalle misure sanitarie conseguenti all’emergenza Covid-19. L’Ispra in questo senso si è già esposta segnalando che in base a stime «cautelative» entro fine anno il sistema italiano dovrà gestire un quantitativo di rifiuti derivanti dall’uso di mascherine e guanti compreso tra 150mila e 450mila tonnellate.

Ecocerved – società consortile del sistema delle Camere di Commercio italiane – aggiunge che “fin prime fasi dell’emergenza coronavirus, con l’uso sempre più diffuso di dispositivi di protezione individuale e un numero crescente di ospedalizzazioni per Covid, abbiamo letto gli scenari più disparati sui rifiuti sanitari in Italia. Alcuni hanno ipotizzato un aumento esplosivo, altri una crescita moderata per via della particolare concentrazione dei contagi su determinate aree del Paese e altri ancora hanno prospettato invece una riduzione a livello complessivo, considerando il rinvio della maggior parte delle attività ospedaliere non urgenti”.

Ma veniamo ai numeri: sulla base dei dati del Modello Unico di Dichiarazione Ambientale (MUD), che enti e imprese presentano ogni anno alle Camere di commercio indicando quanti e quali rifiuti hanno prodotto e/o gestito durante il corso dell’anno precedente.

Nel 2018 (anno più recente per cui sono disponibili dati bonificati, da fonte MUD 2019) la produzione nazionale di rifiuti sanitari – spiega Ecocerved – si è attestata intorno a 180mila tonnellate. Per la maggior parte tali rifiuti sono pericolosi a rischio infettivo (78% del totale), provenienti principalmente da strutture ospedaliere pubbliche soprattutto di medio-grandi dimensioni (quasi il 60% da centri pubblici con almeno 150 posti letto). Le regioni in cui si generano le quantità più ingenti di rifiuti sanitari sono la Lombardia (quasi 34mila t), il Lazio (25mila t) e l’Emilia Romagna (16mila t).

A seguito della produzione, il 25% dei rifiuti sanitari viene conferito ad operatori professionali fuori regione mentre il restante 75% rimane nella regione stessa di produzione, dove comunque circa la metà di tali rifiuti è avviata ad attività di solo stoccaggio (magazzinaggio): l’export fuori dai confini regionali è quindi una pratica a cui si ricorre anche in una fase della filiera successiva alla prima destinazione.

In Toscana invece i rifiuti sanitari censiti attraverso il Mud sono poco meno di 10mila tonnellate. Il 75% viene stoccato, l’8% trattato e il 15% incenerito.

Per quanto riguarda la fase di gestione, la prima regione in termini quantitativi è l’Emilia Romagna (45mila t), seguita da Lombardia (35mila t) e Puglia (18mila t). Escludendo lo stoccaggio, a livello nazionale i rifiuti sanitari non hanno altra destinazione se non l’incenerimento, per il 65% del totale, ed attività finalizzate allo smaltimento per il restante 35%. A livello locale si evidenziano però percentuali differenziate in base alla specializzazione territoriale legata alla dotazione impiantistica, per esempio – considerando le regioni più rilevanti per quantità gestita – in Emilia Romagna lo schema di gestione dei sanitari vede il 91% dei rifiuti a incenerimento e il 9% a trattamento, in Lombardia le stesse attività pesano, nell’ordine, 86% e 14% mentre in Puglia il 63% va a trattamento e il 37% a incenerimento.

fonte: www.greenreport.it

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Greenpeace, Italia coinvolta nel traffico illegale di rifiuti verso la Malesia

Attraverso un’indagine documentale ed azioni sul campo con telecamere nascoste, l’Unità investigativa di Greenpeace Italia svela e denuncia il coinvolgimento dell’Italia nel traffico illegale di rifiuti verso la Malesia
















Il traffico illegale di rifiuti diretti in Malesia coinvolge anche l’Italia. Nei primi 9 mesi del 2019,  il Bel Paese ha spedito più di 1300 tonnellate di rifiuti in plastica ad aziende malesi prive di impianti e permessi necessari allo smaltimento ed al riciclo. 
A denunciarlo è la nuova indagine dell’Unità Investigativa di Greenpeace Italiasecondo la quale su un totale di 2.880 tonnellate di rifiuti plastici spediti per via diretta in Malesia, il 46% sarebbe stato inviato a impianti che operano senza alcun rispetto per ambiente e la salute umana. 
Grazie alla collaborazione con il governo di Kuala Lumpur, l’ONG è entrata in possesso di documenti riservati e contenenti i nomi delle 68 aziende malesi autorizzate a importare e trattare rifiuti in plastica dall’estero. Da qui, l’avvio di un’indagine sul campo, effettuata mediante telecamere nascoste che ha permesso di ottenere testimonianze video da alcune delle aziende malesi disposte a importare illegalmente i nostri rifiuti.

