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"I biocarburanti dell'Ue hanno causato la deforestazione di un'area grande come l'Olanda"

La stessa Commissione europea ha ammesso che il biodiesel derivato dagli oli vegetali di palma e soia inquina dalle due alle tre volte di più rispetto al diesel fossile





Negli ultimi dieci anni, i biocarburanti voluti dall’Ue per rimpiazzare i combustibili fossili hanno causato la scomparsa di un’area totale di foresta pari alla superficie dell’Olanda e hanno emesso fino a tre volte più CO2 rispetto al diesel che hanno sostituito. Queste le conclusioni poco incoraggianti dello studio condotto da Transport & Environment (T&E), un’organizzazione attiva sui temi della mobilità sostenibile. Il documento mette in evidenza, oltre alle scelte discutibili fatte da Bruxelles, quali sono i Paesi che hanno scommesso di più sui carburanti di nuova generazione. Nel 2020, l’Italia è stata la terza produttrice europea di biodiesel, alle spalle di Spagna e Paesi Bassi, e la quarta per consumi.

“Nel 2009 - si ricorda nello studio - è stata introdotta la direttiva Ue sulle energie rinnovabili (Red) per promuovere l’uso” delle fonti alternative a quelle fossili “nel settore dei trasporti”. La norma ha obbligato “gli Stati membri, entro il 2020, a rispettare una quota del 10% di energia rinnovabile nel consumo finale di energia dei trasporti”. Tuttavia, tali regole “hanno trascurato le salvaguardie della sostenibilità e non hanno tenuto conto dell'intero ciclo di vita delle emissioni legate alla catena di approvvigionamento del carburante e all'uso del suolo”. In altre parole, “il consumo della gran parte di biocarburanti” ha portato ad “emissioni complessive di gas serra superiori rispetto ai combustibili fossili”.



Ad esempio, la domanda di biodiesel dell’Ue ha richiesto la coltivazione di 1,1 milioni di ettari di palme nel sud-est asiatico e di 2,9 milioni di ettari di semi di soia in Sud America. Superfici strappate ai preziosi milioni di ettari di foresta, riconvertita alle monocolture necessarie per le produzione dei carburanti. Il documento di T&E ricorda che nel 2012 e nel 2016 la Commissione europea ha pubblicato due studi che hanno quantificato le emissioni di biocarburanti legate all'uso del suolo. In entrambe le occasioni, l’esecutivo Ue ha ammesso “che quando si prendono in considerazione le emissioni previste per il cambiamento indiretto della destinazione del suolo, tutti i biodiesel a base di olio vegetale comportano più emissioni del diesel fossile”. “Il rapporto più recente - si precisa - ha mostrato che le emissioni sono particolarmente elevate per l'olio di palma e di soia, che causano rispettivamente tre e due volte le emissioni del diesel fossile”.

“Una politica che avrebbe dovuto salvare il pianeta in realtà lo sta distruggendo”, è il commento di Laura Buffet, direttrice energetica di T&E. “Gli sforzi per sostituire i combustibili inquinanti come il diesel con i biocarburanti stanno paradossalmente aumentando le emissioni di anidride carbonica che riscaldano il pianeta”, ha concluso Buffet.




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fonte: europa.today.it/


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50 sfumature di greenwashing

Dal colosso del nucleare Westinghouse, già negli anni Sessanta, ai fuoriclasse di Chevron, negli anni Ottanta, arrivando fino a DuPont, solo per fare qualche nome. Quella del greenwashing è una storia odiosa e ricca che continua a rinnovarsi. In Italia, grazie a Teachers for Future si è tornati negli ultimi mesi a parlare delle bugie delle grandi aziende. Nell’anno in cui l’educazione ambientale entra nelle scuole, l’Associazione nazionale dei presidi ha spalancato le porte a Eni: “Non possiamo che prendere le distanze da questa iniziativa – ha scritto Tff – che coinvolge una delle grandi aziende mondiali che causano cambiamento climatico e contaminazione del Pianeta attraverso l’estrazione senza limiti dei combustibili fossili, che è già stata riconosciuta responsabile di immani disastri ambientali, corruzione, sfruttamento dei Paesi poveri e che tenta di dipingere di verde la sua anima nera attraverso costante e pressante attività di greenwashing…”

Tratta da pixabay.com

Il greenwashing rappresenta la pratica aziendale di mostrarsi attenti alla sostenibilità per nascondere un discutibile impegno per la salvaguardia ambientale. L’articolo «The troubling evolution of corporate greenwashing» del quotidiano britannico The Guardian ne ripercorre alcune tappe mettendone in luce gli aspetti più torbidi.

