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Solvay smette di usare i Pfas negli Usa (ma non in Italia)

In principio sono state le pentole antiaderenti. Poi sono stati trovati ovunque. E sono emersi, gravi, gli effetti sulla nostra salute. Nel libro “Pfas, inquinanti per sempre” la storia dei casi italiani, dei prodotti in cui si trovano e di come evitarli. 

















La notizia è di qualche settimana fa, ma l’eco e le polemiche sono scaturite in Italia solo in queste ore.

Partiamo con ordine dalla decisione di Solvay di cessare l’utilizzo dei Pfas negli Stati Uniti sostituendoli con nuove tecnologie dopo che lo Stato del New Jersey, per un vasto inquinamento da Pfas causato dallo stabilimento di West Deptford, aveva portato in giudizio l’azienda, chiedendo bonifiche e danni.

Da qui la decisione della multinazionale di sostituire dal 1° luglio i Pfas nelle sue fabbriche degli Stati Uniti. Una analoga scelta non sembra aver varcato l’oceano, visto che in Italia la Solvay continua ad usarli. Le polemiche, invece, quelle sì che sono approdate in Italia, in particolare in Piemonte a Spinetta Marengo dove lo stabilimento Solvay è al centro di numerosi timori e proteste della popolazione. L’ex assessore Claudio Lombardi sul Piccolo, il giornale della provincia di Alessandria, si domanda: “È un comportamento coerente, etico sospendere la produzione di Pfas negli Stati Uniti sostituendoli con prodotti ‘più sostenibili’ e non farlo negli altri stabilimenti, in particolare in quello di Spinetta Marengo?”.

Continua Lombardi: “Nel comunicato stampa, Solvay annuncia di avere messo a punto prodotti basati su nuove tecnologie che permettono di abbandonare l’impiego dei Pfas nei processi di polimerizzazione delle sostanze fluorurate. Inoltre, e questa è notizia altrettanto importante, Solvay ha rinunciato all’impiego dei Pfas in tutti i siti di produzione degli Stati Uniti dal 1° luglio 2021”.

Che sia stata una decisione obbligata dall’azione dello Stato del New Jersey non sfugge a Lombardi che chiosa: “Ben diversamente si sono comportate le pubbliche amministrazioni piemontesi, a partire dal Comune di Alessandria per arrivare alla Provincia, che il 12 maggio ha autorizzato Solvay a produrre il Pfas denominato cC6O4 e non ha mai fatto sospendere quella del Pfas denominato Adv”.
Lombardi conclude, pungolando la Solvay: “Esistono paesi abitati da cittadini per i quali ci si deve comportare in modo ‘sostenibile’ e altri che non ne hanno diritto? Ritengo che agli alessandrini, e in particolare agli spinettesi, sulla base di queste notizie sia dovuta l’immediata sospensione della produzione dei Pfas nello stabilimento locale”.

C’è da ricordare che negli Stati Uniti, il caso del New Jersey non è l’unico che interessa la Solvay. A inizio anno L’Environmental Working Group ha chiesto all’Agenzia per la protezione ambientale, di imporre multe civili e penali alla multinazionale per un totale di 434 milioni di dollari per molteplici violazioni del Toxic Substances Control Act. Per 8 anni – questa l’accusa di Ewg – Solvay non ha mai tirato fuori queste prove, nonostante dimostrassero che la sua nuova sostanza chimica PFAS era tossica tanto quanto il composto fluorurato che avrebbe dovuto sostituire.

fonte: ilsalvagente.it



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Pfas Veneto: il processo ambientale più importante d’Italia.

 



Soprattutto se entrerà in sinergia con il processo gemello di Alessandria contro di Solvay, che sta per partire. A Vicenza il Gup ha rinviato a giudizio 14 manager di diversa nazionalità dell’azienda Miteni e delle multinazionali Mitsubishi Corporation e International Chemical Investors Group, oltre che la stessa Miteni di Trissino. L’accusa è di aver avvelenato con i Pfas (Pfoa ,GenX e C6O4) per decenni, senza soluzione di continuità, le acque sotterranee e di falda di oltre 300 mila abitanti delle province di Padova, Vicenza e Verona, provocando tumori, malformazioni, aborti e malattie del sistema cognitivo, ecc. La prima udienza in corte di assise il primo luglio. Le contestate sono centrate su reati dolosi e non colposi: avvelenamento delle acque, disastro doloso, inquinamento ambientale e bancarotta fraudolenta. Le parti civili costituite sono oltre duecento. Il processo continua una lotta avviata otto anni fa e animata in particolare da “Mamme No Pfas” fin quando nel 2017 è scattata l’emergenza sanitaria, della quale sono state investite le istituzioni, dalla Regione al Governo. Fondamentale saranno le ripercussioni sulla enorme bonifica, con analogia con la vicenda Solvay di Spinetta Marengo.

Anche gli avvocati di Miteni avranno l’impudenza di sostenere che non vi sono certezze nel panorama scientifico sugli effetti nocivi delle sostanze perfluoroalchiliche per l’uomo, con la conseguenza di mancanza di volontarietà da parte degli imputati.

Di seguito, i più recenti “post” sul Sito della “Rete Ambientalista Movimenti di lotta per la salute , l’ambiente, la pace e la non violenza” gestito dal “Movimento di lotta per la salute Maccacaro”.

Vietare una volta per tutte i Pfas, e farlo presto. La posizione Cinquestelle in Parlamento.

A Spinetta Marengo la polvere sui mobili delle case contiene Pfas e altre sostanze tossiche.

La Regione Veneto e la Provincia di Alessandria nascondono alle popolazioni i dati Pfas sensibili alla loro salute. Gli omissis nelle autorizzazioni e gli alimenti avvelenati.

I biberon al bisfenolo. Uno dei sei esposti depositati presso la Procura della Repubblica di Alessandria denuncia: alla Solvay di Spinetta Marengo nel cocktail con i Pfas (PFOA, C6O4, ADV) tra gli interferenti endocrini c’è anche il Bisfenolo.