Pochi mesi fa abbiamo mostrato le drammatiche conseguenze sanitarie e ambientali delle esportazioni di rifiuti in plastica dall’Italia verso la Malesia. Ora, con questa nuova inchiesta, sveliamo le illegalità che si celano dietro questi fenomeni – dichiara Giuseppe Ungherese, responsabile campagna Inquinamento di Greenpeace Italia – Si tratta di una situazione inaccettabile che conferma, ancora una volta, l’inefficacia del sistema di riciclo e la necessità di adottare misure urgenti per ridurre la produzione di quella frazione di plastica, spesso inutile e superflua, rappresentata dall’usa e getta”.
Il traffico illegale di rifiuti verso la Malesia ha negli ultimi mesi coinvolto decine di Paesi tra Asia, Europa e Nord America.  Nell’arco di appena un anno, gli osservatori della Global Alliance for Incinerator Alternatives (Gaia) hanno segnalato decine di villaggi in Indonesia, Tailandia e Malesia, trasformati in vere e proprie discariche a cielo aperto, zeppe di rifiuti esportati illegalmente dai cosiddetti Paesi sviluppati. 
Un business enorme, al quale il governo malese – primo fra tutti  – ha più volte tentato di porre un freno. A fine gennaio sono stati “rimpatriati” verso i paesi d’origine (principalmente Francia, UK, USA, Canada e Spagna) oltre 150 container arrivati illegalmente nei porti malesi e il Ministero dell’Energia ha annunciato il Piano d’azione nazionale per l’importazione di rifiuti di plastica al fine di “rafforzare e standardizzare le attività e le procedure di contrasto” al traffico illegale di rifiuti.  
La Malesia non può comunque essere lasciata sola: il primo modo per evitare che le migliaia di tonnellate di rifiuti provenienti da Europa e Stati Uniti trasformino il paese nella “discarica del mondo” è necessario innanzitutto fermarne l’invio. Per quanto ci riguarda – ha evidenziato Greenpeace Italia – di fronte a questa situazione il governo italiano non può più continuare a chiudere gli occhi, ma deve assumersi le proprie responsabilità e intervenire subito per porre fine a questi traffici illeciti di rifiuti.

fonte: www.rinnovabili.it

Mafia & rifiuti

Il focus della relazione semestrale gennaio-giugno 2019 della Direzione Investigativa Antimafia nazionale

























E’ stata da poco pubblicata la consueta relazione semestrale relativa alla prima parte del 2019, della Direzione Investigativa Antimafia (DIA) nazionale.
Nell’articolato documento prodotto dalla DIA è contenuto un interessantissimo focus sul tema “mafia e rifiuti”. Nel focus si evidenzia come già da alcuni decenni le organizzazioni criminali hanno compreso la reale portata del business derivante dalla loro infiltrazione nel ciclo dei rifiuti a fronte di un ampio margine di impunità rispetto ad altri settori criminali.
Questa consapevolezza è sinteticamente espressa nella frase “Trasi munnizza e n’iesci oro” tratta da una intercettazione telefonica di tre decenni fa. Il senso di quella frase – declinata, nel tempo, non solo in siciliano e in altri dialetti, dal nord al sud del Paese, ma anche in perfetto italiano e in diverse lingue straniere – viene ancora oggi rinvenuto, nelle attività tecniche quotidianamente svolte in tema di criminalità ambientale.