Negli anni Sessanta, il movimento antinucleare metteva in dubbio l’affidabilità delle centrali nucleari, la loro sicurezza e il loro apparentemente basso impatto ambientale. Il colosso americano Westinghouse, e in particolare la sua divisione nucleare, ribatteva con una serie di annunci che proclamavano la pulizia e la sicurezza delle centrali nucleari, avvalendosi di immagini evocative come quella di una centrale nucleare adagiata sulla riva di un lago incontaminato. Alcune delle affermazioni degli spot erano vere: nel 1969, le centrali nucleari della Westinghouse producevano grandi quantità di elettricità a basso costo con un inquinamento atmosferico molto inferiore rispetto alle centrali a carbone concorrenti. Tuttavia le pubblicità sembravano ignorare che solo qualche anno prima si erano verificati due episodi di meltdown nucleare: uno interessò la centrale SL-1 in Idaho nel 1961 e il secondo la centrale Fermi 1 in Michigan nel 1966. Gli annunci della Westinghouse tralasciavano anche le preoccupazioni sull’impatto ambientale delle scorie nucleari, che continuano a essere un problema.

Si potrebbe pensare che le cose nel tempo siano migliorate, ma nel 2013, in mezzo alle preoccupazioni per la disoccupazione e per la sostenibilità energetica, la Westinghouse ha lanciato un nuovo spot. «Lo sapevate che l’energia nucleare è la più grande fonte di energia per l’aria pulita del mondo?», ha chiesto agli spettatori poco prima di affermare che le sue centrali nucleari «forniscono aria più pulita, creano posti di lavoro e aiutano a sostenere le comunità in cui operano». Anche in questo caso l’azienda sembrava sperasse nella breve memoria dei consumatori. Solo due anni prima, infatti, la Westinghouse era stata citata dalla U.S. Nuclear Regulatory Commission – agenzia indipendente che ha lo scopo di garantire l’uso sicuro dei materiali radioattivi per scopi civili benefici – per aver nascosto delle falle nei progetti dei suoi reattori e aver fornito informazioni false alle autorità di controllo. Inoltre, nel febbraio 2016, un altro impianto che utilizza i reattori della Westinghouse, l’Indian Point di New York, ha rilasciato materiale radioattivo nelle acque sotterranee dell’area circostante. Un articolo del The Guardian sulla vicenda riporta che in una località colpita i livelli di radioattività erano aumentati di quasi il 65.000%, passando da 12.300 pCi/L (picocurie per litro) a oltre 8.000.000 pCi/L. Il livello massimo di contaminazione di trizio nell’acqua potabile stabilito dall’Environmental Protection Agency (EPA) è di 20.000 pCi/L, anche se Entergy, la società proprietaria dell’impianto, ha sottolineato che solo le acque sotterranee, e non l’acqua potabile, erano state contaminate.

Un’altra tappa emblematica nella storia del greenwashing fu la campagna pubblicitaria lanciata dalla compagnia petrolifera Chevron a metà degli anni Ottanta. L’azienda commissionò una serie di costosi spot per convincere il pubblico della sua attenzione verso l’ambiente: il titolo era «People Do». Uno spot in particolare mostra un grizzly andare in letargo in una incontaminata grotta di montagna, mentre la voce fuori campo racconta di come i loro dipendenti avrebbero eseguito esplorazioni di petrolio nel sottosuolo, per poi provvedere a ripristinare eventuali danni ambientali in tempo per il risveglio dell’orso.

Molti dei programmi ambientali che la Chevron ha promosso nelle sue pubblicità, come in questo caso, erano stati in realtà imposti dalla legge. Erano anche relativamente poco costosi se confrontati con il budget pubblicitario della Chevron. L’attivista ambientale Joshua Karliner1 ha stimato che, a esempio, la realizzazione della campagna di tutela delle farfalle della Chevron richiedeva 5.000 dollari all’anno, mentre la produzione e diffusione degli annunci pubblicitari per promuoverla costarono milioni di dollari.

Inoltre, nel periodo in cui veniva lanciata la campagna «People Do», la Chevron violava il Clean Air Act, il Clean Water Act, le leggi federali che regolano le emissioni atmosferiche e gli scarichi di sostanze inquinanti nelle acque degli Stati Uniti, in vigore rispettivamente dal 1970 e 1972, e rilasciava petrolio in rifugi dedicati alla fauna selvatica. Gli spot tuttavia furono molto efficaci, come ricorda il Guardian, tanto da vincere il premio pubblicitario Effie advertising award nel 1990, e successivamente essere utilizzati come caso di studio alla Harvard Business School. Ma non passò molto prima che diventassero famosi anche tra gli ambientalisti, che li proclamarono il gold standard del greenwashing.