L’allarme “Pfas e Bisfenolo riducono qualità dello sperma, volume testicoli e …

La chimica che inquina l’acqua


fonte: www.rete-ambientalista.it


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Dagli USA l’incriminazione alla Solvay che potrebbe ripetersi in Italia.







Nel motto Usa “Lady Justice” (latino: Iustitia) è una personificazione allegorica.

Nove documenti nel terzo esposto del “Movimento di lotta per la salute Maccacaro” alla Procura di Alessandria. Tutti i documenti convergono nella richiesta di mettere una pietra tombale sui Pfas.

Nel primo esposto alla Procura (clicca qui) avevamo fatto specifico riferimento alle secretate cartelle cliniche dei lavoratori spinettesi contaminati da PFAS, che riteniamo vadano requisite quali prove processuali. Nel secondo (clicca qui) abbiamo ritenuto che, nei confronti della situazione generata da Solvay di Spinetta Marengo a danno degli abitanti e del territorio di Alessandria e non solo, si debba procedere penalmente come avvenuto nei confronti di Solvay a causa del suo impianto Pfas di West Deptford in New Jersey.

Nel terzo esposto (clicca qui), in esclusiva produciamo il documento originale della incriminazione USA della Solvay, avvenuta anche grazie ad uno scienziato italiano che lavora sulla contaminazione dello stabilimento Solvay a Spinetta Marengo Dai documenti riveliamo che Solvay, nel corso di due decenni, per mezzo dalle segrete analisi del sangue dei lavoratori, conosceva i gravi danni alla loro salute (e delle popolazioni). E che i cosiddetti “sostituti” (C6O4) sono più tossici e cancerogeni del PFOA. Sono prove, nascoste per decenni, che saranno prodotte al processo Miteni in corso a Vicenza e nel prossimo processo Solvay che sarà riaperto ad Alessandria.

fonte: www.rete-ambientalista.it/

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Il ministero dell’Ambiente se ne fotte degli impegni del suo titolare Sergio Costa?

 

Il quale ha preso solenne impegno di abbassare i limiti dei PFAS a ZERO. Invece riscontriamo tutt’altro nella bozza di proposta di regolamentazione che appare redatta sotto dettatura della Solvay. Infatti, come spiegano le Mamme NoPfas: clicca qui pagina Facebook della rete stessa, se passasse questa proposta ministeriale, i cancerogeni PFAS, che hanno effetti sulla salute a dosi bassissime, di nanogrammi/litro, potrebbero essere emessi superando qualunque soglia immaginabile. Addirittura per il C6O4, di cui Solvay pretenderebbe l’autorizzazione AIA dalla Provincia di Alessandria, nei primi due anni si potrebbero scaricare ben 7.000 nanogrammi/litro per poi “decrescere” fino a 500. Nella proposta i cittadini potranno essere esposti a concentrazioni di sostanze per-fluoroalchiliche fino a 19.530 nanogrammi/litro e per i decenni seguenti a 6.530 nanogrammi/litro. Altro che limite zero! Costa modifichi, oppure si dimetta.

fonte: https://www.rete-ambientalista.it



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I Pfas abbassano le difese immunitarie e riducono la risposta ai vaccini, a partire dai bambini.






















Oltre alle patologie già conosciute: interferenti endocrini, tumori dei testicoli e dei reni, ipertensione in gravidanza, aumento del colesterolo ecc. Li assumiamo attraverso il cibo e l’acqua potabile contaminati. Sono impiegati , con diverse composizioni molecolari, nelle schiume antincendio, nei rivestimenti metallici antiaderenti per padelle,  negli imballaggi per alimenti, nelle creme e nei cosmeticinei tessuti per mobili e abbigliamento per esterni, fino ai pesticidi e ai prodotti farmaceutici. Ma ad Alessandria Solvay chiede alla Provincia l’autorizzazione al C6O4Clicca qui.

fonte: https://www.rete-ambientalista.it



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La storia di Gianluca Pagella: da imprenditore ad aggiustatutto in bicicletta

La storia di Gianluca Pagella, ex imprenditore nel mondo delle automobili, nasce da un fallimento: dopo essere rimasto disoccupato e dopo una forte crisi personale decide di rialzarsi e reinventarsi in un nuovo lavoro. In che modo? Divenendo un aggiustatutto in bicicletta. Così, come ha trasformato la sua bici in una cargo bike, ha rivoluzionato la sua vita in un mondo all’insegna della sostenibilità, delle relazioni umani e della lentezza, dimostrando che è sempre possibile ripartire da se stessi.



















Ci sono momenti nella vita in cui un singolo evento può cambiare tutto, rimescolando le carte in tavola e proponendoci una nuova partita. Quella che vi raccontiamo oggi è la storia di Gianluca Pagella, che ci dà il benvenuto ad Alessandria, la sua città natale, colpendoci subito con la sua solarità e il carattere esplosivo. La sua storia è una di quelle che ti rimangono impresse perché riescono a sorprenderti e a emozionarti al tempo stesso. È una storia che parla di una rinascita e di un cambiamento nonostante le difficoltà della vita. Fino al 2014 Gianluca aveva lavorato come imprenditore per una grande azienda nel settore delle automobili ma a causa di un fallimento, è stato costretto a chiudere la sua attività.


È stato un duro colpo da affrontare, un boccone troppo amaro da ingoiare: prima il pignoramento della casa, poi la ricerca di un nuovo lavoro come operaio che presto giunge al termine, infine la crisi personale. Così Gianluca si ritrova a quarantott’anni disoccupato, senza possedere più nulla e con grandi difficoltà a rientrare nel mondo del lavoro. Ma come tutte le più belle storie di rinascita, non si dà per vinto e capovolge la sua vita, reinventandosi in un nuovo mestiere: l’”aggiustatutto in bicicletta”.