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estratto del focus “Mafia & rifiuti” dalla Relazione della DIA
Il Focus si pone l’obiettivo di analizzare l’intera filiera di gestione dei rifiuti, mettendola in relazione (grazie a dati di fatto emersi in indagini ed operazioni di servizio) con l’infiltrazione della criminalità organizzata, per cercare di individuare gli snodi più a rischio, affinché le Autorità preposte possano eventualmente intervenire sul ciclo dei rifiuti. Il rapporto sottolinea come oggi si registra, nel profilo criminale, un modus operandi quasi sempre sovrapponibile, indipendentemente dal contesto territoriale in cui si opera, caratterizzato da una tale specializzazione da consentire, in caso di necessità, l’immediata rimodulazione delle condotte e delle rotte dei rifiuti.
La lunghissima filiera dei rifiuti (produzione – assegnazione dei servizi – raccolta – trasporto – trattamento – smaltimento) vede la contestuale presenza di diversi “attori” – gli enti pubblici che assegnano i servizi di raccolta, i produttori dei rifiuti, gli intermediari, i trasportatori, gli impianti di stoccaggio e di trattamento dei rifiuti, i laboratori di analisi e gli smaltitori.
Un ruolo fondamentale viene svolto dalla figura del produttore del rifiuto, cioè l’imprenditore che ha la necessità di disfarsi dei quantitativi prodotti dalla propria azienda. Non di rado la scelta d’impresa, tesa ad economizzare sui costi e ad imporsi sul mercato, coincide con la volontà di liberarsi illegalmente dei rifiuti per abbattere i costi di produzione e acquisire, così, una posizione di vantaggio rispetto ad altre aziende che, con trasparenza ed onestà, affrontano tutti gli oneri previsti dalle disposizioni di legge. Ma tutti gli altri attori coinvolti nel ciclo dei rifiuti presentano criticità analizzate in dettaglio dal rapporto.
Il focus approfondisce nella prima parte gli aspetti criminogeni della complessa filiera dei rifiuti urbani, speciali e pericolosi – compresi i recenti casi che hanno visto, a macchia di leopardo sul territorio nazionale, numerosi incendi presso aree periferiche e capannoni – tenendo presenti le criticità registrate, negli ultimi decenni, in primo luogo in Campania, punto nodale delle problematiche connesse ai reati ambientali.
Successivamente l’analisi si estende alle altre regioni, a cominciare da quelle a tradizionale presenza mafiosa, basandosi sulle inchieste concluse, nel tempo, dalla DIA e dalle Forze di polizia, sui provvedimenti di scioglimento degli enti locali e sulle interdittive antimafia, che danno conto della complessa azione di contrasto, nel
profilo preventivo e repressivo, sviluppata in tale settore negli ultimi anni.
Già nel dicembre 1994, Legambiente e l’Arma dei carabinieri, con l’Istituto di ricerca “Eurispes”, presentarono il primo Rapporto sulla criminalità ambientale in Italia. In quell’occasione, venne coniato il termine “ecomafia” che entrò cinque anni più tardi nei dizionari della lingua italiana.
La DIA osserva che “il crimine ambientale è un fenomeno in preoccupante estensione proprio perché coinvolge, trasversalmente, interessi diversificati. Il prodotto di tali comportamenti illeciti interferisce sull’ambiente e sull’integrità fisica e psichica delle persone, ledendone la qualità della vita, con conseguenti rilevanti costi sociali.”
Già da quella ricerca emergeva uno scenario preoccupante sull’illegalità ambientale nel nostro Paese e sul ruolo che giocava in questo settore la criminalità organizzata
di tipo mafioso, soprattutto nel meridione d’Italia. Era un quadro che raccontava di rifiuti speciali pericolosi che, dal nord, finivano smaltiti illegalmente nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa (Campania, Puglia, Calabria, Sicilia), in quei territori cioè dove maggiore era il controllo da parte delle organizzazioni criminali.
fonte: https://www.snpambiente.it