Da dove nasce la parola Greenwashing

Il termine «greenwashing» è la sincrasi tra «green» e «washing»: una lavata di verde, per nascondere con il marketing attività tutt’altro che sostenibili. Ma quando e come nasce la parola «greenwashing»? Quando, nel 1983, Jay Westerveld – ci ricorda il Guardian – ebbe per la prima volta l’idea del termine greenwashing, non stava pensando all’energia nucleare, ma agli asciugamani. Studente universitario in un viaggio di ricerca a Samoa, si fermò alle Fiji per fare surf. Trovandosi nell’immenso resort Beachcomber, vide un biglietto che chiedeva ai clienti di ritirare i loro asciugamani. In sostanza diceva che gli oceani e le scogliere sono una risorsa importante, e che il riutilizzo degli asciugamani ridurrebbe i danni ecologici e finiva dicendo qualcosa del tipo: «Aiutateci ad aiutare il nostro ambiente». Westerveld in realtà non alloggiava nel resort, ma in una pensione modesta nelle vicinanze, e si era appena intrufolato per rubare degli asciugamani puliti. Rimase colpito dall’ironia della nota: mentre sosteneva di proteggere l’ecosistema dell’isola, infatti, il Beachcomber – che oggi si definisce «la destinazione più ricercata del Pacifico meridionale» – si stava espandendo.

Tre anni dopo, nel 1986, Westerveld stava scrivendo una tesina sul multiculturalismo quando si ricordò della nota. Un suo compagno di corso che lavorava per una rivista letteraria gli fece scrivere un saggio al riguardo e, dato che la rivista aveva una grande affluenza di lettori nella vicina New York City, non passò molto tempo prima che il termine prendesse piede nei media più ampi. Il saggio di Westerveld uscì un anno dopo il lancio della campagna «People Do», ma la Chevron non è stata l’unica azienda a cavalcare l’onda del greenwashing.

Questi possono sembrare casi isolati, tuttavia oggi, come afferma Michela Melis intervistata da Asia Moretti – Research Fellow presso GREEN (il Centre for Geography, Resources, Environment, Energy and Networks della Bocconi) – «le strategie di green marketing non sono più, come è capitato in passato, delle strategie di nicchia che si rivolgono a dei segmenti di mercato molto specifici e puntuali, ma stanno diventando sempre più pervasive, lo si vede soprattutto nei mercati dei beni di largo consumo».

Il caso DuPont

Nel 1989 – come raccontava nel 1991 il The Multinational Monitor– l’azienda chimica DuPont presentò le sue nuove petroliere a doppio scafo con una pubblicità che mostrava animali marini battere le pinne e le ali sulle note dell’Inno alla Gioia di Beethoven. Tuttavia, come ha sottolineato l’associazione non-profit Friends on Earth nel suo rapporto «Hold the Applause», la società è stata la più grande inquinatrice degli Stati Uniti. La decennale battaglia legale tra la multinazionale DuPonte l’avvocato Robert Bilott è descritta nell’articolo del New York Times Magazine «The Lawyer Who Became DuPont’s Worst Nightmar», pubblicato nel gennaio del 2016. La vicenda ha inizio nel 1998 quando l’avvocato valuta la condotta dell’azienda dopo la richiesta di un contadino sicuro che questa stesse contaminando i suoi terreni: dopo diverse ricerche, Bilott trova rimandi al PFOA, un composto chimico allora sconosciuto anche all’EPA.

Si stima che tra il 1951 e il 2003 la DuPont abbia riversato quasi 7100 tonnellate di PFOA-C8 nei corsi d’acqua limitrofi al suo stabilimento di Washington Works, fino a contaminare il vicino fiume Ohio. Grazie al report compilato da Bilott e inviato al Dipartimento di giustizia di Washington e all’EPA, nel 2005 l’ente ambientale multò la DuPont per 16,5 milioni di dollari – una cifra irrisoria rispetto al fatturato annuale dell’azienda – per aver insabbiato i rischi legati allo smaltimento del PFOA. Dopo la sentenza Bilott decide di non fermarsi e organizza una class action collettiva che coinvolgesse tutte le almeno 100mila persone entrate in contatto con l’acqua contaminata da PFOA.

Dopo 7 anni di ricerche nel dicembre del 2011 arrivano i risultati, i ricercatori parlano di «probabili legami» tra il PFOA e l’insorgere di cancro ai reni e ai testicoli, disfunzioni della tiroide, picchi del colesterolo e ulcere intestinali. Quando il nesso è evidente, la DuPont cerca di limitare i danni portando in tribunale uno alla volta gli oltre 3500 contenziosi intentati nei suoi confronti. Dopo la vittoria di Bilott nei primi tre contenziosi e i risarcimenti milionari imposti alla DuPont, nel 2017 l’azienda chimica ha deciso di accettare la class action guidata dall’avvocato e di accordarsi per una maxi multa da 671 milioni di dollari. Come si legge nel sito dell’AIRC, l’EPA «ha affermato che i dati oggi disponibili suggeriscono un possibile legame causale tra PFOA (e altri composti simili) e il cancro; l’American Conference of Governmental Industrial Hygienists (ACGIH) ha classificato il PFOA come cancerogeno confermato negli animali, con rilevanza ancora incerta per gli esseri umani». Nel 2016, la stessa AIRC «ha classificato il PFOA nel gruppo 2B, del quale fanno parte le sostanze possibilmente cancerogene per l’uomo».