«Mi sono ritrovato a quarantott’anni disoccupato. A quel punto mi sono chiesto: cosa voglio fare da grande? Non avevo molte idee» ci racconta con un sorriso, a fianco della sua inseparabile cargo bike. Così, grazie ai giusti consigli e un po’ di fantasia ricomincia la sua vita come “Gianaggiusta” spostandosi per le vie di Alessandria su due ruote effettuando piccoli lavori domestici e riparazioni a domicilio come nel caso di mensole, tapparelle, veneziane, rubinetti. All’interno della sua cargo bike custodisce i suoi preziosi attrezzi da lavoro e tutto il materiale necessario per spostarsi e lavorare in libertà da un luogo all’altro.

Un tuttofare, insomma, per ritornare a condividere i rapporti umani, il lavoro manuale, le piccole cose della vita. Proprio come ci racconta nel video, si tratta di una rinascita certamente difficile e faticosa ma fortemente trasformativa. «Ho scelto un lavoro che fosse onesto e mi permettesse di vivere degnamente, di lasciare indietro tutti quegli anni caratterizzati da una vita senza tempo, dove guadagnare e fare business era l’unico obiettivo.

Quando ho chiuso l’attività per il fallimento mi hanno pignorato tutto: case, capannoni, macchine, quasi anche la dignità. L’unica cosa che sono riuscito a conservare è stata la mia vecchia bicicletta, una peugeut verde che mi ero comprato in gioventù coi primi soldi guadagnati. Fortunatamente, non avendo la targa, non me l’hanno potuta portare via e così ho iniziato ad utilizzarla per muovermi, perchè non avevo nient’altro».



E riscoprendo l’immenso valore di una vecchia bicicletta, ciò che contraddistingue la nuova vita di Gianluca è la scelta di non usare più la macchina, vivendo in maniera totalmente ecologica. «Con la bici posso muovermi velocemente, non devo pagare il posteggio e posso arrivare facilmente in qualsiasi luogo». Ma il vero guadagno è avere tempo: per nuove relazioni umane e ritornare alla semplicità della vita. Come ci racconta Gianluca, «Nelle mie giornate lavorative mi capita di andare a casa delle persone e, dopo aver fatto le riparazioni, vengo invitato dai miei clienti a fare quattro chiacchiere e bere un caffè in compagnia».

Ora Gianluca è vicepresidente dell’associazione Fiab – Gliamicidellebici di Alessandria e, insieme a Momo, richiedente asilo e abile meccanico, ha costruito una ciclofficina popolare aperta a tutta la cittadinanza. «Ricominciando da zero ed entrando in una seconda parte della mia vita ho iniziato a fare volontariato, un impegno che non avevo mai preso in considerazione perchè troppo lontano dal mondo che mi ero creato».



All’interno della ciclofficina Gianluca dedica tempo ed energie mettendosi a disposizione degli altri: insegna a donne, uomini e giovani a sporcarsi le mani, riparare la propria bicicletta, sensibilizza all’utilizzo di mezzi alternativi all’auto e trasmette con passione il proprio saper fare.

Come ci confida, «La vita di prima non mi manca. E’ vero quando si dice che troppo denaro corrompe l’anima, perché si finisce per guardare il mondo da una sola e limitante prospettiva. Prima ero così assorbito dal mio lavoro che non avevo più spazio per il resto. E il caso vuole che, proprio nel periodo in cui ero disoccupato, ho incontrato la persona di cui mi sono innamorato e con la quale convivo da anni.

Il messaggio che posso mandare alle persone è che se siete in un momento difficile della vostra vita è importante che non perdiate mai il vostro amor proprio e il rispetto per voi stessi. Siete fermi e dovete partire da capo? Ognuno di noi ha un talento, andate a scavare in quello che siete voi e qualcosa sicuramente troverete. La bellezza di questa nuova vita è per me un ritorno alla lentezza, alla semplicità, ai rapporti umani. E tutto questo… grazie a un fallimento».

fonte: www.italiachecambia.org

La Ristorazione Sociale affronta l’emergenza donando i pasti ai più fragili

Un pasto caldo in dono alle persone più vulnerabili che, a causa delle recenti disposizioni in merito al coronavirus, sono obbligate a stare a casa, sole, senza ricevere alcun supporto. Quella del pasto caldo è l’iniziativa della Ristorazione Sociale della Cooperativa Coompany& che, ad Alessandria, ha deciso di chiudere i battenti ma dedicarsi ai più fragili, mantenendo il suo forte valore sociale e un’attenzione verso i bisognosi.
