Discarica abusiva di rifiuti in plastica (italiani) in Turchia















Abbiamo condotto, insieme a Greenpeace Turchia, un’indagine sul traffico di rifiuti in plastica, presumibilmente di origine italiana, che finiscono all’interno di un sito illegale di stoccaggio nella provincia di Smirne, in Turchia.
Si tratta, come si evince dalle foto scattate e come riportato dai media turchi, soprattutto di film plastici flessibili eterogenei che arrivano direttamente dal nostro Paese: dalle testimonianze fotografiche rilevate, infatti, si leggono chiaramente le etichette in lingua italiana appartenenti a marchi ben noti come Beretta, Svelto e Mulino Bianco.
Le immagini sono state scattate presso una fattoria ad est di Smirne dove, secondo la testimonianza del proprietario dell’ area, un imprenditore italiano – affittuario del terreno – avrebbe scaricato almeno cinquanta balle di rifiuti plastici per poi scomparire nel nulla e rendersi irreperibile.
In questo modo, da una parte la Turchia si sta trasformando in una discarica di rifiuti italiani ritenuti poco idonei al riciclo, dall’altra gli sforzi quotidiani di migliaia di cittadini nel separare e differenziare i rifiuti in plastica vengono così vanificati da pratiche assolutamente illegali. Questo dovrebbe farci riflettere sul fatto che riciclare la plastica non è sufficiente né tantomeno è la soluzione a un problema ben più grave: per evitare che situazioni come questa possano verificarsi in futuro, infatti, è necessario ridurre subito e drasticamente la produzione di plastica, a partire dall’usa e getta.
È poi importante ricordare che, in Italia, i rifiuti con imballaggi in plastica vengono gestiti – per più del 90% dei comuni – da Corepla, il Consorzio Nazionale per la raccolta, il riciclo e il recupero degli imballaggi in plastica. Chiediamo pertanto a Corepla – e agli altri operatori di raccolta indipendenti che gestiscono la parte rimanente dei comuni italiani – delle garanzie sul controllo della filiera per escludere che ciò che abbiamo trovato in Turchia provenga direttamente dalla raccolta differenziata da loro operata.
fonte: https://www.greenpeace.org

Dal sole alle rottamazioni: ecocriminali senza confini

COLLETTI BIANCHI - ORMAI LA DELINQUENZA ECONOMICA SI AFFIDA A GRANDI GRUPPI IMPRENDITORIALI E FIGURE DI ELEVATA PROFESSIONALITÀ





Il mondo del crimine ambientale si rinnova e amplia il tradizionale campo d’azione, specie nel settore dei rifiuti. Non solo la criminalità organizzata, che accaparra con corruzione e intimidazione lucrosi appalti per la raccolta di rifiuti solidi urbani, specula sullo smaltimento illecito di rifiuti, sull’abusivismo edilizio e sull’esportazione illegale di rifiuti; ma soprattutto la nuova criminalità economica che “fa capo a gruppi imprenditoriali di spessore, con interessi commerciali diversificati, i quali si avvalgono della competenza e delle prestazioni di figure di elevata professionalità, evitando contatti diretti con criminalità organizzata ed esponenti mafiosi”.

L’hanno detto, il 6 marzo, alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali a esse correlati, due persone che di queste cose se ne intendono: il generale Angelo Agovino, comandante dei Carabinieri Unità forestali, ambientali e agroalimentari, e il generale Maurizio Ferla, comandante dei Carabinieri per la tutela ambientale (Noe).

Non solo “ecomafia”, dunque, ma colletti bianchi, anche se spesso tutto finisce nel fumo degli incendi “liberatori” di rifiuti. E così diminuiscono i “roghi tossici” ma aumentano gli incendi di rifiuti regolarmente stoccati. Per dirla con il generale Agovino, “le criminali imprese di settore per il perseguimento dell’illecito profitto acquisiscono ingenti quantitativi di rifiuti anche a prezzi fuori mercato, omettono di sottoporli ai necessari trattamenti e li avviano a smaltimento e/o a riciclo, assegnando codici fasulli attraverso la tecnica del giro bolla o altre questioni che noi conosciamo. L’illecita esasperazione di simili condotte comporta alla fine l’eliminazione con il fuoco dei materiali giacenti”.

E ormai l’illegalità investe sempre più spesso anche la filiera dei rifiuti urbani il cui flusso cresce specie nel Nord. Con il coinvolgimento diretto di imprenditori titolari di impianti autorizzati, utilizzati come specchietto per le allodole, al fine di acquisire commercialmente le commesse sui rifiuti, per poi smaltirli abusivamente tal quali in capannoni dismessi, dislocati soprattutto in Piemonte, Lombardia e Veneto, “di fatto delle discariche abusive che diventano poi bombe ecologiche” dove, spesso, il ciclo si chiude con il fuoco che cancella tutto. Perciò, s’assiste ormai a una ricerca “spasmodica” di capannoni in disuso.

Questo, a volte, con l’aiuto involontario di qualche legge, come lo Sblocca Italia: se prima i rifiuti solidi urbani potevano esser trattati solo all’interno del bacino di produzione, ora il decreto “ha aperto tali confini per supportare i bacini in situazioni d’emergenza nelle aree del Centro e del Sud e ha consentito l’esportazione in altre regioni, dove vengono stoccati in hangar dispersi sul territorio in quantità e modalità che non rispettano le norme”. Invertendo così il flusso dei rifiuti che prima andava dal Nord al Sud.