Anche alla luce di questi accadimenti, dice Michela Melis, «il fenomeno del greenwashing è sotto la lente dell’attenzione anche dalle istituzioni ed è evidente che ci sia un interesse crescente a normare l’utilizzo di questi termini, perché l’abuso e l’uso scorretto da parte delle aziende si traduce da un lato nel danneggiamento dei competitor, e dall’altro in un’informazione misleading sul mercato».

Una sanzione per ENI

La pubblicità ENI Diesel+, che ha circolato tra il 2016 al 2019, può essere considerato il primo caso di greenwashing in Italia, sanzionato, il 15 gennaio 2020, con una multa da cinque milioni di euro. Sentenza arrivata dopo una denuncia da parte di Legambiente, dal Movimento Difesa del Cittadino e da Transport & Environment (T&E) ed erogata dall’Autorità Antitrust. Come si legge nel comunicato stampa pubblicato il 15 gennaio 2020 dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), ENI è stata sanzionata «per la diffusione di messaggi pubblicitari ingannevoli utilizzati nella campagna promozionale che ha riguardato il carburante Eni Diesel+, sia relativamente all’affermazione del positivo impatto ambientale connesso al suo utilizzo, che alle asserite caratteristiche di tale carburante in termini di risparmio dei consumi e di riduzioni delle emissioni gassose».

Il carburante in questione viene definito dalla multinazionale biodiesel o anche semplicemente green diesel perché promette più attenzione all’ambiente e una riduzione dei consumi e delle emissioni rispettivamente del 4% e del 40%. Secondo l’AGCM «nei messaggi si utilizzavano in maniera suggestiva le qualifiche “componente green” e “componente rinnovabile”, e altri claim di tutela dell’ambiente, quali “aiuta a proteggere l’ambiente. E usandolo lo fai anche tu, grazie a una significativa riduzione delle emissioni”, sebbene il prodotto sia un gasolio per autotrazione che per sua natura è altamente inquinante e non può essere considerato green». Questi green claim deriverebbero dalla presenza, nella sua versione di biodiesel, di una componente di HVO (Hydrotreated Vegetable Oil) che in questo caso provengono dall’olio di palma grezzo. Oltre a questo, ENI giustificherebbe l’aumento del prezzo di questo carburante del 10%, proprio perché sostenibile, bio e rinnovabile.

L’Italia è, al momento, il secondo produttore in Europa di biodiesel da olio di palma. Nel 2018 il 54% di questo olio è stato utilizzato proprio per produrre questo tipo di carburante, utilizzato soprattutto per camion e auto. La maggior parte dell’olio di palma sul mercato, deriva da piantagioni dell’Indonesia e della Malesia, due Paesi in cui il tasso di deforestazione è schizzato alle stelle negli ultimi dieci anni. È quindi da considerare come una delle principali cause della distruzione di foreste pluviali e della perdita di fauna selvatica. Nonostante le campagne e le petizioni di successo per ridurne l’utilizzo nei prodotti alimentari, continua ad aumentare l’utilizzo di olio di palma nei biodiesel. In un rapporto di Legambiente, intitolato «Enemy of the Planet», si legge che «gli studi internazionali hanno dimostrato che il 30% delle nuove coltivazioni di palma e l’8% di quelle di soia, utilizzati per la produzione di biocombustibile poi importato nel nostro Paese per le bioraffinerie di ENI, hanno comportato distruzione di foreste vergini, di brughiere e di praterie. Si stima che un litro di olio di palma determini emissioni indirette di CO2 pari al triplo dell’equivalente di petrolio e un litro di olio di soia il doppio».

La Commissione europea ha quindi deciso di modificare i criteri di sostenibilità dei biocarburanti di prima generazione con la Direttiva Rinnovabili che prevede un congelamento della produzione di biodiesel ai livelli del 2019, per il periodo 2021 – 2023, con l’obiettivo di abbandonare definitivamente l’utilizzo di olio di palma entro il 2030.

Generalizzando la vicenda di ENI, «se comunichi male ti esponi ad una serie di rischi – ricorda Michela Melis – il primo è quello sanzionatorio, che potrebbe anche tradursi in un esborso monetario non previsto che in alcuni casi non impatta troppo sul bilancio dell’impresa; il secondo si porta dietro un inevitabile danno d’immagine e reputazione che è molto più difficile da colmare. A questo bisogna aggiungere che oggi, i consumatori, sono molto più attenti e precisi nelle loro richieste alle aziende rispetto alle loro performance ambientali».

L’Italia è tra i primi paesi al mondo a rendere obbligatorio l’insegnamento annuale alcune ore di educazione allo sviluppo sostenibile. Risulta paradossale che l’Associazione nazionale dei presidi abbia chiesto proprio a ENI di formare i docenti, visto che il core business dell’azienda rimangono ancora i combustibili fossili. Le prime a mobilitarsi sono state le insegnanti di Teachers for Future (un gruppo che fa riferimento ai Fridays for Future) che hanno dichiarato in una lettera che «come Teachers for future Italia non possiamo che prendere le distanze da questa iniziativa che coinvolge una delle grandi aziende mondiali che causano cambiamento climatico e contaminazione del Pianeta attraverso l’estrazione senza limiti dei combustibili fossili, che è già stata riconosciuta responsabile di immani disastri ambientali, corruzione, sfruttamento dei Paesi poveri e che tenta di dipingere di verde la sua anima nera attraverso costante e pressante attività di greenwashing».