In questi giorni di emergenza da coronavirus, con sforzi e fatica stiamo cambiando le nostre abitudini, per contribuire a ridurre il rischio crescente di una situazione che ci riguarda tutti. Un pensiero di riguardo, però, va alle fasce più deboli: persone fragili e bisognose che si ritrovano in molti casi in situazioni di solitudine proprio in Italia, Paese che, secondo solo al Giappone, conta il maggior numero di anziani al mondo.
In loro soccorso è stato avviato il progetto virtuoso della Ristorazione Solidale di Alessandria, gestita dalla Cooperativa Sociale Coompany& che, proprio come vi abbiamo raccontato in un nostro precedente articolo, nasce per rispondere ai bisogni fondamentali del territorio e alle richieste espresse dalle fasce più deboli.
Come ci racconta il presidente Renzo Sacco, «in questi giorni ci siamo trovati nella doverosa scelta di chiudere la nostra attività, adeguandoci a quelle che sono le direttive dettate dallo stato di emergenza. A un certo punto però ci siamo chiesti: essendo noi una cooperativa sociale che interagisce col territorio, come possiamo dare il nostro contributo ai più fragili? In questi anni abbiamo conosciuto diverse persone che vivono da sole. Persone per le quali rimanere a casa in solitudine, in una situazione di emergenza come questa, può rappresentare un grosso problema».
A partire da questo presupposto la cooperativa ha deciso di donare pasti a domicilio per i più fragili. «Il nostro obiettivo è fornire a queste persone un aiuto e accompagnarle nelle situazioni più difficili, facendo sì che si possano sentire un po’ meno abbandonate».
L’iniziativa è molto semplice: entro le 10.30 di mattina la cooperativa risponde alle chiamate di coloro che sono direttamente interessati a ricevere il pasto nella propria abitazione o da coloro che segnalano altri casi.
Il menù preparato verrà consegnato all’interno di vaschette ad hoc nei cassoni che normalmente la cooperativa utilizza per la veicolazione dei pasti, con attenzione alle norme igieniche e alla misurazione delle temperature. La cooperativa lo chiama “piatto unico” e consiste in una confezione con due scomparti che contiene un primo e un secondo. Il servizio sarà gratuito e gli operatori che consegneranno il pasto svolgeranno il servizio con mascherina e guanti monouso, evitando di entrare nelle abitazioni.
«Questo è un momento molto delicato per noi e per tutte le realtà che si trovano a fare i conti con la chiusura delle proprie attività. La relazione è infatti il nostro strumento poiché noi sopravviviamo grazie ai nostri clienti e nel momento in cui questa relazione viene a meno, è importante capire come reagire».
«Abbiamo iniziato consegnando i primi otto pasti, che rappresentano per noi un numero significativo avendo comunicato l’avvio del progetto soltanto un giorno fa. E sappiamo che, per forza di cose, si tratta di un numero che tenderà a crescere nei prossimi giorni. Questa mattina, ad esempio, abbiamo ricevuto la segnalazione della vicina di casa di una signora anziana che vive da sola e non dispone di telefono. Ci ha anche contattati un’assistente sociale dell’ospedale di Alessandria chiedendoci di aiutare delle persone che sarebbero state dimesse e che tornando nelle loro abitazioni non avrebbero avuto compagnia o supporto di alcun tipo».
L’iniziativa porta avanti il lavoro quotidiano che la cooperativa Coompany & svolge sul territorio, dove si occupa principalmente di inserimenti e reinserimenti lavorativi come nel caso di persone con disabilità fisica e cognitiva, giovani con sindrome di down e chi proviene dal mondo del disagio sociale, dalla dipendenza e dalle carceri.
«Quello che stiamo vivendo in queste settimane è un momento di grande fatica e timore per quello che potrà succedere. Noi abbiamo scelto di ridurre al minimo il rischio per i nostri soci ma allo stesso tempo di concederci un’occasione per contribuire in maniera positiva a quest’emergenza come atto di responsabilità nei confronti della comunità.
Credo questo momento rappresenti una grande sfida per tutti. Agendo insieme è probabile che questa situazione possa incidere positivamente sul senso di comunità. E forse la cosa positiva che può lasciarci questo momento è proprio questa».
fonte: https://www.italiachecambia.org

L’inquinamento da PFAS a Spinetta Marengo: tra ricadute sull’ambiente ed effetti sulla salute

A Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, nel raggio di tre chilometri dallo stabilimento chimico della Solvay, dove si producono polimeri fluorurati, ci si ammala più che nel resto del Piemonte. A stabilirlo sono due studi epidemiologici condotti dall’Agenzia regionale per la protezione ambientale del Piemonte e dall’Asl di Alessandria resi noti a fine 2019. Intanto la produzione dello stabilimento va avanti


Una manifestazione di comitati e cittadini contro il silenzio delle istituzioni e le ricadute dello stabilimento produttivo Solvay a Spinetta Marengo

A Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, nel raggio di tre chilometri dallo stabilimento chimico della Solvay, dove si producono polimeri fluorurati, ci si ammala -e di conseguenza si muore- più che nel resto del Piemonte. A stabilirlo sono due studi epidemiologici condotti dall’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa) del Piemonte e dall’Azienda sanitaria locale di Alessandria. I dati sono stati resi noti nel dicembre 2019, proprio nel momento in cui si concludeva in Cassazione il processo -iniziato nel 2008- contro i vertici aziendali di Solvay e Ausimont (i due gruppi che si sono avvicendati alla guida dello stabilimento dal 1980 a oggi), accusati di “avvelenamento doloso delle falde e omessa bonifica”: tre degli otto imputati coinvolti sono stati condannati a un risarcimento economico (a breve si potranno leggere le motivazioni della sentenza, giudicata dalle parti civili “troppo lieve”).

Le due analisi epidemiologiche sono state avviate dal Comune di Alessandria nel 2017 con lo scopo di valutare gli effetti sulla salute umana dovuti alla vicinanza al polo chimico in questione. I dati finali confermano i timori degli ambientalisti, che da anni denunciano l’inquinamento da PFAS -sostanze perfluoroalchiliche per le quali l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) chiede di abbassarne gli attuali livelli di tollerabilità- che nell’area esaminata, denominata “Fraschetta”, hanno inquinato le falde acquifere sotto e intorno allo stabilimento da cui migliaia di cittadini, oltre ai lavoratori della fabbrica, si sono approvvigionati per anni. Altreconomia ne aveva già parlato nel 2015, andando a intervistare cittadini ed ex-lavoratori della Solvay.

L’indagine ha evidenziato un incremento del 19% delle patologie tumorali, in particolare del polmone, della pleura e dell’apparato emolinfopoietico, rispetto al resto del territorio alessandrino e piemontese. Dati che si differenziano a seconda delle malattie specifiche con punte del +75% rispetto ai dati regionali per quanto riguarda i mesoteliomi pleurici e +76% per tumore al rene. Inoltre nei maschi si è riscontrata una incidenza di oltre il doppio per quanto riguarda i tumori epatici e delle vie biliari e nelle neoplasie al pancreas; nelle donne vi è un raddoppio di ricoveri per leucemie. Tra le patologie non tumorali risultano incrementi di ricoveri per malattie dell’apparato cardiocircolatorio, respiratorio e apparato genitourinario. In particolare lo studio sottolinea un +22% di malattie endocrine, +50% di casi di ipertensione, +56% di infarti del miocardio, +29% per insufficienza renale, +36% per malattie ematologiche, +22% di malattie cutanee, e molte altre. Infine, le valutazioni effettuate nel sottogruppo costituito dai bambini hanno messo in evidenza un aumento dei ricoveri per malattie neurologiche con un incremento dell’86%. Per tutte queste patologie si nota un andamento crescente in base alla durata della residenza.