E l’illegalità aumenta, giungendo a lambire il settore delle energie alternative: il fotovoltaico, soprattutto, dove spesso gli ecocriminali, quando un pannello giunge a fine vita, “fanno una dichiarazione fasulla di sottoperformanza e quindi non è più un rifiuto, ma è un pannello che si può vendere come usato in altre parti del mondo, per cui si sono aperte rotte commerciali verso Paesi del terzo mondo”.

Anche nel settore della rottamazione auto dove, alle illegalità esistenti, s’è aggiunto il “canale di demolizione illegale” per la “cannibalizzazione” di veicoli a fine vita, quando parti di veicoli illegalmente demoliti vengono dichiarate materiale usato, nascoste in container sotto pezzi di ricambio veri e mandate in Paesi terzi insieme a “rifiuti elettronici, batterie, oli usati, etc”.

Così vengono al pettine anche le carenze della nostra legge sugli ecoreati quando punisce l’inquinamento e il disastro ambientale solo se vengono provocati “abusivamente”. Delitti che, come dice il generale Ferla, “restano lettera morta o quasi, perché formulati con un preliminare ‘abusivamente’ che sta bloccando molte Procure, autorità e polizia giudiziarie…”.

Gianfranco Amendola

magistrato, esponente dei Verdi

fonte: www.ilfattoquotidiano.it

Rifiuti, l’export milionario della monnezza Italia-Romania per bruciare a costo zero. Tra infiltrazioni criminali e affari d’oro

I cementifici del Paese dell'Est ingoiano il "carburante-spazzatura" a prezzi irrisori rispetto alla media europea. E a guadagnarci, tra fanghi e carichi irregolari, ci sono anche gli italiani: dalla Toscana alla Lombardia



Bruciare rifiuti a costo zero, evitare discariche e guadagnarci pure. È la strategia waste to energy che da una dozzina d’anni fornisce rifiuti ai cementifici. Questi intanto risparmiano su carbone e petrolio e vengono pure pagati. Sulla carta la soluzione perfetta ad uno dei maggiori problemi di quest’epoca e particolarmente caldo in Italia: lo smaltimento dei rifiuti. Chi difende questa pratica sostiene che i benefici siano molteplici: i rifiuti bruciano ad alta temperatura, rilasciando quindi poco gas serra rispetto ai carburanti classici e bruciare rifiuti significa meno discariche. Un’inchiesta dei due centri di giornalismo d’inchiesta rumeno Rise Project e italiano Irpi, coordinati dalla rete Organized Crime and Corruption Reporting Project, svela come questo patto tra cementieri e istituzioni sia meno “sano” di ciò che si vuole fare credere.
Il commercio dei rifiuti-carburante – quello che veniva chiamato “combustibile derivato da rifiuti” e adesso si chiama “combustibile solido secondario” – è un settore infiltrato dalla criminalità, anche organizzata. Spesso ai cementifici arrivano rifiuti che non dovrebbero arrivare. E anche quando i carichi in ingresso risultano del tutto regolari, i cementifici sono spesso dei giganteschi mostri costruiti vicino a centri abitati con relative ripercussioni sulla salute dei cittadini.

La Romania è diventata uno dei Paesi di punta di questo commercio. Lì, l’industria dei cementifici vale 750 milioni di euro l’anno e le affamate ciminiere grigie fagocitano enormi quantità di balle di rifiuti provenienti da tutta Europa. Dopo gli scandali legati all’infiltrazione di Cosa Nostra nelle sue discariche, la Romania non accetta più rifiuti stranieri nei propri invasi, ma vede di buon grado l’import di carburante-spazzatura per i cementifici.