Solo nell’ultimo anno, ENI ha prodotto 1,9 milioni di barili di petrolio al giorno e ha speso, nel 2019, 73 milioni di euro in pubblicità e attività di comunicazione; secondo il rapporto Enemy of the Planet, «nel 2018 ha investito solo 143 milioni di euro per investimenti tecnici in sviluppo di progetti rinnovabili, economia circolare e digitalizzazione».
L’azionariato attivo

All’inizio degli anni Novanta, i consumatori erano consapevoli delle preoccupazioni in materia di sostenibilità: i sondaggi hanno mostrato che la condotta ambientale delle aziende ha influenzato la maggior parte degli acquisti dei consumatori. Un sondaggio Nielsen del 2015 ha mostrato che il 66% dei consumatori globali è disposto a pagare di più per prodotti sostenibili dal punto di vista ambientale. Tra i millennial (ovvero le generazioni nate tra il 1981 e il 1996), questo numero salta al 72%. Molte aziende hanno adottato la strategia della sensibilizzazione con lo scopo di coinvolgere i clienti nei loro sforzi di sostenibilità, anche quando il loro modello di business principale rimane insostenibile dal punto di vista ambientale.

Questo interesse per l’ambiente ha portato a una maggiore consapevolezza del greenwashing; alla fine del decennio, la parola è entrata ufficialmente nella lingua inglese con l’inserimento nel dizionario inglese di Oxford. Da allora, la tendenza è solo aumentata. Grazie all’identificazione e alla conoscenza del fenomeno, il consumatore ha aguzzato lo spirito critico e quando nel 2010 la stessa Chevron ha proposto una nuova campagna pubblicitaria dal titolo «We Agree», gli attivisti dell’associazione The Yes Man hanno prontamente risposto. Per screditare la Chevron hanno creato una finta versione della stessa campagna con tanto di sito internet e comunicato stampa, che i giornalisti hanno prese per vere.

I consumatori hanno inoltre sviluppato strategie per riuscire a imporre alle aziende il peso della loro opinione. In molti Paesi, infatti, è nata una nuova forma d’intervento: l’azionariato attivo (o critico). Grazie all’acquisto di azioni (anche in quantitativi simbolici), gli attivisti hanno iniziato a intervenire alle assemblee annuali delle imprese come azionisti, portando all’attenzione dei consigli di amministrazione di grandi società multinazionali le controversie ambientali nelle quali sono coinvolte. L’azionariato attivo ha già dato risultati significativi. Le grandi imprese, molto spesso sorde alle proposte dei consumatori, delle campagne e dei movimenti, sono generalmente più attente alle richieste provenienti dagli azionisti che, in quanto «comproprietari», acquistano il diritto di partecipare alla vita delle società e di ottenere risposte su questioni ambientali o sociali. «È quello che ha fatto Follow This, un’organizzazione che invita chiunque abbia a cuore l’ambiente ad aderire con una quota minima di 32 euro, sufficiente per diventare azionista di Shell», si legge su Lifegate. Il colosso dell’energia ha annunciato che si sarebbe impegnato a dimezzare la propria impronta di carbonio entro il 2050, ma Follow This ha sottoposto a Shell una risoluzione per chiedere obiettivi climatici più ambiziosi.

Il Greenwashing ha sicuramente cambiato forma nell’ultimo decennio, in parallelo alla crescente consapevolezza del consumatore ma rimane un fenomeno molto diffuso e che è bene conoscere per imparare a tutelarsi.
Bibliografia:
[1] Karliner J., The Corporate Planet, Sierra Club Books, 2002

fonte: comune-info.net


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Oli vegetali: in aumento raccolta e rigenerazione















Ammontano a circa 37 mila tonnellate gli oli vegetali esausti raccolti nel primo semestre del 2018. Questi i dati diffusi da CONOE, consorzio nazionale impegnato nella raccolta e trattamento degli oli e dei grassi “vegetali e animali” esausti, secondo il quale la proiezione al termine dell’anno è di oltre 75 mila tonnellate di oli vegetali raccolte (+3 mila rispetto al 2017).

La proiezione annua relativa alla raccolta di oli vegetali rappresenta, con oltre 75 mila tonnellate stimate, il 36% del potenziale raccoglibile secondo CONOE: il totale ammonta a circa 260 mila tonnellate (80 dai settori professionali e 180 dalle utenze domestiche). Dei quantitativi raccolti il 90% è recuperato per essere rigenerato e destinato alla produzione di biodiesel: dalle 72 mila tonnellate raccolte lo scorso anno sono state prodotte 65 mila tonnellate di biodiesel.