Lo stabilimento di Spinetta Marengo è nato agli inizi del Novecento dalla Montecatini e nel corso degli anni è stato sede di vari tipi di produzioni, fino alle attuali incentrate sulla chimica del fluoro, diventando parte della Solvay nel 2002. Un sottogruppo dei composti fluorurati prodotti è rappresentato da PFAS, composti di difficile degradazione e conseguente accumulo nell’ambiente (tracce di PFAS sono stati rinvenuti ai Poli Nord e Sud), nella flora, nella fauna selvatica e negli esseri umani dove si accumula nel sangue e nei tessuti. Molti studi hanno evidenziato rilevanti conseguenze sulla salute umana derivanti dall’esposizione a questi elementi, come quelli messi in rilievo dalle due indagini citate. I PFAS sono solo una delle famiglie di sostanze pericolose rilevate nell’area industriale di Spinetta Marengo: infatti sono stati identificati nel terreno superamenti per cromo esavalente, arsenico, piombo, ddt, idrocarburi pesanti e cloroformio. Quest’ultimo è presente anche nelle acque di falda insieme al tetracloruro di carbonio, tetracloroetilene e tricloroetilene. Anche la rilevazione della qualità dell’aria ha portato a individuare diversi composti a base di fluoro. La storia centenaria dello stabilimento avrebbe lasciato in eredità, secondo i comitati presenti sul territorio, oltre 1,15 milioni di tonnellate di materiale tossico su una superficie compresa tra i 10 e 15 chilometri quadrati.

Intanto la produzione dello stabilimento va avanti. La condanna non ha fermato la produzione di C6O4, un composto della medesima famiglia di PFAS, a catena corta e quindi considerato meno impattante. Nonostante l’Agenzia Chimica Europea (Echa) abbia classificato il C6O4 come “non biodegradabile” (oltre che tossico per ingestione e corrosivo), la Solvay ha già chiesto un ampliamento dello stabilimento per la produzione del composto. Durante la conferenza dei servizi non ha voluto rivelare le modalità di produzione di C6O4 invocando il segreto industriale. Inoltre la relazione tecnica attualmente resa pubblica da Solvay contiene 56 omissis, tra cui le previsioni di impatto sull’ambiente. Dal momento che la Solvay, come ricorda Legambiente Alessandria in una lettera inviata alle istituzioni, si è già confermata come la principale sorgente di PFAS nei fiumi Bormida e Tanaro, il timore è che si continui a inquinare. Eppure Solvay non prende in considerazione di sostituire il C6O4 (di cui sono state trovate tracce alla foce del Po) con altre sostanze più sostenibili: il laboratorio di chimica e tossicologia dell’ambiente Mario Negri ha individuato 20 sostanze alternative agli PFAS per ridurre l’impatto sulla salute e sull’ambiente. Lo studio è stato promosso dal ministero dell’Ambiente ed è proprio a partire da questa lista che il dicastero dovrà porsi l’obiettivo di fornire degli orientamenti precisi alle aziende che ne fanno maggiore uso. Dall’analisi dei dati di mortalità “si evince un importante incremento per patologie, tumorali e non tumorali, nella zona adiacente al polo chimico di Spinetta” ha spiegato l’epidemiologo Lelio Morricone del comitato locale “Vivere a Predosa”. “Ciò è strettamente correlato all’esposizione a sostanze tossiche ed inquinanti relative all’area in esame. Come tutti gli studi di tipo epidemiologico-descrittivo, che non hanno infatti questa finalità, non è possibile stabilire un rapporto diretto causa-effetto, ma il dato è talmente eclatante che risulterebbe poco plausibile pensare ad altre ragioni, per spiegare questo fenomeno”.

Al fine di rendere più “robusta”, dice l’Asl nel suo rapporto, l’analisi complessiva “parrebbe opportuno ipotizzare lo sviluppo di eventuali successivi step epidemiologici”. Che è anche quello che chiedono cittadini e comitati. Il costo delle analisi per la determinazione periodica di PFAS nell’acqua dei pozzi dovrebbe essere a carico dell’autorità pubblica ma nessuno per ora vuole accollarsene i costi. Intanto i comitati, tra cui Stop Solvay, propongono alle istituzioni di completare una mappatura precisa dei pozzi privati utilizzati a scopo potabile o irriguo. Come già disposto in Veneto, dove la Miteni di Trissino ha lasciato in eredità la più alta concentrazione di PFAS al mondo, occorrere un biomonitoraggio delle sostanze negli alimenti, i cui risultati siano resi pubblici al più presto.

fonte: https://altreconomia.it

Il tetrapack è l’incubo della raccolta differenziata. Ma ora una start up italiana ha trovato il modo di riciclarlo
















“Oddio, e adesso il contenitore di tetrapak dove lo butto: carta, plastica o indifferenziata?” Il dilemma in cui prima o poi tutti siamo incappati non ha una soluzione univoca, perché i diversi Comuni italiani danno indicazioni differenti: chi dice carta, chi dice plastica. In effetti il tetrapak (come è ormai d’uso chiamare i contenitori fatti in materiale misto/poliaccoppiato, dal nome dell’azienda più famosa, la Tetra Pak, appunto) per la sua stessa natura è una delle bestie nere della filiera del riciclo: non si sa come trattarlo e normalmente finisce in discarica o all’inceneritore.  Questo è il destino ogni anno in Italia di 1,4 miliardi di contenitori alimentari, per lo più di bevande, con tutto ciò che ne consegue in termini di spreco e inquinamento.
Ma le cose potrebbero cambiare a breve: c’è un’azienda piemontese, la Ecoplasteam, che a Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, ha fatto partire il primo impianto di riciclo del tetrapak per ricavarne una plastica, l’EcoAllene, perfettamente rilavorabile e a sua volta nuovamente riciclabile.
Stiamo andando bene, la produzione ormai è ben avviata con risultati che ci confortano, tanto che abbiamo già pianificato l’apertura di un secondo impianto in Austria e di un terzo in Francia che partiranno nel 2020”, annuncia l’amministratore delegato di Ecoplasteam, Stefano Richaud.