“Guarda le tegole, le ho cambiate otto mesi fa. Guarda lo sporco che le ricopre… In due anni saranno completamente nere. E’ per via dei copertoni e dei rifiuti che bruciano per soldi. E noi ci ammaliamo. Ecco come funziona l’affare…” racconta Marius Mangu, uno dei tanti contadini che vivono attorno al cementificio della Heidelbergcement, a Chișcădaga, mentre indica il tetto nuovo già ricoperto da uno strato di fuliggine alto tre dita.
Qua i cementieri monitorano le emissioni in autonomia e inviano i risultati al ministero dell’Ambiente. Per il monitoraggio, le aziende si rivolgono tutte allo stesso consulente. Un’impresa di Mihail Fâcă, fino al 2015 direttore dell’agenzia ambientale pubblica che dovrebbe controllare il lavoro dei cementieri. “Questo è il collettore dell’acqua piovana. Guarda che colore ha l’acqua – continua Marius – prima la davo agli animali, ora non mi azzardo più. Ho paura che si ammalino anche loro. Mi sono già morti sette alberi da frutto quest’inverno. I più sensibili, muoiono”. L’odore provocato dalle emissioni è terrificante: d’estate, quando la temperatura tocca i trenta gradi, il rischio è quello di collassare.

In Europa ai cementifici centinaia di euro a tonnellata di rifiuti bruciati. Ma la Romania fa eccezione: qui i cementieri accettano di essere pagati 10 euro a tonnellata. E’ chiaro che a intermediari e faccendieri della monnezza convenga trovare il modo di spedire balle di rifiuti lì. Un terreno fertile per le scorribande degli attori che popolano il variegato mondo del traffico illecito dei rifiuti in Europa.


I carichi irregolari dall’Italia
Costanza è il punto di arrivo dei carichi via mare. Al porto i controlli sono blandi, spesso inesistenti grazie alle mazzette. Ma i carichi viaggiano anche su ruota, passando dalla frontiera con la Slovenia e oltre. Il magistrato Tiberiu Nita per anni ha indagato traffici di rifiuti tossici e ritiene che l’affare del combustibile solido secondario sia di fatto fuori controllo. Nita spiega come i trafficanti di rifiuti abbiano escogitato un metodo perfetto per eludere i controlli durante le varie fasi del trasporto: nascondono rifiuti tossici di ogni tipo nel cuore del carico. Una operazione importante perché l’analisi si concentra su un solo strato del campione del rifiuto, dopodiché tutto viene imballato da una plastica brillante e venduto come carburante. Non è infrequente tra l’altro, hanno appurato le indagini degli ultimi decenni, che tra chi spedisce il rifiuto e chi lo riceve ci sia un accordo precedente riguardo lo strato da cui estrarre il campione da analizzare.























Una pratica sempre più frequente. Se ne sono resi conto nel 2016 gli ispettori ambientali romeni fermando un Tir in arrivo dall’Italia con a bordo un carico di Css. “Quando abbiamo aperto le balle – spiega un ispettore – abbiamo trovato rifiuti ospedalieri”. Che, dice la normativa rumena ed europea oltre che la logica, non possono essere bruciati nei cementifici. Il pm Nita ha aperto un fascicolo, le indagini sono attualmente in corso.
Il carico del camion fermato era solo il primo di una lunga fila: faceva parte del contratto per il trasporto di 12mila tonnellate del cosiddetto combustibile solido secondario stipulato tra un’azienda italiana e un broker romeno, Tiberiu Găneșanu. Nell’Est Europa è un broker di fama. Si difende si difende dicendo che “gli ispettori hanno aperto solo due balle e hanno dichiarato che fosse un carico illegale. Andate in Italia a vedere dove li imballano questi rifiuti: è tutto così pulito che non c’è nemmeno fetore, nell’impianto di imballaggio!”.