La raccolta degli oli vegetali si rivela particolarmente importante anche dal lato ambientale, con un chilo di prodotto che si rivela sufficiente a inquinare 1.000 metri quadrati di superficie idrica. Come ha sottolineato Tommaso Campanile, presidente CONOE:

"Questi numeri testimoniano la bontà del nostro operato in difesa dell’ambiente e della salute dei cittadini, nonché delle battaglie portate avanti in questi anni per la legalità e per l’affermazione di un’economia circolare sana e trasparente. Nonostante il Consorzio continui a lavorare disponendo di risorse limitate, le nostre performance continuano a migliorare di anno in anno. Ora però è importante riuscire ad allargare la raccolta anche agli oli esausti domestici prodotti dai privati cittadini, che costituiscono il 64% del totale raccoglibile: per questo motivo stiamo lavorando alla chiusura di importanti accordi che, a partire dal mese di settembre, ci consentiranno di estendere il servizio a migliaia di famiglie di molti Comuni italiani."



fonte: www.greenstyle.it

L’imbroglio dell’olio di palma nel biodiesel

Quasi la metà dell’olio di palma usato nell’Unione Europea finisce bruciato come biodiesel nei motori a gasolio, contribuendo alla distruzione delle foreste equatoriali e peggiorando la situazione climatica, il tutto con la benedizione, e i sussidi, degli Stati europei.
