Ecoplasteam. Il Ceo Stefano Richaud
In effetti la filosofia di una start up del riciclo non può essere di aspettare che i rifiuti vengono a te, ma di andare a cercarli dove sono.
In Europa si rendono disponibili ogni anno 350mila tonnellate di rifiuti in tetrapak o materiale simile. Si chiamano poliaccoppiati perché sono fatti di uno strato di cartone, con l’aggiunta di un film di plastica e di un film di alluminio: tre materiali che si riciclano diversamente l’uno dall’altro. Al momento il tetrapak viene conferito alle cartiere che riescono a estrarne la cellulosa (lo strato di cartone). Di quello che rimane nessuno è riuscito finora a farci nulla, perché tutti i tentativi di separare il polietilene dall’alluminio sono falliti.
Il nostro progetto è al tempo stesso rivoluzionario e semplicissimo – dice Richaud. –Invece di separare i due componenti, li lavoriamo insieme in un processo di riciclo meccanico simile a quello della normale plastica. Alla fine otteniamo granuli di polietilene e alluminio con caratteristiche uguali al polietilene, quello che si usa per produrre oggetti come flaconi per detersivi, confezioni dei cosmetici e per tante altre forme di packaging non alimentare”.
Ecoplasteam. Balle di materiale poliaccoppiato dopo il trattamento in cartiera.
Ideato anni fa da un imprenditore italiano, Roberto Lecce, il metodo per il riciclo del tetrapak era rimasto chiuso in un cassetto della società svizzera RePlan che ne aveva acquistato il brevetto senza mai utilizzarlo. Dall’incontro fra Lecce ed una serie di imprenditori torinesi è nata la prima idea del progetto che, dopo aver avuto il via libera dal sistema bancario (primo finanziatore è il Banco BPM), ha raccolto intorno a sé un buon numero di soci dalle competenze diversificate. Il management è molto snello ed è composto da professionalità molto diverse (commercialisti, architetti, tecnici, imprenditori) che apportano ciascuno le proprie competenze e differenti punti di vista.
L’inventore del sistema di riciclaggio del tetrapak Roberto Lecce
L’EcoAllene ha destato l’interesse di grossi gruppi industriali che stanno testando il materiale nelle loro linee produttive e che hanno intenzione di passare a prodotti green.
Richaud assicura che quando poi gli oggetti in EcoAllene saranno scartati, rientreranno nel normale circuito del riciclo del polietilene, destinato ad essere utilizzato per applicazioni più semplici.
Il progetto è piaciuto molto al Corepla, il consorzio che in Italia si occupa della raccolta e del riciclo degli imballaggi in plastica, tanto che ha premiato Ecoplasteam nella competizione “Call for Ideas” per favorire l’estensione del progetto di riciclo anche ad ulteriori tipologie di imballaggi poliaccoppiati, come per esempio le capsule del caffè, le confezioni dei biscotti e delle patatine.
La cosa interessante è che Ecoplasteam, se tutto andrà per il verso giusto, dovrebbe essere un’azienda decisamente redditizia. L’impianto di Alessandria è costato 5 milioni di euro, e altrettanto costeranno gli altri due impianti in costruzione, quello in Austria e quello in Francia. Ognuno sarà in grado di produrre 6.000 tonnellate all’anno di EcoAllene, che sarà venduto a un prezzo leggermente più basso rispetto al polietilene prodotto con il petrolio, che oggi si aggira sui 1.000 euro a tonnellata. Si può quindi immaginare un fatturato a regime sui primi tre impianti di 18 milioni di euro, cui vanno aggiunti i soldi che Ecoplasteam incasserà in Francia e in Austria per il ritiro dalle cartiere del materiale di scarto. In Italia, invece, Ecoplasteam per ora deve pagare per ricevere il materiale.
Il nostro business plan prevede un margine Ebitda fra il 20% e il 35% dei ricavi”, dice Richaud. E la prova che il business dovrebbe essere ben profittevole viene dalla risposta all’ultima domanda. Vi quoterete in Borsa? “Non credo: se Ecoplasteam riuscirà a generare i flussi di cassa previsti, sarà in grado di crescere senza necessità di aprire il capitale ad altri soci”.
fonte: https://it.businessinsider.com

Rifiuti da smaltire in casa? Ci pensano i lombrichi

Trasformare in vere e proprie "fattorie per lombrichi" i contenitori dedicati alla raccolta dei rifiuti: E' l'obiettivo del progetto "Il Ciclo del Lombrico", avviato in provincia di Alessandria coinvolgendo i cittadini e le scuole con lo scopo di diffondere la conoscenza della lombricoltura, quale pratica utile a ridurre il quantitativo di rifiuti che produciamo in casa, produrre humus per i nostri terreni e risparmiare sulla raccolta differenziata.
















Lo sapevate che esiste una soluzione semplice e pratica per smaltire i rifiuti organici in casa riducendo la quantità di scarti alimentari prodotti nelle nostre cucine? Tutto questo è possibile grazie ai lombrichi, piccoli amici ma grandi lavoratori, capaci di trasformare questi scarti in un prodotto naturale e utile per il nostro Pianeta.