Ma chi aveva imballato quei rifiuti? L’azienda toscana Delca Energy. Situata a Vicopisano, è per metà di un immobiliarista livornese, Massimo Saporito e per l’altro 50 per cento di un’altra socia. La Delca Energy però è un’araba fenice, risorta dalle ceneri della società Delca Spa.
Dalla Toscana, con fango
La Delca si presenta come fiore all’occhiello del trattamento rifiuti in due ambiti: la produzione di combustibile derivato e il recupero, tramite spandimento sui terreni agricoli, di fanghi di depurazione civili e industriali. Lo spargimento dei fanghi in agricoltura è previsto dalla legge, purché i fanghi siano depurati e non contengano sostanze tossiche in concentrazioni dannose per uomo e ambiente. Un’attività avviata dalla Delca nei primi anni Duemila. Epicentro Peccioli: un borgo medievale di 5mila anime, tra Pontedera e Volterra, in provincia di Pisa, circondato da colline mozzafiato e uliveti. E’ qui che – ha confermato un processo arrivato in Cassazione – uno dei titolari della Delca, Domenico Del Carlo, ha spanto fanghi irregolarmente già nel 2008.
Dieci anni dopo, a settembre 2018, la Direzione Distrettuale Antimafia di Firenze ha chiesto un nuovo processo per Del Carlo e suo fratello Felicino: gestione abusiva e traffici di fanghi di depurazione pieni di inquinanti,  i reati contestati. Quarantamila tonnellate di “concime” sversate tra le colline del Pisano, grazie alla compiacenza degli agricoltori del posto.
Le Fiamme Gialle hanno filmato di nascosto lo scarico tal quale dei liquami tra i campi, dimostrando come la procedura fosse fuorilegge. I fanghi, misti a pulper di cartiera, finivano anche in Basilicata e lì usati come combustibile in due fabbriche di mattoni. A trasportare questi ultimi, era un’azienda del Casertano ritenuta dagli inquirenti fiorentini, “vicina al clan dei Casalesi”, e “sin dalle origini riferibile direttamente o indirettamente a tale organizzazione criminale in quanto continuativamente a disposizione del clan almeno dagli anni Novanta per la commissione di traffici illeciti in materia di rifiuti”.
Stando alle dichiarazioni del pentito Gaetano Vassallo – mente manageriale per il traffico di rifiuti dei Casalesi – anche i Del Carlo si sarebbero trovati gomito a gomito con il clan in passato. Nel libro Così vi ho avvelenato, Vassallo racconta come tra il 1988 e il 1992 la Delca portato pulper dalla Toscana alla discarica Novambiente di Giugliano, nel cuore della Terra dei fuochi.
Anche a Peccioli c’è un’enorme discarica. Tra i gironi dell’inferno di creta grigia cinque autocompattatori scaricano rifiuti. I gabbiani girano in tondo e poi si gettano in picchiata. Eppure siamo lontani dal mare. “Chiunque abbia un po’ di cervello se ne è andato da qui”, dice Mario, uno degli abitanti che portano avanti la battaglia contro l’invaso. Tutt’attorno, i campi dove sono stati sversati i fanghi. “Questa zona qui, a destra e a sinistra – indica Mario – è dove hanno sparso i liquami tossici. Prima li spargevano e basta, adesso li sotterrano anche”.
Ormai sembra non esserci più distinzione tra la discarica e i campi circostanti: è tutto una fogna a cielo aperto. Il sindaco di Peccioli, Renzo Macelloni, è un elemento fondamentale del puzzle. Al potere ininterrottamente dal 1988, è passato dall’amministrazione comunale alla società pubblica che gestisce la discarica, la Belvedere, per poi tornare a vestire la fascia tricolore restando però dipendente della Belvedere. Quando, nel 2007, Macelloni è dirigente della Belvedere dà proprio ai fratelli Del Carlo l’incarico di costruire un impianto sperimentale di trattamento fanghi accanto alla discarica. I Del Carlo aprono una società ad hoc, la Belvedere ne acquisisce l’intero capitale, ma inspiegabilmente il progetto naufraga. In contemporanea, la Belvedere – società pubblico partecipata che ha come scopo la gestione della discarica – si da all’immobiliare. Sbarca infatti a Londra, investendo in un progetto di Massimo Saporito, l’immobiliarista livornese che oggi gestisce l’impero Delca.
Infatti, la Delca Spa dei Del Carlo viene liquidata nel 2015, mentre in contemporanea Saporito inaugura laDelca Energy: l’araba fenice della spazzatura. I Del Carlo, pur non comparendo nella nuova Delca, non sono mai usciti davvero. Quando i giornalisti di Rise e Irpi hanno chiesto numi rispetto al carico fermato in Romania, è stato proprio Domenico Del Carlo a fornire delle spiegazioni. Alle domande inviate via email, la segreteria ha dichiarato che Delca non aveva mai inviato carichi nel paese dell’Est. Davanti alle insistenze dei giornalisti, è stato Del Carlo a rispondere ai reporter, dichiarando di avere sì avuto in passato un canale con la romania, ma di avere fermato l’export perché le condizioni commerciali non erano buone.
Da Brescia con furore
In realtà i bassi costi di smaltimento dei cementifici romeni continuano a fare gola al sistema rifiuti, che in Italia è sempre più impegnato a trovare nuove destinazioni dopo lo stop della Cina all’importazione degli scarti della plastica.
C’è un biglietto da visita che non può mancare nel portafoglio degli imprenditori del settore: quello del broker bresciano Sergio Gozza, classe ‘53, che dai primi anni Novanta contratta l’export di rifiuti in Europa e Nord Africa. Il suo profilo risponde a un’esigenza di mercato: mettere in contatto chi deve liberarsi del rifiuto con chi lo accoglie per smaltirlo in discarica o trasformarlo in combustibile. Un ruolo cerniera indispensabile, ma che spesso cammina sul confine tra lecito e illecito. Lo scorso novembre, il broker bresciano emerge da un lungo procedimento giudiziario a suo carico, che al tribunale di Ancona finisce in prescrizione. Accusato di traffico illecito di rifiuti, con altri sedici indagati, nel 2010 Gozza finisce ai domiciliari in seguito ad una complessa indagine dei carabinieri del Noe coordinati dal pm Paolo Sirleo della Procura di Napoli e dal pm Rosario Lioniello della Procura di Ancona. Le indagini ricostruiscono un sistema secondo cui i rifiuti – perlopiù idrocarburi delle grandi petrolchimiche del Centro-Sud Italia, dall’area ex Rfi di Casoria alla raffineria di Gela, passando per la Caffaro di Colleferro – venivano classificati in modo errato e quindi smaltiti illecitamente, ai fini di un ingiusto profitto. Dopo mesi di appostamenti vicino agli impianti, gli inquirenti hanno dimostrato analisi alla mano come gli scarti non venissero lavorati ma semplicemente miscelati con altri rifiuti. Un traffico che ha coinvolto siti di stoccaggio dal Centro-Sud Italia alla Germania, come dimostra la mole di materiale analizzato dai giornalisti e racchiuso in 20 faldoni stipati tra la polvere della Procura di Ancona.