Sono un consumatore cosciente dei danni ambientali e climatici che produciamo con le nostre scelte di acquisto.
Così, sapendo che l’olio di palma è prodotto in gran parte da terreni ottenuti distruggendo la foresta tropicale, quando vado al supermercato evito accuratamente i prodotti che lo contengono, aiutato in questo dal fatto che questo ingrediente è diventato una sorta di appestato (ma principalmente per effetti negativi sulla salute ancora da dimostrare). La sua assenza è annunciata sulle confezioni dei tanti prodotti, alimentari e cosmetici, che un tempo lo contenevano.
Poi, fatta la mia “spesa consapevole”, mi fermo al distributore e faccio il pieno alla mia utilitaria diesel. E, senza che me ne renda conto, con il gasolio da petrolio mi entrano nel serbatoio 2 o 3 litri di olio di palma, trasformato in biodiesel: molto di più che se avessi riempito le sporte di prodotti contenenti quest’olio tropicale!
Questa beffa è in atto già da molti anni, e la cosa paradossale è che l’uso di olio di palma per farne “gasolio verde” è così sussidiato nell’Unione Europea, nel quadro della sostituzione del 10% dei combustibili da petrolio con biodiesel e bioetanolo, che il 46% delle sette milioni di tonnellate di olio di palma che l’Europa importa ogni anno, finiscono bruciate nei motori diesel (e un altro 16% per produrre elettricità “verde”).
Si potrebbe sperare che, almeno, questo uso dell’olio di palma nei motori contribuisca ad abbattere le emissioni di CO2 del 50-60% rispetto al gasolio, come specificato dalle stesse regole che l’UE ha fissato. Ma è vero esattamente l’opposto.
Un rapporto del 2015, richiesto dalla Commissione Europea ad un consorzio di enti di ricerca coordinati dall’International Institute for Applied Systems Analysis, ha concluso che fra i vari tipi di biocombustibili per autotrazione (biodiesel e bioetanolo), l’olio di palma è quello che produce di gran lunga più emissioni: circa 230 grammi di CO2 per ogni MegaJoule di calore prodotto.
Il biodiesel da soia emette circa 150 grCO2/MJ, quelli da olio di colza e girasole circa 65 gr/MJ. 
Il biodiesel venduto in Europa, fatto con un mix di questi oli vegetali, in media è associato all’emissione di circa 100 grCO2/MJ.
E il gasolio da petrolio? Emette circa 60 gr di CO2/MJ: il che vuol dire che il “verde” biodiesel da olio di palma emette quasi 4 volte più CO2 del gasolio da petrolio, e che il biodiesel europeo attuale è peggio del gasolio in quanto a emissioni.
L’imbroglio delle bioenergie, come lo chiama la rivista New Scientist, deriva dal fatto che nel calcolo del loro effetto sul clima si considera solo la CO2 evitata sostituendo carbone e petrolio, e non quella emessa a causa del loro uso.
«Se si tagliasse l’intera Amazzonia per sostituire con legna il carbone usato in Europa, quello conterebbe come riduzione del 100% nelle emissioni di CO2», ironizza l’economista delle risorse Tim Searchinger della Princeton University.
La ragione per cui l’olio di palma è così “nefando” per il clima, non risiede però nella sua scarsa resa, al contrario: fra le piante da olio è senz’altro la regina, visto che produce 5 volte più olio per ettaro della colza e 9 volte più della soia.
Il problema è che la palma da olio cresce in aree equatoriali, normalmente occupate da foresta. Sotto quelle aree ci sono spesso terreni torbosi che, una volta deforestati e drenati, si decompongono rapidamente, o bruciano, liberando enormi quantità di CO2 in atmosfera.
Ma allora perché l’Europa continua a sostituire il 5% del gasolio con olio di palma?
Forse sperano che, almeno entro un prossimo futuro, tutto l’olio di palma usato sia “certificato sostenibile” dalla Roundtable on Sustainable Palm Oil (Rspo), ente finanziato dalle industrie che usano olio di palma che garantisce che l’olio non provenga da nuovi terreni deforestati.
Peccato che una recente ricerca apparsa su Pnas e coordinata dall’ecologa Kimberley Carlon dell’Università del Minnesota, abbia calcolato che solo il 20% dell’olio di palma sul mercato sia certificato Rspo e che questo proviene da terreni contenenti solo l’1% della foresta equatoriale rimanente.
Ciò vuol dire che sono piantagioni che ormai hanno già eliminato tutta la natura possibile dal loro interno, e possono anche permettersi di essere “certificate”, mentre le piantagioni che producono il restante 80%, avendo ancora molto da deforestare, se ne guardano bene dal “certificarsi”.
Inoltre, come nota l’associazione Transport & Environment, che fa campagna da tempo contro i biocombustibili nei trasporti, la crescente domanda di olio di palma per biodiesel induce i contadini a trasformare i campi per il cibo in piantagioni di palma da olio “certificata”, mentre nuova deforestazione servirà a produrre gli alimenti che sono venuti a mancare.
Ma c’è di peggio: la domanda di olio di palma, che è il più economico e versatile degli oli vegetali, continua a salire, e, grazie anche all’esempio europeo, sempre più parti del mondo contano di soddisfare i loro obblighi climatici usandolo per sostituire parte dei combustibili fossili: continuando così al 2030 il mondo userà più del doppio degli attuali 60 milioni di tonnellate di olio di palma, la metà dei quali come “combustibile verde”. E allora anche le foreste equatoriali africane e sudamericane, e non solo quelle malesi e indonesiane, che ne forniscono oggi l’85%, cederanno il posto a piantagioni di palma da olio. 
Di fronte a questo disastro annunciato, il Parlamento Europeo, nel gennaio scorso, ha in effetti votato per escludere l’olio di palma dai sussidi per il biodiesel entro il 2020.
Il problema è che il Parlamento Europeo non decide quasi nulla, e dovrà essere la Commissione a recepire il suo suggerimento, e questa, almeno per ora, non ha fiatato sul tema, dimostrandosi molto sensibile alle sirene dell’industria del biodiesel, che spesso coincide con quella del petrolio (vedi le bioraffinerie Eni in Italia, presentate come la risposta “verde” del nostro gigante energetico), felice di aver trovato una soluzione “sostenibile” che allunghi la sopravvivenza del motore a scoppio.
Ma le cifre sulle emissioni ricordate prima dicono che anche se l’Ue bandisse l’olio di palma dal biodiesel, cambierebbe poco: non solo il biodiesel fatto con altri oli vegetali comunque emetterebbe più CO2 che il gasolio da petrolio, ma bruciare più di quegli altri oli nei motori a scoppio richiederebbe l’estensione delle loro coltivazioni, provocando ulteriore deforestazione, mentre l’aumento del loro prezzo renderebbe più conveniente sostituirli con olio di palma negli altri usi, alimentando così comunque la crescita delle piantagioni di palma da olio.
Servirebbe quindi un “taglio netto” all’inestricabile imbroglio dei biocombustibili. In altre parole, si dovrebbe smettere di spendere denaro pubblico per mantenere in vita artificialmente il motore a scoppio, con pannicelli caldi che lo rendano “meno insostenibile” e che spesso si rivelano peggiori di quello che vanno a sostituire, puntando invece tutti i possibili sussidi e investimenti sull’elettrificazione dei trasporti.
In fondo i biocombustibili sono solo un modo, contorto e irto di rischi, per usare l’energia solare per i trasporti: peccato che la fotosintesi immagazzini solo l’1% circa dell’energia del sole che cade sulla pianta. I pannelli fotovoltaici e le turbine eoliche, con cui ricaricare i mezzi elettrici, sfruttano l’energia solare molte volte meglio, e senza mettere a rischio le foreste tropicali e le specie animali che ci vivono dentro.
fonte: www.qualenergia.it