Grazie al progetto “Il Ciclo del Lombrico”, ideato da Ruben Gemme e Mirko Pepe ed avviato nell’alessandrino, chiunque potrà praticare il compostaggio domestico nel proprio giardino o all’interno della propria abitazione!
Come vi abbiamo raccontato in un precedente articolo, la lombricoltura è una soluzione perfetta e a basso impatto, nonchè una tecnica alternativa e sconosciuta ai più ma con grandi potenzialità: si basa sulla trasformazione di scarti vegetali in humus ad opera dei lombrichi e permette il riciclo di rifiuti organici e la conseguente produzione di fertilizzante naturale in agricoltura e orticoltura, con innumerevoli benefici dal punto di vista ambientale, economico e sociale.
Obiettivo del progetto è realizzare una “lombricompostiera infinita”, trasformando il numero più elevato di contenitori dedicati alla raccolta dei rifiuti in vere e proprie “fattorie per lombrichi”.
Si tratta di un modello alternativo di vivere, produrre e consumare e si basa proprio sul concetto di “ciclo continuo”: la terra ci dona i suoi frutti per nutrirci, una volta consumati, gli scarti rimasti finiranno nella vermicompostiera, che i lombrichi lavoreranno producendo humus per concimare la terra, che in questo modo produrrà nuovi frutti.
L’humus prodotto dai lombrichi è inoltre un "super concime", in quanto ricco di minerali e sostanze essenziali per la crescita sana delle piante e capace di migliorare il terreno dal punto di vista nutritivo.
Obiettivo è promuovere una cultura educativa e ambientale tra le persone, mostrando come questa semplice pratica possa entrare a far parte delle nostre abitudini quotidiane con innumerevoli vantaggi.
La lombricompostiera verrà realizzata con la prerogativa di utilizzare esclusivamente materiali di recupero: contenitori dismessi, plexiglass o lamiere derivanti da scarti di lavorazione, che andranno a costituire la nuova casa dei lombrichi. Come racconta Mirko, «I lombrichi amano la spazzatura organica, per questo rappresentano una soluzione ottimale ed efficace sia in scala domestica che industriale nella gestione dello smaltimento dei rifiuti».
Ebbene, si tratta di una soluzione vincente sia da un punto di vista dell’ecologia che dell’economia. In primis la vermicoltura ci consente di ridurre il quantitativo di rifiuti che produciamo quotidianamente in casa ed inoltre chiunque può farne uso: cittadini, condomìni, scuole, ristoranti, con risparmi economici sulla tassa dei rifiuti.
Pensate che una famiglia può riutilizzare un normalissimo bidone della spazzatura che, ospitando una popolazione di un chilo di Lombrichi, è capace di smaltire fino a due quintali di rifiuti all’anno! Inoltre, realizzare un solo bidone con materiali di scarto permette di recuperare fino a sei chili di plastica e un chilo di ferro, che in alternativa sarebbero stati destinati allo smaltimento.
Con le iniziative di “Il Ciclo del Lombrico”, la lombricoltura arriva ora anche nelle scuole.
Rifiutiamo lo spreco!” è il progetto pensato per le scuole elementari, per avvicinare i più piccoli al mondo dei lombrichi e a tutti i benefici che ne derivano, attraverso un progetto didattico tutto improntato all’ecosostenibilità.
Il compostaggio dei rifiuti organici è infatti una pratica semplice, divertente e molto istruttiva per i più piccoli, aiutandoli a prendersi cura della terra e della natura.
Protagonisti di quest’avventura sono proprio i bambini delle scuole elementari di Rivalta Bormida e Cassine, che, insieme agli aiutanti lombrichi, trasformano gli scarti delle mense in prezioso humus e lo ridonano alla Terra, all’interno degli orti che le scuole mettono loro a disposizione.
Ad Alessandria, inoltre, Ruben e Mirko hanno portato la lombricoltura all’interno della ristorazione sociale promossa dalla Cooperativa Sociale Coompany&, dove sono state collocate dieci vermicompostiere per riporre gli scarti alimentari della frutta e della verdura coltivata negli orti urbani della cooperativa.

«Il Lombrico, per noi, è la base di tutto - affermano Ruben e Mirko - e grazie a lui stiamo dando vita a diversi progetti con un unico comune denominatore: dare nuova e migliore vita a ciò che ieri chiamavamo rifiuto!».
Un progetto virtuoso che vuole contribuire a sensibilizzare grandi e piccoli fornendo le basi per la crescita organica del terreno, oltre che a costruire nuove comunità resilienti e promuovere un'economia circolare chiudendo il cerchio sugli sprechi alimentari.

fonte: http://piemonte.checambia.org

Da imprenditore ad aggiustatutto: l'avventura sostenibile di Gianluca Pagella

Gianluca Pagella, 51enne piemontese, dal fallimento della sua azienda ha trovato lo stimolo per "inventarsi" un nuovo mestiere, sostenibile e oggi ricercatissimo: l'aggiustatutto. Ci racconta la sua storia.
















“Tutto nasce da un fallimento,  cioè dalla fine della mia esperienza da imprenditore nel mondo delle automobili. Un tempo avevo più di 8 mezzi a motore,  ora ho 8 bici.” così inizia a raccontare la sua storia, Gianluca Pagella, di Alessandria, in Piemonte.
Quando rimase disoccupato era il 2014, aveva 47 anni: fino ad allora aveva sempre lavorato nel settore auto, prima come imprenditore, poi, dopo che il negozio di famiglia fosse costretto a chiudere, come operaio.
Senza lavoro, in una città pianeggiante si chiese cosa poteva fare: “Mi rimaneva una vecchia bicicletta. Invece di lasciarmi andare allo sconforto, decisi di rimboccarmi le maniche e mettere a posto la bici. La ridipinsi di arancione e su consiglio di mia moglie e di alcuni cari amici, decisi di lanciarmi nel pronto intervento in bicicletta e chiamarmi Gianaggiusta.”
In una cittadina come Alessandria, dove sei cittadini su dieci abitano da soli e dove è altissima la percentuale di chi ha più di 60 anni, i piccoli lavori domestici di riparazione sono molto richiesti: dalle tapparelle rotte, ai tubi idraulici da sostituire o da liberare, fino alla lampadina da cambiare e tanto altro.