Ed è proprio uno dei trasporti verso la Germania a mettere nei guai il broker bresciano. Una prima spedizione, annotano gli inquirenti, riguarda fondami di serbatoi che “non possono essere smaltiti in discarica ma devono essere avviati a incenerimento, con conseguente smaltimento in discarica delle sole scorie”. Una operazione che necessita tempo e denaro. La soluzione è dunque quella di smaltire tutto in discarica “accompagnando rifiuti con analisi di altri campioni”, scrivono gli investigatori commentando le intercettazioni telefoniche agli atti dell’inchiesta. Più avanti il gruppo cercherà di mandare un altro carico verso la discarica tedesca Wev, in Sassonia, che facendo i controlli rileverà la presenza di arsenico(derivante dai rifiuti raccolti alla Caffaro di Colleferro) e ordinerà nuove analisi a campione che venivano comunque svolte da una società legata al gruppo. Per i magistrati e i periti incaricati la lavorazione e il trattamento dei rifiuti è stata “inesistente” e l’azienda bresciana avrebbe compiuto azioni dirette ad “aggirare i controlli da parte dei tedeschi come la preparazione di campioni, di carichi di prova e di analisi di laboratorio ad hoc”. Per i pm tutti gli imputati erano “pienamente consapevoli del ruolo svolto nella complessa filiera dello smaltimento illecito praticato”. Otto anni però non sono bastati per giungere a un verdetto del tribunale e a inizio novembre è stata dichiarata la prescrizione.










Nel giugno 2013 Gozza si trova ad affrontare un altro problema. Siamo al porto di Costanza, in Romania, e la nave Volgo Balt (già nota per traffico di rifiuti) è appena stata sequestrata. Rimarrà ferma due mesi: partita nel febbraio 2013 da OrtonaAbruzzo, con 2700 tonnellate di Css dirette all’incenerimento in Romania, viene bloccata perché le autorità sostengono che i rifiuti non siano stati adeguatamente trattati e classificati. L’intermediazione del carico era affidata alle società di Gozza. Alla fine gli scarti prenderanno la via della Bulgaria.
L’Abruzzo per Gozza è un luogo chiave: con la sua Ecovalsabbia si prepara a dare il via, tra le proteste degli ambientalisti, ad un sito di stoccaggio di Css che servirà come “deposito temporaneo, in attesa di poter essere imbarcato nella vicina area portuale”. La società Ecovalsabbia, contattata anche telefonicamente, non ha voluto rilasciare dichiarazioni né in merito all’indagine di Ancona, né in merito ai nuovi progetti.

Cecilia Anesi, Cecilia Ferrara, Luca Rinaldi
fonte: https://www.ilfattoquotidiano.it