Oli vegetali esausti: raccolta 2015 a quota 62 mila tonnellate


Ammonta a 62 mila tonnellate la quota di oli vegetali esausti raccolti nel 2015. Di queste l’85% è stato recuperato e avviato alla produzione di biodiesel. Questi i numeri contenuti nel primo bilancio degli impatti ambientali ed economici presentato oggi a Roma da CONOE, Consorzio nazionale impegnato nel trattamento degli oli esausti di origine vegetale e animale. A curare il report la Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile.
Secondo i dati presentati l’incremento nella raccolta degli oli esausti di origine vegetale ha segnato un incremento del’44% rispetto al 2010. Importante anche la ricaduta economica della filiera CONOE, il cui valore economico mediamente generato risulta superiore ai 30 milioni di euro annui in ognuno degli ultimi cinque anni. Come ha spiegato Tommaso Campanile, presidente CONOE:
L’imminente introduzione del contributo ambientale rappresenta un momento di svolta che potrà garantire un incremento della raccolta degli oli vegetali esausti provenienti dalle attività professionali, nonché una maggiore tracciabilità dei prodotti a garanzia della salute dei consumatori. L’auspicio è che a breve, attraverso una modifica legislativa, la nostra raccolta possa allargarsi anche agli oli esausti domestici prodotti dai privati cittadini, che costituiscono il 64% del totale raccoglibile
Secondo la ricerca curata dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile emerge inoltre che le 62 mila tonnellate di oli esausti raccolte rappresentano ben il 22% del totale raccoglibile (pari a 280 mila t.). Dalle 53 mila tonnellate rigenerate sono state ricavate 49 t. di biodiesel CONOE.
I benefici ambientali per il Paese derivanti corrisponderebbero al risparmio di 152 mila tonnellate di CO2 e di 63 mila metri cubi di acqua. Bilancio che potrebbe crescere fino a 790 mila tonnellate di CO2 e 282 mila metri cubi d’acqua con la trasformazione di tutti gli oli vegetali esausti generati in Italia. Stando a quanto ha annunciato il ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti:
Oggi anche il CONOE entra nella storia dei Consorzi italiani, inserendosi in un processo già avviato che ha portato a risultati positivi in un settore strategico come quello degli oli vegetali esausti. In questi mesi stiamo lavorando per adeguarci alle richieste dell’Europa, che impone di rivedere lo statuto dei Consorzi per garantire i massimi livelli di trasparenza e competitività.
Secondo quanto invece sottolineato da Andrea Olivero, vice ministro delle politiche agricole alimentari e forestali:
La nostra visione strategica di agricoltura trova piena collocazione nell’ottica di uno sviluppo sostenibile che è alla base della green economy. La spinta che arriva dall’Unione Europea, con il pacchetto sull’economia circolare, comporta un ripensamento complessivo dei nostri modelli produttivi e l’attività del CONOE ne è un esempio.
Per raggiungere risultati significativi non si può prescindere da un’azione comune volta a creare e a rafforzare le filiere perché operino sul territorio in maniera integrata, avviando sinergie e forme di cooperazione con l’obiettivo di inquinare di meno e utilizzare al meglio le risorse.

fonte: http://www.greenstyle.it/

Biofuel di ultima generazione? Si otterranno dai rifiuti umani

Nel mini laboratorio Science Walden Pavillion le feci sono trasformate in biometano e biodiesel, grazie ad un mix di processi meccanici e batterici


Biofuel di ultima generazione? Si otterranno dai rifiuti umani

Trasformare i rifiuti biologici umani in biofuel di ultima generazione. Una scommessa accettata e vinta alla Ulsan National Institute of Science and Technology (UNIST), nella Corea del Sud. Qui un team di ricercatori ha messo a punto un nuovo modo per convertire gli escrementi in energia senza l’impiego d’acqua. In realtà gli scienziati coreani non hanno solo studiato la tecnologia, ma anche realizzato una piccola toilette pubblica dove sperimentare direttamente le premesse della loro ricerca.

Nasce così, nel giardino del campus universitario, lo Science Walden Pavillion, un mini laboratorio su due piani dotato di un minuscolo tetto giardino, con raccolta dell’acqua piovana, e del nuovo gabinetto hi-tech.
La toilette sperimentale è stata progettata con un sistema in grado di rompere meccanicamente gli escrementi umani per restituire un materiale organico completamente disidrato e inodore simile al compost nell’aspetto. Il materiale viene trasportato ad un serbatoio di digestione batterica per essere convertito in biometano e CO2.

Il procedimento non finisce qui. Se da un lato il biomentano può essere direttamente raccolto e impiegato direttamente, dall’altro la CO2 è indirizzata ad una coltura di microalghe, la cui biomassa è destinata alla produzione di biodiesel. Un sistema unico e complesso, che cerca di tagliare al massimo gli input per massimizzare le rendite.
I ricercatori sperano di rendere la tecnologia abbastanza efficiente da produrre un biocarburante che sia economicamente competitivo. “Il nostro obiettivo finale è non solo creare un gabinetto che risparmi acqua e i costi operativi dei moderni impianti di depurazione dei reflui, quanto realizzare un ecosistema che supporti l’innovazione tecnologica e guidi la diversificazione economica regalando ai rifiuti umani un valore finanziario”, spiega Jaeweon Cho, professore di ingegneria ambientale presso l’Università sudcoreana. Se l’esperimento avrà successo, il team prevede di portare il wc senz’acqua collegato al bireattore nella vita reale.

turninghuman

fonte: www.rinnovabili.it