Dall'idea alla sua realizzazione

“Non che l’idea mi sia venuta subito e non è stato così facile metterla in atto” spiega Gianluca. “I primi tempi, quando le persone mi vedevano passare sulla mia bicicletta arancione, col mio bel caschetto arancione, mi prendevano un po’ in giro. Sebbene la mia città si presti moltissimo, per la sua conformazione piana, all’uso della bicicletta, pochi qui pedalano abitualmente. Certo, molti sono appassionati di ciclismo o di mountain bike e macinano anche molti chilometri, ma in città, quotidianamente, per lo più le persone si spostano con l’auto. In molti inoltre erano scettici sulle possibilità di Gianaggiusta: senza un furgone, mi dicevano, certe attività sembra non possano esistere”.
Grazie a un bando europeo per la riqualificazione dei quartieri, Gianluca ha ottenuto 2000 euro che gli hanno permesso di pagarsi la cargobike e l’attrezzatura: “Con la cargobike è molto più facile; ho a disposizione un vano molto capiente in cui portare più attrezzi e fare consegne. Quando sono a pieno carico mi muovo alla velocità di 20 chilometri all'ora; il mio nuovo ritmo lavorativo non prevede lo stress e anche se la velocità può sembrare lenta, non ho problemi di code, traffico, parcheggio!”
Con 4-5 clienti al giorno, Gianluca ora riesce a sostenersi molto bene. La sua cargo è anche un ottimo mezzo pubblicitario per la sua attività: “è molto visibile, attira lo sguardo e tanta gente si ferma a guardarla e copiare il numero di cellulare, per eventualmente chiamarmi”.

Niente inquinamento e costi bassissimi

Gianluca non inquina, non ha costi di gestione, non ha problemi di accesso alle zone a traffico limitato, posteggi o traffico. Dice di aver riscoperto la città e il suo centro, ma non solo: ”Ora riesco ad avere più tempo per gli altri, faccio volontariato con i richiedenti asilo, collaboro al progetto Ry-ciclo, una ciclo officina autogestita, realizzata grazie al contributo della fondazione SociAL. La ciclofficina è uno spazio di incontro, dove la gente ripara da sola la propria bici, e chi non è in grado si fa aiutare da noi volontari esperti. C’è anche Momo che fa il volontariato insieme a noi, un ragazzo senegalese davvero fantastico, che ha portato con sé, dal suo paese di origine, la sua passione per le bici e la sua bravura nell’aggiustarle. Abbiamo fatto anche corsi per insegnare ad andare in bici agli adulti, corsi per la riparazione…”.

La ciclofficina è diventata anche ambulante, con cargo bike e carrellino, per raggiungere chi non può accedere alla sede fissa in Piazza Santa Maria di Castello. Gianluca con il gruppo locale della Fiab (Federazione amici della Bicicletta), di cui è vicepresidente, si impegna anche in progetti di denucia e monitoraggio dell’inquinamento dell’aria: “Purtroppo Alessandria è tra quei centri soffocati degli eccessivi livelli di inquinamento dell’aria, causato anche dall’uso massiccio di mezzi a motore. Abbiamo da poco lanciato la campagna MALdARIA per monitorare, attraverso l’installazione di rilevatori di No2 in vari punti della città, lo stato dell’aria della nostra città. C’è chi dice, e allora? Tanto si sa che l’aria è inquinata. Eppure non ci si deve rassegnare. Bisogna agire. Nello stato in cui versano le nostre città, serve una mobilitazione continua.”
Linda Maggiori
fonte: https://www.terranuova.it

Ad Alessandria il primo impianto al mondo di riciclo del Tetrapak

Nella zona D3 della città: l’azienda ha un super brevetto, avrà cinquanta insediamenti in tutta Europa

















Si chiama Ecoallene è una nuova materia prima, viene dallo scarto del primo riciclo del tetrapak e sarà prodotta ad Alessandria per la prima volta al mondo. L’azienda che ha deciso di avere la sua prima sede alla zona D3 è la Ecoplasteam, Stefano Richaud è il Ceo (l’amministratore delegato) che racconta la storia di un’invenzione nel mondo del riciclo. «Siamo gli unici al mondo a riciclare la plastica e l’alluminio che è lo scarto del tetrapak dopo che dalle confezioni è stata rimossa la parte cartacea. È un’invenzione di circa sette anni fa messa da parte e non sfruttata. Noi ci abbiamo costruito un’impresa. Alessandria sarà il primo impianto di almeno altri 50 in tutta l’Europa».  

Il tetrapak finisce nelle cartiere che prendono la parte cartacea di confezioni di latte e altre bevande, tutto il resto finisce in un ammasso di plastica e alluminio. «Il polietilene e l’alluminio rimanevano inutilizzati - spiega Richaud -, andava negli inceneritori con il rischio di intasarli. Un’altra soluzione era quella di mandare tutto in Cina, ma da quest’anno non prende più la nostra rifiuti. Noi con questo scarto facciamo una materia prima seconda (come si definiscono i materiali provenienti dal riciclo; ndr) e otteniamo l’Ecoallene». L’Ecollene si presenta come granuli che l’azienda inserisce in grandi contenitori da una tonnellata l’uno. «Con l’Ecollene si può fare di tutto dalle biro alle stanghette per gli occhiali alle cornici.  

«L’alluminio rimane inserito e appare come glitter, il vero vantaggio è che è una materia colorabile, mentre le altre plastiche miste non lo sono» spiega ancora Richaud. Perché il primo impianto ad Alessandria? «È una posizione strategica, tra due cartiere due cartiere che ci portano i camion degli scarti del tetrapak. Alessandria farà da vetrina per tutti gli altri stabilimenti, qui sarà un esempio. Il secondo sarà in Austria». In Italia si raccolgono circa 1 miliardo e 400 milioni di confezioni di tetrapak, lo scarto dopo il riciclo arriva a 500 mila tonnellate.  

In tutta la Ue saranno 50 gli impianti, alla D3 ci sarà un capannone costato 3 milioni e mezzo di euro, lungo cento metri e alto nove, venti ingegneri lo stanno realizzando, sarà attivo dopo l’estate. Assunzioni? Certo per ora non saranno moltissime ma intanto ci sono più di venti posti di lavoro, poi ci sarà l’indotto da considerare. «Con il riciclo nel futuro si faranno lavori che ora non esistono». Chiude questo giovanissimo Ceo che ha più o meno 30 anni.

fonte: www.lastampa.it